Salvatrice (1901)
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SALVATRICE
Ella m’aveva scritto così: «Chissá, forse mi sará concessa la gioia di rivederti presto, forse potrò parlarti finalmente e stringerti al cuore... Il mese venturo ci rechiamo nel Veneto; se mi riesce, io affretterò d’un giorno la partenza da Padova per andare a Venezia sola, col tram e col vaporetto di Fusina. Ti farò sapere la data e l’ora. Attendi mie istruzioni... .
Quante e quante volte io rilessi queste poche, benedette parole e mi strinsi alle labbra, piangendo, il biglietto profumato! con quale ansietà contai le settimane, i giorni, le ore, privandomi di tutto, perfino delle cose più necessarie, onde raggranellare i quattrini occorrenti per un viaggio, forse per un breve soggiorno a Venezia! Colei che mi scriveva, invitandomi a quel ritrovo, era mia madre, mia madre che non avevo mai conosciuto.....
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Un sincero e modesto artista che consumava la nobile sua vita sul bulino, aveva protetto la mia malinconica giovinezza, dicendomi che i miei genitori erano morti entrambi.
Sulla tomba di mio padre, a Campo Verano, avevo sillabato più volte il nome di «Andrea Giuria pittore,» ma quando chiedevo ove fosse sepolta mia madre, nessuno sapeva dirmelo con precisione, e le risposte vaghe, appena valevoli ad appagare la curiosità infantile, più non riuscivano a convincere il tumultuoso desiderio del giovane. M’era giá entrato nella mente il sospetto che la mia nascita fosse avvolta in un certo mistero e alcune parole pronunziate un giorno, non so se per caso o con qualche intenzione da Dino Gozzoli l’incisore, avevano confermato questo dubbio, infiammandomi in cuore la speranza che mia madre esistesse ancora.
Era un giorno d’autunno sereno e mite. Nel nostro piccolo giardino fuor di porta, che cingeva una siepe di bignonie e di passiflore, la festa dei colori aveva raggiunto il colmo: le malve innalzavano presso all’acanto i loro fusti guerniti di sessili fiori; i crisantemi primaticci, i gerani carichi di umbelle illuminavano di ciocche bianche, gialle, rosse il verde ancor vivo degli arbusti e, sulla facciata della casetta, le rose bengalensi celebravano una seconda primavera. Una ninfa antica, corrosa dal tempo, mezzo vestita d’un muschio smeraldino, versando dalla sua anfora un tenue filo d’acqua entro la piccola urna di porfido che avevamo scavata in un’ajuola, sotto le lattughe, sembrava cantarellare con quel lieve gorgoglìo una dolce cantilena.
Io guardavo lontano, verso la linea molle dei monti che si perdeva nei fulgori del sereno orizzonte, guardavo i paesi e le ville biancheggianti sui colli, in un sorriso di morente sole, e il divino paesaggio di Roma mi pareva nuovo. Mi tenevo una mano al petto ove il cuore martellava, mi sentivo mancare il respiro, nell’affanno di una gioia quasi angosciosa, d’un desiderio senza nome, e alle labbra assetate mi veniva la tenera parola, continuamente, come il balbettio d’un bambino che soffre: Mamma, mamma, oh mamma!...
Non so quant’io rimanessi nel piccolo giardino, con quella trepidazione nell’anima, con quella speranza che non osavo ancora esprimere, per la tema che mi svanisse dinanzi! Assorto in una specie d’estasi interna, contemplavo quasi incosciamente il creato: i colori e le forme erano più belli, i profumi più soavi e penetranti e i misteri delle lontananze vaghe non turbavano più colla stessa inquietudine l’intimità del mio pensiero.
Quando mi scossi e m’alzai dal cippo ove stavo seduto, la notte era discesa lentamente sul mirabile paesaggio; il primo quarto della luna viaggiando entro il purissimo spazio, accarezzava con un blando chiarore il volto corroso e deturpato della ninfa boschereccia e i crisantemi bianchi come fantastici spettri florali, dominavano col loro candore immacolato la fredda penombra.
Più tardi, a notte inoltrata, quando la casa fu tutta immersa nel silenzio, incapace ormai di sopportare quell’incertezza, bussai allo studio di Gozzoli che soleva vegliare, leggendo i suoi poeti classici, entro quei quattro muri coperti d’incisioni celebri, suoi unici tesori, e senz’aspettare che rispondesse, mi precipitai nelle sue braccia implorandolo, fra i singhiozzi, di dirmi la mia storia. Il buon uomo mi guardò stupefatto, finse d’andare in collera, volle rimandarmi colle brusche, per cavarsi d’impaccio, ma le mie lagrime, forse le prime che dall’infanzia mi vedesse versare e che cadevano cocenti sulle sue mani raggrinzate lo vinsero e, interrompendosi spesso per una mal repressa commozione, egli narrò:
— Volevo attendere qualche anno ancora prima di rivelarti tutto quello che hai diritto di sapere intorno alla tua origine e alla tua famiglia... Volevo che tu fossi più maturo e più forte per apprendere un grave segreto e per custodirlo, ma tu mi previeni con tale insistenza che non posso tacere più a lungo.
Hai indovinato, Mariano... la tua nascita non fu regolare... non impallidire, ragazzo mio, e non giudicare troppo severamente chi ti diede la vita... Le creature più rette vengono talvolta fuorviate dalla passione, e tu sei un figlio della passione... Quando nascesti i tuoi genitori non potevano sposarsi per un’assoluta mancanza di mezzi. Tua madre apparteneva ad una numerosa famiglia, tuo padre domandava indarno un appoggio all’arte sua. Un giudice imparziale avrebbe battezzato giustamente col nome d’innovazioni certi suoi arditi tentativi che la fortuna, obliosa dei modesti, lasciava giacere incompresi nell’ombra.
Una malattia violenta lo fulminò sul fiore dell’età..... tu avevi appena due anni: egli s’era privato di molte cose per mantenerti in campagna, a Marino, ove passasti la prima infanzia, lo sai. Sai anche che tuo padre ed io eravamo intimi amici: alla mia amicizia egli t’ha affidato, insieme al suo segreto, e io non cesserò d’essergli riconoscente di questa fiducia. Dopo averti legalmente riconosciuto al suo letto di morte, mi diede l’incarico di vendere quanto possedeva e di raggranellare un piccolo peculio per il tuo sostentamento e per i tuoi studi. Mi raccomandò con insistenza d’ispirarti l’amore dell’arte, che gli fu sacra sopra ogni cosa e di sollevare il tuo pensiero verso i più puri ideali della vita; mi ripetè più volte che t’insegnassi a disdegnare le volgarità dell’opportunismo; in poche parole, mi espresse la speranza che tu divenissi un sincero artista e la ferma volontà ch’io facessi di te un uomo veramente buono. La vendita dei suoi quadri ebbe un risultato abbastanza lusinghiero. La morte li aveva abbelliti allo sguardo del pubblico, sempre bisognoso d’indiretti incitamenti, la voce che parlava dal sepolcro di cose alte e belle, in mezzo alla putredine del trionfante naturalismo, commosse qualche raffinato amatore. Piacquero molto il suo «Funerale del suicida,» o la sua «Sant’Agnese,» i paesaggi dell’Umbria... i prezzi salirono, e, per non venir meno alle sue ingiunzioni, io dovetti abbandonare tutto, tutto ai compratori..... Raccolsi quindi il tuo piccolo patrimonio, e com’egli mi aveva ordinato, l’adoperai in parte per sopperire alle spese del tuo soggiorno a Marino e a quelle dei tuoi studi privati, poiché tuo padre le accademie non voleva nemmeno sentirle a nominare...; l’altra parte te la consegnerò quando avrai compiuto i ventiquattr’anni. T’assicuro che mi sono separato a malincuore da quelle belle tele... ah! se non fossi stato così povero!... Mi rincresceva sovrattutto per te: ho potuto conservarti solamente la testina che tieni appesa sovra il tuo letto e che rammenta un poco...
— La mamma? Oh! Dio mio! parlatemi della mamma! esclamai con angoscia.
— Tua madre...
— Oh parlate, parlate per pietà!
— Un’altra volta...
— No no, adesso, adesso! è viva dunque, è viva?
— Sì, è viva.
— Dove, dove..?
— Lontana da qui... in Piemonte...
— Dunque?
— E maritata.
— Maritata!...
— Un anno dopo la morte di tuo padre ella fu chiesta in isposa da un ricco signore, un banchiere di Torino... Una mattina ella venne segretamente da me, mi disse che aveva confidato tutto a quel signore e ch’egli, impietosito delle sue tristi circostanze, non rinunziava al proposito di sposarla, ma esigeva tuttavia la promessa che non gli parlerebbe mai di te, che tu non appariresti mai nella loro vita comune...
— Ella promise!
— Accettò e promise...
Mi pareva che il mio cuore cadesse nel vuoto, mi pareva che io stesso dovessi sprofondarmi.
Tacemmo a lungo. Finalmente io domandai:
— Vi sono dei figli?
— Un ragazzo e due fanciulle. — La risposta era stata lenta a venire.
