Memorie storiche di Arona e del suo castello/Libro II
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LIBRO SECONDO
SOMMARIO:
Ottenuta che ebbe il conte dal Sommo Pontefice Giovanni XII l’assoluzione delle fulminategli censure, giusta le sue promesse nel ritorno che fece da Roma l’anno 979, diede quivi principio al proposto monastero, e lo ridusse in seguito a fine, avendo dedicata la chiesa del medesimo al Salvatore ed ai santi Gratiniano e Felino, secolui trasportati da Perugia, sottoponendo il monastero all’istituto di san Benedetto.
Non pare difficile a precisarsi il luogo in cui è stato eretto questo monastero, conoscendosi ancora il medesimo dalla interna struttura, sebbene ridotto ad un’abitazione civile, e la sua unione alla chiesa di san Gratiniano non lascia dubbio che sia stato sempre quello in cui ultimamente si trovava il collegio dei PP. Gesuiti; casa che io ritengo delle prime state fabbricate in Arona, e probabilmente sulle rovine di un’altra che colà esisteva, di proprietà del conte fondatore; a ciò argomentare m’induce l’essersi in quella casa ritrovata l’urna sepolcrale citata nel primo libro e gli indizi di antichità che nel seguito di queste memorie avremo luogo di rimarcare.
Si ignora il nome del primo abbate di questo monastero; egli è però probabile che sia stato lo stesso conte fondatore, mentre nella cronaca surriferita in di lui proposito si legge: Sed quia miles sæculi, miles maluit effici Christi. Pare che egli, fondato il monastero, abbia vissuto il rimanente de’ suoi giorni nel medesimo in qualità di capo e fondatore, il che si rende anche più verosimile dalle espressioni dell’epigrafe avanti citata. Si ignora pure il nome di famiglia di questo conte Amizone per l’uso di que’ tempi di indicare le persone, e specialmente le qualificate, col solo nome di battesimo, omettendo per lo più il cognome 3. Non posso però concorrere nel sentimento di quelli che lo vogliono conte di Angera e del Seprio 4, ed uno degli ascendenti della famiglia Visconti sia perchè questa, come già dissi, nell’anno 979 non era ancora conosciuta sul Verbano, nè si trova alcuno dei Visconti che in tal epoca fosse conte del Seprio, sia perchè nella cronaca viene qualificato Comes Amizo Stationensis, atque Sepriensis comitatuum incola ; il che, come dice il Padre Zaccaria, significa bensì che Amizone era conte, e che abitava nei contorni di Stazona e di Seprio, ma non già che fosse egli conte di questi luoghi. Ciò che è certo si è che qualificato Amizone per capitano generale di Ottone I in Italia dalla suddetta cronaca, questa corrisponde benissimo cogli atti relativi alla presa di Roma da esso lui eseguita colle armi di Ottone.
Sarà forse richiesto il perchè nell’epigrafe della sua tomba il conte viene chiamato Adamo, e nella cronaca Amizone. Si è già avanti dimostrata la sinonimia di questi vocaboli; ma scioglieremo ancora meglio il quesito colle stesse parole del Padre Papebrochio, il quale dice, che unum idemque nomen credi possit Adam et Amizo formatum ex nomine priori per apheresim prima sillabe ad Italis (de’ barbari tempi) usque adeo familiarem. Perchè poi venisse chiamato principe si è che questo titolo anticamente si attribuiva ai conti5. Il Corio fa discendere questo conte dalla stirpe del re Desiderio e di Berengario, e Tristano Calco lo enumera fra i principi italiani che Ottone II aveva ricolmi di beneficii dopo la morte del padre allorachè sen venne in Italia; per cuì il Bescapè, a pag. 78, ebbe a dire: guod autem Corius Regie Desiderii aut Berengarii stirpis cum facit, unde hauserit nescio: ed in altro luogo: Adam certe Tristanus inter alios Italos principes numerat, quos Otho Secundus statim post mortem patris, cum in Italiam venisset, beneficiis affecit.
Dal già citato Padre Zaccaria sono state pubblicate alcune delle antiche pergamene e carte di quest'abbadia, che illustrò inoltre di molte critiche osservazioni; ma le troppo scarse edizioni del suo lavoro fanno sì che a ben pochi sia quello a cognizione; e così resta quasi dimenticata la memoria di tante belle cose che non poco influiscono ad illustrare la storia patria; onde mi pare prezzo dell’opera che, narrando la serie cronologica degli abbati di detto monastero, debba citare sotto gli anni di ciascun abbate un saggio dei relativi documenti che contengono fatti singolari aventi i più intrinseci rapporti con ciò che presi a trattare, ed a varie consuetudini anche tuttora vigenti: mi limiterò per altro, per amore di brevità, a citare que’ soli passi che possano avere relazione ai fatti ed alle cose degne di rimarco, conservando l'integrità dello stile e dell’ortografia di quei tempi.
SERIE CRONOLOGICA
degli abbati dell'istituto di san benedetto in arona
1023 Orso. Viveva nel 1050.
1044 Guglielmo.
1112 Uberto, o Viberto. Era vivo in ottobre 1125.
1155 Viffredo, o Valfredo.
1162 Guglielmo.
1172 Gerardo, o Gherardo.
1198 Ariberto. Alli 5 febbraio 1227 era ancora
abbate.
1227 Guglielmo.
1252 Corrado Bossi.
1259 Anrico, od Enrico.
1515 Martino da Bovirago.
1323 Rizzardo, o Ricardo d’Agliate.
1544 Gratiniano da Besozzo.
1352 Federico Terzago.
1376 Jacopo da Ispra.
1380 Zanotto Visconti da Castelletto sopra Ticino.
1382 Jacopo De Arborio di Vercelli.
1419 Eusebio De Marinis di Arona.
1427 Sozzino De Balbis.
1453 Francesco Borromeo.
1484 Francesco De Eustacchio di Pavia.
1487 Gerolamo Calagrani.
1497 Gioanni Antonio Ferreri di Vercelli , era abbate
commendatario anche nel 1512 6.
1555. Alessandro Cesarini cardinale.
1546 Il conte Giulio Cesare Borromeo.
È da notarsi che tra Guglielmo, primo di questo nome, che venne eletto abbate nell’anno 1044, ed Uberto o Viberto, che lo fu nel 1112, deve esservi stato un altro abbate, di cui si ignora il nome, non essendosi potuto ricavare dagli atti dell'abbazia, non potendosi supporre che detto Guglielmo sia stato in carica pel corso di sessantotto anni continui.
