Raimondo Montecuccoli, la sua famiglia e i suoi tempi/5
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Capitolo V
Dicemmo nel precedente capitolo, come fosse distolto Raimondo dal ritornare a Modena dalla morte, avvenuta nel gennaio, della cugina sua, vedova del conte Girolamo. Soggiungeremo ora, essere egli stato da lei istituito erede di tutte, o di gran parte delle sostanze che le provenivano dal marito. Ma per codesta eredità ebbe egli non poche molestie, cagionategli dal figlio di lei, che nominammo; dalle quali non senza molto dispendio, tardi si liberò. Si attenne egli allora al consiglio dell’amico marchese Francesco Montecuccoli, che diceva, non doversi badare alla spesa di qualche migliaio di talleri per levarsi d’attorno un pretendente. In altra lettera il marchese chiedeva notizie al Bolognesi dell’“entità di que’ possessi, anche per poter giudicare se Raimondo abbia fatto buon acquisto, e resti ben impiegato il denaro che gli convien sborsare”: con che può essere che si accenni al pagamento dei debiti che gravavano l’eredità, di uno de’ quali troviamo chiedesse un Francesco Castiglioni di Modena di venir rimborsato. Agli imbarazzi cagionatigli da quella eredità allude Raimondo in una lettera, nella quale, di essa parlando, diceva che, “se bene mi potrà essere di emolumento nel tempo avvenire, mi è stata sin’ora d’incomodo per li contanti che mi bisogna spendere nell’estinzione dei debiti e nel contentamento del coerede”; al quale oggetto soggiungeva: “ho speso e preso a prestanza quel poco che ho potuto”. E vivente ancora la contessa, sappiamo che ad estinguere un debito, forse del defunto cugino, verso un Terrifel, mandasse egli d’Italia 1200 talleri, con una lettera sua scritta dal campo del Finale il 18 di settembre 1643. Non crediamo poi che fossero fatti questi debiti da Girolamo, ma che a lui venissero coll’eredità del fratello Ernesto.
Con una lettera del 3 di marzo 1644 veniva avvisato il duca di Modena dal Bolognesi della partenza di Raimondo per andare a prender possesso di Hohenegg, assumendo il titolo di signore di quel castello. Fu probabilmente affine di provare la nobiltà del suo casato, per poter succedere nel feudo, che fece egli compilare dal dottor Ricci, agente suo a Montecuccolo, l’albero della sua famiglia; il quale, per la via di Venezia, come si ha da una lettera del marchese Francesco, gli fu mandato a Vienna. I registri dell’archivio municipale di Modena ricordano poi come il tre di marzo di quell’anno Raimondo richiedesse un attestato della nobiltà della famiglia Montecuccoli. Ad Hohenegg andò nel giugno il Bolognesi stesso, “per ricreazione” com’ei dice, e per mancar di denari: non insolita cosa ai diplomatici estensi; ai quali non correvano sempre esatti gli stipendi; come accadeva talora a quelli di Spagna, per quanto andasser carichi d’oro i famosi galeoni, che non approdarono mai alle umili sponde del Panaro . Eseguiva fors’anche il Bolognesi in quella medesima occasione l’incarico datogli dal marchese Francesco di aiutare Raimondo a porre in ordine le cose dell’eredità, e a liberarlo dai carichi che da questa gli derivavano, per indi assicurare il possesso della medesima a lui e ai successori suoi. Vi badasse egli, così gli scriveva, non essendo Raimondo “troppo economo”. E che ciò fosse vero, ebbe lo stesso Raimondo a confessarlo in una lettera che è fra quelle edite dal Foscolo, ove si legge: “I denari che altri hanno accumulati per viver comodo, io gli ho spesi per acquistare la benevolenza de’ soldati, per guadagnar la notizia delle cose, e per imparare quell’arti che sono subordinate alla militare”: per le quali parole tuttavia non ci apparisce egli prodigo, ma tale che utilmente sapeva spendere il denaro proprio.
Notammo poi non è guari, come nel Memoriale all’imperatore avesse egli dato conto de’ gravi dispendii cagionatigli dalle guerre e dalla prigionia. Questa larghezza sua nello spendere dovevagli render più gravi le angustie nelle quali per l’eredità fatta trovavasi impacciato. Temeva perciò il marchese Francesco, che per fastidio di contrarietà egli con intempestiva precipitazione non venisse a propositi i quali gli potessero tornar dannosi. Infatti Raimondo nelle lettere sue al Bolognesi dimostravasi insofferente degli impacci e delle cure che quell’eredità e le pretensioni del figlio della contessa gli procuravano, togliendogli di potere con animo tranquillo continuare la carriera alla quale erasi dedicato.
Perché Raimondo provvedesse meglio alla conservazione de’ nuovi suoi possedimenti, il marchese Francesco gli propose, che volgesse i pensieri ad ammogliarsi per perpetuare ne’ suoi discendenti i vantaggi di quell’acquisto, e che intanto per mezzo di un testamento assicurasse almeno alla famiglia la successione nel medesimo, poiché tra i pericoli delle guerre poteva accader ch’ei morisse intestato. E quest’ultimo consiglio fu bene accolto da Raimondo; ed anzi, perché de’ fratelli suoi non altri rimanevagli se non Massimiliano, il quale contro il parere di lui era entrato ne’ gesuiti, designò invece ad erede suo, se non lasciasse discendenza diretta, lo stesso marchese Francesco. A costui allora il Bolognesi fece intendere che dovesse inviare a Vienna uno de’ suoi figli, acciò, se sventura accadesse, si trovasse sul luogo per prender possesso di que’ beni. Ma al marchese non parve onesto l’accettare quel consiglio, e invece, per mezzo ancora dello stesso Bolognesi, rinnovò le istanze, perché non indugiasse Raimondo ad ammogliarsi. Di ciò non ne fu nulla per allora, sebbene anche il marchese Massimiliano della famiglia di Polinago in una sua lettera, nella quale gli si diceva grato perché al conte Giovanni Antonio, fratello suo, avesse conferito un beneficio ecclesiastico in Montecuccolo, avvalorasse colle sue istanze quelle del marchese Francesco. Lo consigliava poi esso a prender moglie in Germania “per ritornare a ripiantarvi la nostra casa, giacché è chiaro che di Germania ella venne”. Così infatti recano le tradizioni che si riferiscono ad un’epoca anteriore a quelle intorno alle quali si hanno documenti autentici.
E qui, per dar fine all’argomento che stiamo svolgendo, terremo ricordo di quelle cose che rientrano in esso ed avvennero in quest’anno medesimo, che fu quello in cui Raimondo riprese il servigio nelle truppe imperiali. Quando adunque il marchese Francesco vide alieno il parente suo dal matrimonio, desideroso di guerre, ed involto poscia nelle medesime che furono disastrose e piene di pericoli, sembra che cominciasse a fare maggior conto di prima dei vantaggi probabili che a lui potevano derivare dal testamento di Raimondo. Ciò deduco dalla relazione che al Bolognesi dicemmo aver egli richiesto sui nuovi possessi di lui, e dall’insistere ch’ei fece acciò il castello di Hohenegg, fosse liberato dalle ipoteche e per tal modo ne venisse assicurato alla famiglia Montecuccoli il pieno possedimento. Forse allora al marchese era già nota, pel mezzo del Bolognesi, una lettera che Raimondo aveva scritto da Norimberga il 14 di settembre 1644, e nella quale esprimeva il fermo proposito di liberarsi dai debiti incontrati per quella eredità.
Proponevasi egli da prima di ciò ottenere mercé il credito che, per le cagioni da noi discorse, aveva verso la camera imperiale; “e saria pur cosa ragionevole”, soggiungeva, “che, dopo cento anni di servigio continuo che hanno reso quei della mia famiglia, ci fosse una volta un vestigio della mercede cesarea”: le quali parole lascian luogo a credere, che insino allora non avesse egli potuto fruire della donazione imperiale. Seguiva poi avvisando, che, se questa non si potesse conseguire, sarebbe mestieri vender la terra, affinché i creditori non lo avessero a spogliare d’ogni cosa. E perché un Prichalmar era stato con due gesuiti a vedere Hohenegg che molto eragli piaciuto, sarebbe da investigare, ei diceva, se, denaroso com’egli era, vi avesse fatto sopra qualche disegno, e se fosse il caso di iniziare trattative con lui. Ma da questo proposito lo avranno forse sconsigliato il marchese Francesco e il Bolognesi, perché in una nuova lettera a quest’ultimo non più faceva egli parola di Hohenegg, ma solo dell’assegnazione imperiale che voleva tentar di ottenere gli fosse pagata, presentando per mezzo del Trautmannsdorf un Memoriale all’imperatore. E diceva altresì che si cercasse di venderla al Prichalmar anche con perdita, se d’uopo ne fosse, di qualche migliaia di fiorini, a ciò costringendolo per avventura i gravi dispendii che allora gli erano necessarii. Ma non ebbe luogo quel contratto; e nel seguente anno 1645 poté egli riscuotere cinque mila fiorini di quell’assegnazione, il che, per lo stremo in cui era venuto l’erario imperiale, fu reputato da tutti cosa meravigliosa.
Per conservare alla famiglia il castello di Hohenegg continuava intanto ad insistere il marchese Francesco, pregando il Bolognesi “ad antivedere e provvedere a tutto quello che stimerà bisognare per simile intento. E se il signor conte Raimondo non potesse per qualche accidente mettere insieme il denaro tutto necessario, io procurerò fare qui l’impossibile per provvederlo, se così fosse di gusto di esso signor conte” (lettera del 15 di novembre). E mandò infatti a Vienna in più volte, sino al febbraio del 1645, la somma di 2014 talleri e mezzo, non so se denaro suo, o di Raimondo, o preso a prestito. E fu questo per avventura il modo onde quel castello venne conservato ai discendenti del marchese Francesco, ai quali passò, come diremo, alla morte del figlio di Raimondo. Al presente quel castello appartiene al marchese Massimiliano Montecuccoli Laderchi, del ramo stabilitosi a Vienna, signore altresì di Mitterau, Ostemburg e Haindorf nella bassa Austria; la quale ultima terra fu certo posseduta da Raimondo, se non forse le altre ancora, il che non mi è noto.