Io sentivo un delirio di baci, sentivo le ineffabili dolcezze della mano materna che accarezzava quei legittimi figli ed esclamai:
— Di me dunque non si è mai curata?...
— Ella non avrebbe potuto far nulla per te... era contenta di saperti affidato alle mie cure. Due tre volte all’anno le scrivo per mandarle le tue notizie...
Una mortale tristezza dev’essere apparsa sul mio volto, perchè Gozzoli soggiunse con bontà:
— Mariano, non mostrarti troppo ingiusto nel tuo giudizio... tua madre ha trovato un uomo che le porgeva la mano per riabilitarla, per metterla in una posizione decorosa e sicura... s’ella ha afferrato quella mano soccorrevole con trasporto non è da farsene meraviglia. Ciò che la condanna è il tuo egoismo, non è il tuo istintivo amore... Vorresti vederla senza sostegno, sola, abbandonata?
— Sarei stato io il suo sostegno, avremmo vissuto uno per l’altro...
— Tu non avresti potuto darle che una posizione falsa, Mariano... invece tua madre occupa ora un posto ragguardevole in società è stimata,, contenta... E tu vorresti condannarla?
— Oh no, me ne guardi il cielo.
— E dunque?
— Dunque per me la mamma è morta...
Io dissi questo partendo, perchè avevo bisogno d’essere solo nella mia cameretta, e il buon Gozzoli non tentò nemmeno di seguirmi. Egli sapeva che le mie interne battaglie avevo bisogno di sfogarle nella solitudine.
Ahimè, quali e quante grida di ribellione eccheggiarono entro quelle quattro pareti! Io giacqui per molte ore bocconi sul mio letticciuolo in un parossismo di disperazione. E sempre mi pareva che giù nel piccolo giardino la ninfa continuasse a cantare le sue flebili note.
Ma quando mi sollevai da quel giaciglio, abbattuto e vinto da una notte d’insonnia e di febbre, quando, nella luce incerta dell’alba, cominciò a disegnarsi vaporosamente, nella sua cornice antica, la testina bionda dipinta da mio padre, il volto candido, sorridente e dolce che ricordava la mamma, nello sfinimento dell’aspra lotta, io mi sentii dominato da un solo, da un unico, ardente desiderio che tutte le altre impressioni vinceva imperioso: il desiderio di vederla, almeno una volta, di vederla, non foss’altro da lontano....
Gozzoli s’adirò, mi fece osservare che mi mancavano i mezzi per viaggiare, che, scoperto, avrei potuto essere, per mia madre, la cagione di molte amarezze, anzi dell’infelicità stessa, ch’ella non approverebbe certamente, che io agivo da fanciullo insensato...
Nulla valse a trattenermi. Accumulando sforzi e sacrifizii, misi da parte un gruzzolo di monete, andai a Torino, corsi nella via ov’ella dimorava, chiesi con mille precauzioni di lei...
Era partita per un lungo viaggio.
Un periodo di grande sconforto tenne dietro a quella grave delusione Mi sentivo affranto e inetto al lavoro: il mio maestro si lamentava con ragione di me, la mia salute cominciava a soffrirne.
Qualche mese appresso, Gozzoli mi pose in mano, non senza preamboli, questa lettera, che con reiterate preghiere (me lo disse poi), era riuscito a farmi scrivere da mia madre:
Caro Mariano,
«So che pensi a me e questo mi fa molto piacere. So anche che ameresti di vedermi ma, pur troppo, non è possibile. Di tanto in tanto ci scriveremo. Rivolgi le tue lettere ferme in posta alle iniziali A. A. N. 2000. Io ti risponderò
per compiacerti. Duolmi però di doverti dire che una regolare corrispondenza fra noi non può aver luogo. Addio, ti benedico e ti abbraccio. Ama sempre tua madre...»
A questa lettera così stentata e fredda che pur mi riempì di gioia, io risposi con un delirio di effusione, parlandole di tutto il mio passato, delle mie speranze d’arte, sovrattutto dell’infinito desiderio che avevo sempre sentito di lei.
Dopo avermi fatto a lungo e angosciosamente aspettare, ella alfine mi riscrisse, esortandomi ad essere più tranquillo e più ragionevole, ma in quel tempo la ragione non aveva alcun potere sovra di me; il bisogno di parlarle si faceva così tormentoso che non ero più capace di tenere il pennello in mano nè di chiudere occhio in tutte le notti.
Il buon Gozzoli si diede premura di avvertirla del mio stato e di pregarla che per amore della mia salute mi concedesse almeno la grazia d’un breve convegno. Fu allora ch’ella mi propose di raggiungerla a Venezia: quel primo cenno fu poi seguito da notizie più sicure e finalmente della precisa indicazione del giorno in cui ella forse vi sarebbe andata sola.
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A Padova, alla stazione del tram, non avevo visto nessuno; nel convoglio nemmeno. La via da Padova a Fusina che fiancheggia il monotono canale del Brenta mi parve interminabile. Nel mio ardente desiderio della mèta guardavo, con occhio distratto, ai paeselli, alle borgate sparse nel piano, alle ville, ove l’arte dell’affresco ha profuso un tempo i suoi tesori e che un po’ tristi ora e neglette si nascondevano dietro i rami dei salici spruzzati d’un tenero verde novello.
Un vaporetto giallo attendeva, placidamente ancorato, allo scalo primitivo di Fusina. Un’unica persona, una signora era scesa dal treno prima di me, m’aveva preceduto nella cabina, senza voltarsi. Il primo momento il mio cuore ebbe un tale sussulto che mi parve di venir meno: desideravo quasi che non fosse lei, come se mi mancassero le forze per affrontare quel sospirato incontro. E nello smarrimento mortale della mia anima le rivolsi un timido sguardo.. Ah no, no, non poteva essere la mamma. Era una donna molto giovane, forse una fanciulla che le circostanze costringevano a viaggiare sola.
Il vaporetto aveva appena salpato quand’ella s’alzò e uscì quietamente dalla cabina. Alla mia violenta agitazione succedeva una profonda amarezza. Ove si trovava in quel momento mia madre? ove la raggiungerei? Incapace di starmene così rinchiuso, con quei dolorosi pensieri, volli cercare i conforti della natura, uscii sul ponte e andai a cercarmi un posto a poppa, in vista del paesaggio. Con viva sorpresa m’accorsi che quella signorina m’aveva preceduto. Senza curarsi del disagio ella rimaneva in piedi, tutta assorta nella sua contemplazione. Un pescatore, appoggiato alla ringhiera, guardava anch’egli con occhio benevolo, fumando la sua pipa, alla linee amiche del largo piano.
Il battello s’inoltrava nell’estuario, turbando coll’elice la placida distesa dell’acque e suscitando un subbuglio d’ondate alterne bianche e nere entro quel turchino monotono e forte in cui il cielo poteva mirare liberamente il suo volubile disegno. L’orizzonte era diviso in due semicerchi: una fosca nebbia rossiccia squarciata da una zona di fuoco ne copriva una parte, l’altra andava dilagando in una mite uniformità cerulea che le secche, appena visibili, interrompevano a tratti con qualche lunga pennellata grigia. Sopra, una nube immensa, ma leggera, si librava, come un velo.
— Ecco San Giorgio in Alga e le fortezze! disse il pescatore desideroso di dare spiegazioni e additando le isole che si delineavano, nere nere, nella laguna incrostata d’argento.
— E laggiù San Clemente e San Servolo... quanta tristezza in quel paradiso! rispose la fanciulla al marinaio — quello è il campanile di Malamocco... — soggiunse sporgendo la sua piccola mano verso il lontano orizzonte, verso la spiaggia ove l’Adriatico si frange.
Una vela passava in distanza e pareva nera anch’essa nella fulgidezza dello sfondo; un agile sandolo, vogato a due remi, ci raggiunse e si dileguò; come cose morte e reiette molti piccoli topi da pesca giacevano perduti, tra la sabbia, nella malinconica solitudine. Io guardavo a quello spettacolo con ardente pensiero, e spesso anche guardavo alla nostra singolare compagna, così tranquilla, così serena nella giovanile gravità del suo aspetto. Aveva vent’anni e la sua bellezza intelligente e pittoresca sembrava fondersi cogli incanti del creato. Il suo vestito semplicissimo, verde scuro, il suo cappello guernito da un velo bianco, formavano una macchietta simpatica, costituivano un valore nel grande quadro.
Nella nostra comune ammirazione scambiammo a poco a poco qualche parola.
Ell’aveva una voce di contralto armoniosa e dolce.
Il vaporetto, lasciando dietro a sè una lunga traccia spumeggiante in cui, adesso, il colore si rimescolava, con strana volubilità, in tutti i toni, dal celeste all’indaco, procedeva sicuro nella via tracciata dai bianchi pali. Uno di quei pali reggeva una piccola lanterna: entrambi fummo colpiti da quel debole lume smarrito come un simbolo nell’immensità delle acque.
Nella lontananza scorgevamo il profilo d’una catena di monti ancor tutti striati di neve; a oriente brillavano due fari corno stelle sorgenti dal mare; il cielo s’era fatto di viola, ma la laguna fiammeggiava ancora di chiarori biondi.