Dissi che nell’anno 999 era abbate certo Lanfredo: eccone la prova in uno stralcio d’istromento di cambio di terreni seguito tra esso; lui ed Arnolfo II arcivescovo di Milano. «In Christi nomjne tertius Otto Gratia Dei Imperator Augustus, anno imperii ejus quarto, decimo kalendas Julias indictione xii. Commutatio bone fidei noscitur esse contractum ut vicem emptoris oblineat ad firmitatem, codemque nexu obligare concordantes. Placuit itaque, et bona convenit volontate inter Dominum Arnulfus archiepiscopus Sanctae Mediolanensis Ecclesia, nec non inter Lanbredus Abba monasiterio Domini Salvatoris, quod est fundatum in loco et fundo Arona, juxta lacum Majorem, ubique quiescunt corpora Sanctorum martirum Filini et Gratiniani, ut in Dei nomine debeat dare, sicut et a presenti dederunt ac tradiderunt vicissim în causa commutalionis nomine in primis dedit ipse Dominus Arnulphus archiepiscopus....» Seguono le indicazioni dei terreni permutati, che tralascio per brevità, e tra questi trovo la coerenza di una pezza, di terra col riale Vevera, in allora detto Beura, tuttora esistente, ed è quel torrente che scaturendo a piè del colle posto tra le due terre di Ghevio ed Invorio superiore, scorre sino al lago, segnando il confine di una gran parte del territorio di Arona da mezzodì a sera. Ivi si legge: «Quarto dicitur a Maragno, da una parte Rio qui dicitur Beura, de alia Sanctæ Mariæ. Le sottoscrizioni a detto istromento sono: Ego Arnulphi Dei gratia humilis Archiepiscopus subscripsi — Ego Ildegarnus Subdiaconus missus fui et subscripsi — Ego Aribertus Judex de Milimpris exaravi, et subscripsi. — Ego Dagibertus Judex Sacri Palaciî, qui super his rebus æstimavi supra et subscripsi...... Signum manibus Gisemundi de Arce Arona, et Andeberti testes..... Ego Joannes Judex de Uximate, qui habito in loco Arona hauthenticum hujus exempli vidi et legi.....» A maggiore intelligenza di questa pergamena, ed acciò meglio appaia la di lei autenticità, si fa riflettere che nella storia pontificale di Milano si trovano tre Arnolfi arcivescovi di detta città: il primo eletto nell’anno 974 dall'imperatore Ottone II in arcivescovo col titolo anche di conte dell'impero, e questi faceva governare le cose sue temporali da un luogotenente secolare, che chiamò Vice-Conte e poscia Visconte. Il secondo è Arnolfo della casa Arsaghi, milanese, successo nel 998 a Landolfo Carcano sotto l’imperatore Ottone III. Questi ha seduto diecinove anni, ed è quello di cui parla la pergamena 7. II terzo è Arnolfo De Capitanei, milanese, successo ad Anselmo Rho nel 1092 nella sede arcivescovile suddetta. Impariamo poi anche da questa cronaca come sino dal 999 si usasse misurare, come al presente, i terreni a pertiche ed a tavole, metodo questo che si introdusse in Italia sul principio del secolo nono; ed in prima le terre si misuravano a pedatura 8. Altro non meno plausibile documento si è una pergamena signata col primo anno dell'impero di Enrico il Zoppo, che enuncia un contratto enfiteutico tra il suddetto abbate Lanfredo e certo Marino della città di Milano, seguìto in agosto dell’anno 1013. In Christi nomine Henricus gratia Dei Imperator Augustus, anno imperii ejus, Deo propitio, primo mense augustus. Placuit atque convenit inter Dominus Marinus filius quondam Gaudentiis de civitate Mediolani, nec non inter dominus Lanfredus abbas.... Nostri Salvatoris, et sanctorum martirum Gratiniani et Filini, qui Vicitur Arona, que est constructum juxta lacum..... in Dei nomine debeat dare, sicut a presenti dedit ipse Marinus eidem domino Lanfredi abbas ad abendum..... et parte ipsius monasterii facere laborandum vel censum reddendum libellario nomine usque ad annos.... expletos idest medietatem de omnibus rebus territoriis illis monasterii saneti Victoris, ubi sanctum ejus quiescit corpus, que est fundatum foris prope ac civitate Mediolani.....» Che strana maniera di scrivere la bella lingua del Lazio!
Nell'anno 1022 cessò di vivere Lanfredo, e vi successe l’abbate Orso, sotto il di cui regime il monastero crebbe in pregio ed in ricchezze, specialmente per le donazioni che gli venivano fatte. Due pergamene, la prima delli 2 novembre 1025, e la seconda delli 5 aprile 1030, ne fanno autentica prova: «In nomine Dei et Salvatoris, nostri Jesu Christi. Enricus Dei gratia Imperator Augustus anno imperii ejus, Deo propitio decimo secundo die mensis novembris, indictione septima monasterio Domini Salvatoris, sanclorem martirum Filini et Gratiniani, quod est fundatum intra castro Arona, ubi Dominus Ursis abbas preordinatus esse videtur, quod monasterium ipsum, et omni. sua pertinentia, pertinere videtur de sub regimine, et potestate archiepiscopo sancita Mediolanensis Ecclesia, ubi dominus Aribertus archiepiscopus preordinatus esse videtur. Nos Ricordus..... segue una insigne donazione al monastero di tre parti della Corte di Cerro, e di tre altre parti del suo castello ivi chiamato Cassarum, e di tre parti della chiesa dedicata a san Maurizio. I donatori erano certi Riccordo, figliuolo della buona memoria di un altro Riccordo, e di Anselma sua moglie, figlia di Lanfranco conte. Ritengasi che il termine di buona memoria, che usavasi in questi tempi, veniva dato solamente alle persone qualificate o potenti, come al certo saranno stati il suddetto Riccordo e la sua moglie, che fecero una sì pingue donazione a questi monaci. Da tale documento si scorge ad evidenza, che questa abbadia era già divenuta di juspadronato dell'arcivescovo di Milano, e ciò lo fu per fatto del medesimo imperatore Enrico, che gliela concesse in commenda. L'altra pergamena del 1050 è del tenore seguente: « In Christi nomine Curradus gratia Dei Imperator Augustus, anno imperii ejus , Deo propitio quarto, tertio die. mensis aprilis, indictione xiii, monasterio Domini Salvatoris, sanctorum martiri Filini et Gratiniani, quod est fundatum infra castro Arona prope laco Majore ubi Dominus Ursus preordinatus fuit..... Nos adam..... subscriptus Giselbertue Notarius Sacri Palatii per data licentia Domini Uberti comes, scripsi, post tradita complevi et dedit. Actum subscripto loco Arona. Chi fosse questo conte Uberto non mi venne fatto di scoprirlo; non vi è memoria che a quest'epoca Arona fosse eretta in contado, per crederlo conte di Arona. La licenza che egli diede di rogare l’atto suddetto, fa credere che fosse persona di autorità immediata sopra il, paese. Io porto opinione eguale al Padre Zaccaria ed al Giulini, che fosse conte di Stazzona, ora Angera, al quale appartenesse l'autorità od il comando sopra questo castello. In sostanza questa pergamena contiene una donazione fatta da certi Adamo e suo fratello al monastero di varii beni posti nel territorio di Meina {e sono gli stessi che dai Benedettini passarono nei Gesuiti). Altra donazione fu fatta al monastero mentre lo reggeva il successivo abbate Guglielmo nell’anno 1044, il che risulta da una pergamena delli 15 novembre intitolata: Carta offersionis facte Monasterio de petiis seu de terra in loco Olegio Longobardorum, da certo Ugo del medesimo paese di Oleggio, che è il presente Oleggio Castello.