Ad Hohenegg ritirar si soleva il gran capitano del quale notiamo qui i casi della vita, e vi cercava riposo alle fatiche della guerra. L’abate Giuniano (o Giovanni) Pierelli di Trassilico in Garfagnana, che fu alcun tempo suo segretario, in quella delle sue egloghe a stampa che è in lode di Raimondo, ce lo mostra, “Nel bel colle di Hoeneg stanza di maggio”, occupato negli studi suoi. Dice il poeta in altro suo componimento, che quel castello:
Sorge dell’Austria in seno
Su la base di un colle, augusta mole
Che di torri sublimi il fianco ha cinto.
E parla delle artiglierie che erano sulle sue mura, de’ ponti levatoi, non che dell’amenità de’ luoghi dintorno . Di questo segretario di Raimondo, che esercitò offici diplomatici per gli Estensi a Vienna, a Parigi e a Madrid (dalla qual’ultima città narra egli stesso essere stato per arti inique di un ministro, siccome egli si esprime, espulso due volte), diremo che non lasciò durabil fama di poeta, quantunque egli componesse anche un poema in 24 canti sulla liberazione di Vienna, edito in Modena scorrettamente nel 1690, e in miglior forma a Parma l’anno seguente. Meriterebbe però di essere oggidì ancora presa ad esame, da chi si occupa di studi storici e politici, un’opera da lui stampata col titolo: Il direttore delle ambasciate, nella quale egli porge le norme per la trattazione degli affari diplomatici, e sul modo con che debbano gli ambasciatori comportarsi. In quel libro ricorda egli la dimora da lui fatta in Olanda, in Ungheria e in più altre contrade, e con esempi storici viene avvalorando le dottrine che promulga, frutto di una lunga esperienza. Non è poi improbabile che da Raimondo stesso traesse il Pierelli gl’incitamenti a dedicarsi agli uffici diplomatici. Dal carteggio di lui ci verranno fornite più tardi non poche notizie intorno al nostro gran capitano.
Dagli affari privati di Raimondo, sui quali avremo ad intrattenerci ancora, adesso ci è mestieri far ritorno al racconto della sua vita militare. Le dimostrazioni di stima ch’ei riceveva in Vienna, gl’incitamenti che dall’imperatore medesimo, come avvisammo, gli vennero acciò riprendesse servigio nell’esercito, avean finito col togliergli dall’animo ogni dubbiezza. Insino dal primo giorno di aprile del 1644 il marchese Francesco era avvisato dal Bolognesi, che Raimondo sarebbe per sicuro riammesso nell’esercito imperiale: e l’undici di quel mese trattava di ciò lo stesso Raimondo in una lettera al Trautmannsdorf che il Foscolo pubblicò. Cercava esso da prima in quella sua lunga lettera di far salve le convenienze proprie, col dichiarare che le cariche sostenute a Modena “con qualche felice rincontro, con qualche lode e con qualche buon servigio al principe al quale ho servito”, come questi dichiarò infatti con lettere all’imperatore, all’arciduca Leopoldo e al Trautmannsdorf medesimo, non gli consentivano di assumere il servigio col grado di generale di battaglia che precedentemente vi occupava. E ciò vie più perché, a cagione singolarmente della lunga sua prigionia tra gli svedesi, molti, già inferiori a lui, gli erano andati innanzi . Citava poscia l’esempio del Borri e di altri che, senza passare per gradi intermedii, erano stati elevati ai primi onori della milizia. Faceva ancora notare l’importanza del grado ch’egli ebbe a Modena, la quale lo poneva a capo di ben trentamila uomini tra soldati e gente di milizia, con lo stipendio di quattro mila scudi annuali, più due mila per emolumenti di officio, così in pace come in guerra: col vantaggio inoltre di trovarsi, secondo ei s’esprime, in grembo a’ suoi, bene appoggiato a’ parenti, e vicino agli amici. Terminava per altro col rimettersi pienamente al volere dell’imperatore, pronto a ritornare semplice o moschettiere o picchiere, come era stato altra volta. Pregava nondimeno, gli si tenesse conto delle spese incontrate e dei danni pecuniarii toccatigli in tanti casi di guerra. Chiedeva inoltre che gli fossero concedute tre settimane per andare a prender congedo dal duca di Modena, e dar ordine nel tempo medesimo alle cose sue. Ma, o non gli fosse quest’ultima dimanda assentita, ovvero gli affari che aveva in Vienna, e gli apprestamenti per la guerra non gli permettessero d’intraprendere quel viaggio, certa cosa è che a Modena per allora ei non venne, benché il duca, avvisato dal Bolognesi del progetto di lui, gli avesse fatto sapere che l’avrebbe con moltissima soddisfazione riveduto (Lettera del 24 di aprile). Anche il marchese Francesco aveva esortato il parente a fare quel viaggio, notando ancora (come già avvertimmo) che avrebbe potuto il duca, in cotal circostanza, ricordarsi della ricompensa che pei servigi ricevuti gli doveva. Raimondo invece tenne informato per lettere il duca delle cose sue, e gli mandò nel maggio non so che opera, la quale trattava dei tributi (De Contributionibus). Terminate in questo frattempo le pratiche per la riammissione di Raimondo al servigio imperiale, ne otteneva egli dal duca la facoltà che chiesta gli aveva con lettera del 16 di aprile, accompagnata da un’altra dell’imperatore colle istanze medesime. Con una del 16 di maggio, edita dal Grassi, chiese egli l’assoluto congedo dal servigio militare estense, pronto nondimeno a riprenderlo ad ogni bisogno del duca, essendoché gl’impromettesse l’imperatore di lasciarlo andare in Italia nell’inverno prossimo, e così egli avrebbe potuto, ove d’uopo ne fosse, prestare al suo principe naturale que’ servigi che gli venissero richiesti; La qual cosa dal duca stesso eragli stata raccomandata. Accennava nonpertanto al dubbio che talvolta o il comando dell’imperatore, o altra necessità lo potesse impedire di lasciare la Germania; il che senza più sarebbegli tornato in dispiacere, come annunziava il Bolognesi, che lo diceva desideroso di adoperarsi ad ogni bisogno in servigio del proprio sovrano.
Raimondo, il dì stesso in che scriveva la lettera ora accennata, moveva pel campo, portando seco la cifra datagli dal Bolognesi per la segreta corrispondenza col duca. Da questo diplomatico ci è poi narrato che, innanzi al suo dipartirsi, a lui in compenso del reggimento che prima aveva, ne fu concesso un altro, rimasto disponibile per la morte del duca di Nassau al quale pertenne; bellissimo reggimento, al dire di esso Raimondo; il quale annunziò pure che qualche denaro, per fornirsi del bisognevole ad uscire in campagna, gli fu dall’imperatore largito. Né a questo si tenne pago, ma in pubblico consiglio a lui fece encomii; e in privati colloqui, secondo il Bolognesi racconta, mostrò la sua meraviglia perché l’Hazfeld, che pur gli era poco amico, erasi congratulato col Montecuccoli pel reggimento ricevuto, laddove ad esso imperatore già per sé lo aveva chiesto, e quando ebbe a significargli che già a Raimondo l’aveva egli dato, non gli fece risposta alcuna.
A quel tempo, o poco dipoi, nel parentado suo accadeva in Modena tal fatto, che non mediocremente sarà tornato doloroso al sensitivo animo di lui. Il marchese Francesco, del quale tante volte ricordammo le relazioni amichevoli da lui con Raimondo mantenute, e che più lungamente degli altri favoriti dal duca Francesco I aveva goduto della confidenza di lui, meritata da lunghi ed anche recenti servigi, cadde, come altri già, in disfavore. In una lettera sua al Bolognesi del 10 di giugno annunziava egli, non ingerirsi da più mesi negli affari per non averne né l’incombenza, né l’autorità, non ricevendo più dal duca ordini di sorta alcuna. Poté nondimeno nel mese seguente intertenersi col duca sulla necessità di danaro ond’era stretto il Bolognesi, e ne riceveva l’assicurazione che già 1000 talleri gli erano stati spediti (Archivio Capponi). Ma per sé non ricuperò mai il perduto favore; più fortunato nondimeno del Testi e di Cesare Molza, confidentissimi un tempo del duca Francesco e poi morti in carcere, poté il marchese ritirarsi nel feudo suo di Guiglia, d’onde scrisse alcune delle lettere che furono da noi ricordate. La cagione poi della disgrazia toccata ad un cavaliere così benemerito della casa d’Este, non mi fu mai dato scoprirla.
Appena fu nota al Bolognesi la sventura occorsa al marchese, si fece a proporgli d’indurre Raimondo a venire a Modena per cercare di rimetterlo presso il duca nel pristino favore. Ma così il 20 di luglio gli rispondeva esso marchese: “La venuta in qua del signor conte Raimondo, avrebbe potuto servire a poco nel particolare accennato da V. S. illustrissima coll’ultima sua del 2 corrente; poiché la mia mala sanità mi rendeva inabile ad ogni cosa, sì per quello avesse riguardato il gusto o bisogno de’ padroni, come quello che concerneva il mio interesse o bisogno. Ben per altro avrei avuto caro ch’egli fosse venuto”. Ma Raimondo a quel tempo era già entrato in campagna. Continuò il marchese a dimorare in Guiglia, e l’ultima lettera sua da me veduta fu scritta il 5 di febbraio del 1645. Morì poi egli l’undici di aprile di quell’anno, o colà, siccome è detto in una memoria manoscritta sui Montecuccoli da me posseduta, ovvero a Bologna, secondo che da altri fu scritto. Un ricco patrimonio lasciò, sul quale assegnava una dotazione per un collegio da erigersi in Guiglia, come avrebbe dovuto far egli per precedenti legati; ma neppure gli eredi non si curarono di fondarlo. Furono questi i figli suoi: Giambattista, Sebastiano, Giustiniano e Felice, tra i quali nel 1648 andarono spartiti i feudi di lui, che erano Guiglia con Ciano, il marchesato di Montetortore con Montalbano, la contea di San Martino e Ranocchio, più Marano ed altre terre: valutati codesti feudi, secondo le regole camerali, scudi 229.282. Non ebbe parte nell’eredità l’altro suo figlio Carlo Antonio, perché gesuita. Anna sua figlia sposò un Pepoli, ed in seconde nozze un Bevilacqua.