Dinanzi ai divini allettamenti della natura, nella quiete infinita e quasi sovrumana di quell’ora, mi pareva che un senso nuovo e arcano di pace scendesse sulla mia travagliata giovinezza. Solo m’accorava la brevitá del tempo.
Non tardò infatti ad apparirci il lungo ponte che congiunge le isole alla terraferma; alcuni campanili emersero da una fascia variopinta e irta di alberi: era la stazione marittima, la Giudecca, Venezia cinta di navi, era l’antica malinconica signora su cui si stendevano mollemente i veli gemmati del crepuscolo.
Entriamo nel canale tra due file di navigli i cui riflessi gialli, verdi, neri, tremolano sull’acqua ancor vibrante di luce, e dopo brevi soste, corriamo ancora, corriamo lungo la riva delle Zattere, dinanzi ai ponti, agli squeri, ai rii che s’internano in mezzo alle case, con un mistero profondo. Centinaia di fanali s’accendono sulle banchine, ma nell’aria perdura una luminosità trasparente, un tranquillo ed estatico prolungamento del giorno che si rasserena, mentre il colore degli edifizii e delle navi si è già annullato nella fredda uniformità della sera.
Il pescatore era sceso alle Zattere, io ero rimasto solo colla mia compagna che stava appoggiata alla parete della cabina colle mani strette e abbandonate lungo la persona in attitudine di raccoglimento profondo. Soltanto quando fummo giunti alla riva degli Schiavoni ella si mosse per uscire e mormorò colla sua voce penetrante e grave: — Ci siamo....
Nel salutarla io le diedi il mio biglietto ed ella, rispose:
— Grazie, signore: io mi chiamo Anna Iorio.
Il vaporetto approdava: la fanciulla usci rapidamente; la vidi passare sul piccolo ponte e sparire nella folla. L’impressione di solitudine che avevo per un -momento dimenticata, mi ripiombò sul cuore, come se un sogno delizioso svanisse al mio sguardo.
Annottava. Io feci alcuni passi sul molo, seguii il movimento della gente, mi trovai nella Piazzetta e un senso strano di magìa mi abbagliò.
Sulla sua colonna di granito il leone alato vegliava fieramente nella notte. L’orientale basilica stava immersa in una dolce penombra ma la piazza era tutto uno sfavillìo di fiammelle e una moltitudine di gente sconosciuta vi ondeggiava come in una sala.
Ov’era in quel momento mia madre? Era arrivata p era ancora lontana?
Il pensiero di poterla incontrare senza riconoscerla mi dava la febbre. Corsi subito alla posta..
— Vi sono lettere per Mariano Giuria?
Sì, v’era una lettera, una delle solite buste fragranti. L’apersi con indicibile trepidazione. Ella scriveva:
«Mi trovo a Venezia coi miei tre figli. Il progetto di Eusina è andato a vuoto. Siamo venuti colla ferrovia e alloggiamo all'Hotel Danieli. Non potremo vederci subito. Fra due giorni i ragazzi andranno forse soli a Chioggia e io t’avvertirò... Ricordati che la massima prudenza è necessaria, che un passo inconsiderato mi comprometterebbe. Ti saluto con tutta la tenerezza....»
Dunque pochi passi mi dividevano da lei, dunque, in quella piazza, in quella folla, forse ella passeggiava tranquillamente in mezzo ai suoi figliuoli!
Dovetti appoggiarmi al parapetto d’un ponte per reggermi in piedi.
Appena ebbi la forza di muovermi, m’affrettai a deporre in un alloggio qualunque la mia valigia e tornai alla piazza, tornai alla riva, cercai l’albergo Danieli che conoscevo da una fotografia, che mi ricordava l’amore infelice d’un poeta per una donna crudele.
Passai, ripassai venti volte dinanzi alla piccola porta, sperando ch’ella uscisse o rientrasse, guardando con una straziante intensità di desiderio alle finestre illuminate... Oh Dio, mia madre, mia madre!...
Nell’albergo era un continuo andirivieni di forestieri tedeschi e inglesi; io mi sforzavo di cogliere a volo le loro parole, e d’indovinare la loro nazionalità: ad ogni nuova comparsa un’ansia insuperabile mi soffocava... Verso le nove uscirono due signorine accompagnate da un giovinotto e s’avviarono verso la Piazzetta.
Io li seguii per un breve tratto. Parlavano il dialetto piemontese e il giovane diceva alle sorelle: — Non è che la stanchezza del viaggio, domani starà bene.
Erano loro, certamente erano loro e parlavano della mamma! Io tornai indietro, palpitante. Temevo che fosse indisposta, per l’agitazione cagionatale dalla mia presenza. Forse un minuto, alcuni minuti avrei potuto vederla.... Il mio desiderio si accrebbe fino al delirio, fino alla pazzia e senza pensare a nulla, senza riflettere che un’imprudenza poteva riescirle fatale, entrai follemente nell’albergo e chiesi della signora Adelaide Salgari. Dovevo essere così pallido che il portiere mi guardò stupefatto e mi rispose con un fare brusco ch’era arrivata in quel giorno.
— È in casa? chies’io tutto tremante.
— Le signorine sono uscite poc’anzi, ma la signora vi è...
— Sola?
— Credo, ma no, aspetti! c’è una visita: il commendatore de Rozas. Non riceverà certamente... se vuol lasciare il suo nome? — soggiunse egli squadrandomi con mal celata diffidenza.
— Tornerò domani — diss’io tristamente e me n’andai. Andai peregrinando per calli e ponti per campi e campielli, senza direzione alcuna, guidato soltanto da certi brani mirabili d’architettura che m’attraevano, quasi incosciamente, nelle penombre dei rii misteriosi.
Una serenata di mandolino e chitarra, una melodia in minore, piena di semplicità popolare e di amorosa dolcezza, mi. trattenne a lungo sovra un tetro ponte, dinanzi ad un alto palazzo dalle finestre trilobate.
Nella mezza luce duna piazza intravidi il nobilissimo e fiero cavaliere del Verrocchio, poi i miei passi vaganti mi ricondussero quasi inconsapevole alla riva degli Schiavoni.
Nell’ampio bacino di San Marco tutto dormiva sulla nerezza turchina delle acque, le barche, i bastimenti, i vapori. Dormiva un yacht bianco, fantastico, ancorato presso alla chiesa di San Giorgio. Si taceva, assorto nelle sue memorie, il palazzo ducale.
Udii ad un tratto il tonfo d’un remo e un fruscio simile a quello delle stoffe di seta: era una gondola che guizzava furtiva sotto il ponte dei Sospiri e che subito scomparve nel canale tenebroso. Quel canale e quel memore ponte mi misero un brivido nell’ossa.
I caffè si spopolavano; la riva era ormai deserta, la notte alta, mite, sciroccale.
Mi ridussi lentamente dinanzi all’albergo Danieli ove ogni lume era spento, m’avvicinai alla riva che l’onda accarezza con un mormorio lieve. Nulla più s’udiva fuori di quel mormorio dolcissimo e un rombo lontano, la voce sorda del mare un po’ burrascoso. L’armonia indefinita della notte m avvolse. Le tempie m’ardevano, il mio cervello era in subbuglio, visioni continue e diverse mi passavano dinanzi al pensiero come fossero portate da un’interna bufera.
Erano i tempi antichi quando la selva fetontèa si stendeva sulle spiagge dell’Adriatico, quando i primi Veneti scorrazzavano a cavallo lungo le dune e le verità della storia non avevano ancora profanata la poesia agreste e marinaresca della leggenda. Poi vedevo tutte le età, dalle più gloriose alle più tristi e quella poesia sopravvivente di ricordi e di rimpianti esaltava con uno spasimo nuovo la mia mente eccitata.
Non ebbi una nozione giusta del tempo. L’albergo Danieli mi teneva incatenato in una concentrazione febbrile, come se dovessi vegliare sul sonno di mia madre.
Una nebbia densa era scesa sulla laguna e l’aurora s’annunziava muta e malinconica. S’intravedevano nella fitta caligine, con forme e linee incerte i campanili, i palazzi, gli alberi delle navi; l’acqua aveva preso un aspetto strano di piombo in fusione; i battelli, solcandola, sembravano rimestare un liquido incandescente e ridestarne l’ardore nascosto sotto l’opaca superficie. A tratti, pareva ch’emergessero, dalle onde, delle lamine d’argento, dei tersi frammenti di specchio e i gabbiani, inquieti, si tuffavano voluttuosamente in quel luccichio, agitando le candide ali. Ma il sole che sorgeva pallido e scialbo, a somiglianza d’una grande luna, all’improvviso trionfò, come uno squillo di tromba sopra una placida orchestra; il grigio velario si sciolse e l’incantevole città uscì da quella fumante atmosfera con un abbagliamento di luce. L’infinita serenità del cielo si riprodusse, con un tono più forte, nel bacino; l’azzurro riebbe il dominio; l’aria istessa prese una trasparenza azzurrina, e il sole vibrò sulle onde un lungo riflesso, come una pioggia di diamanti, che danzassero, follemente, nella spensierata giocondità del- l’ora mattutina.