Qui trovo il già rimarcato vuoto, mentre dal 1044 al 1112, cioè per anni sessantotto continui, non ho rinvenuto chi fosse abbate di questo monastero; e lo smarrimento dei documenti di questo notabile periodo ci ha privati di molte rimarchevoli memorie dell’abbazia. Colle continue donazioni, coll’investitura dei beni dell’antica chiesa di san Martino di Pombia, che il monastero ottenne da Odone vescovo di Novara, e coll’esenzione delle decime che l’abbate Viberto od Uberto, successo a Guglielmo, conseguì da Eppone, altro vescovo di Novara, per breve di transazione tra il popolo di Pombia, il detto vescovo ed il monastero nell’anno 1112, crebbe a tal segno in ricchezza ed in potere, che sotto i successivi abbati, approfittando del torbido dei tempi e della noncuranza dei dominanti, esercitò dapprima una specie di giurisdizione quasi feudale, ed in appresso una piena ed assoluta podestà feudale. Quasi feudali sono le seguenti investiture dell’abbate Uberto, del mese di Ottobre 1123, il quale Per fuste9 investivit Sadum filium q. Burgoni Senaldo de loco
» * Staciona 10 nominative de pecias tres, una de campo, et duas de vineas juris S. Gratiniani et Filini, qua videtur esse in loco , et fundo Lesia..... Dell'abbate Viffredo di lui successore: «Anno ab Incarnatione Domini nostri Jesu Christi 1155 mense junio indictione xiii, per fuste et chartam investivit Domine Abbas de mopasterio, quod est constructum in loco Arona sancti Gratiniani et Filini cidem Uberto Scutario, filio q. Nigro de loco Solcio, nominative de pecia una de campo cum vinea in simul tenente, que videtur esse in loco Solcio, et jacet ubi digitur a Calcariolo, et est juris sancti Gratiniani... ca ratione ipse Uberto et suis heredibus habere, et tenere debent usque in perpetuum ad persolvendum..... Actum monasterio Arona feliciter..... » È poi pienamente feudale l’investitura fatta dall’abbate Guglielmo, secondo di questo nome, il quale, alli 12 di aprile del 1162, investivit per feudum legaliter Turcum, et Girum germanos di alcuni campi e prati, per la quale investitura accepit denarios bonos mediolanenses solidos quindecim... trovandosi questa investitura data in Curia monasterii Arona. Ed è pur tale anche la seguente: «Anno Dominica Incarnationis 1168 mense februario, indictione prima, prasentia bonorun hominum, quorum nomina subter leguntur, per lignum, et chartam, qua sua manu tonebat dominus Guilielmus abbas offitialis ecclesia et monasterii sanctorum Filini et Gratiniani sita in loco Aronæ, investivit per hereditatem ad usum Curiæ Arona Frondradum et Civagium germanos de suprascripto loco, nominative de camporum petiis duabus Suris suprascripti monasterii... ad usum codicum, et honorem sanctorum Filini et Gratiniani.» Manca l’abbazìa di memorie sino al 1172, volendo attribuire questa lacuna all’inazione in cui erano le popolazioni lombarde pel timore incusso dall’eccidio di Milano eseguito da Federico I detto il Barbarossa, per gli incendii e le devastazioni indi seguite, e per l’emigrazione di quei popoli. Nell'anno 1172 era abbate certo Girardo, e lo impariamo da una pergamena delli 15 gennaio di detto anno, data in Pombia, dove fece investitura a certi Manzo e Bellino di Oleggio di fondi a ficto reddendo omni anno viginti staria medietatem secalis, et medietatem panici ad dictum starium de Ulegio, et tres nummos veterum, et debent conducere omni anno in loco Plumbia a sancto Martino... Ci confermiamo da questa carta di quanto poc'anzi dissimo, che il monastero di san Martino di Pombia era di ragione dell’abbadìa di Arona. L’abbate Girardo procurò nell’anno 1174, da certi Pietro ed Avostana giugali De Gastaldi, una donazione di terreno in territorio di Arona, petiam unam campi juris nostri quam habere visi sumus in territorio predicti loci Arona ad locum ubi dicitur la Valle, cui coheret a meridie Veuvra, a mane via a monte Bragii.... È da notarsi che questo possesso, coi molini ancora in oggi denominati alla Valle, stati nel medesimo edificati sul torrente Vevera dai Benedettini, passò dai medesimi nei Gesuiti, e quindi nel Capitolo della Collegiata di Santa Maria di Arona, come si dirà in appresso. Acquistò per: mezzo del suddetto abbate Girardo il monastero degli altri beni nel territorio di Oleggio alli 5 di aprile del 1185 per immissione in possesso eseguita d’ordine dei consoli di Novara. E così seguitando, ora con donazioni, ora con investiture di diritti e di prerogative, ora con compre di beni, ad onta de’ torbidi e della desolazione dello stato, acquistava il monastero nuova forza e splendore. I documenti che seguono convinceranno chiunque di questa verità. Lo stesso abbate Girardo reggeva il monastero nel 1192, in cui venne deciso, colla mediazione di Milone Cardano arcivescovo di Milano, una lite tra il monastero e la comune, ed i nobili di Mercurago. È molto interessante il documento di questa relazione, che merita d’essere in parte riferito: «Die Veneris, qui est undecimo die kal. Junii, indictione X, cum inter D. abbatem Girardum Sanctorum MM. Filìni et Gratiniani de Arona, nomine ipsius monasterii ex una parte, et..... Consulem de Mercuriaco nomine comunis ipsius loci, et Visentium consulem nobilium, nomine onmium nobilium de Mercuriaco ex alia, de quodam clusa, quam prædictus abbas fecorat in flumine Vevra, et de quodam pascuo, quod dicitur de Rivaria, coram domino Enrico domini Milonis mediolanensis archiepiscopi camerario, et ad hanc causam audiendam, et terminandam ab ipso domino archiepiscopo delegato egitaretur controversia.....» Segue la narrazione del fatto, indi la sentenza del Delegato, colla quale assolve l’abbate sulla questione della chiusa, e dichiara facoltativo al monastero di pascolare gli armenti sulla riviera, ed altri pascoli di Mercurago dalle calende di gennaio sino alla metà di maggio, uti praxis. Convien dire che questo diritto ripeta un’origine molto antica. Avvenne tale sentenza nel castello di Angera: «....Finita est causa anno dominice Nativitatis millesimo centesimo nonagesimo secundo. Actum in castro Stacione .....» Ci dimostra questa carta quanto antico sia il pascolo pubblico sul fondo denominato la Riviera, di cui il municipio di Arona ne possedeva gran parte, e ci addita in qual modo ed a chi appartenesse la proprietà del. torrente Vevera, che vi scorre nel mezzo, e sin dove si estendesse il territorio di Mercurago: . . . quod medietas fluminis Vevrœ domini. Archiepiscopi est; et quod territorium de Mercuriaco usque ad flumen extenditur.....
