Poemi (Esiodo)/Prefazione/La Teogonia
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Della Teogonia, i lettori moderni, e siano pur cultissimi, in genere conoscono la sola titanomachia, perché fu tradotta dal giovinetto Leopardi. E se qualcuno si cimenta a leggere per intero il poemetto, o in una versione, o nel testo, senza una attenzione e una preparazione speciali, facilmente può essere indotto a credere che quel brano sia l’unico veramente artistico e degno d’esser conosciuto; e il resto, zavorra.
Ma non è cosí. Molti e molti altri brani assurgono con ala sicura alla sfera della poesia. Se non che, sono sparpagliati qua e là; e fra l’uno e l’altro intercedono lunghi brani di aride e talora aridissime genealogie, che, intersecando il complesso per ogni verso, lo indeboliscono, lo mortificano, e, facendo perdere il filo ogni momento, impediscono una lettura continuata, e lasciano appunto l’impressione che la Teogonia sia la fredda compilazione d’un mestierante.
Impressione non priva di ogni fondamento, ma, anch’essa, sostanzialmente falsa. E il lettore che voglia sostituirla con un’altra piú esatta, deve sottoporsi a una duplice fatica. Prima, fare astrazione dai brani di schematiche genealogie (cosí all’ingrosso, dal brano 211-452, e da tutto quanto viene dopo il 669) e leggere di séguito i luoghi in cui si sviluppa qualche racconto, si disegnano immagini, si esprimono concetti. Vedrà allora come, dal farraginoso piú ampio poemetto ne sguscia uno piú breve, ma assai piú artistico, in cui tanti brani, che prima sembravano sporadici ed eterogenei, si richiamano l’un l’altro, con bella armonia, in un complesso coerente ed organico, che acquista valore dalle singole parti, e, di rimbalzo, pone ciascuna di quelle in una piú giusta luce.
Questo per la parte artistica. Ma se poi si intensifica lo studio sulla parte strettamente mitica, si vede che anche questa presenta un interesse assai grande, sebbene non artistico. Se non che, questo studio dev’essere analitico, minuzioso, paziente. È condizione imprescindibile; e chi non ci si sente disposto, può rinunciare a intendere il poemetto.
Seguendo il mio metodo, per intendere la Teogonia, comincerò senz’altro a studiar direttamente la Teogonia, senza tener conto, in un primo momento, delle opinioni dei dotti, molteplici e discordi su questo punto, come su ogni altro della letteratura greca.
Ma converrà tuttavia aver presenti alcuni risultati degli studi moderni sulla origine e l’essenza della mitologia, intorno ai quali sembra che non siano piú leciti dubbî ragionevoli.
Fra gli uomini, il concetto dei Numi è originato, come già osservava Aristotele (citato da Sesto Empirico), da ciò che avviene nel loro animo, e dai fenomeni meteorici. E, soggiungiamo, dallo spettacolo di ogni altro fenomeno della natura.
Del sole, in primo luogo, e delle sue varie parvenze, della luna, dei pianeti e delle stelle1.
Poi delle meteore meravigliose o terribili.
Poi, degli aspetti varii della terra e del mare. E s’intende che maggior appiglio alla fantasia davano quelli che in maniera piú definita cadevano sotto i sensi: i monti, per esempio, emergenti con sagome visibili da lungi e caratteristiche, e i fiumi, ai quali la perenne mobilità conferiva una vita miracolosa.
E le parvenze piú complesse e caratteristiche davano origine a piú fantasiosi sviluppi. Fu osservato come il Pelio, l’Ossa e l’Olimpo, apparendo, a chi giunge dal mare, come proiettati l’uno su l’altro, e sovrapposti, dessero origine al particolare dei monti che i Giganti avrebbero imposti l’uno all’altro per dare la scalata al cielo.
E gli esempii si possono moltiplicare. «In Arcadia — narra Pausania — non lungi dalle rovine di Nonacri, si spalanca un dirupo, il piú profondo di quanti ne abbia mai veduti. E dalle sue rocce stilla un’acqua dai Greci chiamata Stige. Quest’acqua, che dal dirupo giunge sino a Nonacri, cade prima su una rupe altissima, e di lí, permeando la pietra, si getta nel fiume Crati. Il suo corso è letale all’uomo e a qualsiasi altro animale: infrange il vetro, il cristallo, la porcellana, e ogni oggetto di pietra, ogni stoviglia, e il corno, l’osso, il ferro, il bronzo, il piombo, lo stagno, l’argento e l’ambra, tutto stempra quest’acqua, e così tutti gli altri metalli, e perfino l’oro» (VIII, 17-18). — Questa fonte esiste ancóra, o, per lo meno, esisteva ai tempi in cui l’Ampère componeva il suo bellissimo e sempre utilissimo libretto sulla poesia greca in Grecia. «Nessuno, dice l’Ampère, osava accostarsi a quell’acqua, incriminata delle qualità piú funeste». — Nessun dubbio, mi sembra, che quest’orrido paesaggio reale fosse il germe dello Stige favoleggiato dai Greci giú nell’Averno. E mi sembra che così intendesse anche Pausania: tanto la cosa era evidente2.
E cosí, vicino ad Atene, sulla via dalla Pnice al Pireo, si vede una roccia che ha l’aspetto d’una vecchia seduta. Il Dodwell (Travels, I, 309 sg.) pensò, e mi sembra non ci sia da apporre, che questa singolare parvenza desse origine alla leggenda d’Aglauro, la fanciulla trasformata in pietra. Analogamente, sul monte Sípilo, una roccia di forma umana, dalla quale anche stillavano gocce perenni, diede origine al mito di Niobe, che esprime cosí mirabilmente l’impietrarsi dell’anima per un profondo dolore. Sofocle lo ricorda in una strofe, nella quale s’intrecciano e fondono stupendamente il dato naturale e lo sviluppo fantastico (Antigone, 823).
So che a morte miserrima soggiacque |
Naturalmente, gli aeròliti, dei quali rimaneva la memoria che erano caduti dal cielo, divenivano germi di piú fantasiose leggende. In quello caduto presso a Pito, che ai tempi di Pausania era ancora adorato, e unto d’olio, e nei giorni festivi ricoperto di lana (X, 24), si vede una creatura vomitata del cielo (Urano) sulla terra, madre di quella come di ogni altra pietra. E non c’è punto bisogno di ricorrere, col Flach (note alla Teogonia), al Moloch dei Fenici: l’origine fisica offre una soddisfacente spiegazione della favola di Urano divoratore e poi rivomitatore dei figli; la quale, divelta dalle sue basi, non offre alcun ragionevole significato.
Altra inesauribile fonte di creature mitologiche è il regno animale. Quasi ogni creatura semovente sembra agli uomini primitivi ciò che dovrebbe sembrare anche a noi, se non la vedessimo con occhi resi stanchi — e, in ultima analisi, ciechi — dall’abitudine: una meraviglia soprannaturale, una creatura demoniaca. Naturalmente, la creatura piú misteriosa è l’uomo; ma perché l’uomo arrivi a meravigliarsi di sé stesso, occorre che impari a ripiegarsi sulla propria coscienza. Prima d’avere assunto questo atteggiamento spirituale, la propria vita gli sembra, come ad ogni bruto, cosa semplice e naturalissima; e strana quella delle altre creature, e meravigliosa; e perciò la concepisce come soprannaturale e demoniaca.
Naturalmente, le creature che prima e piú s’impongono alla sua fantasia sono quelle piú immani, orride, capaci di nuocere: dunque le belve, e tutti i mostri della terra e del mare. Poi, piú o meno, tutti gli altri animali. I quali, se presso taluni popoli, come gli Egiziani, seguitano ad avere una parte preponderante, e ad occupare alti posti nella gerarchia dei Numi, in quasi tutte le religioni lasciano però qualche traccia. Ricordiamo, nel mondo greco, i famosi dèmoni a testa d’asino che si vedono su una notissima pittura murale di Micene, e la Demétra mélaina a testa equina, adorata a Figalia (Paus., 8, 42, 4), il cui tipo persiste nel gruppo statuario di Damophon (Paus., 8, 37, 3-4). Ma soprattutto è significativo il fatto che ad ogni Nume è attribuito quasi emblema un animale. A Giove l’aquila, ad Atena la civetta, ad Apollo lo sparviero. Ispettori e pregustatori, dice scherzosamente Aristofane, delle offerte fatte ai Numi: di fatto sono antiche divinità, che, sopraggiunte le nuove, rimangono al loro fianco, per un processo di sincretismo che oramai non ha piú bisogno d’essere dimostrato.
E via via, pei gradi della scala zoologica, si discende sino agli insetti. Sembra sicuro che le famose Arpie non siano altro che le cavallette. Quando i terribili insetti, nell’etèrea vibrazione incandescente d’un meriggio greco, che le ingigantiva, tutte auree sotto il folgorio dei raggi del sole, piombavano sopra un campo, a sterminio, esse dovevano realmente sembrare alle fervide fantasie dei Greci primitivi paurose e terribili schiere di dèmoni infesti3, contro i quali non esisteva nemico efficace, tranne un fiero vento che le trasportasse lontano. E in Apollonio Rodio vediamo che solo valgono a metterle in fuga Calai e Zeto, i due figli di Borea. E qualche espressione del poeta, forse ispirata a dati tradizionali, sembrerebbe comprovare questa origine del mito4.
E accanto al mondo animale bisogna ricordare il mondo vegetale. Gli alberi, in un primo luogo, il cui culto ebbe diffusione ed eccezionale importanza nei tempi antichissimi5, e mai non sparí, neanche nei tempi classici6. E poi tutte le altre piante, a cominciare dai fiori piú appariscenti (favole di Adone, Narcisso, etc).
Ora, in questa fioritura mitologica, sia degli animali, sia delle piante, bisogna distinguere due momenti. Il primo, in cui si identifica la creatura stessa con l’oggetto del culto: il serpente è adorato some serpente, l’aquila come aquila, il corvo come corvo (numerosi esempî se ne trovano nella religione egiziana). E cosí, la quercia è adorata come quercia (tipica quella di Dodona), e il frassino è rimasto frassino (Teogonia, 187). Ma in un secondo momento, dentro alla pelle del bruto, o sotto l’immota corteccia dell’albero, l’uomo sente una creatura nascosta che gli dà vita, e che pel solo fatto di essere misteriosa gli sembra superiore alla natura umana, demoniaca. Cosí, non si ebbe piú il Dèmone quercia, bensì il Dèmone (la Ninfa) della quercia, la Dríade.
Giunti a questa concezione, del Dèmone interno animatore, facile era la moltiplicazione. E ogni aspetto della natura ebbe il suo Dèmone. Ond’ecco le Ninfe del mare, dei laghi, dei fiumi, delle selve, dei boschi, delle valli, e poi di ogni regione. E, via via, nasce una specie di frenesia della moltiplicazione, e per ogni piú piccola variazione nella vita o nell’aspetto dei fenomeni, si crea un Nume speciale. Per avere un’idea del tipo e della copia di Dèmoni che germinano da questo processo, basta dare un’occhiata ai Numi degli Indigitamenta, ricordati da Varrone. Per la sola coltivazione del grano esistevano Seia, che tutela il seme finché rimane sotto le zolle, Proserpina, che apre le prime tenere gemme ai baci dell’aria, Nodotus, che rigonfia i nodi dei calami, Volutina, che svolge le pannocchie ancora chiuse, Patelena, che libera i chicchi dalle glume, Lacturnus, che li cura mentre sono ancor lattescenti, Matuta che conduce le spighe all’ultima maturazione. Si pensi ad un processo di questo genere che investa tutte le parvenze del creato, e si vedrà a che cifra si arriva.