L’albergo Danieli si destava anch’esso, s apri- vano i balconi e la mia trepidazione si faceva angosciosa.
M’allontanai per timore di tradirmi. Era affranto e mi sembrò che la giornata non finisse mai. Andai tre volte alla posta, indarno.
Le cose dell’arte, per quanto bramate dal mio spirito, non avevano più la forza di distrarmi, il mio pensiero fisso era quello d’incontrarla o di vederla almeno da lontano! Errai parte del dì nei luoghi più frequentati della città, col cuore in sussulto, collo sguardo ansioso: nulla.
Nel pomeriggio mi recai al Lido, colla stessa speranza. L’Adriatico era placidissimo, e il cielo era quasi interamente sereno, solo una nebbia leggera fasciava la curva maestosa dell’orizzonte. Alcune vele molto bianche brillavano in lontananza sul chiarore opalino e i pali color cinabro dello stabilimento balneario erano l’unica macchia che si vedesse suda tranquilla immensità del mare. Due ondate dolci, monotone solcavano lo specchio nitido delle acque: una era orlata d’azzurro smagliante, l’altra più vicina, più bassa e glauca, veniva a deporre regolarmente sulla sponda delle palle di schiuma che subito si scioglievano in candidi fiocchi. Le alghe segnavano con una sottile listarella di trasparente smeraldo, la linea vaga ove l’onda placida moriva.
Solitudine e silenzio ovunque.
Io sedetti sulla rena tempestata di conchiglie perlacee, gentili avanzi di vite spente che il mare getta, sdegnoso sulla sponda.
Un’ora dopo, un vecchio straniero e una fanciulla passarono dinanzi a me, camminando lentamente, con gli sguardi affascinati dal paesaggio. Egli era bianco di capelli, ella bionda e il suo velo turchino un po’ rialzato sulla fronte tremolava per la brezza marina e pareva sempre involarsi. Un pescatore entrava intanto fino al ginocchio nell’acqua ancor fredda, vi s’immergeva, vi si tuffava quasi, per raccogliervi le cappe lunghe, il pane della giornata. Quelle tre figure, forse altrove indifferenti, disegnandosi, con una certa distinzione sullo sfondo grandioso e sublime, assorgevano alla nobiltà d’un soggetto d’arte.
Ma ben presto forestieri e pescatore si dileguarono e io rimasi ancora fermo ad aspettare, inconsciamente, sulle dune.
Da lì a poco tempo una leggiadra figurina di donna apparve da lontano. Ella portava una gran pianta di cardo selvatico, e seguiva adagio adagio la spiaggia, raccogliendo conchiglie. Ebbe un momento d’esitanza, poi venne innanzi tranquilla, verso di me, con gli occhi fissi al mare.
Ricordai il vestito scuro, il piccolo mantello, il cappello velato di bianco e la riconobbi subito: era Anna Jorio. Ci salutammo, io non senza turbamento, e mentre passava ebbi l’ardire di rivolgerle la parola:
— Buon giorno, signorina. Qual mirabile paesaggio !
Ella si volse con una certa fierezza nello sguardo, con una fiamma in viso e rallentando appena appena il passo, ripetè freddamente:
— Buon giorno.
Quella voce profonda e dolce aveva un lieve accento di rimprovero, ma io non mi trattenni dal domandarle:
— Le piace molto il mare, non è vero?
— Mi piace tanto che sebbene la mia amica non avesse tempo d’accompagnarmi ci sono venuta sola — ella mormorò come per giustificare quella sua passeggiata.
— La signorina non dimora a Venezia?
— Oh no.
— Una breve fermata allora?
— Brevissima... — ella concluse, chinando la desta e passando oltre.
Non so che cosa io provassi nell’anima. Nessuna donna vi aveva mai lasciato quell’impressione di sicurezza insieme e di soavità. Mi pareva che se avessi potuto prenderle una manina e farla sedere accanto a me sulla rena, in faccia al grande mare, se avessi potuto narrarle la storia della mia vita e scorgere una lagrima nei suoi profondi e ardenti occhi neri io sarei stato felice....
M’ostinai ad attenderla al ritorno, sulla spiaggia di Santa Elisabetta.
Due vaporini partirono senza ch’ella venisse. Dopo essere stato lungamente in aspetto, la vidi alfine comparire nel viale col suo passo svelto e leggero.
S’affrettava, s’affrettava verso il pontone, ma quando vi giunse, il terzo battello aveva già salpato e filava rapido verso la città. Ella s’affacciò alla ringhiera, e volgendosi spontaneamente:
— Già partito!.— esclamò con vivo rammarico, — ma come si fa, era così bello, stasera il mare!
Il suo volto esprimeva una grande contrarietà ed io temetti essere la cagione principale di quel disappunto. Ma a poco a poco, ella sembrò rassicurarsi e allora parlammo insieme, interrottamente, del paesaggio che ci stava dinanzi.
Ella lo conosceva benissimo e m’andava dicendo:
— Vede quel bosco brullo e quel campanile che s’erge tutto bianco fra le case rosse? E San Nicolò. E laggiù San Pietro di Castello coi suoi camini e i suoi alberi di nave? E poi quel fino e vaporoso frastaglio dei giardini? Non sembra una visione d’Oriente?.....
E nominava le cupole e i campanili, nè mai si saziava di contemplare nello sfondo la Piva degli Schiavoni: uno sfavillìo di colori sui quali pioveva dall’alto, armonizzandoli, una luce bianca, quasi irreale.
— Ella non conosceva Venezia? domandò, ad un tratto la fanciulla.
— No, è una poesia che il mio sguardo ignorava. Vengo da Roma per trovare dei parenti...
— Ah!... ed è pittore?... — ripigliò ella con un lieve sorriso.
— Sì.... come lo sa?
— Si capisce subito, dalle sue parole, dai movimenti delle sue mani. Esporrà... qui in Venezia?
— Non ancora....
— Bisogna avere coraggio, nella vita.
— Ne ha lei del coraggio?
— Ho dovuto averne molto. Sono istitutrice — diss’ella, senz’altro commento.
Mi parve che pochi minuti fossero trascorsi quando il vaporetto che avevamo veduto sguisciare da lontano, fra i bastimenti del bacino di San Marco, venne frettoloso a prendere gli ultimi passeggeri del Lido. Vi salimmo insieme, insieme sedemmo sopra una panca di prora.
Sul canale di Chioggia, fra i gruppi di pali biancheggianti, si vedeva una fila di barche da pesca dalle vele gialliccie o ranciate, d’una tinta finissima, quali lisce, quali adorne di figure allegoriche, di simboli che equivalgono a stemmi di nobiltà. Erano cariche di masserizie, di canestri o di gente e tutte sembravano immobili e pur lentissime procedevano, abbandonate all’instabilità del vento, trasportando i marinai stanchi e sonnacchiosi in un’estasi di cadente sole. In un piccolo burchio stava una donna vestita di nero, velata, e come assorta da un grave dolore. Un bambino giuocava cogli attrezzi da pesca dinanzi a lei e un uomo, il marito, le cingeva amorosamente con un braccio la persona, senza curarsi della gente che potesse vederlo. Anna Iorio osservò in silenzio quell’atto di tenerezza protettrice e il suo volto si suffuse di rossore.
Dalle secche si levò uno stormo d’uccelli e nell’aria ch’essi battevano rapidissimi coll’ali apparve un improvviso luccichio d’argento. Ma il sole cominciò a declinare proiettando sulla laguna una larga, spera di luce che a poco a poco si franse e si trasformò in due grandi chiazze sfolgoranti. Il fulgore si stendeva sull’acqua picchiettata di macchie color del rame e le chiazze, impicciolendosi a poco a poco, si affocavano, abbagliantissime. Poi, non rimase più, all’orizzonte, che un immenso globo giallo, senza palpito di raggi Lo splendore dell’acqua si venne attenuando e il globo si fece rosso come una bragia.
Io guardavo al dolce profilo della mia compagna che un vivido riflesso aveva illuminato d’un chiarore caldo, guardavo a quel volto puro la cui voluta placidità celava un tumulto di nobili entusiasmi.
Eravamo già rientrati nel bacino, ove guizzavano, in mezzo ai fermi navigli, leggiadre gondole e sandolini, lasciando una lunga traccia, una specie d’allumacatura più chiara sulla laguna, ora seminata di pagliuzze d’argento, or fiammeggiante di carminio.
Vi sono, nella natura, dei momenti di passione, e a Venezia, nell’ora poetica del tramonto, sembra spesso che un dramma si compia, che una sanguinosa battaglia si dia sulla terra e nel cielo fra gli splendori fuggenti e le grandi ombre che discendono.
Anna Iorio ed io ne sentivamo il fascino come se dal profondo delle nostre anime i misteri quasi paurosi del creato suscitassero un’arcana rispondenza.
Scendemmo insieme dal vaporetto e ci fermammo uno accanto all’altro presso la riva.