Ai nostri giorni parrà un sogno; che nei succitati tempi esistessero nobili famiglie in Mercurago, ed avessero un loro console particolare, ed un altro ne avesse pure il popolo, essendo oggidì quel paese composto di pochi casolari abitati da contadini, senza più alcuna traccia di qualche edificio antico ove abitassero i detti nobili. V’ha però una regione elevata del paese, che chiamasi ancora in Castello, e qualche diroccato vetusto muro, che indica esservi stata di fatto costretta una qualche linea di riparo o di fortezza; e se, come io non dubito, sia esistito qualche castello, convien dire che fosse ben antico, e lo sono per credere contemporaneo agli anni della lapide che si è rinvenuta presso la chiesa parrocchiale di detto luogo, riferita nel primo libro.
All’abbate Girardo successe Ariberto. Gli atti di questo abbate principiano alli 24 di giugno dell’anno 1198, e sono rimarchevoli. Alli 25 di marzo del 1205 chiamò in giudizio avanti i consoli ed il podestà di Novara alcuni del luogo di Marzalesco, che avevano invasa una possessione del monastero, e li ottenne condannati a rilasciarla, e nelle spese ed emenda. Era insorta una controversia tra la città di Novara ed Ariberto, perchè questi aveva comperato dal conte Guidone di Biandrate varii poderi, i quali per una disposizione dello statuto di quella città, prescrivente che niuno soggetto alla giurisdizione di Novara potesse alienare possessione qualunque a chi fosse di altro distretto, dovevano appartenere al comune di Novara, come beni caduti in contravvenzione al disposto dello statuto. Stanco Ariberto delle violenze che gli venivano continuamente fatte dai rettori di Novara, e preso parere da Enrico Da Settala, eletto arcivescovo di Milano, cesse ai Novaresi i beni in questione 11. Convien dire che questo abbate fosse un uomo ben avveduto ed intraprendente; chè alli 27 di marzo dello stesso anno gli venne dai monaci fatta generale procura per acquistare, vendere, permutare, e fare quanto avrebbe creduto utile al monastero. Nel 1204 ottiene da Jacopo di Medina (ora Meina) e da Bellino de Lexia (ora Lesa) gui gerebant vicem domini Archiepiscopi (che erano giudici costituiti nel Vergante dall'arcivescovo Filippo Lampugnano) una sentenza favorevole contro Guitacco e Giovanni, de’ quali si ignora il nome, per il possesso di un campo situato in Meina; e nel 1203 vince un’altra lite contro Giacomo De Abbate di Lesa, e fa aggiudicare al monastero una quantità di terreni in quel territorio. Nello stesso anno resosi padrone delle acque e canali del territorio di Arona, investì sotto li 15 agosto certo Enrico Basso di Arona del diritto perpetuo di fare un canale per derivare le acque, unde possit ducere seu trahere aquam, quœ exitur de fontana Gerenzana, que est juxta fontanam de Sedazada desupra in territorio Aronæ. Queste fontane esistono ancora al dì d'oggi; la rima è quella che nasce in un fondo arativo del compendio della massarìa Soldana, e che, mediante canale sottoposto a quello della roggia dei molini, scorre nel fondo così detto il monastero a ponente di Arona, tra la strada per Oleggio Castello e la collina. La seconda si trova poco distante della prima, e nel fondo vicino alla detta massarìa verso tramontana. Formato appunto in quest’anno l’alveo della reggia de’ molini, diede diritto al detto Enrico Basso di tenere due bocche sul medesimo per contro al nominato suo fondo detto il monastero, il quale in allora non aveva ancora questa denominazione, nè era cinto da muri come lo è al presente. Fece quindi costrurre i molini nella valle tra Oleggio Castello e questo territorio; uno ne fabbricò al luogo detto la Ferrera, poco lontano dal paese; un altro direttamente sotto la rocca, dove attualmente esiste il così detto Baluardo, stato poi levato in occasione che nel 1645 si è costrutto il baluardo medesimo; ed altri tre ne eresse in Arona, i quali portarono poi il nome di molini di cima, di mezzo, e di fondo, giusta la loro veridica posizione.