Ed eccoci alla seconda fase, così genialmente intuita da Aristotele. Dopo la contemplazione del mondo, l’uomo si ripiega su sé stesso, esamina il mistero del proprio essere fisiologico, quindi il gorgo anche piú oscuro dello spirito. E poi che tutto gli sfugge del meccanismo della vita, di cui pur sono chiari e meravigliosi gli effetti, egli per ciascuno di questi effetti postula una causa, in forma di Dèmone. Ond’ecco i Dèmoni degli stati fisiologici, il Sonno (Ὕπνος), per esempio. la concupiscenza erotica (Ὀρθάνη), la Morte (Θάνατος). E quelli degli stati patologici: la Febbre (Πυρετός: cfr. la Dea Febris dei Latini), l’Ubriachezza (Μήθη)7. E dalla fisiologia passando alla psicologia, ecco i Dèmoni delle varie affezioni dello spirito. Ecco il Dèmone della Giocondità (Ἰλάων), ecco l’Ira (Μῆνις), l’Invidia (Ζῆλος), la Speranza (Ἐλπίς). E poi la Verecondia (Αἰδώ), e la Svergognatezza (Ἀναιδείη), e l’Avidità (Κέρδος)7. E poi, connessi con gli assetti sociali, ecco altri Dèmoni di astrazioni etiche: la Giustizia, l’Ingiustizia, la Speranza. E la lista si potrebbe allungare8. Oltre a questi, fiorí poi tutta un’altra numerosissima schiera di demonietti, o protettori di attività umane, oppure maligni e persecutori. Ai primi appartenevano, per esempio, l’Eúnostos, che, a dire d’Eustazio (1885, 26), proteggeva i mulini, e l’Opàon che proteggeva le vigne; o il demonietto che in una tavoletta di terra cotta di Corinto9 manifestamente tutela una fornace. Fra i maligni si possono ricordare i cinque famosi ricordati ne «La fornace» attribuita ad Omero: Syntrips, Smàragos, Àsbetos, Sabàctes, Omòdamos: nomi tutti che significano assai trasparentemente i varii incidenti che possono mandare a male le stoviglie, mentre stanno cuocendo. Oppure, il famoso Tarassippo, che faceva spaventare i cavalli. E anche qui se ne potrebbero aggiungere molti altri. Una gran quantità se ne trovano raccolti e discussi in un’opera oramai classica, dell’Usener (Götternamen).
Ora, chi non conosca abbastanza la poesia, l’arte e tutte le sopravvissute testimonianze dell’antichissimo mondo greco, facilmente potrebbe essere indotto a credere che tutte queste creature fossero in realtà nomi vani, ai quali non corrispondesse alcuna concreta immagine nella fantasia di chi li pronunciava.
Ma non è cosí. E su questi demonietti comincia ad esercitarsi quel processo di antropomorfizzazione, che veniva poi cosí argutamente caratterizzato da Senofane:
Ora, se avessero mani i bovi, i cavalli, i leoni,
da pingere, e sbrigare, degli uomini al par, le faccende,
anche dei loro Dèi pingerebbero i volti e le forme,
i buoi simili a quelli dei buoi, dei cavalli i cavalli,
simili a come avesse ciascuno di lor le sembianza.
Tutti questi demonietti furono cosí concepiti sotto forme umane. E altrettanto avvenne, anche piú stranamente, per quelli dedotti dagli animali e dalle piante. Ed anche per le astrazioni. E l’arte si industria a dare visibile espressione alle piú o meno ibride concezioni. E accanto, per esempio, alle Arpie, concepite in forma metà umana e metà ferina, troviamo una quantità di piccole creaturine falliche, che con poca differenza incarnano i varii demonietti protettori o persecutori delle attività umane; e, siano pur meno numerose, altre figure che rappresentano questa o quella astrazione.
E c’è ancora un’altra fonte di miti, e copiosissima: la storia primitiva: ossia la memoria delle antiche vicende, già esagerate nei racconti di chi le aveva vissute, e poi ingigantite e deformate in mille modi nelle ripetizioni dei posteri. Attraverso a queste deformazioni, le figure della storia a mano a mano perdono la solidità primitiva, e si confondono con le figure piú evanescenti prodotte dagli altri processi mitici. E, mentre da un lato accrescono il materiale mitologico, dall’altro concorrono ad atteggiarlo. Già sin da principio, la fantasia umana, foggiando nei varii modi che vedemmo i suoi primi innumerabili Dèmoni, non se li figurò isolati ed inerti, bensí attivi ed in continui rapporti gli uni con gli altri. E come i singoli Dèmoni sulla figura umana, così le loro vicende vennero immaginate sul modulo di vicende umane. E mentre i piú semplici schemi erano dati dalle vicende piú comuni, altri piú complicati ed interessanti furono modellati sugli eventi trascorsi, tramandati di generazione in generazione per la loro singolarità, la loro grandezza: in una parola, per il loro interesse.
Cosí, le avventure del Sole, della Luna, degli astri, di tutti gli altri Dèmoni, si andarono foggiando su quelle dei príncipi, degli eroi, di tutti gli uomini degni di ricordo e di ammirazione.
Si badi bene a questo punto, in cui mi discosto diametralmente da taluni concetti, non interamente banditi, come pur meriterebbero, della mitologia scientifica comparata. Questa, verbigrazia, legge attraverso le avventure di Achille o di un altro eroe le fisiche vicende del Sole, della Luna, del cielo (procedimento, che, direbbe Senofane, seguirebbero legittimamente il sole, la luna e il cielo, se dovessero scrivere mitologia comparata); io, attraverso le mitiche descrizioni di eventi attribuiti dalla mitologia a fenomeni naturali o a loro trasparenti trasformazioni, m’industrio di cercare il nucleo, sia pur remotissimo, di altrettante vicende storiche.
Né si limitano a ciò i rapporti fra le creature della storia e quelle del mito: bensí le une e le altre si sovrappongono, interferiscono, si mescolano, si amalgamano nei modi piú impreveduti e bizzarri, con ricorsi innumerabili. E di qui le infinite stranezze ed incoerenze della mitologia greca, intorno alle quali tanto, e tanto spesso invano, si sono esercitate le menti degli studiosi.
E non siamo ancora alla fine. Questo è il diagramma su cui corre fatalmente, presso ciascun popolo, la formazione della mitologia. Ma se si scende all’esame delle singole mitologie, le vediamo differire l’una dall’altra per innumerevoli particolari, come i fiori e le foglie dei vari alberi intorno alla geometria essenziale ed unica dei tronchi e dei rami.
Ora, in Grecia, come altrove, ma piú che altrove, avvenne che, per le continue invasioni e immigrazioni di popoli, si sovrapposero l’una all’altra diverse mitologie. Sopra l’antico fondo pelasgo si innestarono innumerevoli influenze dall’Est e dal Sud, e specialmente da Creta (mitologia egea), dalla Libia, dalla Samotracia (Cabiri), e poi dalla Fenicia e da tutte le religioni delle antichissime civiltà asiatiche che giungevano ai regni dell’Asia minore, e un po’ dappertutto sulle coste del Mediterraneo. Poi viene la piú ampia invasione achea, coi suoi vari strati, e introduce tutto un altro sistema di divinità. E dei Numi avviene come dei popoli. I nuovi si uniscono agli antichi, e gl’invasori trionfano, costituendo vere gerarchie, nelle quali i vinti occupano posti subordinati. Ma assai spesso subordinati solo nominalmente; e nelle loro umili posizioni, serbano, massime agli occhi e nel cuore del popolino, una importanza forse maggiore di quella dei Numi di parata.
Tutto questo lavorio, nelle sue linee generali era già compiuto ai tempi d’Omero: già Omero si trovò dinanzi a questo immenso formicolio confuso ed eterogeneo.
Senonché, i suoi poemi non ne rendono un adeguato riflesso. Omero non aveva, come poi lo ebbe Esiodo, alcun obbligo speciale. Tutta la mitologia si offriva a lui come materia artistica, a cui il poeta guardava liberamente, scegliendo il quale e il quanto che meglio si adattassero ad incarnare le sue visioni. Abbiamo visto che tutto quel formicolio s’era atteggiato sui moduli della primitiva storia umana, e costituito, dunque, nella generale configurazione d’una umana società. Omero non badò alla minutaglia, alla plebe grigia e incolore: badò alla schiera fulgente dei principi, dei Numi trionfatori ed invasori; e, concretando con la sua fantasia di poeta le immagini già certo abbozzate dalla immaginazione del popolo, dei poeti minori, degli antichi artisti del disegno, lineò le prodigiose figure, che rimasero poi modelli eterni all’ammirazione delle genti, alla ispirazione degli artisti. Sicché, quando Fidia volle creare all’adorazione di tutti i Greci la sublime figura di Giove, chiese ancora i colori all’antichissimo Omero.
E tutta la caterva dei minori rimane in ombra nei due poemi omerici. Non però sino al punto che, aguzzando le pupille, non si distinguano le loro sagome. Ecco, vicino all’Olimpio Ares (Marte), la dimonia Eris, la Rissa, in una grandiosa e paurosa figurazione (IV, 440):
la Rissa, ch’è compagna di Marte omicida e sorella,
che piccola da prima si vede levarsi, ed al cielo
poi con la testa poggia, premendo coi piedi la terra.
Ed ecco, suoi fratelli, Spavento, e Terrore, ed Enjò (V, 592). Ecco Sonno: ecco le innumerevoli Moire (XII, 326): ecco Ate, la potentissima (XIX, 91):
Ate, la figlia maggiore di Giove, che tutti fa ciechi,
la maledetta! I suoi piedi son morbidi; e non su la terra
essa cammina, bensí per le menti degli uomini avanza;
essa danneggia le genti: ché uno su due, l’irretisce:
essa, persino il figlio di Crono accecò, che il piú saggio
è fra i Celesti, si dice, fra gli uomini tutti.
Per quanto dichiarata figlia di Giove, è chiaro che si tratta di una divinità avversa, e, secondo ogni probabilità, straniera. E se ne ha una riprova quasi tangibile nel particolare simbolico che, in seguito a una sua frode, Giove la scaraventa giú dall’Olimpo.
Súbito Ate afferrò per la testa dai riccioli molli,
e, tutto pien di sdegno, prestò giuramento solenne
che su l’Olimpo mai piú, mai piú fra le stelle del cielo
Ate non tornerebbe, che accieca di tutti le menti.
E, pur giurando, rotò la mano, e dal cielo stellato
via la scagliò: ben presto degli uomini ai campi fu giunta.
Ed ecco, infine, Stige, la potentissima, che dimora nell’Averno, e dunque appartiene anch’essa alla schiera dei Numi piú antichi e debellati; ma che, tuttavia, nella sua cattività serba un tal potere, che i Numi trionfatori quasi temono di pronunciare il suo nome, sacro ai giuramenti (XIV, 271).
E analogo potere serbano tutti i Numi sotterranei, gli antichi Numi debellati e relegati in un paese di tenebre eterne (XIV).
Cosí diceva; ed Era, la Dea dalle candide braccia,
fece com’egli disse, giurò, tutti i Numi invocando,
ch’hanno dimora nel Tartaro fondo.
Per concludere, dal fatto che Omero pone in prima linea e consacra tutte le virtú del suo pennello ai Numi Olimpii, e degna appena d’un fuggevole sguardo i minori, non bisogna arguire che questi fossero sulla via di andare scancellati dalla mente e dai cuori. Essi avevano anzi una grande importanza, che risulta dalla venerazione, sia pure inquartata d’avversione e d’odio, che provano di fronte a loro gli Olimpii. E, d’altronde, li troviamo poi sempre vivi ed efficienti in tutto lo svolgimento della vita greca, e massime presso il popolino. Essi, i debellati, i soverchiati, rimangono i veri Numi dei proletarii, che li sentono piú vicini a sé, e ripongono piú fiducia in essi che nei brillantissimi Olimpii, i quali, in fondo, al pari dei re della terra, non si occupavano tanto della loro gente quanto dei proprii agi e dei proprii piaceri: e ne riscotevano in cambio, insieme con l’adorazione ufficiale, anche un buon tributo di satira.
Dunque, l’autore della Teogonia si trovò dinanzi ad una materia immane e caotica, col preciso cómpito di ordinarla. A lui non era concesso l’arbitrio, il capriccio d’Omero, dell’artista: la sua opera doveva raccogliere quanto piú era possibile della tradizione mitica, e raccoglierlo in maniera da rispecchiare le credenza e il sentimento comuni. Cosa sommamente difficile, perché spesso del medesimo mito gli erano offerte due o tre soluzioni differenti, e spesso contradittorie. Perché ai suoi tempi già valeva di sicuro quello che Pausania doveva dire due secoli dopo Cristo, che cioè i Greci raccontano le cose uno in maniera differente dall’altro (IX, 16, 7).
Egli fa grandi sforzi per ridurre quella molteplice varietà in un tutto organico; ma, dice Eschilo:
se nel vaso istesso |
E cosí, assai spesso i suoi sforzi riescono vani, e la incongruenza della materia si rispecchia nella sua elaborazione.