Un polverio d’oro era piovuto sull’acqua; fuochi * strani s’accendevano qui e lì fra i cristalli delle bifore snelle, e si consumavano rapidamente, lasciandovi una velatura rosata. Anche dall’orizzonte il rosa sfumava verso lo zenit, tutto era color di rosa, una tinta delicatissima che persisteva e lottava contro il crepuscolo come una speranza che non sapesse disperdersi.
Anna Iorio, per prendere commiato, mi stese la sua manina stretta nel guanto nero.
— Mi permette d’accompagnarla? — osai chiedere, non potendo sopportare il pensiero ch’ella mi lasciasse così.
— Grazie, accetterei volentieri, ma non conviene — diss’ella con grande semplicità.
— Nessuno ci conosce qui, e la convenienza può essere una volgare convenzione... almeno al- cuni passi, fino alla piazza....
— Ebbene andiamo! ripigliò la fanciulla, colla sua solita dolcezza dignitosa.
Gli angeli dalle ali dorate che stanno ingi- nocchiati fra i pinnacoli sull’arco della facciata di San Marco, risplendevano ancora misticamente, come se ardessero di pietà nell’ aere amaran- tino.
La notte, lenta, calava, da tutte le parti s’in- nalzavano suoni di campane, fusi ed armonizzati in un grave concerto e la gloria antica sembrava risorgere dalle ombre misteriose.
Prima di lasciarci, molto commossi entrambi, noi ascoltammo insieme quella musica. La fanciulla s’era già avviata, per risalire la piazza, sola, quan- d’io domandai:
— Anna, quando ci rivedremo?
Ella mi guardò, un po’ smarrita.
— Non so, rispose tristamente.
— Mi dica dove va domani?
Il suo sguardo profondo ebbe una tale espres- sione di rimprovero che ne arrossii.....
— Ha ragione..... sono ardito e indiscreto..... — esclamai — ma d’altronde, non havvi nessuna legge che assolva di questo fatto per sè stesso così innocente?
— Dipende dalla voce interna — disse Anna — sono convinta che la sola coscienza debba regolarci. Non cedo ad un pregiudizio, seguo piuttosto un istinto.....
— Dunque, nel suo pensiero ella mi condanna ?
— Oh no... io non ho alcun motivo di condannarla.... ma..... ci conosciamo così poco..
— Ci conosciamo da poco, non poco... ci vogliono spesso degli anni per penetrare nel mistero delle anime, ma, talvolta, basta un’ora sola perchè una creatura umana inconsciamente si disveli... A me sembra d’averla sempre conosciuta, Anna... forse la sua immagine era in me da gran tempo... come un sogno...
Ella non rispose alle mie parole ma mi stese la punta delle dita dicendo risolutamente: — Vado.
— Io le dispiaccio! ben me n’accorgo..... Mi consenta di dirle una sola cosa ancora... Non le chiederò più ove va domani..... dove va gli altri giorni, ma se dovessi incontrarla per caso, se l’istinto mi riconducesse sulla sua via, mi permette di avvicinarmi e di parlarle?....
Ella esitò.
— Non mi risponde... lo chieggo come una grazia!
Allora ella assentì con un lieve cenno del capo, e senza stendermi la sua manina, mormorò: «Buonasera» in fretta, e quasi vergognosa dell’assentimento, mi lasciò, con un fare brusco, e rapida scomparve sotto le Procuratio, in mezzo alla folla.
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Da un’ora, non avevo più pensato a mia madre. Ne sentii un rimorso cocente, corsi alla posta, e vi trovai il seguente biglietto:
Caro Mariano,
«Domani i miei figliuoli vanno a Chioggia. T’aspetto alle undici, qui all’albergo. Ti presenterai come il signor Adriano Delfiore. Ricordati che una somma cautela è necessaria. Distruggi subito la mia lettera... Addio
tua Madre.»
Alla lettura di queste righe il mio cuore cominciò a palpitare e palpitò tutta la sera e tutta la notte. Passai molte ore dinanzi all’albergo Danieli senza veder nessuno: uno spossamento profondo mi ricondusse sfinito al mio alloggio. Ogni tanto rileggevo lo scritto di mia madre, lo baciavo anche, tentando trovare fra le righe un’espressione di tenerezza. Mi sembrava che il laconismo di quelle parole derivasse da un naturale riserbo, e il mio affetto s’infiammava d’una pena crudele. Ma il pensiero di dover prendere un nome falso mi destava nell’animo un senso di ribrezzo, il nome volgarmente romantico, che mi era stato imposto, mi faceva orrore, e allora la piccola busta profumata, nei miei ardenti baci, mi bruciava le labbra come un oggetto clandestino.
M’alzai all’alba, andai errando per la cittá. L’istinto mi trasse entro S. Marco.
Un cardinale celebrava l’uffizio divino dinanzi alla pala d’oro di Ordelafo Falier ove sta effigiato il simbolo dell’Eterna Sapienza; ardeva, fra gli aurei splendori della basilica, la bella lampada bizantina e, dall’alto della cantoria, un coro di giovinetti, con voci angeliche, purificate da ogni terrena passione, diffondeva sulla navata, sugli altari e sulla folla, un’onda di ritmi fugati, una musica mista di pietà grave e di pace infinita.
Io mi volsi a destra e a sinistra in quella folla, cercando Anna lorio poiché sentivo la sua presenza. Non tardai difatti a scorgerla. Era inginocchiata in una panca e abbandonava la testa fra le mani in atto di fervente preghiera. Non vedevo che il nodo pastoso dei suoi capelli neri sotto le falde del piccolo cappello. Aspettai che si sollevasse per salutarla: da lontano ella rispose gravemente al mio saluto. A poco a poco mi ridussi dietro a lei onde potessimo ascoltare insieme la musica consolatrice che scendeva, scendeva sempre più mistica sugli astanti. Ma per tema di dispiacerle, non osavo nemmeno guardarla e quando si appressò l’ora del mio convegno fui costretto a partire, così senz’averle detto una parola.....
Una muta, una doppia angoscia era scesa sovra di me quando m’avvicinai, tutto tremante, all’albergo Danieli, per chiedere di mia madre. Balbettai, colle labbra strette, il mio nome, il mio falso nome, poi seguii, con passo mal sicuro, il cameriere. Egli m’introdusse in un salotto ove regnava una certa oscurità e abbagliato com’ero dalla luco della Riva non vidi più nulla. Aspettai un minuto, indi una porta s’aperse piano e una figura di donna m’apparve confusamente nel vuoto, colle braccia protese. Io mi precipitai follemente entro quelle braccia e, per la prima volta, gustai l’ineffabile dolcezza dei materni baci... Oh! quel divino momento non tosse mai trascorso!
Ella sedette, mi chiamò a se dappresso e ci guardammo l’un l’altro con intensità. Il mio sguardo ormai avvezzo a quella penombra, distinse chiaramente il materno sorriso... Mia madre era una donna piccola, delicata, gentile d’aspetto, mi sembrò ancor giovanissima. Un’aureola di capelli circondava lo squisito ovale del suo volto, ma quei capelli erano rossi, d’un fulgido colore tizianesco, e, nel ritratto, apparivano biondi e biondi me l’aveva descritti Gozzoli. Me l’ero immaginata bionda la mamma, e quella chioma fulva mi faceva un senso strano di meraviglia, mi distraeva quasi dalla mia muta adorazione. Ci guardavamo ancora tenendoci per le mani, ma io mi sentivo così agitato dalla gioia, che temevo, ad ogni istante, di venir meno fra le sue braccia. Mi erano saliti dal cuore alle labbra i più dolci nomi da dirle, a conforto del turbamento che, non senza una segreta angustia, m’aspettavo di scorgerle in viso, ma ella non era punto smarrita, e dinanzi ad una tale franchezza non potei che balbettare singhiozzando:
— Mamma, mamma, oh mamma!
Ella mi considerava attentamente, mi esaminava anzi e disse:
— Sei cresciuto bene, Mariano... soltanto un po’ magrino, un po’ pallido...
— Io sono felice di trovarla così fiorente, mamma, m’aveva tanto parlato di lei, quel cuor d’oro di Grozzoli... e io avevo tanto pensato e sognato e sospirato, oh sì, pazzamente sospirato questo momento!
— Sentivi la gran voglia di vedermi, povero ragazzo... e anch’io, sai, lo desideravo sempre; ma è così difficile, così pericoloso per me... sono segreti gelosi da custodirsi... Io non posso mai allontanarmi sola da casa e guai se i miei figli sapessero...
Quelle parole «miei figli», che, scritte, mi avevano fatto tanto male, pronunziate mi trafissero, ma risposi subito:
— Oh non tema, mamma, io non abuserò di nulla, io nulla tradirò... ma lasci soltanto che la vegga, che la contempli, un poco... mamma, adorata mamma!
Ella mi mise una mano dolcemente sulla fronte. Oh l’infinito benefizio di quella carezza!
Poi, spinto da un impulso irresistibile, io soggiunsi:
— Vede... Grozzoli non l’aveva descritta bene.. m’aveva detto ch’era bionda, e lei...
— Ero bionda, — rispose mia madre, sorridendo, — ma quell’insipido colore mi stancava e mi tinsi i capelli... Tutte lo fanno ora, Mariano, tu forse non lo sai.. hai vissuto sempre così ritirato, così lontano dalla società, si vede anche dal tuo vestire che non ci sei avvezzo..