È da riflettersi specialmente oltre la feudale, la podestà coattiva, che in questi tempi esercitava il monastero. Alli otto di luglio del 1211 l’abbate Ariberto fece arrestare un certo Ottobello, che aveva commesso un furto a pregiudicio di certi Gregorio ed Alberto fratelli Riva di Arona, e si compose il danno in venti soldi imperiali di quel tempo12, da consegnarsi ai derubati pro compositione rerum furatarum Gregorii et Alberti fratrum, qui dicuntur de Ripa de loco Arona, de quibus ipse Ottobellus fuit latro, et furis collega, et etiam captus occasione illius furti detinebatur in curia ipsius domini abbatis. Tra i testimonii sottoscritti a quest’atto di composizione, pel primo si novera Lanfrancus comes de Arona. Ho già superiormente notato sotto gli anni di comando dell’abbate Orso 1050 un conte Alberto di Arona; convien dire che in questi tempi contasse Arona delle nobili famiglie.
Morto nell’anno 1227 Ariberto, gli venne sostituito Guglielmo di Golasecca, che resse sino all'ottobre 1254. Pendente il di lui regime continuarono sullo stesso piede le prerogative del monastero; ma non ritrovasi cosa degna di rimarco, fuorichè l’estremo freddo dell’anno 1255, che agghiacciò il lago per lungo tratto, e fece morire pressochè tutte le viti e piante gentili per la grande copia delle nevi cadute; cosicchè nel successivo anno vi fu grande carestia, e si spopolarono pressochè tutti i paesi della montagna per non avere di che alimentarsi.
Nell'anno 1252 a Guglielmo subentrò Corrado Bossi. Ottiene questo abbate dall’arcivescovo di Milano Leone, al primo di ottobre 1257, un ordine sopra di Enrico Perego, castellano del Vergante, perchè compellisca qualunque persona di Lesa e del Vergante a dover dare annualmente certi tributi di vino e biada ed altri frutti all’abbate di Arona, od al suo agente, sopra le terre che il monastero possedeva nel Vergante medesimo. Lo stesso castellano nel successivo anno dà una sentenza a favore del monastero opud castrum Lexiæ super petitionem quam facit Zanebonus de Redulfo de Lexia. Sarà stata probabilmente circa il pagamento di frutti, fitti o livelli, giacchè il Padre Zaccaria, che ne fa cenno, tace l’oggetto che ha provocato tale sentenza. Sotto di questo medesimo abbate si introdussero inoltre varie regole per l’economia ed amministrazione interna ed esterna: del monastero, che era giunto al segno di una ricchezza e di un potere imponente. Nella carta capitolare istessa con cui vennero stabiliti cotesti regolamenti d’amministrazione, data alli 7 febbraio 1259, si ritrova la prima memoria dell'esistenza in Arona dei corpi de’ santi Fedele e Carpoforo; ivi ad honorem Dei Patris omnipotentis, et beatorum sanctorum Gratiniani et Filini, Carpofori et Fidelis jacentium in dicto monasteri; pare quindi prezzo dell’opera il dare qualche lume in compendio sull’origine di questi santi, e sulla loro traslocazione a questo paese, almeno per quanto ne scrissero gli autori.
Nacquero da illustre schiatta i nostri santi Fedele e Carpoforo, ed illustri cariche militari si raccoglie abbiano coperto, quando suscitatasi da Massimiano la fiera persecuzione dei cristiani, movendo egli dal suolo romano (di cui si credono nativi questi santi) per recarsi nelle Gallie onde eseguire l’uccisione de’ Tebei, si rifuggirono a Milano, cercando le traccie di sant’Alessandro, loro coetaneo, che fu in quei momenti martirizzato come attenente alla legione Tebea. Dispersi i nostri santi nelle vicinanze di Como, é colà inseguiti dai soldati di Massimiano, vennero tratti a morte in quelle spiagge, e sepolti negli stessi luoghi in cui subirono il martirio. San Fedele, stato lunghi anti dimenticato, fu per opera del vescovo Ubaldone, ai 13 di giugno 964, trasportato in Como alla chiesa di sant’Eufemia, la quale dipoi prese il nome di san Fedele dal nuovo ospite. San Carpoforo giacque sino alla sua traslazione in Arona nello stesso luogo in cui fu messo a morte, e cola venne eretta una chiesa con illustre abbadia, arricchita di molti beni dal re Liutprando e da Litigerio vescovo di Como.
Che esistessero in Arona nel 1259 i corpi di questi santi è verità innegabile, confermata dalla surriferita carta e da molte altre successive; ma poi quando vi siano stati trasportati, da chi, ed in qual modo, è stata questa la causa di molte contestazioni. Per la causa degli Aronesi contro i Comaschi, che ritenevano di possedere essi i detti santi corpi, il Padre Zaccaria sì appoggiò all’antica tradizione confermata da documenti per quattro secoli e più, e fu d’avviso che tale traslocazione possa essere avvenuta nel 1127, in cui dai Milanesi saccheggiata e distrutta la città di Como, nell’estrema desolazione e nel totale abbandono delle case e di altri pubblici edifici, qualche monaco di san Carpoforo pensasse di trafugare e trasferire ad Arona i corpi di questi santi martiri, provando con plausibili ragioni essere più certi gli Aronesi che i Comaschi nel possesso de’ medesimi.
Ma possiamo ora essere ben bene obbligati alle laboriose premure del conte Giulini, che ci procurò la scoperta dell'effettivo trasporto di questi santi da Como ad Arona 13. Egli l’ha rinvenuta presso di Gotofredo da Bussero, scrittore contemporaneo, dove parlando di san Maurizio e de’ suoi compagni, nomina quelli che ebbero la corona del martirio in Como e nel suo territorio, cioè oltre di san Fedele, i santi Carpoforo, Cassio, Esanto, Licinio, Severo e Secondo. Poi aggiunge che di questi santi corpi due furono dati al monastero di Arona: Sed horum duo corpora ad monasterium de Arona duta sunt. Cessa adunque il sospetto che possano essere stati trafugati, sebbene non risulti del motivo per cui siano stati dati, e rimane comprovata l'identità di questi santi corpi in Arona, e quindi in Milano, una loro parte stata colà recata per opera di san Carlo Borromeo, e cessata ogni controversia a questo riguardo.