Le relazioni passate tra Raimondo e il marchese Francesco, e i saggi consigli che, in molte circostanze, dal senno maturo di lui egli ricevette, ci rendono agevole il congetturare che di molto dolore gli sarà stata cagione la morte di un parente e di un amico di tanta autorità presso di lui, quale gli fu per molti anni il marchese Francesco.
Mentre nelle armi al servigio del suo principe stavasi esercitando in Italia Raimondo Montecuccoli, un nuovo aspetto era andata prendendo quell’interminabile guerra de’ trent’anni che dietro di sé doveva lasciare tante rovine. Per la morte del cardinal Richelieu nel novembre del 1642 , e per quella di Luigi XIII che accadde nel maggio dell’anno seguente, la somma delle cose in Francia venne in mano al cardinal Mazzarino, che lo sforzo maggiore di quella nazione rivolse non più, come il suo predecessore aveva fatto, contro la Spagna, ma invece ai danni dell’impero. Nondimeno in sui primordii l’esercito francese fu battuto dall’animoso Jean de Werth; ond’è che, a riparare gli oltraggi della fortuna, andassero nella Germania i due più strenui generali di Francia, Turenna da prima e poscia Condé, de’ quali il primo, come vedremo, fu emulo glorioso del Montecuccoli. Più giovane di due anni, il francese aveva come lui incominciato nell’anno medesimo, che fu il 1625, il servizio militare come volontario, e nello stesso mese di dicembre del 1643 partivano, l’uno di Francia e l’altro d’Italia, per la Germania, che doveva essere il campo ove, sapientemente combattendo, più tardi entrambi avrebbero conseguito gloria imperitura.
Se in miserrimo stato trovava il Turenna le truppe francesi, in condizioni non meno tristi erano per venire quelle tra le quali doveva militar il Montecuccoli. Allorché ebbe il francese faticosamente riordinate ed accresciute le genti affidategli, e dato sesto l’italiano alle cose sue, entrarono contemporaneamente in campagna; non però a fronte l’uno dell’altro, imperocché Raimondo era stato mandato contro gli svedesi, ed il Turenna, insieme col Condé, campeggiava sul Reno, d’onde il Mercy, che aveva già conquistato Friburgo, fu costretto a ritirarsi nel Würtemberg, dopo perduti ottomila uomini. Otteneva poi il Turenna, rimasto solo al comando dell’esercito, quel grado di maresciallo conseguito l’anno medesimo dal Montecuccoli, non però con quell’autorità che un tal grado recava con sé tra i francesi. Delle qualità morali di questi due grandi capitani, in ciò che erano tra loro comuni e in quanto tra l’uno e l’altro differivano, fece già comparazione nel suo elogio di Raimondo Montecuccoli il conte Paradisi.
Partì Raimondo, come dicemmo, il 16 di maggio del 1644 da Vienna, con promessa senza dubbio del prossimo innalzamento a maresciallo di campo, ch’egli ottenne infatti poco appresso, come si ritrae dalla lettera colla quale il 25 di giugno il duca di Modena per questa promozione sua si congratulava. La quale tornò accetta, al dire del suo biografo Huissen, anche ai generali Galasso, Holzapel e Welhen, ai quali egli aggiunge l’Hazfeld, del che si può dubitare, imperocché quel generale, e lo dicemmo, avverso era stato e non già amico al Montecuccoli, e agli altri italiani. Scrisse il Bolognesi che il Galasso aveva dichiarato, allora non esservi nell’esercito imperiale “soggetto più a proposito per comandare un esercito”: ma aggiungeva il diplomatico che non si volevano disgustare i generali vecchi, ancorché si giudicassero meno capaci. Uno di questi era lo Slick, il quale si lagnò all’imperatore dell’accrescimento di grado concesso a Raimondo, come il diplomatico stesso a lui riferì.
Una lettera del 28 di maggio scritta dal Bolognesi c’informa, che a quel tempo Raimondo era a Praga, e che ancora non sapevasi allora in che dovesse venire adoperato, avendo scritto anche Raimondo che da prima pareva si volesse mandarlo in Slesia o “impiegarmi a parte per isfuggire certe subordinazioni che mi danno qualche fastidio: ma poi si è rimesso il tutto nel signor conte Galasso che è in Praga”. Soggiungeva poscia, che gli assegnerebbe quel generale qual corpo dovesse comandare, avendo l’imperatore medesimo scritto a Galasso acciò gli desse uffizio di sua soddisfazione. Quel generale infatti, affidandogli il comando di una parte della sua cavalleria, per sottrarlo alla subordinazione di che egli parlava, lo tenne a sé solo sottoposto, come Raimondo stesso riferì in una sua lettera. Con un’altra del 4 di giugno, dando conto il Bolognesi del momentaneo disfavore in cui Galasso e Hazfeld erano caduti, accennava, che il Lobkowitz, potentissimo ministro del quale a suo luogo accenneremo la catastrofe, e che al dire di Bolognesi, e come anche per noi fu narrato, da lungo tempo era amico ed estimatore del Montecuccoli, aveva proposto di dare ad esso il comando dell’esercito. Ma ciò non ebbe luogo, e venne egli invece dal Galasso spedito in Sassonia per sollecitare, secondo scrisse il Siri, l’unione delle truppe che erano da quelle parti, con due reggimenti imperiali che scortavano un convoglio di vettovaglie diretto a Dresda . Colà fu egli poi rimandato non guari dopo eseguita la prima commissione, e questa volta con quelle istruzioni alle quali in breve accenneremo. Durante quel viaggio il 6 di giugno da Eger (nel castello della quale città boema venne ucciso Wallenstein) egli scrisse al duca di Modena, mandandogli quel suo Trattato sull’arte della guerra che dicemmo da lui composto a Stettino, e che ora si conserva nella biblioteca estense in Modena, pregando lo leggesse, e soggiungendo avrebbe nel venturo inverno, che divisava passare in Modena, compiuta quell’opera colla narrazione dei fatti d’arme di esso duca; ed è bene a deplorare che non venisse codesto disegno da lui colorito. Pregava egli altresì in quella lettera il duca, acciò non passasse quel suo scritto in mano d’altri imperocché lo reputava cosa imperfetta, non avendone fatto precedentemente né abbozzo, né una prima copia; ond’è che si proponesse di ritornar sopra più tardi a quel lavoro, la richiesta del quale, fattagli dal duca, era stata da lui ricevuta come un grande ed onorevole favore. E con questo principe mantenne poi corrispondenza tutto il tempo che durò la guerra. Gli dava parte il duca della morte del proprio padre, il cappuccino d’Este che fu già Alfonso III, in quell’anno medesimo accaduta, e di quella di Obizzo d’Este, suo fratello, vescovo di Modena: e di cotali perdite condolevasi seco Raimondo, nonché dell’esser stata per brighe de’ ministri spagnoli negata al cardinal d’Este la protezione degli affari imperiali in Roma. Congratulavasi a sua volta il duca con Raimondo per l’onore che nella milizia veniva egli procacciando al suo nome. Perché poi il mal animo degli spagnoli verso la casa d’Este pareva che potesse turbare la pace di fresco conseguita, sembra che dal duca venisse a Raimondo ricordato l’obbligo da esso assunto di ritornare, se necessità si presentasse, al servigio di lui: una lettera infatti del 27 di giugno scrittagli da Raimondo confermò tale essere la volontà sua. Il Bolognesi, per altro, con sua lettera da Hohenegg del 17 di agosto esprimeva il dubbio che non potesse così tosto allontanarsi dall’esercito, perché trovandosi a fronte dei nemici, né l’arciduca Leopoldo l’assentirebbe, “né egli ne avrà l’inclinazione”. Attendeva perciò di riconoscere che piega fossero per prendere le cose d’Italia. Ma il duca, a tor di capo i sospetti agli spagnoli, concesse loro mille cavalli e mille fanti ch’ei stava licenziando, acciò li usassero contro i francesi che assediavano Arona. Al servigio de’ francesi, avversarii loro, andava al tempo medesimo, tenendo la via del mare, un suddito di lui, Giovanni Molza, con altra gente licenziata dal duca; se non che la nave sulla quale facevano viaggio, venne assalita e presa da pirati marocchini, e rimasero quegli avventurieri per alcun tempo in schiavitù, secondo narra il Vedriani. Quell’invio di soldati estensi al campo spagnolo fu lodato da Raimondo in una lettera sua del 14 di settembre, e da lui reputato azione generosa. Tale era infatti, non avendo atteso il duca che precedentemente il denaro pattuito per quelle truppe gli si pagasse.
Accenneremo da ultimo essere stato Raimondo messo a parte di negozii allora in corso risguardanti il principe Alfonso primogenito del duca, cui si voleva dar in moglie una Pamphili, nipote del papa, come si ha dalla corrispondenza diplomatica d’Ippolito Tassoni a tal uopo spedito a Roma; ma la cosa non approdò, e la giovane sposava invece il principe di Piombino. Raimondo, nella sua risposta, considerava il buon partito che da un tal matrimonio si sarebbe ritratto nelle controversie che soleva avere il duca colla corte di Roma. Altre infruttuose pratiche vennero iniziate nel successivo anno 1645 da Raimondo per procurare il matrimonio di Margherita, sorella del duca, col re di Polonia. Fu poi essa data in moglie, siccome dicemmo, al duca di Parma. Seguitiamo ora il Montecuccoli nei casi di una guerra piena di pericoli, nella quale in quell’anno non agl’imperiali, ma sì agli svedesi, che avevano valido appoggio dai francesi combattenti sul Reno contro Mercy, dovevano toccar gli allori della vittoria, quantunque guidati fossero questi ultimi da un uomo che, impedito dalla gotta a reggersi in piedi, esercitava il comando facendosi trarre qua e colà in lettiga. Ma codesto infermo era Bernardo Torstensson, del quale già avemmo a dire: uomo di tanta energia d’animo fornito e di tanta pratica delle cose di guerra, che le più arrischiate imprese tentar poteva e condurle a buon fine. E degno di stargli a fianco era il Koenigsmark, comandante un altro corpo di quella nazione . Né Galasso né Hazfeld, che pure per vittorie ottenute avevano acquistata gran rinomanza, potevano, singolarmente per la qualità delle truppe loro, competere con que’ due. Aggiungi la discordia che era tra questi generali dell’imperatore, l’ultimo de’ quali, caparbio di sua natura, non volendo star soggetto al Galasso, giunse persino a ritirare le sue truppe ch’erano a fronte del nemico, per non averle a congiungere con quelle di lui. Dure sconfitte toccarono entrambi allora, non consolate da parziali vantaggi, essendosi in ogni cosa mostrata ad essi avversa la fortuna. Nelle male acque in che costoro si ritrovarono, fu tratto in parte anche il Montecuccoli, che tenne il comando di una porzione delle truppe di Galasso: né invero avrebbe egli in peggior momento potuto incominciare questo secondo periodo della carriera sua militare.