Io mi raddrizzai istintivamente.
— Non è un rimprovero che ti faccio, caro ragazzo, figurati! devi avere così pochi quattrini! è una semplice osservazione, sai...
Io la guardavo, molto sorpreso e all’improvviso mi parve d’intravedere qualche cosa d’artefatto nelle sue gote, nelle sue ciglia, nelle sue labbra, in tutta la sua persona, insomma, che trattenni a stento la dolorosa esclamazione che mi sfuggiva dal petto. Ahimè! quelle labbra che m’avevano dato il santo bacio materno erano tinte, erano tinte!
— Che hai? - domandò ella — che cosa posso averti detto di spiacevole?
— Nulla mamma, nulla. Io sono un figlio del popolo e ignoro certe raffinatezze.
— Ebbene Mariano, parliamo d’altro. Dimmi dei tuoi studi, progrediscono?
— Lo spero, mamma.
— Che cosa stai facendo ora?
— Un quadro simbolico.
— Su quale soggetto?
— «Gli Orfani.»
— Come li raffiguri?
— In un modo strano forse... sono dei fanciulli perduti in un bosco selvaggio che rappresenta l’umana vita...
Subito mi pentii d’aver detto questo e compresi d’essere stato crudele, ma ella non mostrò d’aver capito e rispose soltanto:
— Bada di non divagare troppo..
Poi subito soggiunse:
— Hai qualche speranza di guadagno?
— Fin qui non ho pensato che allo studio.
— Tuttavia, se t’affidassi ai negozianti...
— È vero, potrei fare degli acquerelli a cinquanta lire e delle copie di quadri celebri... oh certamente potrei, ma se mi ci mettessi, sono sicuro che il pennello mi cadrebbe dalle dita. Preferisco vestirmi male e mangiare peggio, piuttosto che prostituire la mia arte ad uno scopo d’interesse... vi sono delle cose sacre, mamma.
— Sei fiero, — riprese ella sorridendo, — ma colla fierezza si fa poca strada... e allora, dimmi, questo piccolo viaggio a Venezia, t’avrà costato un grande sacrifizio?
— Oh mamma, mamma, un sacrifizio dopo che l’ho tanto desiderato!
Ella parve commossa, mi strinse a sè con una certa effusione e io le abbandonai la testa ardente in seno fra le trine fragranti e i gioielli, ma quell’abbraccio, tanto sospirato, mi dava adesso un senso di arcano dolore.
Continuando a seguire il corso dei suoi pensieri, ella disse:
— Sarà necessario ch’io ti risarcisca un poco delle spese che hai fatto per me, vorrei offrirti di più, ma tu accetterai il buon cuore...
S’avvicinò quindi ad una piccola scrivania, ne trasse una busta, che certamente era già stata preparata, e me la porse.
— Io non sono venuto per mendicare del denaro! — esclamai in un impeto di ribellione — Sono venuto per vederla e per prendermi quella piccola parte della sua tenerezza, alla quale ho diritto, mamma, null’altro.
— Mariano... sei... sei collerico come tuo padre! — balbettò ella scoppiando in un pianto dirotto.
Allora mi sembrò che il rimorso mi soffocasse, mi gettai in ginocchio dinanzi a lei, le baciai le mani, le baciai il lembo della veste, ma un grande specchio stava in faccia a noi e mentre io studiavo, con ansia, il suo volto per vedervi ricomparire un dolce, indulgente sorriso, m’accorsi ch’ella vi si mirava per rilevare forse quanto le lagrime l’avessero alterata...
Io mi sentivo diventare un giudice inesorabile e avevo ribrezzo di me e della mia suscettibilità morbosa e pur non ero capace di vincermi...
Ella mi sollevò con una certa bontà e accorgendosi dell’amarezza che mi trapelava nuovamente dal volto, si sforzò di rasserenarsi e di dirmi qualche amorevole parola; ma a me parve che nel suo segreto ella attribuisse la cagione del mio turbamento alla goffaggine dell’educazione borghese; mi parve, Iddio me lo perdoni, che si vergognasse un poco di me. La sua voce aveva un accento di benevola compassione non già l’ardore represso dell’affetto spontaneo; s’ella accondiscendeva a rivedermi era unicamente per un vago istinto di dovere e di pietà: la sua anima non sentiva alcun desiderio della mia tenerezza, ben me n’ero convinto!
Rimanemmo muti entrambi. Ma ella ruppe subito il silenzio, domandando ancora:
— Dunque non accetti?....
— No, mamma. La ringrazio con tutto il mio cuore, ma non ne ho bisogno.
— Come vuoi, Mariano. Bada però di non essere troppo orgoglioso..... — mormorò dolcemente.
— È vero, sono orgoglioso, mi compatisca! — diss’io con tristezza, sentendo che non avrei mai potuto giustificarmi.
— Non se ne parli più. Hai fissato di rimanere qualche tempo a Venezia?...
— Oh no. Devo affrettarmi di tornare allo studio..... soltanto.... se mi fosse concesso di rivederla ancora una volta.....
— Ci pensavo anch’io..... pensavo ad un altro luogo di ritrovo, perchè qui tu non puoi rimanere a lungo, nè ritornare senza pericolo di dar sospetto.....
Oh! l’orrore di quell’incontro segreto!
— Forse sabato, — continuò ella, i miei figli andranno al Lido a far colazione, io dirò loro che non mi sento di seguirli e t’indicherò ove tu possa trovarmi.
— Farò tutto ciò ch’ella desidera, — balbettai, — ora è tempo ch’io parta, non è vero?
— Sì, ragazzo mio. Noi abbiamo molti conoscenti qui e se qualcuno giungesse
— Ha ragione.
Ci abbracciammo un’ultima volta, la lasciai, scesi le scale a precipizio, uscii fuori sulla riva, come un pazzo. Avevo la febbre, m’ardevano le tempia, il cuore mi martellava furiosamente. Il sole mi dava fastidio: corsi a chiudermi in casa, ma quella fredda camera d’albergo mi parve insopportabile e dovetti tornare subito all’aperto.
Mi sentivo male, la mia mente era confusa, mi sembrava che il cuore si fosse vuotato ad un tratto, sanguinando, e non volevo analizzare me stesso, nè spiegarmi la cagione di quell’affanno.
Passai due giorni nella desolazione, errando a caso senza trovar conforto.
La prima sera, sulla riva, una voce, nella folla, mi fece sussultare.
Era la voce di mia madre. Ella passeggiava tranquillamente in mezzo ai suoi figli, dando il braccio a uno di loro. Io li seguii alcun tempo, a qualche distanza, non visto, nell’ombra, poi dovetti fuggire.
L’indomane, nel pomeriggio, al pontone della Cá d’oro essi salirono tutti sul vaporetto col quale io tornavo dalla stazione. Le panche erano occupate e io cedetti il posto a mia madre, come uno sconosciuto qualunque. Ell’aveva arrossito nel vedermi, io, con uno sguardo, avevo cercato di rassicurarla. Non so come reggessi alla vista di quegli stranieri che pur erano miei fratelli, di quella donna che pur era mia madre, come sopportassi, io orfano reietto, la visione per me straziante di quella famiglia! Mia madre temeva certamente che mi tradissi. Ma io volli crudelmente rimanere fino all’ultimo, e saziarmene lo sguardo, volli udire le loro voci commiste e vedere i loro reciproci sorrisi e leggere loro in faccia la baldanza della felicità. Così, risalimmo insieme per il glorioso Canal grande le cui acque riflettevano, un giorno, dalle facciate degli storici edifizi, gli affreschi del Tiziano e del Giorgione, che in quel sereno pomeriggio rispecchiavano ancor sempre una magìa di forme e di colore. Io vedevo tutto a traverso un velo e la mia anima era torbida e sconsolata.
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Più tardi, alla posta, trovai una lettera in cui la mamma mi esortava a recarmi il giorno appresso, alle nove del mattino, in piazza dei Santi Giovanni e Paolo ove mi avrebbe senza fallo raggiunto. Aspettavo da più d’un’ora, con un senso d’inesprimibile desiderio, quand’ella comparve col suo passo cadenzato e sicuro. La sua figura era così snella, così elegante e giovanile da Sembrare quella d’una fanciulla.
Ella venne dritta verso di me, senza mostrare alcun imbarazzo e stendendomi la mano disse subito:
— Sarà meglio che prendiamo una gondola, Mariano.
Per buona sorte ne trovai una nel canale vicino. Ella vi discese, chiuse senz’altro le tende del felze e, convinto torse che si trattasse d’un convegno furtivo d’innamorati, il barcaiuolo sorrise, facendomi impallidire di sdegno.
— Chissà per chi ci prendono! — disse mia madre, tranquillamente, mentre io soffrivo anche di quel lieve sospetto d’avventura romantica che le alitava intorno.
Il gondoliere aveva l’ordine di fare un giro in città e di ritornare al punto di partenza e la barca leggera scivolava, scivolava sulle luride acque fra le alte muraglie dei palazzi silenziosi.