Ma oltre alle colpe della materia, altre ce ne sono, che sembrerebbero da imputare all’autore. Nel poemetto si possono scoprire diversi filoni di materia omogenea. Ma, come accennammo da principio, le materie rispettivamente omogenee, anziché raccolte in singoli gruppi, si trovano sparpagliate e intrecciate con una varietà e un disordine che disorientano. Effetto di un metodo, non certo lodevole, ma pure spiegabile, di composizione? Indice di corruzioni ed interpolazioni? Lasciamo per ora sospese queste dimande, alle quali del resto non sarà mai facile dare una risposta definitiva; e cerchiamo invece di porre un po’ d’ordine nel disordine, di vedere ben chiaro almeno negli elementi di questo complesso caliginoso.
Il primo passo per raggiungere questo scopo dev’essere, secondo me, la compilazione d’un quadro sinottico, che faciliti l’avvicinamento dei fatti che devono stare insieme, e che nella Teogonia si trovano invece lontani e sparpagliati. Lo compilo io per risparmiare il tedio ai lettori.
In principio, dunque, c’è Chàos: primissimo, dice Esiodo; e subito dopo di lui, sullo stesso piano, Tàrtaro, Terra ed Amore.
Cerchiamo di determinare come Esiodo ebbe a concepire queste prime essenze.
Chaos è da lui detto tenebroso (zopherós) e, d’altro lato, gli sono attribuiti come figli Erebo e Notte. Notte è tutta una cosa con la tenebra; Erebo è anch’esso situato sotterra (669), e ad una profondità che dobbiamo concepire immane, se Giove scaglia lí i nemici debellati (Menezio: 515). Dunque, Chaos è il padre del buio, è il buio per eccellenza.
Il concetto del buio implica l’invisibilità dei confini, la sconfinatezza. E che Esiodo concepisse il Chaos come l’immenso vuoto senza confine, mi sembra si raccolga da parecchi fatti. Nella titanomachia, dopo descritto il cozzo degli Olimpii e dei Titani, soggiunge che «un indicibile incendio investí il Chaos». Ma siccome la zuffa avveniva sulla superficie della terra, e non già nelle sue viscere, qui Chaos non può avere altro significato se non quello di spazio infinito dell’ètere. D’altra parte, non esiste dubbio che l’etimologia di Chaos vada ricercata nella radice cha = essere spalancato (chàsko, chàino). E, a parte le fantasticherie e le aberrazioni dei filosofi, nel greco corrente il vocabolo significò sempre: abisso vacuo immenso. E che Esiodo avesse il senso sicuro di tale significato, si ricava senza dubbio dal verso 740, dove l’immenso spazio tenebroso sotterraneo, nel quale «sono le radici» della Terra, del Tartaro, del Mare, del Cielo, è chiamato chàsma mèga (baratro immane): chàsma è, senza dubbio, un sinonimo di Chaos. E questo, è, insomma, l’immenso vuoto tenebroso.
Vediamo ora il Tartaro. Esso non riesce esplicitamente determinato se non come località. È, abbiamo visto, nei piú profondi anfratti della terra. Tenebra, dunque; e tenebroso (eeròeis) è l’aggettivo che costantemente lo accompagna nella Teogonia. E nell’altro verso già citato, è detto bàratro immane. Dunque, non si vede proprio in che cosa il concetto di Tartaro differisca da quello di Chaos.
Anche quanto al valore etimologico, non può cader dubbio: Tartaros è una reduplicazione o gemmazione della radice tar, che significa sconvolgimento, e, trasferita alle affezioni dell’animo, terrore. Tartaro è il buio e il vuoto primigenio, considerato come generatore di alto terrore.
Prima di venire alle altre due prime essenze, vediamo due esseri che son posti súbito dopo la prima fila, come figli del Chaos: Erebo e Notte.
Il nome Erebo è abbastanza trasparente. È, pigliato di peso, l’aggettivo erebnòs, che vuol dire oscuro. È, anche una volta, il regno delle tenebre. In esso Giove scaglia il ribelle Menezio (514), in esso giacevano i Centímani, prima che Giove li chiamasse in suo aiuto contro i Titani. È, evidentemente, tutta una cosa col Tartaro; e, dunque, ancora col Chaos.
E il medesimo bisogna ripetere per Notte. La sua identità essenziale col Tartaro è chiaramente significata nel fatto che essa è posta nel medesimo luogo, proprio vicina al Tartaro, «sul suo collo». Non è la notte, spazio di tempo fra il calare e il sorgere del sole: è il buio eterno, pensato come origine di male e rovina: tanto che è detta appunto rovinosa (oloé).
Che poi, nella comune credenza, queste quattro essenze potessero sussistere simultanee e differenziate, quando tutti dovevano aver coscienza della loro sostanziale identità, non deve far meraviglia. In realtà, esse erano e non erano identiche. Erano come le varie facce del concetto unico che incarnavano, il quale per la sua natura indefinita e sfuggente si prestava a questa molteplicità di riflessi. E mentre il Chaos rispecchiava piuttosto l’immane vaneggiare dell’infinito spazio primevo, l’Erebo ne dichiarava l’assenza d’ogni luce, e il Tartaro lo sbigottimento da esso prodotto sugli animi.
Meno sicura è l’etimologia di Nyx, notte; ma però secondo me non si può separare dalla radice nu che si trova in nystàzo, assopirsi10; e Notte significherebbe lo stato di sopore in cui l’oscurità immerge tutti gli esseri. Insomma, queste quattro essenze erano nella mitologia primitiva come nelle lingue i sinonimi; uguali e diverse.
Nessuna meraviglia, dunque, che la mitologia le accogliesse come quattro figure distinte; e tanto meno dobbiamo stupire che in tale condizione le mantenesse Esiodo, il quale, come vedemmo, doveva pur attenersi alle opinioni correnti, anche se con una penetrazione maggiore della comune avesse piena coscienza della loro unità. Ma perché poi nella disposizione genealogica, che per la massima parte era lasciata alla sua discrezione, procedeva con evidente parzialità, ponendo il Tartaro fra le primissime essenze, ed assegnando ad Erebo e Notte un posto inferiore?
Prima di tentare una risposta, esaminiamo le altre due prime essenze: Terra ed Eros.
Terra è — dice Esiodo — «la eterna incrollabile sede di tutte le cose».
Eros è «il bellissimo fra i Numi immortali, che dissipa le cure, e in seno a tutti gli uomini e a tutti i Numi doma il pensiero e l’acuto consiglio».
E sta bene. Ma se ora diamo un’occhiata al nostro grafico, ci colpisce una strana anomalia. Mentre a Chaos ed a Terra è assegnata una numerosa progenitura, Tartaro ed Eros rimangono infecondi.
A Tartaro, per dire il vero, è attribuita la generazione di Tifone. Ma questo unico figlio, venuto quando tutti i Numi erano già nati e sistemati, quando Giove aveva già sconfitti i Titani (820 sg.), ha tutta l’aria d’una tarda appiccicatura.
Anche piú strana è l’infecondità d’Eros, Dio della generazione. Veramente, ad un moderno si presenta spontanea la risposta che Amore sia qui concepito come un principio astratto, come l’impulso genetico che spinge a perpetuarsi tutte le creature; sicché, pur non essendo designato padre di nessuna, virtualmente è padre di tutte. Ma anche facilmente si obietta che questa concezione filosofica è moderna, o, per lo meno, piú moderna assai dei tempi d’Esiodo. Esiodo, spirito dei suoi tempi, non trasformava le figure in concetti, bensí i concetti in figure; o, meglio, concepiva tutto sotto specie antropomorfa. Eros, al pari di tutti gli altri Dèmoni, era per lui una creatura antropomorfa, con tutti gli attributi dell’uomo: sicché strana rimane la sua infecondità.
Ora, se si pensa alla possibile ragione di questa anomalia, una ne salta súbito agli occhi. Nella farragine di creature mitiche da sistemare, ce n’erano una moltitudine che per le loro caratteristiche si offrivano spontaneamente ad essere collocate sotto il concetto di Chaos: quasi direi che s’imponevano. E siccome poi Chaos era tutto una cosa con Tartaro, anche Tartaro reclamava uguali diritti. Difficile una distribuzione logica razionale. E il legislatore ha preferito condannare uno dei due candidati alla infecondità.
E lo stesso, su per giú, si può ripetere per Amore. A questo Dèmone competeva naturalmente, pel concetto che esso informava, la generazione di tutte le creature11. Ma uguali diritti accampava Terra. Bisognava anche qui decidersi. Ed Esiodo diede la preferenza a Terra.
Ma — vien fatto di opporre — Esiodo non poteva rimediare a tutto con un espediente genealogico? Bastava che subordinasse Tartaro a Chaos, ponendo il primo nella medesima schiera di Erebo e di Notte, che facesse nascere Amore da Terra (o, perché no?, viceversa); e gl’inconvenienti erano eliminati.
È proprio cosí. E se non l’ha fatto, ci dev’essere stata di certo una forza che glie l’ha impedito. Questa forza difficilmente potrà essere stata altra che la tradizione.
E non intendo una tradizione che stabilisse come fondamentali, simultaneamente, tutte e quattro le essenze; bensí una molteplicità di tradizioni, varie di origine e di carattere, ciascuna delle quali reclamasse per uno di quegli esseri la paternità di tutte le cose create: una per il Chaos, l’immenso vuoto, l’altra per il Tartaro, il buio eterno, una terza per la Terra (Eschilo, Coefore, 127)che produce ogni cosa e la nutrica
ed il rigoglio poi ne riassorbe;
una quarta, infine, per Eros, il Dèmone che, invisibile, eppure palesemente efficace, eccita tutte le creature alla generazione.
Sistemi filosofici? Siamo d’accordo che d’una vera e propria filosofia non si potrà parlare, ai tempi d’Esiodo. Saranno stati, quando mai, sistemi teologici, cresciuti nella penombra dei templi. Ma, insomma, una forma di speculazione dové pure esistere anche allora; né vedo ragione di respingere l’antica tradizione, secondo la quale, già prima d’Omero, era vissuto in Sidone un tal Moco, fenicio, che aveva fondata una dottrina atomica (Strabone, XVI, C, 757).
Volere ancor precisare, può sembrare sommamente rischioso. Tuttavia, per Eros dobbiamo osservare che era la principalissima divinità di Tespia, la singolare città della Beozia, a piedi dell’Elicona, vicina ad Ascra, e sua metropoli. Giova riferire le parole di Pausania (IX, 27): «Quelli di Tespia, sin dai tempi piú remoti, piú che ogni altro Nume onorano Amore, e ne hanno un simbolo antichissimo, una pietra scabra». Questa pietra scabra ci fa risalire a un’antichità favolosa. E l’Eros di Tespia era un antichissimo Dèmone pelasgo, tanto radicato nel cuore della gente beota, che, immobile sotto il perenne fluire di nuove divinità e di nuovi culti, serbò i propri riti e la propria immagine sino nel pieno cuore dell’età classica, e poi anche quando quella fu tramontata. Figuriamoci se Esiodo, che legiferava in Ascra, a due passi, poteva fare a meno di metterlo in prima fila.
Altre ragioni, ed ugualmente efficaci, militavano per gli altri esseri. Assai diffusa in tutto il mondo orientale era la dottrina che poneva come origine di tutte le cose un immenso spazio, regno delle tenebre e del disordine. Già prima della Bibbia l’aveva insegnata la cosmogonia babilonese.
Ma non meno diffusa era, massime nel piú prossimo Oriente asiatico, la dottrina che sotto varî nomi (Rea, Cibele) indicava come madre di tutte le cose la Terra.
Ed entrambe queste dottrine, diffuse dall’Oriente all’Occidente per le vie delle invasioni, delle immigrazioni, dei commerci, investono tutta la Grecia in guisa tale, che il legislatore della nuova teogonia deve serbare ad essa un posto d’onore.
Un’altra ragione, che però non saprei accennare, avrà militato per Tartaro. E il poeta, costretto a stabilire questa prima fila di essenze originarie equipollenti, si trovò di fronte alle difficoltà che cercò di appianare. Ed altre incongruenze trovano cosí spiegazione negli imperativi obbligati della tradizione. Sicché, il legislatore merita tutte le attenuanti, se pure non sempre ci soddisfino gli espedienti che egli escogita per dare unità e coerenza alla materia incoerente e disordinatissima.