Aveva la Svezia mosso guerra alla Danimarca per prevenire i danni che questa le minacciava con una diversione in favore dell’imperatore, al quale si era alleata. E perché contro di essa si volsero tosto le sorti della guerra, si trovò astretto l’imperatore a soccorrerla di un esercito suo, guidato da Galasso. Mentre però erasi quel generale avviato verso l’Holstein, ebbe a trovarsi minacciato alle spalle, avendo il generale Koenigsmark assalito Dresda. Fu allora che, come narrammo, venne da Galasso per la seconda volta spedito Raimondo in Sassonia. Le istruzioni dalle quali lo dicevamo accompagnato, portano la data del 5 di luglio 1644, dal quartier generale di Türgenmund, e furono da Vittorio Siri prodotte nel suo Mercurio. Con queste veniva posto Raimondo a disposizione dell’elettor di Sassonia, e deputato a comandare, come fece, le truppe in Franconia, se l’Hazfeld non potesse uscire in campagna: se poi sapesse Koenigsmark avviato verso il Weser, prenderebbe egli il comando altresì delle truppe che erano da quelle parti, e cercherebbe impedirgli l’ingresso in Franconia, nella Misnia o in Boemia: tenendogli poi dietro lungo il Weser, congiungerebbe le sue truppe a quelle del tenente maresciallo Gleen. Se divisasse invece di andare lo svedese nell’Holstein ad unirsi all’altro corpo di Torstensson, dovrebbe tornare Raimondo al campo di Galasso. Terminava la istruzione con queste, per lui onorevoli, parole: “Basti ch’egli sappia la sua volontà, perché egli (Galasso) riposi sopra la sua conosciuta diligenza e destrezza, conforme la quale saprà fare quanto conviene”. Ecco ora come di questa sua andata in Franconia tien parola Raimondo nella lettera che segue, diretta al principe Mattia de’ Medici:
Serenissimo Principe, mio signore e Pron. Col.mo
Fui mandato in Silesia a pigliare quei Reggimenti per condurli all’armata del Signor Tenente Generale, sì com’ho fatto, et al mio arrivo ho ritrovato clementissimo ordine di Sua Maestà che mi destina in Franconia al comando del corpo del signor Conte d’Hatzfeld, il quale è indisposto et absente, e mi è stata data la patente di Tenente Marischal di Campo, la qual carica dovrò anche esercitare appresso di lui in ogni caso ch’egli riacquisti la salute e si riconduca all’armata. Quest’honore è segnalatissimo, ma io vi preveggo però un’infinità di travagli, di pericoli e di fastidi, perché quelle truppe non son’ancora state rimontate, que’ Principi hanno diversi fini e vari oggetti, l’inimico è forte, il paese poco affezionato et occupazioni non mancheranno. Io farò tutto quello che potrò, e se si passerà cosa degna d’essere scritta, l’avviserò a V. A. serenissima, pigliando io hoggi cavalli di nolo, non vi sendo posta per andarmene giorno e notte.
Ho lasciato il signor Co. Galasso a Werben, dove farà gettare il ponte per scender poi lungo l’Albis a cercare Torstensohn, che dicesi essere tuttavia nell’Olsazia.
Et a V. A. Ser.ma riverentemente m’inchino.
Di presso Wittemberg, li 12 luglio 1644.
Di V. A. Ser.ma Umiliss.mo Devotiss.mo Servitore Raimondo Montecuccoli
Avendo poi presa Koenigsmark la via dell’Holstein, abbandonò Raimondo la Franconia, non senza aver riportato colà, al dire del Priorato, “diversi vantaggi sopra i nemici”, e s’avviò per raggiungere Galasso. A continui viaggi fu poscia astretto, di lui valendosi quel generale in ogni occorrenza; ed ora andava alla ricerca di rinforzi, ora a concertar diversioni, ed ora a comandare questo o quel corpo di truppe. E ancora del segretario di lui si era valso precedentemente il Galasso, poiché è noto come lo mandasse a Sweinfurt a sollecitare la spedizione di quattro reggimenti in Boemia (Lettera di Bolognesi del 17 agosto 1644). Ma questi erano stati dall’imperatore ordinati al soccorso degli spagnoli, e, checché in contrario avesse disposto il Galasso, dovevano partire, salvo casi di estrema necessità; così al Montecuccoli scriveva lo stesso imperatore, che a lui voleva anzi dare il comando di quella spedizione, e poi lo conferì invece al tenente maresciallo Gonzaga. E quando nuove istanze ebbe a fare il Galasso, confermava l’imperatore l’ordine dato, dicendo non sembrargli urgente il bisogno ch’egli avesse di quelle truppe: la quale inconsulta ostinazione dell’imperatore portò poi conseguenze funeste. Ma innanzi che andassero que’ reggimenti in Fiandra, il Montecuccoli, per intercessione del Galasso, perciò spedito a Vienna, ottenne almeno che facessero una punta nella Baviera invasa allora dai francesi. Severamente, come scriveva il Bolognesi, fu giudicato da molti codesto procedere dell’imperatore, pel quale si levavano al Montecuccoli le forze necessarie a procedere contro Koenigsmark. Un ordine imperiale del 7 di agosto lo rimandò poi al campo di Galasso, imperocché l’Hazfeld, del quale egli teneva il luogo, già rimessosi in salute, era giunto a Würzburg. Circa il qual particolare scriveva egli all’amico Bolognesi, che tanti viaggi venivangli a noia “e sono stracco di questi ordini che mi fanno cominciare tante cose senza finirne nessuna”; e seguitava dicendo: “V. S. illustrissima consideri, per grazia, li viaggi e le strade che ho fatto dopo ch’io sono all’armata, e poi potrà da per sé stessa imaginarsi quanti cavalli ho rovinati, e che spesa m’è bisognato fare, e s’io sono indebitato o no... le grazie della Corte mi costano salate, ma bisogna havere pazienza perché quest’anno ho fatto voto di ubbidienza. Se V. S. illustrissima vedesse li miei cavalli da bagaglio, li vedrebbe ridotti in pelle e in ossa più per farne anatomia che per marciare”. Parlava poscia di cavalli che un Bargelli gli doveva condur dall’Italia, e che non sapeva dove li troverebbe, meditando allora di far la strada di Norimberga, Egra, Dresda, per indi riunirsi a Galasso; “e se in tanti viaggi” soggiungeva poi, “non m’arriva qualche disgrazia sarà miracolo; perché nel venire ho havuto tre o quattro volte le partite del nemico qui addosso, et hora l’armata è ancor più lontana” (Lettera del 13 di agosto, senza luogo, edita dal Foscolo). E a queste fatiche si aggiunse l’incarico di mandare all’imperatore lunghe relazioni sulle cose della guerra. Scrisse poscia di essere stato all’esercito di Galasso; ma la lettera per la quale lo annunziava al Bolognesi, pubblicata pur essa dal Foscolo, che porta la data del 14 di settembre 1644, ce lo mostra allora a Norimberga. Di molto valore per la biografia di Raimondo è codesta lettera, intorno la quale stimiamo perciò doversi estendere alquanto. Scherza egli da prima su di un tale che lo diceva troppo giovane ancora per gli offici elevati della milizia; ed egli invece dichiarava che gli doleva di non esserlo ancora di più, e che se avesse potuto scemarsi gli anni per accrescerli a lui, volentieri lo avrebbe fatto. Aveva allora trentacinque anni, sei mesi e quattordici giorni, laddove Koenigsmark non ne contava che trentaquattro, Turenna trentatré, Torstensson trentanove. S’augurava almeno che egual sentenza recassero di lui le dame, “ma al contrario elle mi dicono che comincio ad invecchiare”. Il Marino a colui che misurava la grandezza del sapere dalla grandezza della barba fece questa obbiezione:
Chi dirà che un castrone
Non poss’esser Platone?
Seguitava poscia ricordando i diciott’anni già passati nell’esercito, “e in diciott’anni chi non ha imparato il mestiere difficilmente l’impara più, essendo che il difetto dipenderebbe dal cervello. Se avessi voluto lasciar fare il mio avanzamento solamente dal corso degli anni, non saria stato di bisogno che io mi fossi faticato con una curiosità particolare. Li viaggi ch’altri sogliono fare in quindici e venti giorni, io gli ho sempre compiti in otto o in dieci. La notte ch’altri suol dormire intera, io (per uso sin da fanciullo, che poi s’è convertito in habito) non la dormo mai se non la metà. Li denari ch’altri hanno accumulati per viver comodi, io gli ho spesi per acquistare la benevolenza de’ soldati, per guadagnar la notizia delle cose, e per imparare quell’arti che sono subordinate alla militare. Le hore che altri consumano nel giuoco et in altri divertimenti io le ho impiegate nella speculazione e dell’esercizio del mestiere”. Detto poi che le occasioni non lo avevano trovato impreparato, ma le aveva egli stesso ricercate, finiva col dire: “Queste son quelle cose che abbreviano l’arte, che di per sé è lunga, e che possono far vecchio una persona di pochi anni”. Da una lettera che il 3 di settembre il Bolognesi scriveva al duca, ci vien poi saputo, che il generale che aveva mosso obbiezioni sull’età di Raimondo, era lo Slick, il quale si lagnò, come dicemmo, all’imperatore perché maggior grado fosse stato concesso a Raimondo, e gli fosse dato il comando di un corpo d’esercito; il che diceva non potere che spiacere ai più vecchi, e singolarmente all’Hazfeld, il quale infatti da più indizii argomentammo non fosse amico a Raimondo . A quest’ultimo scriveva invece il Piccolomini, meravigliarsi fosse egli entrato in campagna prima di avere ottenuto accrescimento di grado. Le amarezze intanto incontrate da Raimondo per opera de’ vecchi generali austriaci, inducevano il Bolognesi a consigliargli di lasciare il servigio imperiale e di ritornare in patria, ove il duca pur sempre lo desiderava ; ed il medesimo consiglio ebbe nel novembre dal marchese Francesco per cagione della mala piega che avevano presa le cose della guerra. Ma egli che sentivasi chiamato ad oscurare la gloria degli Slick e degli Hazfeld, non lasciò rimoversi dagli ostacoli che avrebbe potuto incontrare in quella via per cui doveva giungere ai primi onori ed a fama immortale.