Ella stava seduta accanto a me e una voce lontana come un tenero ricordo d’infanzia, una invincibile brama di fanciullo mi spingeva ancora follemente fra le materne braccia, avido delle sospirate carezze; sentivo il bisogno di attrarre la sua testina sul mio petto anelante, di sfogare tutta la piena di quel figliale trasporto: il nuovo impeto di gioia aveva cancellato dal mio pensiero ogni dubbio, ogni triste esitanza. Ma un rispetto profondo mi frenava; temevo ch’ella potesse farsi meraviglia di quell’appassionato amore di figlio, forse a lei ignoto, e che desiderasse sottrarsi alla mia ardente tenerezza, e null’altro osando, le coprivo di baci le piccole mani strette nei guanti bianchi, e la chiamavò, senza fine, col dolce nome che la mia solitaria giovinezza aveva ignorato.
Ella sorrideva d’un blando, compiacente sorriso, ma non tardò molto a ritirare le mani e accomodandosi, quasi inconsciamente, le trine delle maniche, disse con bonarietà:
— Tu sei molto impetuoso Mariano: in tutte le cose ci vuole moderazione.....
— Mamma, mamma! come può dirmi così..... ella non sa, ella non conosce i desiderii, i sospiri, i singulti della mia vita travagliata, ella non sa quanto io abbia lamentato e sofferto e pianto. E ora che quest’unico momento mi è concesso, perchè, perchè non devo poter esprimere tutto quello che ho dentro qui nel cuore, che mi tortura, che mi soffoca Non sono io dunque nulla per lei? non sono come gli altri la creatura delle sue viscere e del suo sangue? Che cosa domando io se non la briciola che cade dalla sua mensa, se non una piccola parte di sentimento in tanta dovizia di affetti e di contentezza?
— Calmati, calmati, Mariano, te ne scongiuro! — diceva ella con una certa inquietudine, quello che è avvenuto non può mutare, lo sai. Ciò non toglie che ti voglia molto bene credo anche di avertelo dimostrato in questo momento istesso te lo dimostro.....
— E io gliene sarò eternamente grato, madre mia....
— Sì, ma la tua tempra ardente mi fa paura, sei imperioso, non sei cauto abbastanza, una tua parola potrebbe tradirmi e compromettermi per sempre.... anche ieri mi hai fatto tremare....
— Ho mancato, lo sento, dovevo allontanarmi ma non potevo, ero incatenato....
— Hai fatto male, Mariano, e dovresti meglio comprendere i riguardi che mi devi....
Ella m’amava, lo aveva detto, ma il suo affetto era dominato dalla ragione, dall’opportunismo, dalle esigenze sociali, e la mia folle brama di vederla somigliava all’indiscrezione d’un estraneo....
Un singhiozzo disperato mi strozzava la gola e la gondola continuava a scivolare sulle luride acque dinanzi alle alte muraglie dei palazzi silenziosi.
Finalmente mi sovvenni d’essere uomo, compresi la stoltezza della mia folle illusione e, raccògliendo tutta l’energia rimastami, frenai le lagrime che mi bruciavano le guancie, soffocai l’angoscia che mi torturava, mi sforzai d’apparire tranquillo e risposi con quiete alle domande ch’ella mi andava rivolgendo, forse per distrarmi. Erano domande vaghe, un po’ frivole forse e io le ascoltavo con uno scoramento profondo.
Ad un tratto, ella disse, guardando il suo piccolo orologio:
— È trascorsa un’ora, Mariano, ove siamo?
Io scostai la cortina.
— Presso al punto di partenza, mamma, alla piazza di San Giovanni e Paolo.
— Sarà bene ch’io scenda, i miei figli potrebbero tornare....
Prima che uscissi, per aiutarla, ella mi baciò,, mi fece qualche raccomandazione convenzionale, s’asciugò sulle ciglia una lagrima fuggevole.
— Dobbiamo lasciarci, Mariano, e chi sa quando ci vedremo ancora... — mormorò ella risalendo nella piazza.
Io la seguii senza rispondere e volli accompagnarla per un breve tratto ma, avevamo fatti appena pochi passi, quando apparvero da lontano, i tre giovani Sàlgari. Essi ci avevano già scorti. Io la interrogai collo sguardo; ella disse rapidamente:
— Rimani e sii prudente.
Sorpresi di vederla con un estraneo, i tre figliuoli s’affrettarono incontro alla madre:
— Faceva troppo vento al Lido!.... Siamo tornati subito.... De Rozas ci ha detto ch’eri venuta da questa parte.... T’ha riconosciuta in distanza! — esclamarono tutti insieme.
Ella li salutò affettuosamente, appena appena turbata dal pericolo, e disse, con franchezza, presentandoci a vicenda:
I miei figliuoli... Maurizio, Cecilia, Evelina... il signor Adriano Delfiore figlio d’un amico di mio padre. Ci siamo incontrati qui in piazza....
Le due fanciulle scambiarono un sorriso. Maurizio Sàlgari, un giovanotto molto elegante di diciannov’anni, diede subito un’occhiata poco benevola alla mia persona modestamente vestita, poi mi stese la punta delle dita ch’io appena toccai. Dovevo essere pallido come un morto.
— Se non m’inganno, il signore si trovava iersera sul vaporetto e tu forse non l’avevi ravvisato? — domandò una delle due fanciulle.
— Difatti, Evelina. Ci pareva ad entrambi di conoscerci ma lo credemmo un errore, non è vero, signor Adriano?....
Io chinai la testa smarrito, e Evelina mi guardò con una certa curiosità.
Era ancora adolescente e dalla sua fisonomia gentile, dai suoi occhi grandi e azzurri spirava una delicata bontà. Anche il suo sorriso mi parve benevolo e un senso di fraterna tenerezza mi toccò il cuore. Non era mia sorella? non erano tutti fratelli miei?
Ma la madre, la madre nostra trovò il coraggio di dirmi:
— Ella intendeva visitare la chiesa, non è vero?
non vorrei che indugiasse per noi....
— Non andiamo tutti a San Giovanni e Paolo? — domandò Evelina.
— Oggi no, bimba mia. Io ci fui poc’anzi e mi sento stanca.
— Se permette, signora, mi ritiro, — diss’io con la voce strozzata.
— Quando... quando tornerà a Milano? — chiese mia madre, ingiungendomi collo sguardo, di non contradire a quella domanda che aveva lo scopo di disperdere le mie traccie.
— Partirò domani, — risposi laconicamente, con un brivido d’orrore per la menzogna alla quale non ero capace d’associarmi.
Ella mi porse la mano, io le diedi tremando la mia, la diedi ai miei fratelli, m’allontanai vacillante, colla mente in disordine.
L’uomo può rassegnarsi a qualunque disillusione ma il dolore d’aver perduto la fede nella propria madre è un dolore mortale.
L’universo m’appariva scolorato, tutto mi si oscurava dinanzi, le più dolci speranze della vita sembravano sommergersi in un mare di dubbiezze, e la donna che avevo tanto sognato anch’essa nei miei vaneggiamenti giovanili, discendeva, discendeva, nella fosca caligine dell’incredulità. Dal fondo dell’esser mio io sentivo sorgere ribelli pensieri. io sentivo il freddo cinismo minacciare e invadere la mia ragione.
Mi ridussi spossato all’albergo e, come la notte in cui avevo inteso per la prima volta che mia madre era circondata da un’altra famiglia, mi buttai sul mio letto, in un impeto di desolazione e piansi tutte le lagrime degli occhi miei. E come allora, verso l’alba, il desiderio di vederla aveva assorbito e vinto tutte le mie pene, così adesso, ad un tratto, una visione confortatrice mi apparve, e la serena e onesta figura di Anna Jorio s’impose alla mia esaltata fantasia, con un’efficacia salvatrice. Sentivo ch’ella sola avrebbe potuto redimere la mia anima dall’oscurità profonda in cui era caduta, ma io non avevo più riveduto Anna, non mi rimaneva più alcuna speranza d’incontrarla e le mie circostanze mi costringevano a partire il giorno seguente.
Mi pareva che nè la natura nè l’arte avessero più il potere di consolarmi, nonpertanto un senso di dovere mi trasse in alcune chiese, alla scuola di San Rocco e al palazzo Labia perchè non volevo partire da Venezia senz’avere portato il mio umile tributo d’ammirazione ai nostri grandi. Sceglievo i rii più ombrosi, le vie più remote, agitato dal timore d’incontrarmi colla famiglia Sàlgari. Mi pareva che non avrei più avuto la forza di sopportarne la vista. Dopo il mezzogiorno un istinto strano mi ricondusse all’Accademia che avevo visitato una volta al mio arrivo. Entrai nel primo salone grande e con un improvviso smarrimento vidi Anna che stava contemplando, in fondo, il quadro di Jacobello del Fiore. Ell’era assorta in quella contemplazione, coll’estasi mistica che dá a certe donne l’arte dei primitivi, e io non osai turbarla. Soltanto quando si mosse m’avvicinai.
Mi salutò gravemente, ma il suo sguardo ebbe un raggio d’infinita dolcezza.