L’onore della generazione di tutte le creature rimane dunque affidato a Terra ed a Chaos. Col Chaos sono collegate, naturalmente, tutte quelle che hanno qualche affinità o qualche rapporto con l’immensità, con l’oscurità, col terrore provocato dal buio e dall’ignoto. In primo luogo gli vediamo assegnati due figli che sono due suoi doppioni, Erebo e Notte. Lo stesso Chaos, unito con Erebo, genera poi Etere e Giorno; e di questa breve discendenza abbiamo già parlato. Esaminiamo ora la discendenza di Notte, e chiari ci appariranno i criteri seguiti da Esiodo nella sua classificazione. Con la Notte vanno naturalmente connessi il sonno e i sogni; e si intende che Esiodo glie li abbia assegnati come figli: forse ne trovava l’indicazione precisa nella mitologia corrente. Ma evidente era anche la parentela del sonno con la morte; l’uno e l’altra sono, palesemente, due salti nel buio, l’uno temporaneo, l’altro sempiterno. E credo che presso tutti i popoli del mondo si potrà trovare il binomio Sonno-Morte, che nelle arti del disegno in Grecia si trovano quasi sempre congiunti.
E con Morte vanno congiunte alcune creature che della morte sono una preparazione piú o meno remota.
Le Moire, in primo luogo. Moira è la parte destinata a ciascun uomo (méiromai = dividere), la necessità ineluttabile che spinge al termine la sua esistenza (Moros non è che un doppione di Moira).
Affini alle Moire, sono le Kères, che corrono sui campi di battaglia, piombano sui cadaveri, ne succhiano il sangue, e, appena dissanguato uno, piombano sull’altro. E oltre a quelle dei campi di battaglia, altre ve ne sono, che sotto forme diverse tendono insidie continue alla vita dell’uomo.
Chiarissima è anche la concezione delle Esperidi. Il loro nome è assai trasparente. Sono le nuvole rosse che al tramonto si addensano a Vespero, per dileguare subito in grembo alla Notte, che facilmente viene dunque concepita come loro madre, alla quale, come nel divino frammento di Saffo, i figli tornano quando la stella d’Esperο brilla nel cielo.
Ed ecco un’altra schiera di figli della Notte, che appartengono alla categoria, che abbiamo già illustrata, delle personificazioni di concetti astratti. Ecco Sciagura (Οἰζύς), Nèmesi (Pena per un delitto), Apàte (Frode), Filòtes (Foia), Gèras (Vecchiaia), Eris (Contesa).
Per alcune di esse l’addentellato è facile: cosí per Vecchiaia, che è vicina alla morte, e, dunque, a Notte, e per Foia12 a cui piú facilmente si tribuisce carattere notturno. E della Frode si può pensare che il tempo a lei piú propizio è la notte: torna alla mente che nelle Opere e i giorni (605) il ladro è chiamato il Dormidigiorno (ἡμερόκοιτος).
Meno chiaro è per Nemesi. In sostanza, si può dire che questa divinità sia la personificazione del sentimento morale che riprova ogni violenza (si veda il famoso luogo dell’Iliade, in cui i vecchioni ammirano Elena). Ma siccome in processo di tempo diviene esecutrice delle vendette celesti, si capisce come potesse assumere un carattere sinistro, quasi d’Erinni: onde l’inclusione esiodea tra le altre essenze fatali all’umanità.
Si entrò cosí nel concetto, del resto ovvio e popolare, che identifica con le tenebre e con la notte tutti gli affanni e i mali innumerabili che affliggono l’umanità. E qui, senza ingolfarci in altre minute enumerazioni, troviamo facilmente l’addentellato per tutte le altre personificazioni che Esiodo annovera tra i figli della notte. Ad esclusione di Momo, il Dio dello scherno. Non mi riesce di veder le analogie fra lui e le tenebre; e bisognerà supporre, anche qui, che Esiodo obbedisse a una tradizione precisa, di cui ci sfugge il carattere.
Ed ora, bisogna accentuare una osservazione già fatta nella trattazione generale del mondo mitico. Piú d’un lettore, vedendo annoverati, tra i figli di Eris, le Guerre, le Stragi, i Dolori, la Fame, le Fatiche, e, peggio ancora, i Discorsi e le Dispute, può essere facilmente indotto a credere che non fossero vere creature della mitologia corrente, e che Esiodo le inventasse un po’ di sua testa, come fecero poi i poeti accademici, che compilavano loro monotone filastrocche di nomi vani senza soggetto13. O, per lo meno, che, anche se si trovarono già accolte nella mitologia, rimanessero però sempre allo
stato di nebulosi fantasmi, senza reale corrispondenza nei miti e nella credenza, o diciamo di piú, nella coscienza o addirittura nella conoscenza del popolo.
Ma non è proprio cosí. Esse occupavano davvero il loro posto, e neanche tanto modesto, nella mitologia corrente ai tempi di Esiodo, e facevano grandi sforzi per uscire dalla indeterminatezza, e acquistare concretezza attraverso i soli modi possibili, cioè attraverso le varie espressioni artistiche. Onde ecco, nella pittura, di cui sono fedele riflesso le figurazioni ceramiche pervenute sino a noi, non soltanto le Moire, le Kères, Eris, Hypnos, Thànatos, bensí anche creature che hanno piú spiccato carattere di astrazione: Dike, per esempio, la Giustizia, che strangola la sua nemica Adikía14; e perfino Géras, la Vecchiaia, che deve soccombere strangolata fra le dita poderose di Ercole15. E della pittura, sia pure nei suoi riflessi ceramici, noi non possediamo che miserrimi frammenti: nessun dubbio che un materiale maggiore amplierebbe la nostra collezione di personificazioni figurate. A buon conto, ecco, in una narrazione di Plutarco, una figurazione della Fame che si può dire il vero surrogato d’una pittura. Plutarco racconta dunque (Questioni conviviali, II, 8), che anticamente si celebrava nella sua patria una cerimonia detta «l’espulsione della fame». Si cacciava fuori dalla porta un servo, percuotendolo con verghette di agnocasto, e accompagnandolo con le grida: «fuori la fame, dentro la ricchezza e la salute». — Al pari, dunque, d’una pittura, e forse piú, questa cerimonia illumina la tendenza a concretare in forma visibile queste specie di astrazioni demoniache.
E accanto alla pittura, vanno annoverate le figurazioni della poesia, che pure erano create e certo convergevano al medesimo scopo. Si vedano, nello Scudo d’Ercole le figurazioni delle Keres, e, soprattutto, quella di Umor negro (Ἀχλύς), che non figura nella serie della Teogonia, ma vi appartiene di pieno diritto, e anzi, per la sua entità, è una delle piú caratteristiche e rappresentantive. È una vera ipotiposi, e di quelle che valgono la carta di cittadinanza in qualsiasi regno mitologico.
Sistemata cosí, con l’unica attribuzione a Chaos, tutta una provincia, numerosa e confusa, della mitologia, Esiodo trovava il campo ancora ingombro da uno stuolo fittissimo di creature mostruose, nelle quali il fenomeno di antropomorfizzazione non si era verificato, o era rimasto a mezzo, «quasi entòmata in difetto». Esiodo ne colloca un gruppo — Ciclopi, Centimani, Tifone — sotto la discendenza di Terra: tutto il resto, una schiera infinitamente piú varia e numerosa, sotto il Ponto. Dico cosí, perché, sebbene per essi è proclamata la maternità della Terra, è ben chiaro che son tutte essenze originate dal mare, e che la maternità della Terra è aggiunta per conseguenza ad un principio che poneva Terra come madre di tutte le cose.
Nerèo, che del resto nasce per generazione diretta, è connesso con la radice na (naio), ed è una trasformazione antropomorfa del mare nel suo perenne movimento (in greco moderno acqua si dice ancora nerò: e nara, in sanscrito, vuol dire acqua). Ed anche piú trasparenti sono i nomi delle sue figlie, le Nereidi; i quali tutti simboleggiano gli aspetti innumerevoli del mare: Galene, per esempio, la calma: Glauche, la colorazione verde cerulea: Melíte la calma soave come il miele: Psamàte la distesa sabbiosa: Galatea l’albescenza quasi lattea: Kymotòe il rincorrersi dell’onde: Kymatolège il tornar della bonaccia; e via dicendo; e la lista d’Esiodo si può accrescere con quella d’Omero.
Il nome di Ketò è troppo trasparente. Kètos significa in genere un immane mostro del mare (v. il nostro cetaceo); e Ketò è appunto un rappresentante di tutti i mostri marini.
E il suo sposo Fòrkys è un po’ un fratello delle Nereidi: significa il biancheggiante16, e simboleggia i cavalloni agitati, che, correndo precipitosi sul pelago, si coronano di bianchissime spume. Nell’Odissea gli vien tribuita per figlia Thoòsa, ninfa delle tempeste.
Anche al ribollimento schiumoso del mare debbono origine le Graie, che sono, etimologicamente, le grige17. Anche per le Arpie si induce facilmente il rapporto col mare dai loro nomi, Okypètes ed Aellò, che designano rispettivamente la velocità del volo e la tempesta.
Medusa, piú che l’aspetto delle nuvole che si innalzano all’orizzonte marino, come crede il Decharme, piú che il disco della luna, come opina il Preller, o piú, che, sentite questa, il sole, come sostiene il Lolling, con uno spirito consequenziario ben degno della sua patria, è, secondo me, un riflesso della piovra, il cui aspetto esercita infatti un orribile fascino, analogo a quello dei serpenti.
E allo stesso mostro, immane ed orrido in realtà, e immensamente ingigantito nella fantasia e piú nei racconti dei navigatori, dovranno la loro origine Hydra, Chimera, Orthos, il cane di Gerione, e Cerbero. Per il carattere acquatico della prima fa testimonianza la leggenda che la situa in una palude. E per tutti, e in misura assai maggiore, è probativo il carattere policefalico. Chimera ed Orthos hanno tre teste per ciascuno: Hydra ne ha nove; Cerbero, nella versione Esiodea, ben cinquanta. Ora, se questi non sono i tentacoli della piovra, non so piú con quali criterii si debbano considerare i rapporti fra le creazioni mitologiche e le lor probabili origini fisiche. E non so come si possa ancora fantasticare che tutti questi capi dei mostri non siano altro se non i raggi del sole, unica panacèa per tutti gli ardui problemi mitologici.
Inutile seguitare le ricerche. Si vede come questo ultimo gruppo di essenze mostruose, senza dubbio di origine marina, apra la via a sistemare un gran numero di altri mostri. E può essere che tra i marini Esiodo ne abbia introdotto qualcun altro di origine differente.
Se ora consideriamo le creature rimanenti sotto la discendenza di Terra, vediamo sùbito distinguersi per caratteri chiari e non equivocabili i due gruppi, formati, rispettivamente dalle coppie Iperione e Teia, e Coio e Foibe.
Iperione è il sole considerato nel suo movimento ascensionale: Theia è la madre della luce, è la luce18. E loro figli Sole, Seleno, Aurora, Eosfòro ossia la stella del mattino, e gli astri.
Per l’altra coppia, non sappiamo determinare con sicurezza né l’etimo né il significato di Coio; ma assai trasparente è il nome di Foibe, la scintillante, e piú anche significativa la loro discendenza: Asteria, che, anche una volta, non può essere se non una rappresentante degli astri, una specie di Ninfa celeste; e Latona, madre di Artèmide e di Apollo, cioè del sole e della luna.
Dunque, con queste due coppie siamo in piena mitologia celeste. Esiodo trovò senza dubbio tutte queste creature connesse col cielo, cioè, in linguaggio mitologico, designate come sue figlie. E mantenne tale discendenza, tranne che aggiunse la maternità di Terra: che è repugnante al sentimento moderno, e certo superflua anche al tempo di Esiodo; ma che è da lui postulato — come per le creature del Ponto — per spirito di conseguenza, in rispetto al principio che poneva Terra madre di tutte le cose. Ma dobbiamo credere che prima della sua legislazione anche questo gruppo dei figli del cielo facesse un po’ parte da sé stesso, come quello dei figli del Ponto.
Altrettanto chiara è la coppia Oceano-Tètide, dalla quale derivano i fiumi, le Oceanine. Sono divinità delle acque dolci.
E così pure si vede senz’altro la origine di Tèmide e di Mnemosine. Sono due personificazioni di astrazioni, che avrebbero dovuto andar confuse con le loro innumerabili compagne. Se non che, la tradizione, volendo affermare il concetto che Giove era pervenuto al potere e lo manteneva grazie al senno e alla giustizia (vedi in séguito) gli aveva assegnate come spose Mnemosine, la saggezza madre delle Muse, cioè delle facoltà piú sublimi dello spirito umano, e Tèmide, madre a sua volta del buon Governo, della Giustizia e della Pace. E cosí Esiodo le eleva al primo gruppo, dei Titanidi.