Nel campo di Galasso, poiché vi fu ritornato Raimondo, un raggio di speranza sembrò balenare un istante: con abili mosse, alle quali può ben credersi non fosse egli estraneo, era riescito agli imperiali ed ai danesi di chiudere nella Jutlandia gli svedesi in luoghi paludosi, intorno ai quali stavano essi in aspettazione che, ridotti a mal partito dalle infermità e dal difetto dei viveri, avessero a capitolare senza combattere. Di ciò così credevasi sicuro Galasso, che scrisse all’imperatore, tenere la volpe (cioè Torstensson) nella rete. Se non che gli svedesi, postisi all’opra per colmar con fascine uno stagno, lavorandovi lo stesso generale e sua moglie, e riesciti nell’impresa, per quel varco scamparono, e presero i quartieri nel Lauenburg, mentre pe’ disagi patiti da’ suoi e per diserzioni vedeva Galasso di dì in dì sminuirglisi l’esercito. Mancavagli il denaro altresì; ond’è ch’e’ proponesse all’imperatore, che pur esso trovavasi al verde, di procacciarsene, secondo narra il Siri, vendendo Gorizia ai Borghesi di Roma; ma ricusò quel popolo di ubbidire a feudatarii.
La perigliosa condizione in che, diviso dalle altre truppe imperiali, si trovava allora Galasso, non poteva sfuggir ad un capitano così accorto com’era Torstensson. Non mancò egli pertanto di piombare sopra di lui, e lo respinse lungo l’Elba fino a Bernburg. Da questa città Raimondo, che era con lui, scriveva il 21 di ottobre: “qui siamo accampati il nemico e noi l’uno contro l’altro, e seguono occasioni di piccole partite”. Velavano senz’altro quelle scaramuccie il passaggio della Sala che il generale svedese stava facendo, e pel quale tolse a Galasso la ritirata per la Boemia e per la Sassonia; ond’è che a stento, dopo veduto cadersi intorno molti de’ suoi sfiniti dalla fame e dalle fatiche, questi poté riparare coi laceri avanzi dell’esercito a Magdeburg, ove, come diremo fra breve, patì poi gli ultimi danni. Non vollero per altro Montecuccoli, Bassompierre, Brouey ed Echenfort, generali suoi, cedere sotto il peso di così grande sciagura senza tentare di aprirsi, col ferro alla mano, la via allo scampo; e postisi, coll’approvazione di Galasso che mancava di viveri per alimentare la gente loro, a capo di alcune squadre di cavalleria, forzarono le linee nemiche. Una parte soltanto di quegli uomini giunse a riunirsi ad Hazfeld, molti di loro essendo periti nel conflitto cogli svedesi che il 25 di novembre ebbe luogo a Niemeck presso Jütterbock, ove l’Echenfort rimase prigioniero. A questa memorabile ritirata di una porzione della cavalleria forse riferir si potrebbe ciò che ne’ suoi Aforismi racconta il Montecuccoli d’una imboscata in che una parte de’ fuggitivi trasse un corpo di svedesi. “Così (sono le parole di Raimondo, ove tratta delle imboscate) a Gutterbach furono ricevuti gli svedesi che inseguivano la nostra cavalleria, la quale si ritirava a Madenstringh l’anno 1644” . Checché ne sia di ciò, tra gli squadroni di cavalleria che senza perdita di ufficiali e di soldati pervennero a toccare la Lusazia, vi furono quelli a capo de’ quali era il Montecuccoli. Fu egli tosto di poi incaricato di prendere accordi coll’Hazfeld in Sassonia, d’onde passò il 16 di dicembre a Lintz, chiamatovi dall’imperatore che gli commise di stendere una relazione dei fatti di quella disastrosa guerra . La compilò egli infatti colà, e in parte forse nel suo castello di Hohenegg, ove chiamò l’amico Bolognesi per intender notizie degli affari suoi particolari; e forse fu per consiglio di lui che fece egli, poco di poi, una corsa a Gratz per tentare di conseguire il pagamento di una parte della donazione, fattagli, siccome accennammo, dall’imperatore. Scrivendo appunto allora il duca di Modena al Bolognesi, facea parola della pena che gli procacciava il mancargli da gran tempo le lettere di Raimondo, e lui incaricava di mandargliene sinceri ragguagli. Ma Raimondo compì egli stesso quell’officio, e il duca, rispondendogli, dicesi lieto che “da così pericoloso incontro sia uscito non solamente con salute, ma con vantaggio di riputazione, e che da S. M. venga adoperato in maneggi di tanta importanza”. In altra lettera al Bolognesi, del febbraio dell’anno seguente, si rallegrava che il viaggio di Gratz fosse tornato di utilità agli interessi particolari di Raimondo, cosa mirabile nelle circostanze d’allora. Chiedeva poi se speranza vi fosse di averlo presto a Modena. La relazione di che dicevamo, la quale probabilmente si conserverà ancora negli archivi di Vienna, sarebbe desiderabile venisse divulgata per le stampe, ché senza fallo spargerebbe nuova luce sull’istoria di quel periodo della guerra de’ trent’anni.
Ne’ consigli militari allora tenuti per avvisare al modo di recar soccorso a Galasso ne’ terribili frangenti nei quali si ritrovava, l’Hazfeld che nell’animo suo, secondo che narrammo e come il Bolognesi affermava, era avverso a quell’infelice generale, per mezzo di un Loradeschi da lui a tal uopo spedito presso l’imperatore, dava opera a ciò nulla in pro di lui si facesse, pretestando che le truppe mandate a quella volta avrebbero corso certo pericolo. Il Montecuccoli invece, ch’ebbe sempre caro quell’egregio italiano, con grande fermezza si adoperò a tor di mezzo ogni ostacolo allo scampo di lui, e indusse finalmente l’imperatore a promettergli che a ciò sarebbesi provveduto. Pertanto a tale effetto nel gennaio del nuovo anno 1645 lo stesso Raimondo fu spedito a Monaco, dove con abili trattative che gli procacciaron nome di valente diplomatico, ottenne che l’elettor di Baviera, quantunque a mal partito fosse egli stesso ridotto dai francesi, promettesse di sovvenire di tre mila cavalli e di due mila fanti l’imperatore; e un incarico simigliante aveva egli pel duca di Lorena, cui ignoro s’ei potesse eseguire. Con truppe bavare andò senz’altro nel successivo mese il Montecuccoli alla volta di Magdeburg, benché l’essere gli svedesi in Boemia dovesse rendere troppo difficile una tale impresa, che in effetto non riescì. Una lettera del Bolognesi accenna infatti alla voce corsa per Vienna, che la gente mandata in soccorso di Galasso fosse stata battuta, e vi rimanesse ferito Raimondo. Ma non altro intorno a questo mi fu dato scoprire. Di una ferita toccata a Raimondo, o allora o nel precedente anno, giunse notizia anche a Modena; ond’è che Massimiliano, fratello di lui, e il marchese Francesco ne chiedessero informazione al Bolognesi, al quale più volte in quel tempo manifestarono l’angustia della famiglia pei pericoli che in quella guerra ei correva. Della ferita riportata da Raimondo nel 1645 tiene parola anche il biografo Huissen, ma potrebbe darsi che questa sventura gl’incontrasse in altra battaglia. Il Bolognesi, scrivendo di una sollevazione che stava per scoppiare in Praga, soggiungeva tornati per ciò opportuni i soldati bavaresi che Raimondo aveva ottenuto di condurre con sé. In quella città andò certamente il Montecuccoli, d’onde scriveva una lettera il 27 di dicembre del 1644 al duca di Sagan, che è nella collezione di Giuseppe Campori. Non venne fatto a Raimondo di soccorrere Galasso, il quale, dopo tentato inutilmente di aprirsi colle armi alla mano la strada di mezzo ai nemici, vide l’esercito suo andar quasi interamente distrutto presso Magdeburg; giunse poi egli a mettersi in salvo e passare al campo di Hazfeld con una porzione delle truppe ch’erano colà e in Wittemberg, città che teneva pel partito imperiale. La Danimarca, così abbandonata da’ suoi alleati, non guari andò che a duri patti far dovesse la pace cogli svedesi. Da questa rovina dell’esercito di Galasso traeva argomento lo Schiller nella sua storia a recare intorno a lui un giudicio più che eccessivo, ingiusto, dicendolo “rimasto colla riputazione di essere il generale più idoneo a mandare in rovina un esercito” . Non fu certamente questa supposta insufficienza sua che dagli infimi gradi della milizia lo trasse ai più elevati, e che in più battaglie lo fece uscir vincitore. Né a capo di gente per difetto di viveri e pei disagi patiti resa impotente a difendersi, non che ad offendere, altra sorte invero incontrar poteva se non quella che a lui toccò; la quale men trista, se non altro, gli fu resa dall’animoso procedere di quella parte della sua cavalleria che dai suoi generali a traverso gli eserciti nemici fu tratta a salvamento.
Che a Galasso non venissero attribuiti dall’imperatore i disastri che incolsero quelle sventurate soldatesche, lo possiamo ritrarre dagli incarichi gravissimi che, come siamo per dire, gli vennero affidati, dopo che con acconcia scrittura ebbe egli posto in chiaro come fossero le cose procedute: il che narrammo aver fatto altresì il Montecuccoli. Ma al primo suo giungere in Boemia aveva l’imperatore dato il comando delle truppe, che qua e là aveva raccolte, all’Hazfeld nemico suo “con molto gusto dei tedeschi”, dice il Priorato, “l’emulazione de’ quali al nome italiano aveva cagionato quella risolutione”. E noi dicemmo già, come all’epoca della morte di Wallenstein maggior vigore avesse preso questo malvolere degli alemanni verso gl’italiani, che numerosi e in gradi elevati militavano nelle truppe imperiali. Ma l’Hazfeld, secondo che dovremo raccontare, non altro seppe fare, se non lasciarsi battere a Iancowitz.
