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malinconica giovinezza, dicendomi che i miei genitori erano morti entrambi.
Sulla tomba di mio padre, a Campo Verano, avevo sillabato più volte il nome di «Andrea Giuria pittore,» ma quando chiedevo ove fosse sepolta mia madre, nessuno sapeva dirmelo con precisione, e le risposte vaghe, appena valevoli ad appagare la curiosità infantile, più non riuscivano a convincere il tumultuoso desiderio del giovane. M’era giá entrato nella mente il sospetto che la mia nascita fosse avvolta in un certo mistero e alcune parole pronunziate un giorno, non so se per caso o con qualche intenzione da Dino Gozzoli l’incisore, avevano confermato questo dubbio, infiammandomi in cuore la speranza che mia madre esistesse ancora.
Era un giorno d’autunno sereno e mite. Nel nostro piccolo giardino fuor di porta, che cingeva una siepe di bignonie e di passiflore, la festa dei colori aveva raggiunto il colmo: le malve innalzavano presso all’acanto i loro fusti guerniti di sessili fiori; i crisantemi primaticci, i gerani carichi di umbelle illuminavano di ciocche bianche, gialle, rosse il verde ancor vivo degli arbusti e, sulla facciata della casetta, le rose bengalensi celebravano una seconda primavera. Una ninfa antica, corrosa dal tempo, mezzo vestita d’un muschio smeraldino, versando dalla sua anfora un tenue filo d’acqua entro la piccola urna di porfido che avevamo scavata in un’ajuola, sotto le lattughe, sembrava cantarellare con quel lieve gorgoglìo una dolce cantilena.