E piú chiara, forse, d’ogni altra, è la origine dei Ciclopi, il cui nome si identifica addirittura col fenomeno: Bronte=il tuono, Stèrope=il fulmine, Arge=il baleno.
E se non è altrettanto trasparente il nome dei Centimani (Còttos, Gyes, Briaréus) non mi pare che possa cader dubbio sulla loro essenza. Essi hanno cinquanta teste e cento braccia, e lanciano pietre immani, con le quali, nella titanomachia, ombreggiano il campo di battaglia. E mi pare evidente che questi particolari non rispecchino, come vorrebbe la mitologia comparata, le nuvole dalle forme multiple gigantesche, nate dai vapori terrestri, che impegnano nel firmamento continue battaglie; bensí i vulcani, che intorno al cratere centrale ne aprono, come nell’Etna, altri ed altri ugualmente nubilosi e fiammeggianti, e spandono giú per l’enorme dorso centinaia di braccia di fuoco, e lanciano immani rupi a immensa distanza.
Come si vede, la schiera dei figli di Gea e di Urano, è di una straordinaria eterogeneità. Alla parentela genealogica, attribuita loro dal nuovo legislatore, non corrisponde una reale affinità d’origine mitica. Perciò il loro complesso non diviene un amalgama, rimane una mescolanza; e l’esame critico, come un reagente, ben presto fa precipitare ben distinti, in varii gruppi, gli elementi realmente affini fra loro: fenomeni vulcanici, creature delle acque, astri del cielo, personificazioni di concetti astratti.
Ma ardua e complessa riesce l’analisi delle creature residue: Rea, Crono, Crio, Giapèto; la cui schiera dev’essere completata dai loro discendenti.
Ma per intendere qualche cosa intorno alla loro essenza, bisogna muovere da alcune considerazioni preliminari.
Se esaminiamo ancora il nostro quadro, e badiamo a tutte le creature mitiche sino ad ora analizzate, le vediamo, o rimanere isolate e sporadiche, o intrecciarsi, esse larve, in larve di eventi, che appena si abbozzano, per poi dileguare nel nulla o nel piú chimerico assurdo.
Ben altro è il caso per queste ultime. Le vicende ad esse attribuite si compongono intorno ad una ossatura singolarmente precisa, e, quando siano compiute, alcune riduzioni, d’altronde ovvie, dal linguaggio immaginoso e figurato del mito a quello abituale, riescono tutt’altro che irrazionali ed inverosimili.
Per veder chiaro, bisogna, anche qui, fare astrazione dalle digressioni, alle quali il poeta si abbandona ogni momento, e leggere di seguito le parti omogenee e connesse del racconto, che incomincia al verso 132, e va fino al 210, per riprendere dal 453 al 522, e poi, saltando anche la digressione su Prometeo, sulla quale dovremo tornare, riprende al 617, per terminare al 747.
Ed ecco, dunque, in breve schema, la
STORIA DEI TITANIDI
Urano, via via che da Gea gli nascono figliuoli, li nasconde nei baratri della terra. Ma la madre stessa eccita alla riscossa i figli; ed uno di questi, Crono, mutila il padre, e assume il potere, facendo sua sposa Rea.
Se non che, anch’esso adotta riguardo ai figli, i costumi paterni, e appena nati, li divora.
Ma uno d’essi, Giove, scampa alla sua ferocia, lo debella, lo costringe a rivomitare i figli, e scioglie dai ceppi gli zii paterni, cioè i figli d’Urano, i Titani, i quali per gratitudine gli accordano tutti gli attributi del potere. Subito dopo questa storia, che va sino al verso 506, comincia la storia di Giapeto e dei suoi figli. E comincia con le punizioni inflitte da Giove a questi figli, Atlante, Menezio, Prometeo ed Epimeteo. Si narrano le beffe reciproche, poi segue una digressione sulle donne.
Poi, di punto in bianco, il poeta passa ad un argomento differente, o che sembrerebbe differente; e ci mostra schierati in guerra, da una parte, su l’Olimpo, i Cronidi, nati da Rea e da Crono (630, v. 625), e dall’altra, su l’Otro, i Titani.
La guerra dura dieci anni. Giove chiama a raccolta gli Dèi, e, per averli amici, promette di conservare a ciascuno di loro i suoi privilegi e gli onori, e di concederne a chi non ne ebbe da Crono (v. 390 sg.). Ma l’aiuto di questi Dèi Cronidi non basta: Giove deve anche ricorrere ai Centímani, debellati e relegati anch’essi (poi vedremo da chi) sotterra (625); e col loro efficacissimo aiuto, riesce infine a debellare per sempre i Titani.
Dopo questa vittoria, Giove, per consiglio di Gea, è proclamato re (883). I Titani sono relegati sotto la terra (717), vicino ad Atlante, e a loro guardia son posti i Centimani, Gia, Cotto e Briareo, «guardiani fedelissimi dell’Egioco Giove». —
Ed ora, cerchiamo di precisare. Chi sono propriamente questi Titani che troviamo di fronte a Giove?
Esaminiamo ancora sulla nostra carta sinottica la fila dei Titani. I Centímani, dunque, no, ché sono alleati di Giove. I Ciclopi nemmeno, sono i suoi servi fedeli, e gli fabbricano le armi. Non i figli di Tèmide e Mnemosine, né i tremila Fiumi e le tremila Oceanine, figlie di Oceano e di Tètide. Né Iperione e Teia, né gli astri loro discendenti. E tanto meno i discendenti di Coio e Foibe, Latona madre di Apollo e di Artemide, Asteria, madre di Ecate, che accorre prima al soccorso di Giove, e ne riceve perciò onori quali non ebbe alcuno degli altri Numi. Tutti questi Numi sono alleati dei Cronidi.
Non rimangono dunque in linea che Giapeto e i suoi discendenti: Atlante, Menezio, Prometeo, Epimeteo.
Esiodo narra la storia dei Giapètidi, e ne parla con insolito lusso di particolari. Però, non dice mai esplicitamente che siano essi, in sostanza, i fieri e potenti ed ostinati nemici di Giove.
Non lo dice. Però ci mostra i Giapètidi in continuo contrasto con Giove. E non erano avversarî da poco. Quasi tutte le volte che il poeta li mette a contrasto, dice che «il cuore di Giove avvampò di negra bile»; ed è chiaro che non ci irritano i nemici che non ci dànno troppo pensiero.
Ma non basta. Egli dice che Giove mise Prometeo in ceppi, relegò Atlante agli estremi confini della terra, e scagliò giú nell’Erebo Menezio, colpendolo col fulmine, «per la sua tracotanza e per l’eccesso di forza». Naturalmente, tutte queste punizioni, le avrà inflitte in seguito ad altrettante guerre, o ad una guerra.
Ma quale guerra? Esiodo non lo dice, anzi nella descrizione della titanomachia non fa nessun accenno alla presenza dei Giapetidi. Però in Apollodoro troviamo esplicitamente Menezio sterminato da Giove col fulmine nella titanomachia, e piombato giú nel Tartaro19. E Omero pone nel Tartaro addirittura anche Giapeto20. E queste due testimonianze, certo aderenti alla comune tradizione mitica, conducono al medesimo risultato, al quale, ragionando per esclusione, siamo già arrivati analizzando la Teogonia: i Titani coi quali debbono cosí a lungo lottare i Cronidi, non sono altro che i Giapetidi.
Se ora facciamo la supposizione, ben legittima, che sotto a queste favole mitiche si nasconda, per quanto remoto e travisato, un nucleo storico, tutto si illumina a un tratto d’una luce che, penetrando in mezzo alla confusa materia, ne chiarisce ogni particolare, e dissocia i corpi dalle ombre. Alcune figure che per la loro mescolanza con le fantasime sembravano insieme colossali e chimeriche, tornano a giuste proporzioni, avvenimenti strani ed incongrui si riducono facilmente al modulo di vicende storiche abbastanza comuni.
Urano che relega i figli nel buio sotterraneo, Crono che li inghiotte, sono comunissimi tipi di antichi tiranni assoluti, i quali, pur di conservare il potere, non esitano a sopprimere i parenti e magari i figli. Se ne seguitano ad avere esempii anche in tempi storici (p. e., Mitridate).
Son debellati; e il fatto che tanto per l’uno quanto per l’altro si deve ricorrere ad una congiura, nella quale hanno parte donne, ci avvicina certo anch’esso alla storia.
Ma i lineamenti storici incominciano a determinarsi soprattutto quando entra in scena Giove.
La storia, e, direi, la politica. Un mito senza basi storiche avrebbe figurato un Dio trionfatore, superiore di forze a tutti gli altri, non solamente nelle affermazioni aggettivali, bensí anche nei fatti. Invece, Giove in tutte le sue gesta accoppia l’azione bellica con l’azione diplomatica. Appena è riuscito a debellare Crono, súbito libera gli zii paterni che Urano aveva relegati sotterra, e Crono si era ben guardato di liberare. E il potere, che si aspetterebbe di vedergli assumere gloriosamente, in seguito ad una tanta vittoria, gli viene invece concesso da loro.
Poi, di suo padre i fratelli, gli Urànidi, sciolse dai ceppi
funesti, in cui li aveva costretti l’inganno del padre.
Essi del suo beneficio poi memori furono sempre,
e a lui diedero il trono, l’ardente saetta, il baleno.
In questi fida Giove, e agli uomini e ai Numi comanda.
E cosí, dopo le due monarchie assolute di Urano e di Crono, è questa una monarchia temperata: il Re comanda, ma con l’assistenza di un gran consiglio. Immagine perfetta della monarchia che vediamo riflessa nei poemi d’Omero.
Quando poi scoppia la guerra coi Titani, li chiama tutti a raccolta, e fa loro promesse (330):
l’Olimpio che i folgori avventa
tutti gl’Iddei chiamò che vivono eterni, e promise
che quanti seco adesso pugnassero contro i Titani,
nessuno privo andrebbe di doni, e ciascuno l’onore
avrebbe, ch’era un dí suo retaggio fra i Numi immortali.
E chi non ebbe onori da Crono, soggiunse, né doni,
onori e doni, come Giustizia desidera, avrebbe.
Non sono i procedimenti di un Nume onnipossente, bensí quelli di un re della terra, e di un re che non si sente sicurissimo del fatto suo.
Cosí, quando, ad onta della sicura alleanza di tutti questi Cronídi, non gli riesce di sconfiggere i Giapetidi (Titani), ricorre a nuove alleanze, e non si pèrita di andarle a cercare fra i nemici debellati, quelli che Esiodo rappresenta centímani. Si rilegga ora tutta la scena. Giove fa uno dei soliti consigli di principi. Qui Gea — poi parleremo di questa figura — prende la parola, e consiglia di ricorrere all’aiuto di questi antichi nemici, che Giove aveva combattuti pel timore che esso aveva «della loro grandezza, la forza stragrande, l’aspetto» e li aveva relegati «ai solidi confini della terra». Giove si lascia convincere: ed ecco i Centímani, o, meglio, una loro ambasceria, venire in Olimpo. Giove offre prima un rinfresco, poi fa un vero e proprio discorso, chiedendo la loro alleanza che viene accordata. Non c’è dubbio che qui c’è il riflesso di un logico e normale avvenimento storico.
Se non che, finora vediamo lineamenti storici molto generici. Assai piú specifici e caratteristici divengono con la propria storia dei Giapètidi. Solo, per vederli, bisogna che non ci faccia velo la lunga opera di trasformazione a cui tutta la leggenda dei Giapètidi, e massime la figura di Promèteo, andò sottoposta per opera forse della tradizione, e certo della poesia, a cominciare da Eschilo.
A chi consideri questa leggenda, si presenta spontanea una dimanda, che infatti fu formulata da piú d’un critico: perché Giove per vendicarsi di Prometeo infierisce sugli uomini? — Perché — si risponde Prometeo era loro amico. Ma è risposta anodina; ed esaminando attentamente le circostanze del mito, se ne può trovare una piú soddisfacente.
Due volte vediamo i Giapètidi venire in contatto coi Cronidi.
Una volta quando Efesto, per incombenza di Giove, reca Pandora ad Epimeteo (Opere e giorni, 84). Quivi, dice il poeta della Teogonia (586), «erano insieme uomini e Numi»21.