Dalla mala condizione in che allora l’impero si ritrovava, traeva argomento il duca di Modena per rinnovare a Raimondo, valendosi del Bolognesi, il consiglio di levarsi dal servigio cesareo. Dicevagli al tempo medesimo della meraviglia che gli aveva destato il buon esito de’ consigli e de’ negoziati di lui alla corte imperiale e in Baviera, mentre eragli nota “la cattiva opinione che a quel tempo s’aveva alla corte di Vienna di tutti gl’italiani”. Stimava poi gran ventura non si fosse trovato presente Raimondo al disastro di Magdeburgo, “perché, animoso com’era, non avrebbe mancato di perdersi”. Tornasse egli adunque in patria, “perché quello non era successo un giorno, poteva succedere quell’altro andando le cose di male in peggio”. Fosse poi egli per acquistare i più alti gradi, ciò non lo salverebbe dall’essere involto nei disastri dell’esercito imperiale (lettera del 17 marzo 1645). V’hanno anime però così virilmente temprate, e tale era quella di Raimondo, che dalle sventure di una causa alla quale si dedicarono, sembrano prendere nuovo vigore; di guisa che agli oltraggi della fortuna oppongono il petto, pronti a qualsia sacrificio, pur di non venir meno al debito loro. E fu da cotali sentimenti guidato Raimondo allorché, scrivendo al Bolognesi, dicevagli che, “quantunque avrebbe amato godersi la patria e adoperarsi in servigio del principe suo”, non poteva tuttavia accogliere il consiglio di lasciare allora il servigio imperiale. Accettava egli invece l’incarico a quel tempo affidatogli di un comando militare in Slesia, benché, al dire del Bolognesi, non fosse allora in quelle parti “né gente né fortuna”. Ma doveroso ei riteneva l’adoperarsi a secondare il desiderio della corte che lo amava, come lo stesso diplomatico scriveva, il quale aggiungeva altresì, che la morte di Golz, capo di un esercito della lega, e la prigionia di Hazfeld (presto per altro cessata) che avevano perduto il 24 di febbraio in Boemia la battaglia di Iankowitz (o Iankaw come scrivono Mailàth e Menzel, il qual ultimo disse essere stata quella battaglia la più gloriosa tra le molte vinte da Torstensson) lasciando morti duemila austro-bavari, ed altri tremila di loro prigionieri di guerra , aprivano l’adito agli altri generali, e a lui singolarmente, di ascendere a maggior dignità. Raimondo veniva intanto nominato consigliere effettivo di guerra (Bolognesi, lettera del 25 di febbraio 1645).
Innanzi di partire da Vienna erasi egli colà occupato, secondo si ha da una lettera di Francesco Mantovani agente estense in Roma, di alcune pratiche, che il Bolognesi disse poi ben avviate, per ottenere il vescovado di Vienna al cardinal d’Este, le quali fece esso proseguire da un domenicano amico suo. Ancora a questo luogo è da far menzione di una lettera del marchese Massimiliano Montecuccoli del 31 di marzo, nella quale gli annunziava venire a militare sotto di lui un figlio di Giulio suo fratello, già per noi ricordato, il quale nomavasi pur esso Raimondo, e da tre anni prendeva parte alle guerre di Fiandra. Di codesto giovane ci è narrato dal carteggio del Torresini, agente di Guastalla a Vienna che colà trattava affari anche pel duca di Modena, come vi giungesse in mala condizione, dopo essere stato svaligiato durante il viaggio. Se lo tenne amorevolmente per quindici giorni in casa quel diplomatico, per dargli agio a provvedersi dell’occorrente, e lo diceva “cavaliere di parti veramente amabilissime”. Un altro nipote di quel Massimiliano, di nome Francesco, lo avrà forse raggiunto a Vienna, poiché di lui ci è noto, come, essendo paggio del duca Francesco I, chiedesse facoltà di militare in Germania, consueta scuola di guerra dei Montecuccoli. Il giorno appresso a quello in cui il duca di Modena scriveva l’ultima lettera della quale facevamo menzione, cioè il 18 di marzo, gli mandava notizia il Bolognesi, trovarsi allora Raimondo a Praga, pervenutovi dalla parte di Linz. Da Praga l’imperatore, dopo la battaglia di Iancowitz, era fuggito a Vienna, colà lasciando Galasso, che riprese allora il comando delle truppe, e Colloredo, i quali dettero le armi ai cittadini, avvegnaché più allora non vi fosse esercito, secondo scriveva Raimondo, per impedire il passo o Torstensson. Questi invase infatti la Moravia, e giunse sino alle porte di Vienna, non trovando resistenza nei soldati imperiali, intenti più a saccheggiare che ad apprestar difese, secondo che il Bolognesi scriveva. Asserendo poi esso, trovarsi vuoto altresì l’erario imperiale, non si peritò di dire all’imperatore medesimo che quei predoni “quasi non han torto, non avendo né paghe, né viveri, né vesti”; nella qual sentenza convenne anche l’imperatore: il che riferendo egli al duca, aggiungeva, non senza esagerazioni: trovasi “l’imperatore in tali condizioni, che se volesse capitolare co’ svedesi, salvandosi la Stiria, è dubbio se accettassero”. Di denaro era poi tanta la scarsità alla corte che, se crediamo al diplomatico medesimo, all’imperatrice ne mancò per provvedersi il vitto (lettera del 14 di gennaio 1645). Poiché fu arrivato il Montecuccoli a Praga, tosto gli apparve lo stremo in che le truppe imperiali erano venute; e fece istanze per essere dispensato dall’andare nella Slesia, ove di soldati imperiali altri non v’erano che i dispersi e i fuggitivi: ma fu invano; e solo ebbe egli promessa dal Trautmannsdorf, che tre reggimenti di cavalleria non tarderebber guari a raggiungerlo . Si dette egli allora a raccogliere i soldati dispersi che poté ricondurre alle bandiere, e a rimettere in piedi le fortificazioni, siccome scriveva egli stesso da Vratislaw, lagnandosi ancora delle autorità civili che non gli venivano colla necessaria celerità in aiuto, benché un rescritto imperiale gli avesse conferito pieni poteri in quelle parti sulle cose della guerra (lettera del Bolognesi del 1° di aprile).
Dell’andata di Raimondo in Slesia, ove doveva tosto dar prova di tanta virtù militare, dice il Priorato che tornò opportunissima; perché, quantunque pochissima gente avesse seco, così bene nondimanco si adoperò, che impedir poté i progressi del nemico, alcuna volta lo batté, e diverse piazze riescì a togliergli di mano.
Faceva mestieri intanto provvedere alla salvezza di Brünn, capitale della Moravia, la sola città di quella provincia che non fosse caduta in mano di Torstensson, il quale in persona l’assediava. La difendeva il conte Souches, calvinista francese, il quale, come disertore dell’armata svedese, non avendo a sperar mercé dagli antichi commilitoni, da disperato sfidava ogni pericolo. Ma sarebbe egli stato finalmente astretto ad arrendersi per difetto di viveri e di munizioni, se il Montecuccoli, accorso colà, non lo avesse d’ogni cosa provveduto, valendosi, dice il Priorato, di un conte Wirm (Würms?) e di un capitano Ungher ai quali procurò modo d’introdursi nella città, che così fu salva, imperocché il Torstensson, aggravato da infermità, dové levare il campo dopo quattro mesi di assedio, in cui uomini e cavalli miseramente gli si consumarono.
Come poi venisse fatto a Raimondo di procurare a quegli ufficiali l’accesso in Brünn, ci vien narrato nell’opera intitolata: Scelte di azioni egregie operate in guerra da generali e da soldati italiani ec., dove si legge: aver posto il Montecuccoli in imboscata alquante truppe comandate da due colonnelli, nominati Bosue e Cappon (Capaun?), le quali, piombando sul campo svedese, dettero agio, per la confusione che ne sorse, a quegli ufficiali e a duecento dragoni d’introdursi nella città colle munizioni delle quali aveva difetto.
S’erano nel frattempo venute modificando le condizioni dei belligeranti. Le vittorie di Torstensson che avevano indotto la Danimarca alla pace, e la Sassonia a rinunziare per sempre, tenendosi neutrale, a combattere gli svedesi, non potevano oramai produrre gli effetti preveduti, senza il concorso di forze poderose. Sollecitati perciò i francesi a procedere innanzi, si rivolse il generale svedese al Rakoczi, principe di Transilvania sempre avverso agli imperiali, e lo indusse a raggiungerlo di persona con un esercito presso Vienna; ma poiché costui ebbe ottenuto dall’imperatore quanto bramava, e specialmente la restituzione di una parte almeno delle chiese de’ protestanti e de’ beni de’ suoi correligionarii, ed inoltre il dono di sette contee dell’Ungheria, fece coll’imperatore un trattato molto opportuno a cavar questo d’impaccio, quantunque altamente venisse a Roma disapprovato. Rakoczi, manifestato allora a Torstensson ciò che aveva promesso all’imperatore, disdisse l’alleanza e si ritirò .