Proseguendo i fasti di questo monastero, trovo un’altra prova della piena giurisdizione che aveva il medesimo non tanto nel temporale, quanto nello spirituale, in un precetto monitorale compulsivo delli 31 di marzo 1271, lasciato e fatto intimare dall’abbate Enrico, successo a Corrado Bossi nel 1259, di cui eccone il tenore: «Anno dominice Incarnationis millesimo ducentesimo septuagesimo primo, indictione xiv, die Martis ultimo mensis Martis, in loco Pitenasco. Guido clericus Sanctæ Mariæ de Arona ex parte infrascripti D. abbatis dedit, presentavit et consignavit presbitero Bernardo officiali ejusdem Ecclesia Sanctæ Mariæ litteram unam sigillatam sigillo cereo dicti D. abbatis, tenor ejus talis est: — Henricus Dei gratia monasteri de Arona salutem in Domino sempiternam. Noveritis quod alias tibi precepisse, et ad serviendam Ecclesiam Sanctæ Mariæ supra dicte de Arona debueritis commorare et servire habendo ab aliis clericis solidos quinquaginta imperiales prout fuistis in concordia, ut patet per chartam unam......notarium De Fontaneto. Iterum tibi admonendo ac præcipiendo districte mandamus, quatenus infra diem tertium post representatonem litterarum, die presenti non in numero computata, ipsam Ecclesiam servire et residentiam facere debeas; alioquin contre te quantumcumgue poterimus de jure procedimus prout fucrit procedendum justicia mediante. Interfuerund......» Da questo documento inoltre: si ricava 1° l’esistenza già sino da quei tempi di una chiesa di Santa Maria in Arona, della di cui fondazione non facendosi cenno nella cronaca benedettina, è da credersi che esistesse prima dell’erezione del monastero, e conseguentemente prima dell’anno 979; 2° che questa chiesa se non nei primi tempi, in questi certamente dipendeva dall’abbazìa, e che i sacerdoti che la uffiziavano erano semplici mercenarii del monastero; 3° che detta chiesa non è al certo quella che esiste presentemente, per le ragioni che mi riservo di addurre dove avrò a parlare della chiesa di santa Maria attualmente esistente.
L’anno 1276 marca in abbate di questo monastero Jacopo da Ispra, al cui governo, che fu di breve durata, subentrò in marzo 1277 Pietro da Golasecca; questi venne rimpiazzato sul principio del 1292 da Guglielmo de Lamajrola. Le cure di questi abbati altro non furono che le istanze per la conservazione dei loro diritti. Ho esaminato nell’archivio del conte Borromeo-Arese di Milano una pergamena di quest’ultimo abbate, data l’8 settembre 1297, colla quale nomina certo Leone Visconti a vicario di Arona 14. Questa è una prova non dubbia del diritto feudale. E bisogna poi credere che questo istesso abbate fosse ben più premuroso degli altri per il fasto del monastero, perchè nell’anno 1295 pretese da Berardo Pozzobonello, vicario generale dell’arcivescovo di Milano Ruffino da Trisseto, che il borgo di Arona fosse suo, e che gli abitanti del medesimo avessero tutti i loro beni in feudo dal monastero, nè potessero alienarli o disporne per testamento senza la sua licenza. Ma avendo avute la sentenza contraria dal vicario; se ne appellò al Sommo Pontefice, dal quale venne rimessa la causa ai Preposti di santa Tecla e di san Giorgio di Milano, ed a quello di Vimercate15. Quale ne sia stato l'esito non sì sa; ciò che è certo si è, che i posteriori documenti convincono che gli Aronesi disponevano liberamente dei loro beni; che la terra di Arona in quei tempi fosse soggetta al monastero, se lo ricava da tante fonti, come vedremo anche sotto l’abbate Martino da Bovirago nel 1519; ma che l’autorità sua fosse da tanto da poter interdìre ai terrieri la disponibilità dei loro averi, mi pare troppo ardita pretesa, ed anche superiore ai diritti feudali: onde sono d’avviso, che il risultato dell’appellazione non sia stato favorevole per il monastero.
Morì Guglielmo verso l’anno 1515, e gli successe Martino da Bovirago, il quale continuò ad esercire una ampia podestà feudale. Abbiamo, sotto il di lui comando un celebre documento, che è mestieri riportarlo per intiero non tanto per la singolarità del suo contenuto, quanto per poter fare un confronto che verrà necessario nel trattare delle leggi municipali di Arona. Mi emancipo, è vero, dalla promessa brevità; ma il farlo diviene qui cosa necessaria. Ecco la pergamena: «In nomine Domini amen. Anno a Nativitate ejusdem mcccxix, indictione secunda, die Martis secundo januarii, in claustro monasterii sancti Gratiniani de Arona coram Reverendo Viro Domino D. Martino de Bovirago, Dei gratia monasterii et terræ de Arona abbate et domino, habente merum et mixtium imperium, et plenam jurisdictionem in publica vicinantia ibidem convocata, collecta et congregata more solito pro infrascripto negocio specialiter peragendo ad sonum campanæ, et citata, et requisita voce præconia per terram de Arona in locis consuetis per fratrem Joannem servitorem dicti monasterii demandato dicti domini abbatis. Idem dominus abbas, Christi nomine invocato, habitoque tractatu, et consilio et examinatione prehabita diligenter cum Vixino de Madina, et Girardo de Buro consulibus veteribus, et de corum consilio elegit, fecit, constituit, creavit, et ordinavit infrascriptos consules, et credentiarios dictae terre de Arona hinc ad annum unum proximum venturum, qui consules et credentiarii juraverunt ad sancta Dei Evangelia corporaliter tactis scripturis in manu mei Jacobini notarii infrascripti, suum offitium consulatus, et credentia diligenter et bona fide , sine fraude exercere et operari hine ad dictum terminum unius anni secundum consuetudines hinc retro servatas et celebratas, et quod inter alia manu tenebant, et conservabant jura, et rationes, et honores dicti monasterii, et viduarum, et pupillorum, orphanorum bona fide, sine fraude, remotis odio, amore, timore, proficuo, damno, benevolentia, et malivolentia. Nomina quorum consulum sunt hæc: Franzinus de Curto et Bertolinus Rolla. Nomina vero credentiariorum sunt hæc: Vixinus de Madina; Girardinus de Burro; Arigollus de Amada; Ferrarius de Dolzago; Jacobus Rolla; Zanollus Molinarius; Minolus de Guxmerio; Johannes de Cayta; Anzinus de Albriho; Joannes de Vargiate; Abbondiollus de Lexate; Pestonus de Ongaria; Zaninus de Golzano; Gracinus de Thollomino; magister Jacobus notarius; Manninus de Pesano: Gusmerius Calligarius; Privollus de Jacomello de Rainerio; Volta, beccarius; Tomaxinus de Guxmerio; Jacobinus, notarius; Ricardinus de Terrino; Martinollus de Mussono; Stefaninus, spatarius; Jacobinus de Tolontino; Cuimmollus Rampertus; Omella de Petracha; Petrinus de Zimbergnino; Zappellinus de Rolando; Andrinus de Florino; et Guidallus, sartor de Massino, omnes de Arona. Interfuerunt ibi testes dominus Conradus Biffus civitatis Mediolani, vicarius dicti monasterii; et Franciscollus Morexinus notarius civitatis Mediolani, et frater Johannes servitor dicti monasterii, ot Rajnolus de Rajnolis de Arona, noti omnes, vocati, et rogati testes. Ego Jacobinus notarius filius Petrini de Arona hanc chartam, quam suprascriptus Jacobinus notarius tradidit, et imbreviavit, et mihi ad scribendum dedit, ejus jussu scripsi, et me subscripsi. Non isfugga al lettore l'osservazione di quelle parole Domino Martino de Bovirago Dei gratia monasterii et terre de Arona abbate et domino, habente merum et mixtum imperium et plenam jurisdictionem, e si convincerà di leggieri qual potere avesse anche sul temporale in quei tempi il monastero; e faccia poi anche attenzione alla singolare formalità e scrupolosa solennità con cui in allora si procedeva alla nomina degli agenti del pubblico, potendosi dal numero dei medesimi argomentare, che Arona avesse una popolazione maggiore della presente, ed una giurisdizione sulle altre terre vicine.