Ma che carattere avrà avuto questa adunanza? Ci aiuta a rispondere un altro passo della Teogonia, in cui si dice che la beffa di Prometeo ebbe luogo a Mecone (l’antico nome di Sicione), «dove ebbe luogo la contestazione fra i Numi immortali e gli uomini»22.
Ora, quale fu il carattere di tale contestazione? Perché il poeta non lo dice? È strano. Ed anche piú strano è vedere che questi Numi onnipotenti, che, come si raccoglie da tutto il mito, non hanno speciali tenerezze per il genere umano, scendano fra gli uomini, non già per infliggere qualche esemplar punizione, o per svagarsi con le loro belle figliuole, bensí per discutere con loro da pari a pari.
Ma se si riduce il fatto mitico nelle proporzioni e nell’ottica d’un fatto umano, la stranezza sparisce di colpo, e tutti i particolari ne divengono logici e razionali. Entrambe queste adunanze sono allora due congressi, nei quali, da una parte il popolo, dall’altra il re con gli ottimati, discutono i reciproci diritti. A tutti son già corsi alla mente i casi analoghi che offre la storia romana. E s’intende che simili comizii presuppongono condizioni sociali oramai molto remote dalle primitive tirannidi.
Ma ecco un altro fatto anche piú caratteristico. Insieme col popolo appare schierata una famiglia di nobili, i Giapètidi.
I Giapètidi erano anch’essi Titani, ossia di antichissima nobiltà. Ma tutta la tradizione li dipinge amici degli uomini. E intorno ad essi si dové formare la tradizione, che poi, ampliata nei modi e con le contaminazioni che dicemmo, fu estesa a tutti i Titani, e che ci è riferita da Diodoro Siculo (V, 66, 1 sg.): «che ognuno di loro fu inventore per gli uomini di qualche trovato: onde per gli universali benefizi rimase di loro memoria eterna».
La figura del nobile che, contro l’assolutismo della sua casta, si schiera dalla parte dei plebei, ritorna assai di frequente nella storia documentata (anche qui, il pensiero corre prima che ad ogni altro, a Tiberio Gracco); ed è esaltata dagli uni, depressa, naturalmente, dagli altri; e alla depressione poteva offrire facile appiglio, perché non sempre purissime sono le intenzioni di questi paladini della plebe, e assai spesso la democrazia traligna in demagogia.
La leggenda di Prometeo, quale poi la troviamo nella Grecia classica, democratica, simpatizza manifestamente con Prometeo. E già questo atteggiamento aveva nella Teogonia. Giove trionfa sui Giapètidi, ma a qual prezzo. Dieci anni di lotta, che certo furono preceduti da altri anni di guerriglie. E se i Giapètidi ricorrono all’astuzia, arma abituale del piú debole, anche Giove è costretto a scendere su questo terreno. Soprattutto è caratteristica, mi sembra, la famosa beffa della partizione della carne. Il significato preciso ci sfugge, come quello di Pandora; ma certo è che questo Giove che sceglie la parte piú grossa, e si ritrova con un pugno di pelle e di grasso, ci fa la figura d’un ingordo e d’un bietolone. La leggenda è sorta in un tempo e in un luogo in cui Giove predominava: ma ci spirava vento di fronda.
E molto significativo è il particolare che, dopo tanti strepitosi trionfi, Giove deve liberare Prometeo, come prima aveva dovuto liberare i Centímani. E non è senza significato, ma forse è da considerare anch’esso come riflesso storico, il fatto che liberatore di Prometeo è un eroe della Beozia, l’invincibile magnanimo Ercole.
Ed ecco altre figure, che sembravano, finché rimanevano nella caligine mitica, incolori e sfuggenti, acquistare, al lume di questa ipotesi, colore e rilievo.
Gea, prima di tutto. Esaminiamo i suoi atti. Essa eccita i figli a rivolta, e consiglia a Crono la mutilazione del padre. Essa si mette d’accordo con Rea per salvare il bambinello Giove. Essa induce Crono a rivomitare i figli inghiottiti. Consiglia Giove a rappattumarsi con gli antichi nemici Centímani, e a stringere alleanza con loro. Poi, dopo vinta la guerra coi Titani, induce gli altri Numi a cedere la sovranità a Giove. E a Giove consiglia di nutrire nel proprio grembo Atena, la figlia di Mètis (mètis vuol dire senno, saggezza, prudenza): concetto profondo: significa che il sovrano non deve confidare nella sola forza, bensí anche, e soprattutto, nel senno.
È la figura della regina politicante, consigliera, sparita o quasi dal mondo classico, ma frequente nel mondo orientale. Ricordo Semiramide. Il suo sposo, dice Diodoro (ossia Ctesia), ne era tanto dominato, che nulla faceva senza il suo consenso; e se ne trovava sempre bene23. E l’egiziana Tyi, che, nata di genti plebee, fu sposata da Amenoteph III, ed elevata a dignità di vera regina, ed esercitò un potentissimo influsso tanto sullo sposo, quanto, e piú, sul figliuolo Ecnàtone. Né mancavano esempi nel mondo preacheo, in cui la donna aveva tanta importanza. Basterebbe ricordare la regina dei Feaci, Arete, la virtuosa ed influentissima sposa di Alcinoo, alla quale fanno onore, «seguendo l’impulso del cuore»,
i suoi diletti figli, Alcínoo stesso, e le genti
che a lei volgon lo sguardo sí come ai Beati del cielo,
che lei, quand’ella passa, salutan con fauste parole:
perché nulla di quanto comporta saggezza, le manca,
e delle donne e degli uomini ch’ama, le liti compone.
Nessun dubbio, secondo me, che sulla pittura di Gea abbia influito l’immagine di una regina simile.
E accanto a Gea, si schierano altre due figure femminili che nella Teogonia hanno una parte preponderante: Stige ed Ecate.
Stige è la prima che arriva in Olimpo quando Giove chiama a raccolta gli Dèi contro i Titani (383). Dopo la vittoria, Giove la colma di onori. Ma, tuttavia, troviamo anche lei all’estremità della terra, nel luogo, dove, come vedemmo, sono relegati tutti i nemici di Giove. La sua separazione dagli altri Olimpi è messa in rilievo da Esiodo. E non basta. Ad onta delle sue benemerenze, essa rimane odiosa agli Immortali (775). Togliamo la solennità che, volere o non volere, è sempre compagna inseparabile delle parole «per legame musaico armonizzate»; e ci troviamo dinanzi ad un fatto diplomatico e politico. Abbiamo una regina di genti nemiche a cui il re offre dei patti. Essa li accetta e mantiene fedelmente. E ne riscuote il compenso. Ma torna poi, naturalmente, al suo regno; e i vincitori, passato il pericolo, ricominciano a considerarla come nemica: storia vecchia e sempre nuova. E s’intende che una grande simpatia non dové godere neppure fra le sue genti, che un po’ l’avranno considerata come transfuga.
Meno trasparente è la figura di Ecate. Ecate non vanta le benemerenze di Stige; eppure Giove la venera piú d’ogni altra creatura celeste (412), e i doni e gli onori che le largisce sono tali e tanti, che quelli di Stige al confronto, sembrano un nonnulla. Perché questa posizione eccezionale, su cui il poeta insiste con palese compiacimento?
Mantenendoci nella linea della nostra interpretazione, verrebbe fatto di pensare un momento che Ecate, se non piuttosto la sua madre Asteria, fosse una donna di alte qualità fisiche e morali, divenuta per queste favorita di Giove. Specialmente caratteristiche e significative possono sembrare le parole:
Cosí costei, che fu di sua madre l’unica figlia,
onor su tutti i Numi che nacquer piú antichi riscote.
Ma forse questa figura va invece spiegata con un criterio a cui non abbiamo avuto finora occasione di attenerci, e che pure trova la sua giusta applicazione in parecchi casi, e in questo, mi sembra, principalissimamente.
Il poeta le consacra dunque un lungo brano (411-452), che a ragione fu definito «Inno ad Ecate», e a torto, credo, fu dichiarato orfico e tardo, e voluto espungere dal contesto. In esso, dunque, enumerati i feudi e gli onori che Giove le attribuisce, parla di altre sue prerogative assai piú interessanti, perché rispecchiano senza dubbio dei particolari rituali.
Dunque, dice il poeta, ciascuno degli uomini, offrendo sacrifici, invoca Ecate. Essa reca giovamento a chi vuole: siede accanto ai giudici in tribunale: assiste gli oratori in assemblea: i guerrieri in campo: gli atleti negli agoni: i cavalieri nelle gare di corsa: i pescatori: i bifolchi e i pastori: tutti quanti i bambini.
Essa è l’unica creatura divina di cui nella Teogonia si specifichino cosí gli attributi. E questi attributi investono tutta, senza eccezione, la vita, e tutte le attività umane: tanto che per gli altri Numi rimane ben poco; e quell’Enosigeo e quell’Ermete chiamati in collaborazione con lei alla tutela dei pescatori e dei bifolchi, sono cosí palesemente uno zuccherino, che quasi c’inducono al riso.
Non abbiamo dunque una delle divinità olimpiche, fra le quali sono divisi gli onori e gli oneri di fronte ai mortali; bensí una divinità unica, che assorbe tutti di per sé sola e quelli e questi. E una divinità femminile. E mentre non appartiene, almeno ufficialmente, alla prima e piú brillante schiera degli Olimpii, riscuote però onori come nessuno di quelli.
Questi fatti, allo stato attuale degli studii di storia delle religioni, parlano assai chiaro. Ecate è una Dea extraolimpia, cioè anteriore alla invasione olimpica: una divinità pelasgica, che, secondo ogni verisimiglianza, aveva specialissimo culto in Beozia. Sopravvenuti i nuovi Numi, la accolgono nella loro schiera; e qui ella rimane, in ombra, ma pure serbando presso il suo popolo l’antica potenza. Il processo è comune, ed illustrato da molti esempii; e non ci meraviglieremo di trovarne uno anche nella Teogonia, che è il campo sperimentale di tutti i sincretismi.
Se ora cerchiamo di determinare con maggior precisione il carattere di questa Dea, vediamo che, al contrario di Zeus, che nella Teogonia, almeno nel racconto di Prometeo, è nemico degli uomini, essa è la loro benefattrice. Carattere che poi serba nella religione e nel rito: fra altro essa risanava dalle malattie, specie da quelle attribuite agli spiriti maligni; e a Egina v’erano veri e proprii misteri, a lei consacrati.
E se si legge il brano per intero, si vede quanto piú estese delle altre sono le parti che riguardano la protezione concessa ai pescatori e ai bifolchi. Ecate pare soprattutto la Dea della povera gente.
Ma, innanzi tutto, è notevole il suo carattere di protettrice dei bambini; carattere non espresso nella gelida brevità d’un epiteto, bensí in tre versi, i quali sembrano implicare il concetto che prima di lei nessuno assumesse la protezione dei pargoli.
E protettrice il Croníde dei pargoli tutti la fece
che gli occhi dopo lei dischiusero ai raggi del sole:
cosí da prima fu nutrice onorata ai bambini.
Dunque, la Dea suprema d’un popolo. Ma non si deve confondere con la micenaica Signora dei leoni, né con la Rea di Creta, né con la Cibele dell’Asia Minore, altrettante forme della Dea madre, che riscosse cosí largo culto nell’età neolitica, e già forse negli ultimi periodi della paleolitica, e che non aveva gran che di attraente, era piuttosto temuta che amata, e presiedeva con uguale imparzialità alla generazione e alla distruzione. Né in lei si trova traccia di ferinità né d’impeto orgiastico. Ecate non è la Dea d’un popolo entusiastico e fanatico, bensí d’un popolo di lavoratori, povero, democratico. D’un popolo presso cui la donna era in grande onore, se in essenza femminile si concepiva la divinità suprema. D’un popolo in cui le principesse non erano foggiate sul tipo delle magalde achèe, di Pasifae, di Fedra, di Arianna, di Elena, di Clitemnestra; ma piuttosto su quello di Ecuba o di Andromaca, le virtuose regine del popolo troiano, in cui prevaleva l’elemento pelasgico24.
E quando lo Schoemann dice25 che nella Teogonia Ecate rappresenta o simboleggia il lato caritatevole di Giove, sofistica di sicuro, attribuendo ad Esiodo una concezione del padre degli Olimpii simile a quella che Dante ebbe dell’Iddio cattolico, nel quale si sposano carità e giustizia. Ma la sofisticheria era originata da una impressione fondamentalmente giusta: quella che avvicina l’antichissima Ecate, quale Esiodo la descrive, a concetti della nostra religione, anzi alla piú cara figura di essa. Ché Ecate è la vera e propria Madonna pelasgica.