Ad oppugnare il transilvano erano stati deputati Montecuccoli e Buchaim; del secondo de’ quali dice con frase triviale il Torresini da cui togliamo questa notizia, che l’intero vestito di lui meno valeva degli stivali del Montecuccoli. Il Torstensson allora, mancatigli que’ sussidii mercé i quali sperava mantenersi nelle pericolose posizioni da lui occupate, e sapendo inoltre che nuovi eserciti andavano riunendo Galasso, Montecuccoli ed altri generali, reputò prudente partito il ritirarsi, lasciando forti presidii in alcune piazze, ed anche a Krems presso Vienna. Parve che la fortuna volesse tornare alle bandiere degli alleati austro-bavari, quando, non guari dopo, Mercy e Jean de Werth il 5 di maggio 1645 vinsero una battaglia contro l’esercito di Turenna a Marienthal, o Mergentheim , coll’efficace concorso del Montecuccoli, secondo che in più scritture trovo notato: la quale sconfitta fu poi dai francesi, come siamo per dire, vendicata a Nordlingen. Un mese innanzi all’epoca della battaglia di Mergentheim, troviamo interrotta la corrispondenza del Bolognesi, del quale non ho veduto se non una lettera posteriore, del 16 di settembre cioè, quando lasciò egli l’ufficio di residente estense in Vienna. Giunto all’età di 65 anni, gli ultimi 16 de’ quali passati a Vienna, otteneva il riposo dovuto alle lunghe e proficue sue fatiche diplomatiche, pel quale insino dal 1639, e più volte in appresso, per mezzo del marchese Francesco Montecuccoli aveva mosso istanze. Onorato allora col nuovo grado di consiglier intimo di gabinetto (e già precedentemente aveva avuto il titolo di conte) si ritrasse alla nativa Correggio, caro al principe, al quale anche in quello scorcio del viver suo giovò, secondo poteva, coi sapienti consigli, che, richiesto, gli porse. Ci rimane poi una lettera a lui diretta, colla quale il cardinal d’Este, la cui promozione alla sacra porpora fu da lui validamente promossa, lo ringraziava delle relazioni delle cose di Germania, e delle notizie di colà che da Correggio gli mandava. Dovette senza più riescir grave a Raimondo il distaccarsi da un amico nel quale tutta la sua fiducia, anche per le cose della privata sua economia, aveva egli riposto: né io so poi se uguale amicizia stringesse con chi ne tenne per qualche tempo le veci, che fu G. B. Torresini, ministro residente di Guastalla a Vienna, da noi già nominato, il quale altre notizie sarà per somministrarci intorno alla carriera militare di lui da quell’anno 1645 insino al 1649. La prima lettera sua, che è del 24 di giugno, mentre era ancora il Bolognesi in Vienna, avvisa che Raimondo dieci giorni innanzi era passato per Praga con duemila cavalli, preceduto da quattro suoi reggimenti, avviati tutti ad una rassegna che delle forze imperiali in quelle parti doveva farsi a Budweis: e in tal circostanza egli fu ancora a Vienna, come lo stesso diplomatico scrisse. Dopo la rivista, invece di volger a Krems e Brünn, come da prima erasi divisato, ebbe egli ordine di prendere la via di Neuhaus in Ungheria, nel qual paese onorata memoria di loro avevano lasciato altri di sua famiglia che nominammo. Il comando delle armi nella Slesia fu allora da lui ceduto al marchese Luigi Gonzaga.
Mentre ch’egli si tratteneva in Ungheria presso l’arciduca Leopoldo, il Turenna, ricevuti considerevoli rinforzi di truppe assiane e francesi condottegli dal Condé, e degli svedesi di Königsmark, riesciva, come dicevamo, il 5 di maggio a Nordlingen a prendersi la rivincita della rotta di Mergentheim. Una sanguinosa battaglia fu quella, nella quale con tremila de’ suoi rimase ucciso Mercy poc’anzi vincitore, e prigioniero con altri mille e trecento austro-bavari il general Gleen, che fu poi cambiato col maresciallo Grammont. Ma perché i francesi, che mille ottocento uomini avevano lasciati sul campo, non poterono giovarsi più oltre delle truppe degli alleati, destinate ad altre imprese, non ebbero poi modo di ritrarre da quella vittoria i vantaggi che ne speravano, avendo anzi dovuto, siccome diremo, ritirarsi al Reno nel successivo settembre . Ma in non men trista condizione, specialmente per difetto di denari, trovavasi l’imperatore, che spedì allora in Italia il Leslie acciò vedesse di procacciargli alcun sussidio dai principi italiani, dal papa singolarmente, del quale si avevano precedenti promesse: e presso di lui, non so con qual esito, il Leslie interpose l’opera del cardinal d’Este.
Il 5 di agosto scriveva il Torresini, trovarsi l’arciduca Leopoldo con Montecuccoli e Buchaim ad un castello del conte Palphi, nomato Trompe; e là per avventura pervenne a Raimondo la chiave d’oro di cameriere effettivo (ciambellano), conferitagli dall’imperatore a testimonianza di benevolenza, con ingiunzione di rimanere presso l’arciduca (lettere del Torresini del 5 e del 12 di agosto 1645). Nelle circostanze in che allora versava, intempestivo giungeva a Raimondo un reiterato e premuroso invito del duca di Modena che, prevedendo prossimo un conflitto cogli spagnuoli del milanese, voleva averlo presso di sé, e lo pregava ancora a condurgli quanti più soldati potesse arrolare. Ma il Montecuccoli né poteva in quel momento abbandonare l’esercito, avendone ricevuto espresso divieto dall’arciduca, al quale riferì il desiderio del suo sovrano; né aveva egli modo di raccoglier gente da mandare in Italia, imperocché le lunghe guerre, secondo scriveva, avevano esausto di uomini tutti i paesi. A scusarlo presso il duca valsero poi le lettere ad esso indirizzate dall’imperatore e dall’arciduca, con preghiera che conceder volesse a Raimondo di non lasciare l’esercito innanzi il termine della guerra. E a questo non poté rifiutarsi il duca, tanto più che intanto i timori di guerra in Italia si venivano a poco a poco dissipando. Dall’Ungheria era passato a Vienna l’arciduca all’aprirsi del settembre, e seco era colla cavalleria il Montecuccoli, come scrisse Torresini. E là, alla presenza dell’imperatore, ebbe luogo un consiglio militare, al quale intervenne l’arciduca con Galasso e con Raimondo. Fu proposto da prima che si tentasse di riprender Krems, ma poi si stimò più sano partito che le istanze dell’elettor di Baviera per aver sussidio di truppe imperiali s’avessero ad accogliere, affine di evitare che questi venisse ad una pace separata col nemico, secondo minacciava di fare. E fu a quest’uopo destinato l’esercito dell’arciduca, numeroso allora di quaranta mila uomini, che tosto dié opera a riacquistare le piazze occupate ancora dai francesi: il che senza troppa difficoltà venne eseguito. Il 26 di settembre giungevano colla cavalleria di Ratisbona il Galasso e il Montecuccoli per unirsi all’esercito bavaro, ed affrontare insieme i francesi di Turenna; i quali, troppo scarsi di forze, non aspettarono di essere assaliti per abbandonare le fatte conquiste. Con celere marcia si ritirarono essi, non senza perdita di uomini, di artiglierie e di fortezze, avendo alle spalle per ben ottanta miglia Galasso e Jean de Werth, finché non trovarono scampo in Philisbourg, già da altri di loro occupata.
Per cotal guisa in quell’anno posava la guerra, sfavorevole essendosi fatta in quelle parti la stagione; e prendevano le truppe i quartieri d’inverno. Otteneva allora il Galasso, se non quel riposo definitivo che la mal ferma salute gli consigliò di chiedere per ritirarsi a Trento sua patria, di venire tolto almeno ai campi di battaglia (ov’ebbe poi a ritornare), pasando intanto a far parte del consiglio aulico di guerra . Chiese Raimondo a sua volta di potersi recare a Modena durante i forzati riposi invernali; e poiché ciò gli venne concesso, stava egli attendendo per partire che il generale Lamboy, che doveva tenere il luogo di lui, giungesse dalla Fiandra: quando un nuovo incidente sopravvenne a tenerlo ancora in Germania. Al Torstensson, già glorioso per segnalate vittorie riportate, ed ora da un’ostinata infermità astretto a far ritorno in patria, era succeduto nel comando degli svedesi un altro de’ più animosi soldati della scuola di Gustavo Adolfo, cioè il generale Gustavo Wrangel; il quale, come Jean de Werth tra i bavari, aveva acquistato riputazione singolarmente combattendo come partigiano a capo di corpi speciali. Numeravano le truppe già guidate dal Torstensson ottomila cavalli e quindici mila fanti; e fece tosto disegno il Wrangel di congiungere a queste quelle ancora di Königsmark, nonché i francesi, da lui vivamente sollecitati a mantenere i patti convenuti che li obbligavano a militare in Germania. Tardarono però questi ultimi a tener l’invito, essendo geloso il Mazzarino della gloria e dell’autorità dagli svedesi con tante vittorie acquistate: ma si trovò pronto Königsmark a secondare il suo generale in capo.