Travagliata in questi anni Arona per le conseguenze delle fazioni dei Torriani e dei Visconti che laceravano la Lombardia, non offre memoria di riguardo relativamente all’abbazia, solo che questa ad onta di tante vicende politiche, sotto gli abbati Rizzardo di Agliate, Graziano da Besozzo e Federico Terzago da Vergiate conservò costantemente gli antichi suoi diritti e prerogative. Non così però avvenne sotto i successivi abbati Jacopo da Ispra, Zanotto Visconte, Jacopo Arborio di Vercelli, ed Eusebio de Marini di Arona, cioè dall’anno 1376 all’anno 1406 circa, nel qual periodo cominciò gradatamente a decadere l’illimitata giurisdizione dell’abbazia, per essergli stata tolta nell’anno 1396 la facoltà della curia, la nomina del giudice e degli amministratori del comune, mentre i Visconti investiti già sino dall'anno 1395 dell’autorità ducale, avevano avvocate a loro in vigore del supremo comando le prerogative feudali, che prima competevano all’abbazia 16; andò quindi di mano in mano decadendo lo splendore ed il potere del monastero sino all’anno 1439, in cui con patenti delli 14 settembre Gaspare Visconti investì Vitaliano Borromeo per sè e successori di questo feudo cum mero et mixto imperio, et gladii potestate, e con tutti gli onori e pesi inerenti al feudo. Da questa epoca in poi l’abbazia spogliata intieramente di tutti quei diritti che nei tempi delle guerre e dei torbidi aveva acquistati, e ridotta a pochi soggetti, venne eretta in commenda sotto l’abbate Sozzino de Balbis, dal quale passò come tale nell’anno 1455 in Francesco Borromeo, il quale in una pergamena del 1465 viene qualificato clariesimus decretorum doctor dominus Franciscus Borromeus, che la possedette sino alli otto di novembre dell’anno 1481, in cui gli successe Francesco De Eustacchi di Pavia, il quale in una pergamena del 17 novembre 1484 viene chiamato magnificus decretorum doctor dominus Franciscus de Eustachio de Papia, apostolicus protonotarius et ducalis consiliarius. A quest’abbate successe un altro non meno commendevole e zelante per gli affari del monastero, e fu monsignor Gerolamo Callagrani, che ottenne questa commenda con bolla delli 14 luglio 1487 per opera del Pontefice Innocenzo VIII, al quale era persona molto affezionata. Gli anni di comando di questo abbate sono contraddistinti da un’epoca ben degna di ricordo. Era già qualche tempo che la chiesa del monastero a cagione della cattiva originaria sua costruzione minacciava rovina, e sospese erano perciò in essa le sacre funzioni. Gli antecedenti abbati, e più di tutti Francesco De Eustachi coi risparmii del monastero e con procurate offerte, si posero in grado di riformarla, ed a monsignor Gerolamo Callagrani toccò l'ultimazione della fabbrica. Per le varie demolizioni di muri e di altari che fu mestieri di operare, si dovettero riporre in altro luogo momentaneamente i corpi: de’ santi Gratiniano e Felino, che giacevano in questa chiesa sino dal principio della sua fondazione. Nell’eseguire questi lavori mirabilmente si rinvennero i corpi de’ santi Fedele e Carpoforo, stati, come si è avanti notato, trasportati a quest’abbadìa prima dell’anno 1259, ma non si aveva però memoria in qual parte della chiesa i medesimi esistessero, cosicchè giacquero sino a questa epoca in una assoluta dimenticanza. Riposti anche questi sacri corpi in un altro luogo fintanto che la fabbricazione della chiesa fosse condotta a termine (ciò che si verificò nell’anno 1489 per opera del medesimo abbate Callagrani) furono nello stesso anno riportati nella nuova cappella a loro onore eretta, come dice l’istromento: a latere dextro intrando dictam capellam (che è la maggiore) muro capella affixum, in quo recondenda sunt corpora sanctorum Carpofori et Enfidelis martiris. E quelli de’ santi Gratiniano ei Felino vennero collocati sotto la mensa dell’altar maggiore, chiusi in una cassa di piombo: in capsula una plumbea bene clausa et obturata; super quam est epitaphium unum æneum tenoris hujusmodi: — Sanctorum martirum Gratiniami et Filini corpora œde instaurata hic condita anno salutis 1489; Innocentio VIII Pont. Max., Jo. Galeatio duce Mediolani VI, Johanne et Vitaliano Borromeis Aronæ comitibus, Hieronymi Callagrani Papiensis cœnabii prefecti, jussu et impensa.