Sarà temerario voler precisare ancora queste induzioni?
Tutti gli studiosi, in omaggio a un mal vezzo che identifica il carattere scientifico con l’assenza della meditazione, risponderanno forse di sí. lo non credo. In fin dei conti, in mezzo alla spaventosa oscurità della storia greca preomerica, questo poemetto d’Esiodo è l’unico documento parlato. Una luce fatua ed incerta, lo so bene. Ma se, trovandoci al buio con una debolissima fiammella, spengiamo anche quella, per la ragione che non basta ad illuminare il sentiero, e che movendoci corriamo rischio di cadere, chi sa mai, magari in un baratro, ci condanniamo alla perpetua immobilità. L’essenziale sarà di procedere con la massima cautela.
Vediamo, dunque. Giove, ogni volta che debella i suoi nemici, li scaraventa sotto la terra, o, meglio, in un baratro sotterraneo, che è chiamato ora Tartaro, ora Erebo. Qui scaglia Crono (851), qui Briareo Cotto e Gia, qui Atlante (517, cfr. 746), qui Menezio (515), qui, tutti in blocco, i Titànidi. Qui anche, con palese contraddizione, Stige ed Ecate, dilettissime al suo cuore.
Questa contrada remota e misteriosa è descritta coi colori che tutte le mitologie sfoggiano pei loro inferni. Se non che, fra i tanti particolari terrifici e generici che servono a descriverla, ce ne sono un paio che implicano una ubicazione precisa. Ripetute volte, e con espressione che certo era canonica, e serviva appunto per designare sempre questo luogo, si dice che esso è «ai confini della terra» (ἐν πείρασι γαίης 517, 621, etc.). E siccome poi l’Atlante, che sta anch’esso «ai confini della terra» è precisato che sta dinanzi alle Esperidi (le Dee del tramonto), si tratterà dei confini occidentali.
Dunque, un paese dell’estremo Occidente. E non già, come verrebbe fatto di immaginare alla prima, un paese interamente chimerico, una fantastica trasformazione della notte eterna che si suppone esista là dove il sole si immerge. Bensí un paese reale, il cui abbozzo era dato dai racconti dei viaggiatori. Un paese del Nord, del quale si sapeva, per relazioni sia pure confusissime, che il sole, vi rimaneva nascosto per lunghissimo spazio di tempo26. E questo paese è descritto su per giú coi medesimi colori che servirono ad Omero pel popolo dei Cimmerii (Odissea, XI, 14 sg.).
Qui sorge la città, il popolo è qui dei Cimmèri,
che vivon sempre avvolti di nebbie, di nubi; e coi raggi
mai non li mira il sole fulgente che illumina il mondo,
né quando il volo al cielo cosparso di stelle dirige,
né quando poi dal cielo si volge di nuovo alla terra;
ma ruinosa notte si stende sui tristi mortali.
E non facciano meraviglia queste smisurate esagerazioni. Cosí, attraverso alle relazioni dei viaggiatori le genti del luminoso Mezzogiorno concepivano i paesi del Nord. Ed anche in tempi pienamente storici persiste lo stesso atteggiamento iperbolico. Ampère ricorda un tal Candidiano di Cesena, che ai tempi di Sidonio Apollinare felicitava un bevitor d’acqua della Saône perché venendo in Italia «avrebbe visto qualche volta il sole». — «Questi oltramontani — conclude, un po’ melanconico, l’Ampère — han sempre considerate le nostre belle terre come l’antro tenebroso dei Cimmerii»27.
Questi Titani, dunque, dopo la sconfitta, sono relegati ad Occidente, e in paesi dove il sole non brilla: a Nord Ovest, traduciamo in linguaggio geografico. E in linguaggio storico diremo che dopo le sconfitte tornavano alle terre da cui erano partiti. Il paese della loro relegazione è il paese della loro origine.
Ed apriamo ora Callimaco, e leggiamo, nell’inno a Delo, il brano, in cui, parlando dell’invasione dei Galli in Grecia del 277, dice: «Quando dall’estremo Occidente gli epigoni Titani irromperanno levando contro gli Elleni la spada barbarica ed il Marte celtico»28.
«Nulla io canto — diceva Callimaco29 — che non sia documentato». Anche qui ebbe certo la sua fonte. Esisteva dunque una tradizione che identificava i Titani coi Celti, e li poneva nell’estremo Occidente.
Ma i Cronidi erano anch’essi Titani, anch’essi Celti. Dunque, la titanomachia fu lotta di Celti contro Celti: di Achei contro Achei.
È qui il caso di ricordare che il Gladstone30 già a suo tempo rilevava le analogie che intercedono fra gli Elleni e i Germani quali Tacito li descrive (statura alta, capelli rossastri, occhi azzurri), e che il Ridgeway, che certo si deve annoverare fra i piú dotti ed acuti ed assennati indagatori della Grecia antichissima, ha dimostrato ineccepibilmente, nella sua Early Age of Greece, come in tutte le condizioni materiali della civiltà gli Achei d’Omero differiscono dai Pelasgi quanto concordano coi Celti del Nord31.
Dunque, la traduzione del linguaggio mitico in linguaggio storico, d’altronde condotta senza sforzi né sofismi, combacia perfettamente coi risultati della indagine storica moderna. La storia della Grecia preomerica è una sequela ininterrotta di lotte fra le varie ondate di invasori che dalle vie del Nord scendevano verso l’agognata penisola. La leggenda dei Titànidi, alla quale Esiodo diede forma poetica, riflette una di quelle lotte.
E nel suo racconto esistono particolari che ci permettono di muovere ancora un passo.
I Cronidi son dunque sull’Olimpo, i Titani a sud, sull’Otro. Quelli incalzano al confine settentrionale, per invadere le terre agognate: i Titani, i guerrieri che in un’epoca anteriore erano discesi nella Tessaglia, si sono rifugiati all’estremo lembo della loro terra, nella Fòcide, e di lí, in una zona montuosa, organizzano la resistenza. E con loro sono le popolazioni pelasgiche, che li amano perché si son sempre dimostrati tolleranti e non superbi, democratici, in una parola, e perché hanno introdotta fra le popolazioni pelasghe una civiltà superiore (leggenda del fuoco di Prometeo, e delle invenzioni di tutti i Titani),
Dopo dieci anni di lotte, gl’invasori trionfano; ma non è un trionfo duraturo, perché il vincitore si deve alla fine rappattumare col piú fiero e temibile nemico, Prometeo.
Durante la guerra, gl’invasori cercano alleati fra altri popoli delle loro stesse regioni con alcuni dei quali erano stati in guerra. E, finita la guerra e conseguita la vittoria, li fanno ritornare ai loro paesi.
Ed ora, dopo tante traduzioni dal linguaggio mitico al linguaggio storico, un’altra bisognerebbe farne ancora: quella dei nomi. Perché non crederemo che Urano, Crono, Gea, Giove fossero i veri nomi di antichi principi: sono, senza dubbio, quelli, assai trasparenti, di antiche divinità del cielo piovoso, del tempo, del cielo sfolgorante, della terra. Ed altri furono i nomi dei personaggi realmente esistiti, ai quali si attribuirono le discorse vicende.
Ma nel corso dell’elaborazione mitica, in séguito a processi che si possono immaginare varii e molteplici, ai nomi reali di príncipi che furono o furono proclamati potentissimi, o addirittura identificati con la divinità, come avveniva un po’ in tutto l’Oriente, furono sostituiti nomi, appunto di Dei. Se pure — ed è anzi piú probabile — questi nomi non furono a loro applicati già durante la vita, come epiteti, che poi, a mano a mano, soverchiarono e sostituirono il vero nome. Di un simile processo non mancano esempii storici. I Faraoni, per meglio affermare l’intima loro relazione col Dio, nei protocolli ufficiali al primo loro nome facevano precedere quello del Dio Horo. Ogni re era concepito come un novello Horo. Ed anche in tempi recenti abbiamo avuto le roi Soleil. E un processo formalmente inverso, ma sostanzialmente identico, riscontriamo nel mondo greco antichissimo, quando troviamo, per esempio, nella schiera dei Numi, Giove-Agamennone, Giove-Anfiarao, Giove-Aristeo, Apollo-Carneo, Posidone-Eretteo, Artemide-Ifigenia.
E, trascorrendo via via gli anni ed i secoli, tutte le creature della mitologia, quale che fosse la loro origine, andavano soggette a quel processo che abbiamo descritto, e, che, massime sul binario principale della antropomorfizzazione, conferiva a tutte un certo carattere di omogeneità, dal quale rimaneva mascherata la originale essenziale eterogeneità irriducibile.
E gl’innumerevoli Dèmoni, e persino le astrazioni, aspirando alla forma umana, acquistavano una concretezza che le faceva scambiare con le creature realmente esistenti. E le figure mostruose derivate da fiere e da fenomeni fisici, rivestendo forme, o in tutto o in parte simili a quelle degli uomini, e facoltà umane, qualitativamente, se pure non quantitativamente, si aggregavano facilmente alla loro schiera. E le figure storiche, via via ingigantendosi, e perdendo insieme la precisione dei contorni, finivano per acquistare un’aria di famiglia con quelle immagini di larve.
Se non che, in mezzo al brulichio di quest’ultime, sporadiche, sparpagliate, turbinanti senza ordine o disciplina nello spazio senza confini e senza luce della mitologia primitiva, quel nucleo storico di elementi aggregati e compaginati con nessi logici, presentava una entità speciale, faceva corpo, ed esercitava su tutti gli elementi dispersi una vera forza di attrazione. E questi incominciano a gravitare intorno a quello; ed alcuni vi precipitarono sopra, verificandosi le piú strane mescolanze.
E, operando l’influsso di vere o presunte analogie, di nessi e richiami che qualche volta si scorgono, e assai spesso ci sfuggono, si fantasticano fra quelle creature eterogenee i rapporti piú ibridi e chimerici. E l’eroe o il principe, divenuto Dio, si immagina generato da una essenza primordiale; e lotta contro il mostro; ed ha per compagno di zuffa il fenomeno fisico; e l’astrazione per alleata. E crebbe la complicazione quando a questo processo incosciente subentrò la voluta sistemazione. Allora, le analogie furono cercate di proposito, e con una diligenza e una sottigliezza a cui spesso mancava la bussola dello spirito critico, e mancavano, e non potevano esserci, le cognizioni di fatto che abbiamo acquistate noi moderni, attraverso secoli di insistenza e di perfezionamenti dei criteri critici, e di infiniti ampliamenti della materia di studio.
Quando Esiodo si accinse a comporre la Teogonia, assai probabilmente questa opera di sistemazione era già compiuta; e se è lecito riconoscere la sua opera individuale in qualche sistemazione d’indole generale e filosofica, dobbiamo però supporre, come già dicemmo, che in genere egli si attenesse alla tradizione vulgata.
Pure, un’ultima trasformazione subí la materia nella sua elaborazione. La subí in questo senso; che, dovendo Esiodo, pel proprio ufficio di poeta, dar corpo ai fantasmi, conferí alle figure evanescenti, e specialmente alle immani e mostruose, che piú seducevano la sua fantasia (vedi introduzione a Le Opere e i Giorni), tale concretezza, che d’allora in poi si impressero in tutte le fantasie, rimanendo nel medesimo piano delle figure originariamente storiche, senza piú possibilità di discriminazione. E discriminazione non fu fatta, in realtà, nell’età classica; e se qualche voce discorde sorse a sostenere la originaria realtà di alcuni di quei miti, fu presto soffocata dal numeroso stuolo dei dissidenti.
Ma perchè lo strano equivoco per cui nella Teogonia la lotta fra Giove e i Giapètidi, che è poi, in sostanza, tutta la titanomachia, è esposta in maniera cosí equivoca da sembrare invece un’altra cosa dalla titanomachia stessa?
Per questo, credo: che, in realtà, questa lotta tenacissima, durissima, di dieci anni, fra i Cronidi e i Titani, non riuscí a gran gloria dei primi, che, verisimilmente, erano preponderanti e meglio armati. Se non che, quando infine trionfarono, e la storia si cominciò ad atteggiare, al solito, a vantaggio dei vincitori, e poi questi furono trasformati in Numi, e la storia in mitologia, la qualità di Numi diveniva incompatibile con una guerra cosí faticosa, condotta verso creature inferiori. Conveniva ingigantire il nemico. Ed ecco, il gruppo dei Giapètidi fu convertito genericamente in gruppo di Titani; in cui era agevole sottintendere tutte le terribili creature generate primieramente da Urano e da Gea: le quali, viceversa, quando si passa ad una analisi, risultano tutte alleate di Giove.
