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era caduta, ma io non avevo più riveduto Anna, non mi rimaneva più alcuna speranza d’incontrarla e le mie circostanze mi costringevano a partire il giorno seguente.

Mi pareva che nè la natura nè l’arte avessero più il potere di consolarmi, nonpertanto un senso di dovere mi trasse in alcune chiese, alla scuola di San Rocco e al palazzo Labia perchè non volevo partire da Venezia senz’avere portato il mio umile tributo d’ammirazione ai nostri grandi. Sceglievo i rii più ombrosi, le vie più remote, agitato dal timore d’incontrarmi colla famiglia Sàlgari. Mi pareva che non avrei più avuto la forza di sopportarne la vista. Dopo il mezzogiorno un istinto strano mi ricondusse all’Accademia che avevo visitato una volta al mio arrivo. Entrai nel primo salone grande e con un improvviso smarrimento vidi Anna che stava contemplando, in fondo, il quadro di Jacobello del Fiore. Ell’era assorta in quella contemplazione, coll’estasi mistica che dá a certe donne l’arte dei primitivi, e io non osai turbarla. Soltanto quando si mosse m’avvicinai.

Mi salutò gravemente, ma il suo sguardo ebbe un raggio d’infinita dolcezza.

— Vede — diss’io, è proprio il destino che mi ha condotto qui presso di lei, è il cuore che m ha guidato.... Mi permette di esserle compagno in questa sua visita alle cose gloriose del passato, poich’ella arriva, non è vero?

— Sì, arrivo.