— Vede — diss’io, è proprio il destino che mi ha condotto qui presso di lei, è il cuore che m ha guidato.... Mi permette di esserle compagno in questa sua visita alle cose gloriose del passato, poich’ella arriva, non è vero?
— Sì, arrivo.
L’Accademia era quasi vuota; salimmo insieme a quella specie di tribuna ove domina l’Assunta. Io guardavo il Miracolo di San Marco ma la fanciulla si volgeva spesso verso le divine Sante del Carpaccio.
Dinanzi a quei grandi quadri noi ci comunicammo molte idee.
Figlia d’un artista ella stessa, Anna aveva una intuizione sottile del bello e il suo gusto per le cose elette dell’arte, s’era squisitamente raffinato fra le malinconie feconde d’una giovinezza dolorosa. M’era noto il fascino ch’esercitavano su di lei gli spettacoli della natura, adesso la vedevo estasiarsi davanti alle opere dei grandi antichi e la sua anima candida e ardente di nobili aspirazioni, si rivelava così chiara agli occhi miei che mi pareva di leggervi come in un libro prezioso.
Guardammo insieme e studiammo diverse meravigliose opere d’arte: la Presentazione al Tempio che restituita al suo primo posto di tanto s’avvalora, il Cristo di Cima da Conegliano, le ancone dei Vivarini, le Madonne di Gian Bellino, i pastelli di Rosalba.
Anna era stata la mattina nella chiesa di Santa Maria Mater Domini a vedere la Santa Cristina di Vincenzo Catena che nel suo celestiale rapimento sembra illuminare il piccolo tempio d’una fiamma d’amore, e adesso aveva collocato la sua seggiolina dinanzi alla dolcissima Sant’Orsola del Carpaccio che reggendo soavemente con una mano la pura fronte, circondata da una treccia bionda, posa tranquilla sul casto guanciale e sogna forse il martirio che il fulgente angelo sta per annunziarle.
— Vede, mi diceva Anna, la spirituale bellezza, di queste due Sante, in tanta meraviglia di cose grandi, mi tiene un impero sull’anima: il sentimento, non è forse la potenza più durevole nell’arte?
Eravamo soli, nella sala del Carpaccio. Io lessi ad Anna la leggenda di Jacopo da Varagine, poi ci trattenemmo ancora discorrendo, ella seduta, io in piedi presso di lei. E a poco a poco accadde che, nel ragionare su quella sua domanda, si venisse ad un colloquio più confidenziale. Io mi sentii convinto di lei come d’una luminosa verità; una tenerezza infinita mi prese e il mio cuore esulcerato effuse abbandonatamente il proprio affanno: io narrai alla cara creatura tutta la mia storia, l’amara storia che a nessuno avrei voluto confidare.
Anna sollevò verso di me gli occhi umidi di pianto, senza proferire parola. La sua tacita pena mi consolava. Poi, ella pure raccontò tutto il passato dell’orfana sua vita e gli studi compiuti fra gli stenti e il tormento di quella sua incompresa missione d’educatrice, fra bambini viziati, in casa di gente altera e fredda. A Venezia era venuta, durante le sue brevi vacanze, per salutare una vecchia amica della sua famiglia, per sodisfare un vivo desiderio di diletti intellettuali.
La confidenza larga, sincera andava con effusione crescente dall’una all’altra delle anime nostre all’improvviso affratellate nella vasta solitudine del mondo. Mi pareva che il mio dolore, passando nell’anima innocente della fanciulla, si depurasse di tutta la parte più terrena e più colpevole.
Oh sì! innocente e pura ella era come il giglio del campo, ma non ignara dell’umana miseria; severa con sè stessa ella sentiva quella generosa pietà del fallire altrui che è la virtù degli animi superiori. Da lei ho imparato a non giudicare mia madre. Da lei ho imparato a rispettarne in silenzio la memoria.
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Quando tacemmo, paghi dell’intimo, grave colloquio, ci si affacciò una luminosa visione. Non avevamo mai amato e dinanzi a noi era la grandezza infinita dell’onesto amore. Ma la minaccia della prossima separazione ci fece rabbrividire entrambi. Allora io dissi:
— Anna, Anna, si ricorderà ella di me?...
— La ricordanza è uno dei migliori beni — mormorò la fanciulla.
L’Accademia ormai si chiudeva, dovevamo uscire.
— Andiamo all’aperto. Anna, andiamo a contemplare insieme il cielo di Venezia, torniamo al Lido a vedere il tramonto, non m’abbandoni, per carità, non m’abbandoni!...
Ella mi guardò dolcemente mentre scendevamo le scale e disse con risolutezza.
— Io non posso venire con lei al Lido...
— Non mi ritiene degno d’accompagnarla?
— Non lo dica nemmeno....
— Dobbiamo dunque lasciarci imporre dal convenzionalismo sociale? Le anime nostre non sono diverse dalle altre? non l’abbiamo detto poc’anzi?
— Ah sì, Giuria, molto diverse!
— E allora, ci lasceremo così? Anna, Anna! Ella mi guardò con tristezza.
— Senza una parola, Anna, senza una speranza?
— Facciamo un po’ di strada insieme, — dissella allora pietosamente, avviandosi verso il ponte dell’Accademia.
Io la seguii, e assorti nel nostro colloquio, giungemmo fino alla piazza di San Marco. In mezzo ad una folla di forestieri, la banda suonava, in quel momento, l’intermezzo funebre del Crepuscolo degli Dei. La musica mi parve straziante. Avevamo entrambi gli occhi pieni di lagrime. Lei, la donna, la più forte pronunciò la parola decisiva:
— Addio, Giuria.
— Mi chiami almeno Mariano!...
— Sì, Mariano.... addio.... che il Signore l’accompagni.
— Mi consente di chiederle una cosa, in quest’ora suprema?
Ella annuì collo sguardo.
— Non qui in mezzo alla gente, fra tanti sconosciuti che ci guardano... Entriamo nella chiesa di San Marco, non sarà una profanazione.
Anna non volle negarmi quest’ultima contentezza: ella s’avviò verso la basilica e io la seguii. Il bellissimo tempio era quasi deserto e nella mite penombra la lampada ardeva dinanzi all’altare.
Io presi la fanciulla per la mano e le domandai con voce tremante:
— Anna, ella mi ha detto che la sua anima è sola?
— Molto sola.
— Non v’ha dunque nessuna più intima affezione, nessun vincolo che la lega alla vita?
— No, Mariano.
— Siamo soli entrambi, Anna. Non potrò io guardare incontro al mio avvenire con una lontana speranza?.... non mi concede questo conforto, l’unico ch’io mi abbia?
Ella mi rivolse le sue pupille nere, velate, con una muta interrogazione.
— Anna, mi vuole un po’ di bene?...
— Usciamo di qui, Giuria; questo è il tempio del Signore.
— Non è nel tempio del Signore che si fanno i voti più sacri? vede Anna, noi siamo due solitari perduti nel mondo.... la sorte volle che c’incontrassimo, ella per consolarmi, io per conoscere il benefizio della sua pietá. Ella pianse delle mie afflizioni, ella ebbe misericordia del mio spirito esacerbato, io penetrai collo sguardo desioso di purezza entro il dolce mistero della candida sua anima, io vi lessi delle divine gioie... A me pare di averla sempre conosciuta, Anna, io l’ho sempre veduta nel mio pensiero, ella era il sogno della mia triste giovinezza, ella è l’ardente visione dei miei vent'anni.... ella non è Anna Iorio.... per me è la donna che in sè i più grandi affetti accoglie in cui rifulge una spirituale maternitá....
— Siamo in chiesa, Mariano, mormorò la fanciulla molto commossa.
— Lo so, lo sento. Non tema. Una domanda ancora prima di lasciarci! Mi consente di lavorare con una fede inspiratrice nel cuore?.... il ricordo di lei, Anna, infiammerà il mio intelletto, ravviverà la mia fantasia troppo turbata.. Avevo cessato di credere nella virtù e se non l’avessi incontrata, Anna, forse, mi sarei perduto.
— Oh Mariano! mi lasci pregare! — e s’inginocchiò sul pavimento.
Io le rimasi dappresso col cuore in tumulto.
Dopo un lungo raccoglimento la fanciulla s’alzò, mi stese la sua manina, balbettando con tremula voce:
— Lavoreremo entrambi.
— Sì, Anna, lavoreremo. Apparteniamo al numero dei lavoratori. E mentre saremo materialmente lontani, ahimè! quanto, quanto lontani! l’affettuoso pensiero saprà ricongiungerci evocando l’ineffabile visione del ritrovo. Non è vero, Anna?
Ella non rispose, ma i suoi occhi grandi, dolci e fedeli dissero con un casto sguardo la tenera, consenziente parola.
Poi volle partire.
La notte non era lontana. L’accompagnai, per suo desiderio, soltanto fino alla porta della chiesa. Anna mi rivolse l’ultimo saluto, s’allontanò e scomparve nella penombra, portando seco il mio cuore, tutta la mia vita.
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Questo è il racconto che mi fece Mariano Giuria in un giorno di confidente abbandono.