Forse qualche studioso inorridirà al solo pensiero di dover tribuire una qualsiasi entità storica a Prometeo, Epimeteo, Menezio, Atlante, Giapeto, e, Dio ne guardi e liberi, Giove, Crono ed Urano.
Io però vorrei ricordare le parole con le quali, non un meschino filologo, bensí uno storico d’alto criterio, Giorgio Grote, proverbiava il Thirwall, reo d’aver creduto che qualche dato storico si potesse distillare dalla leggenda troiana. «Quella che io segno come terra incognita — diceva il Grote — è per lui una terra che fino ad un certo punto può essere conosciuta; ma la carta che egli ne disegna contiene cosí poche località sicure, che ben poco differisce dall’assoluta vacuità». — «Assai deve fidare nella sua intuizione — diceva altrove — chi presume ricavare da cosí intricate parole alcun dato storico».
Ironia, che fu delibata fino all’ultima stilla da tutti i critici positivi; ma che ora, dopo 60 anni di prodigiose scoperte (lo Schliemann cominciò i suoi scavi ad Hissarlick nel 1870), ricade in pieno sul capo di chi se ne serví allora con tanto compiacimento.
Egli è che il Grote, ad onta delle sue altissime doti, equivocava stranamente nel credere che spirito animatore e guida delle discipline storiche potesse essere la medesima vigilanza meticolosa sospettosa e guardinga che giova — seppure — nelle cose pratiche.
Giova invece, innanzitutto, quella intuizione a cui egli accenna con tanto sarcasmo: giovano il sentimento, la passione, la fantasia: giova la mente divinatrice.
Ed ora rileviamo un fatto singolare. Nella sistemazione teologica della Teogonia, trovano posto tutti i Numi, e dunque, primi quelli d’Olimpo. Ma la radiosa schiera di questi ultimi, che tanto aveva sedotta la fantasia, sia pure non reverentissima, d’Omero, e che doveva poi imprigionare nel cerchio del suo incantesimo tanta parte della poesia e quasi tutte le manifestazioni delle arti figurate di Grecia, non sembra esercitare alcun fàscino sulla fantasia d’Esiodo. I loro nomi, i loro attributi, le loro gesta, appaiono quasi sempre nell’arida forma dell’elenco, del catalogo.
La fantasia del poeta s’infiamma invece, meravigliosamente, per la titanomachia ed anche per la lotta di Tifone con Giove. Ma i colori adoperati a dipingere e l’una e l’altra, sono desunti da fenomeni naturali. Imperversar di tempeste, nubi che furiose cozzano le une contro le altre, spaventevoli intrichi di folgori che scoscendono sulla terra a migliaia.
E quanto il poeta sia affascinato da questi spettacoli orridi e meravigliosi, e quanta sia la precisione con cui li dipinge, e, dunque, la sua potenza d’osservazione, basta a dimostrarlo la pittura di Tifone folgorato da Giove e seppellito nell’Etna.
E quello, poi che fu domato, spezzato dai colpi,
piombò giú mutilato, die’ gemiti lunghi la Terra.
Ed una vampa sprizzò dal Dio folgorato percosso
nelle selvose convalli dell’Etna tutte aspre di rupi.
E lungo tratto ardea per quel fiato divino la terra
dall’ampio dorso, e al pari si liquefaceva di stagno
quando lo scaldano dentro nei cavi crogioli i garzoni,
oppur di ferro, ch’è fra tutti i metalli il piú duro,
quando in convalli montane lo doma col rabido fuoco
entro la terra divina, lo liquefa Efèsto l’industre.
Cosí la terra al vampo del fuoco si liquefaceva.
È la colata lavica. E non ne conosco descrizioni moderne altrettanto evidenti ed efficaci.
Non sentimento epico, dunque, ma sentimento della natura, per il quale il poeta della Teogonia si avvicina al poeta de Le opere e i giorni. E una certa parentela intercede anche fra la titanomachia e la potentissima descrizione dell’inverno di quel poemetto.
Ed osserviamo, ancora. La Teogonia non canta miti solamente di Numi, bensí anche d’eroi. E sul suolo della Beozia, si innestava una quantità enorme di miti, umani e divini.
Si comincia dalla lotta di Cadmo col drago, dagli Sparti magicamente germogliati dai denti seminati del mostro debellato. Poi, le singole storie, una piú meravigliosa dell’altra, delle figlie di Penteo. Fra queste, la leggenda di Diòniso, la lotta del Nume con Penteo, la folgorazione e la distruzione della reggia tebana.
E con Diòniso si diffondono per la Beozia i suoi riti meravigliosi. I vertici del Citerone rifulgono a notte di mille e mille auree fiaccole, e sotto l’ombre delle foreste centenarie si svolgono le magiche fantasmagorie dei Baccanali, che, redimiti dal duplice alone della poesia e della musica, hanno tanta virtú da mutare il clima spirituale di tutto il popolo greco.
Ed ecco Anfione, che col suono della sua lira fa miracolosamente sorgere le mura di Tebe.
E a Tebe nasce Ercole, l’eroe sommo di tutta la gente greca.
E quando il fato d’Èrcole declina, ecco sul cielo temporalesco del suo tramonto profilarsi negre le ombre dei Labdàcidi, visione apocalittica, che basta ad alimentare di sé tanta parte del dramma greco, e che tuttora, dopo il transito di millenni, riesce a dominar la fantasia di artisti moderni e modernissimi.
Ebbene, quale influsso ha esercitato questo tesoro incomparabile sulla fantasia del poeta della Teogonia? Poco o nessuno. Da una cosí ricca miniera egli non scava il metallo per alcuna statua. E non è inibizione professionale, e non è disdegno, per i miti connessi in qualche modo con l’umanità. Egli s’interessa pure ad altri miti umani. A quello delle cinque età del mondo, e a quello dei Giapètidi. E tanto s’interessa, che le parti in cui li svolge, se non reggono il confronto con la titanomachia, si levano però sempre ad alto clima d’arte.
In conclusione, gli occhi e il cuore del poeta sono volti altrove che non fossero gli occhi e il cuore d’Omero. Verso un’altra istoria, verso altre favole. Egli è, manifestamente, il poeta d’un’altra gente.
Note
- ↑ Dice Platone (Cratilo, 397): «Mi pare che gli antichissimi Elleni adorassero come Numi quelli medesimi che adesso onorano i barbari: il sole, la luna, la terra, gli astri ed il cielo».
- ↑ Parla di Omero, che ricorda lo Stige. E soggiunge: ταῦτα μὲν δὴ ἐποίησεν ὡς ἂν ἰδών ἐς τὸ ὕδωρ τῆς Στυγὸς στάζον.
- ↑ Si dica se non sembra di sentire un ricorso di simile impressione nella seguente comunicazione che si è letta nei giornali del 12 settembre 1928: «Telegrafano da Johannesburg che, come gli altri anni, fra i fiumi Zambese e Orange, l’invasione delle cavallette ha assunto proporzioni impressionanti. Una colonna delle terribili bestie misura ben 180 chilometri di lunghezza. Non appena è stato avvistato il fittissimo nugolo, uno stuolo di dodici aeroplani si è levato dalla base di Johannesburg, per assalire gl’invasori. Un nutrito getto di bombe fumogene, preparate con potenti disinfettanti micidiali, ha fatto strage delle cavallette.
- ↑ Apoll. Rod., II, 187: ἀλλὰ διὰ νεφέων ἄφνω πέλας αἴσσουσαι — Ἅρπυιαι.
- ↑ Si veda l’opera oramai classica del Frazer: Il ramo d’oro (trad. Lauro de Bosis, Vol. I, 183 sg., II, 350 sg.).
- ↑ Senofonte, Memor., I, 1: τοὺς μὲν οὔθ᾽ ἱερὸν οὔτε βωμὸν οὔτ᾽ ἄλλο τῶν θείων οὐδὲν τιμᾶν, τοὺς δὲ καὶ λίθους καὶ ξύλα τὰ τυχόντα καὶ θηρία σέβεσθαι.
- ↑ 7,0 7,1 Cfr. il mio studio Origine ed elementi della Commedia di Aristofane, in Studi italiani di filologia classica, XIII, 83 sg.
- ↑ Livio narra (I, xxvii) che Tullio, «in re trepida duodecim vovit Salios fanaque Pallori ac Pavori».
- ↑ Vedi il mio volume Musica e poesia nell’antica Grecia, pag. 230, cfr. 233.
- ↑ Non ignoro, ma non accetto integralmente i dettami della glottologia scientifica, sommamente benemerita, ma che nei suoi imperativi estremi e consequenziarî è, secondo me, destinata al fallimento.
- ↑ Plutarco, Erotico, XIII, dice: «Mi pare che Esiodo si accordi di piú con la natura (φυσικώτερον ποιεῖν) facendo Amore piú antico d’ogni creatura, sí che tutte le cose per suo effetto partecipino alla generazione».
- ↑ Cosí conviene intendere il φιλότης o ricorrere alla espunzione del verso. Io accoglierei l’osservazione dello Schoemann (Theog., p. 135): Die Liebeslust, wobei namentlich an die nächtliche des gemeinschaltlichen Lager zu denken ist.
- ↑ Tale è l’opinione del Wilamowitz nel suo recentissimo Hesiodos (Berlino, 1928).
- ↑ Nel lessico del Roscher, alla voce Δίκη.
- ↑ Nell’opera di Ernesto Pfuhl: Malerei und Zeichnung der Griechen, III, 182.
- ↑ Hesychio, φορκόν = λευκόν. Inutile, dunque, il tentato ravvicinamento a φρίξ.
- ↑ Secondo altri, le grinzose; e allora simboleggerebbero le increspature delle onde.
- ↑ Vedi Pindaro, Istmia IV, 1 sg., e le mie osservazioni nel volumetto Pindaro e polemiche pindariche, pag. 162 sg.
- ↑ Bibliot. (ed. Wagner), 1, 2, 3: Ἰαπετοῦ δὲ καὶ Ἀσίας Ἄτλας ... καὶ Μενοίτιος ὸν κεραυνώσας ἐν τῇ τιτανομαχίᾳ Ζεὺς κατεταρτάρωσεν.
- ↑ Iliade, VIII, 478: οὐδ' εἴ κε τὰ νείατα πείραθ' ἵκηαι - γαίης καὶ πόντοιο, ἵν' Ἰάπετός τε Κρόνος τε - ἥμενοι οὔτ' αὐγῇς Ὑπερίονος Ἠελίοιο - τέρποντ' οὔτ' ἀνέμοισι, βαθὺς δέ τε Τάρταρος ἀμφίς.
- ↑ Ἔνθα περ ἄλλοι - ἔσαν θεοι ἠδ᾽ἄνθρωποι.
- ↑ Verso 535: Ὅτ᾽ἐκρίνοντο θεοὶ θνητοί τ᾽ἄνθρωποι. Non vedo che all’ἐκρίνοντο si possa tribuire valore diverso.
- ↑ Diodoro, II, 5. Giova riportare le caratteristiche parole del testo: συνέβαινε τὸν ἄνδρα τελέως ὑπ’ αὐτῆς δεδουλῶσθαι, καὶ μηδὲν ἄνευ τῆς ἐκείνης γνώμης πράττοντα κατευστοχεῖν ἐν πᾶσι.
- ↑ Harrison, The Greek Religion, 35.
- ↑ Die Hesiod. Theog., 183.
- ↑ Queste sono verità oramai accettate da ogni persona di buon senso. Rimando ad ogni modo al noto lavoro del Berard: Les Phéniciens et l’Odyssée.
- ↑ Ampère, op. cit., p. 122.
- ↑ I, 171: Ὁππότ’ ἂν οἳ μὲν ἐφ’ Ἑλλήνεσσι μάχαιραν - βαρβαρικὴν καὶ κελτὸν ἀναστήσαντες Ἄρηα - ὀψίγονοι Τιτῆνες ἀφ’ ἑσπέρου ἐσχατόωντος - ῥώσωνται.
- ↑ Οὐδὲν ἀμάρτυρον ἀείδω: divenne proverbiale.
- ↑ Studies in Homer, I, 553.
- ↑ Cfr. J. Harrison, Religion of ancient Greece, 28.