Perniciose conseguenze dalla congiunzione delle forze del nemico prevedeva l’arciduca; onde si propose impedirla colle truppe sue proprie e con quelle della Baviera, che a lui a tal uopo dovevano unirsi. Scriveva pertanto Raimondo il 25 di dicembre al duca di Modena, che gli era stato revocato dall’arciduca il permesso di venire in Italia; il che ripetendo con altra lettera del 10 di gennaio 1646, aggiungeva essergli stato commesso il comando di tutta la cavalleria. Se non che, giunto l’esercito ad un paese dal Torresini indicato col nome di Khattavri, ove ebbe luogo un consiglio di guerra, le nevi cadute in abbondanza impedirono che più oltre si procedesse. Nulla potendosi fare per allora, ottenne finalmente Raimondo di poter partire per Modena, purché non rimanesse assente più che tre settimane. Agevole non sarà stato invero il compito ch’egli assumevasi, di traversare sì gran tratto di paese e le montagne in così rigida stagione: se non che a cotal genere di fatiche egli erasi avvezzato sino dalla prima giovinezza. Brevissimo fu questa volta il soggiorno di Raimondo in patria, essendoci noto che il 16 di marzo, reduce da Scandiano ov’era stato ad ossequiare il principe Borso, si disponeva alla partenza. Nel dì successivo scriveva una lettera all’amico Bolognesi, speditagli poi dal marchese Massimiliano quando già s’era egli posto in viaggio, colla quale accompagnava l’agente suo Pietro Ricci, da lui mandato a riprendere i mobili suoi, le argenterie e le gioie, che il Bolognesi aveva con sé portato a Correggio per porre quelle cose in sicuro dagli imminenti pericoli di guerra, come è detto in una lettera di Massimiliano, quando cioè si temettero, secondo narrammo, conflitti colla Spagna. Eseguì il Ricci l’incarico avuto, e quegli oggetti ch’erano proprietà di Raimondo, furono portati nel monastero di San Geminiano in Modena, e dati in custodia a suor Anna Beatrice, sorella di lui, come aveva egli disposto . Fu questo l’ultimo servigio dal Bolognesi renduto a Raimondo, imperocché nell’anno medesimo venne egli a morte in una sua villa presso Correggio, ove aveva preso dimora. Fu uomo di molta benemerenza, ed in una carta dell’archivio di stato è detto “il più grand’uomo ch’abbia colà (in Correggio) sortito i natali dopo l’incomparabile e primo pittore Antonio Allegri”. E invero la sua corrispondenza diplomatica che è nell’archivio di stato in Modena (e della quale è un sunto presso di me, ed uno più esteso fatto dal Gregori nella magnifica raccolta di manoscritti e di autografi del conte Giorgio Ferrari Moreni di Modena), lo mostra uomo peritissimo nelle discipline diplomatiche, e che seppe mantenersi in molta grazia della corte imperiale e dei ministri. Un attento studio di quel carteggio fornirebbe molti materiali a chi s’avvisasse di scrivere una storia aneddotica della monarchia imperiale al tempo suo, essendosi egli tenuto informato di quanto allora accadeva e nell’impero e fuori; nel che giovogli ancora, come altrove avvisammo, la conoscenza che aveva della lingua tedesca, della spagnola, nonché della latina e della francese. Di lui disse l’imperatore Ferdinando (come il Bolognesi stesso scriveva nel 1633 al suo principe), che era il più onorato italiano che avesse alla sua corte; e a dimostrazione di benevolenza lo nominava esso allora nobile dell’impero insieme co’ suoi discendenti. Delle comunicazioni che da Vienna egli mandava, scrivevagli il duca Francesco che gli erano care perché disappassionate, e perché facevano testimonianza della sua gran fede e prudenza: e seguitava in quella lettera, che è del 24 di novembre 1634 e fu scritta certamente dal Testi, reduce allora da Venezia, ponendo questa massima non sempre tenuta presente dal ministro che la vergava: “Non può far peggio un ministro che diventar parziale nelle fazioni, e appassionarsi negli interessi che non sono del suo principe”. Cadeva infatti in disgrazia l’anno medesimo quel valente ministro, perché nel duca Francesco I sorse il sospetto, che passando al servigio di altro principe, come credevasi volesse fare, non fosse per svelargli i segreti che gli erano stati comunicati. Ma non altro pare ch’egli cercasse, se non di andare a Roma in ufficio di segretario del protettorato di Francia, del quale allora procurava essere investito il cardinal Rinaldo d’Este, secondo narra per disteso il Siri, testimonio oculare e in parte auricolare, per usare le espressioni di lui, che di questi fatti ebbe relazione anche dallo stesso duca di Modena. Quest’ultimo, che lo aveva fatto imprigionare nella cittadella di Modena, si dice fosse sul punto di ridonarlo alla libertà, quando il 28 di agosto di quell’anno 1646, nell’età sua di 53 anni venne egli a morte . La stima del Testi verso Raimondo ci vien manifesta dalle lettere di lui, e dalla poesia che dicemmo avergli dedicata; la quale fu scritta nel 1643, e diretta contro il cardinal Barberini; onde non si comprende come qualcuno abbia potuto sospettar derivata da essa la disgrazia di lui, che altri, con non minore stranezza, andò a ricercare in qualche comunicazione fatta al duca da Raimondo, costante amico di lui e ammiratore de’ suoi talenti molteplici, ed inoltre troppo leal cavaliere perché s’abbia a credere che in danno di un amico si adoperasse. Non dal Montecuccoli, ma da una lettera del Testi caduta in mano del duca, secondo narra il Siri, ebbe questi cognizione del progetto del suo segretario di stato di passare al servigio di Francia in Roma; né forse si andrebbe lungi dal vero, pensando che la mitigazione dello sdegno del duca Francesco I, se veramente ebbe luogo, che fu scritto accadesse appunto allora che Raimondo trovavasi in Modena, a qualche buon ufficio di lui in favore dell’amico si avesse ad attribuire . La breve dimora di Raimondo in patria non gli consentì per avventura di occuparsi del feudo suo di Montecuccolo, benché non sia improbabile che dal suo podestà Manzieri gli fosse data comunicazione dell’istanza che appunto allora da lui venne inviata al duca, affinché si differisse il pagamento di certi debiti che avevano quegli uomini coll’erario ducale, essendo impotenti, come esso ne faceva fede, a soddisfarli, perché molte necessità li stringevano allora. Avevano essi inoltre cagion di reclamo circa la tassa del macinato, l’importo della quale a loro non si voleva computare, benché l’avessero pagato. Furono poi essi, nel dicembre di quell’anno, astretti a mandare a Modena con molto loro aggravio 27 uomini della milizia loro. A vero dire non ci resta documento alcuno che Raimondo si prendesse cura dell’avito feudo, e delle terre di Sassorosso e Burgone, pervenutegli alla morte del conte Girolamo, e, forse, amministrate dal podestà di Montecuccolo. Solo dall’archivio della sua famiglia potrebbesi intorno a ciò avere qualche ragguaglio.
Neppure poté vedere in Modena uno de’ suoi parenti con cui vi si trovò altra volta, vo’ dire Andrea conte di Renno, degli errori giovanili del quale e del fratello alcuna cosa toccammo nel principio di queste storie. Aveva esso militato, nel 1635 e nell’anno successivo, col duca Francesco I nella guerra di Piemonte, e fu con lui all’assedio di Valenza. Era passato poscia in Germania, come per noi fu detto, al seguito del principe Borso d’Este, e quindi in Fiandra coll’esercito che vi condusse il Piccolomini in soccorso degli spagnoli. Con questi ultimi entrato nella Sciampagna allorquando l’invasero nel 1643 durante la minorità di Luigi XIV, nella celebre battaglia di Rocroi, vinta su di loro dal Condé, rimase prigioniero di guerra, e fu condotto a Rouen. Invano essendosi adoperati insino allora in favor suo il duca di Modena e il cardinal d’Este, alla regina di Francia fu ad istanza loro raccomandato da Cristina duchessa di Savoia. Trovandosi tuttavia prigioniero il conte Andrea quando venne Raimondo a Modena, allora appunto, forse per preghiera di lui, riprese il duca a far pratiche per la liberazion sua; ed in effetto gli ottenne di poter venire nel maggio per quattro mesi a Modena, ove arrivò il giorno 15, due mesi dopo la partenza di Raimondo.
Ed ora, se ci fosse lecito investigare quanto sarà stato detto ne’ colloqui passati a quel tempo tra Raimondo e il duca Francesco I, non andremmo certamente lungi dal vero, traendo gl’indizii dai fatti anteriori e dai posteriori, se giudicheremo che nuovi tentativi avrà fatto il duca per indurlo ad abbandonare il servizio imperiale, e a porre stabile dimora in Modena. Certa cosa è infatti che a questo partito inclinò allora il Montecuccoli, come da una lettera sua si ritrae, nella quale, annunziando la sua partenza per la Germania, soggiungeva che avrebbe colà cercato modo di potere stabilmente venire al servigio del suo sovrano. Non gli avrà certo taciuto il duca i dissensi che da più tempo erano fra lui e i ministri che in Italia amministravano le provincie possedute dalla Spagna: e poco di poi aggiunse esca al fuoco la vertenza del cardinal d’Este coi ministri spagnoli che a lui, aspirante al protettorato dell’impero in Roma, fecero prevalere il cardinal Colonna; ond’è che accettasse egli invece quello della Francia, pel quale, come dicemmo, erano state pratiche in addietro. Provocazioni e risse furono allora in Roma fra gli uomini d’un ambasciatore straordinario di Spagna e le lance spezzate ed altra soldatesca che con alquanti cavalieri modenesi aveva mandato al cardinale per sua difesa il duca di Modena, affidandone il comando a Giambattista Montecuccoli, primogenito di quel marchese Francesco, del quale più volte avemmo a tener parola . Ad acquetar que’ romori, il Savelli, ambasciatore imperiale, interpose l’opera di monsignor Onofrio Campori, e il papa quella del marchese Fortunato Rangoni, cavallerizzo maggiore del duca di Modena; ma finalmente dovette il papa stesso assumersi di pacificare gli animi accesi de’ contendenti, la qual cosa il 3 di maggio gli venne fatto di conseguire .
La corte imperiale e quella di Spagna, da stretti vincoli di sangue congiunte, operavano allora negli affari politici di comune accordo tra loro; onde il duca, prevedendo di aversi a trovare tra non guari in conflitto cogli spagnoli, non poteva non desiderare che Raimondo abbandonasse il servigio imperiale, tanto più che gli era di suprema necessità l’averlo al suo fianco se a guerra veramente si avesse a venire. Checché ne sia di questo, non avendo allora Raimondo se non brevissimo il tempo del suo congedo, gli sarà stato mestieri differire a maggior agio ogni ulteriore risoluzione. Partiva egli pertanto circa il 18 di marzo da Modena, né mi è noto se in Vienna si fermasse, imperocché i ragguagli che intorno a lui ci porge il Torresini, non ricominciano se non col 20 di maggio.
Capitolo VI
Fine della guerra dei trent’anni
Mentre trovavasi Raimondo in Modena, l’arciduca teneva dietro a Wrangel, il quale celermente procedeva verso gli stati ereditarii di casa d’Austria, che aveva in animo d’invadere se gli venisse fatto di trarre Turenna a secondarlo, non ostante le note gelosie del Mazzarino. Al Montecuccoli intanto, al suo giungere dall’Italia, veniva affidato il comando della Slesia con facoltà di fare ciò che meglio tornasse opportuno a salvezza di quella provincia e della Boemia, entrando nel qual regno gli sarebbero sottoposte anche le truppe che colà si trovavano. Il Priorato, nella Vita di Ferdinando III, c’informa che con Raimondo era quel colonnello Capaun da noi nominato, da cui non guari dopo fu presa la città d’Igla, e che la prima terra di Slesia dove entrambi presero stanza, nomavasi Brix sull’Oder, ossia Brieg, come la disse il Torresini. Era già nella Slesia il general svedese Wittemberg con cinque o sei mila cavalli, con fanterie e 13 cannoni, e buone posizioni vi avea preso, in quelle aspettando altre truppe colle quali doveva proceder verso il Danubio. Un piccolo esercito si venne tosto formando Raimondo coi due reggimenti di cavalli datigli dall’arciduca, e colle genti che trasse dalla Boemia, e lo passò in rassegna a Braunau, sui confini della Slesia e della