Questa traslazione è stata eseguita da monsignor Jacopo di Volterra, nunzio apostolico, al duca di Milano Giovanni Galeazzo Sforza per ordine della: Santa Sede, e con quanta celebrità poi seguisse, ed in qual modo fosse eseguita, lo impariamo dagli autentici istromenti del giorno 2 di giugno 1489, ricevuti da Giacobino de’ Ponzoni, notaro di Arona. Ivi tra le altre cose: Astantibus (fra le molte ragguardevoli persone) domino Vitaliano comite Aronæ; spectabili et clarissimo J. U. doctore D. Arduino de Cella commissario et potestate burgi Arona; et spectabili domino Detrino de Sardis de Sezadio , castellano arcis dicti burgi Aronæ. A rendere più cospicua la solennità della traslazione, il vigile abbate ottenne alla chiesa da Innocenzo VIII una bolla d’indulggnza e di remissione de’ peccati a chi cooperasse al perfezionamento della chiesa, e concorresse alla festa della traslazione. Altra bolla ottenne sotto il primo di maggio del 1490, per l'annua solennità di detta traslazione. Passato poi questo abbate alla sede vescovile di Montereale, ebbe per successore monsignor Gioanni Antonio Ferrero di Vercelli, nominato con bolla di Alessandro VI dell’anno 1497, la quale contiene altresì una forte comminatoria ai monaci cirea l’obbedienza che dovevano prestare all’eletto abbate: Quocirca discretioni vestra per Apostolica seripta mandamus quatenus eundem Johannem Antonium commendatarium lamquam patrem et pastorem animarum vestràrum grato admittentes honore, ac benigne recipientes, et honorifice pertraciantes, exhibeatis sibi odedientiam, ac reverentiam debitam, et devotam, et salubria monita, et mandata suscipiatis humiliter et efficaciter adimplere curetis, alioquin sententiam quam idem commendatarius rite tulerit in rebelles, ratam habebimus, et faciemus auctore Deo usque at satisfactionem condignam observari. Datum Romæ apud S. Petrum anno Incarnationis dominicæ 1497, decimo kal. Nov. Pont. nostri anno sexto.» Ed infatti essendo stata recentemente l’abbazia ridotta in commenda, e scemata l’autorità del capitolo dei monaci, non vi volevano minori comminatorie per contenerli in una più stretta obbedienza di fresco introdotta.
Per tenere, per quanto fu possibile, l’ordine dei tempi, e conservare la precisione dei fatti, non è stato possibile accennare prima d’ora altre nozioni dipendenti dagli ultimi periodi dell’abbazia sotto i Benedettini, le quali comecchè abbraccianti i principi dell’interessante materia delle decime, sembra che non si debbano omettere. Non si trova memoria, sino all'anno 1509, che in Arona vi fosse parroco separatamente dal monastero, mentre i Benedettini vi avevano sin presso a quel tempo esercìta, come si dimostrò, la podestà ecclesiastica in prima per mezzo di sacerdoti mercenarii, e poscia con quattro sacerdoti del loro ordine che a tale effetto possedevano quattro assegni o beneficii col titolo di chiericati, de’ quali rimangono ancora al giorno d’oggi le memorie nel chiericato di san Gioanni stato unito all’arcipretura, ed avente in catastro i beni della di lui dote colla sua particolare intestazione; ma nel suddetto anno 1509: pare che siasi separato il diritto parrocchiale dall’abbazia coll’erezione della parrocchia, e colla nomina che il comune ha fatto del parroco col titolo di curato nella persona del prete Giovanni Giacomo De Ambrosino, a cui nel 1542 successe Bartolomeo Carrara 17. Tale diritto di nomina poi si mantenne sempre nei reggenti del comune sin quando la cura si cambiò in arcipretura. La prima memoria che si rinviene delle decime sul territorio di Arona è l’istromento delli 22 agosto 1509, ricevuto Giovanni Filippo Caccia, portante affitto di detta decima fatto dal prete Giorgio Tornielli benedettino al suddetto curato Ambrosino, ed altro delli 17 di novembre 1542, ricevuto dallo stesso Caccia, in cui certo don Fedele Albasino, monaco professo di questa abbazia, e titolare di uno dei suddetti quattro chiericati ad istanza del precitato parroco Carrara, si dichiarò soddisfatto dal medesimo della quarta parte della decima dei frutti del territorio di Arona spettante a detto chiericato, della quale porzione l'Albasino aveva investito il parroco Carrara a titolo di affitto semplice. Un'altra memoria è l’istromento dei 25 di giugno del 1547, ricevuto Gabriele Caccia, in cui i monaci Giacomo De Negri, Gabriele De Zocchi, e Felice Albasino facevano ricevuta a Matteo Colonna, curato successore del Carrara, per lire undici imperiali, e libbre due di candele per cadauno, in saldo dei tre quarti di decima che spettàvano ai tre chiericati da essi posseduti, dei quali tre quarti era stato investito a titolo di affitto il curato Carrara predecessore del Colonna. La natura di questa decima, ossia canone, che si esigeva dai monaci in questi tempi sui fondi del territorio di Arona, era piuttosto. un avanzo degli antichi canoni e ricognizioni feudali primitive; che una vera decima. Le ragioni che mi muovono a così opinare sono le seguenti: 1° La tenuità del prezzo per cui si affittavano dai monaci le stesse decime a fronte anche del maggior valore della ‘moneta in quei tempi corrente; 2° che sotto i monaci non consta quali frutti fossero affetti a decima, se tutti indistintamente, od una sola parte di essi; 3° che sotto ai monaci non si riscontra la prescrizione di esigere in ragione di uno per ogni quindici de’ frutti dei terreni denominati sotto roggia, e di uno per ogni trenta per quelli chiamati sopra roggia; e fu solamente sotto la reggenza dei Gesuiti che si è, introdotta tale consuetudine 18. Qualunque però possa essere stato il principio che abbia dato luogo a tale consuetudine, egli è certo che sino dai primi anni i Gesuiti con tale metodo di esigere ridussero le antiche prestazioni o canoni a vera decima, e come tale in seguito la alienarono, e dalle loro alienazioni, che constano dai documenti che si citeranno in avanti, derivò successivamente la ragione di decima nei parrochi di Arona.
Prima di passare alla relazione degli eventi accaduti in epoche più vicine alla novella casa Gesuitica, crederei mancare ad un sacro dovere se a questo luogo omettessi di far menzione del nostro concittadino e specialissimo protettore il grande arcivescovo e cardinale san Carlo Borromeo, di cui opportunamente ci avvenne di far cenno narrando gli ultimi periodi dell'abbazia. L’indotta mia penna non toccherà le moltiplici eroiche azioni di questo uomo immortale, perchè già trattate dagli scrittori contemporanei, ed autenticate dall’oracolo del Vaticano; si limiterà a riferire quelle sole di lui operazioni che hanno relazione ad Arona.
Nacque in Arona, ed in una delle camere della rocca, alli due di ottobre dell’anno 1558 dal conte Giberto, figlio di Federico Borromeo, e da Margherita De Medici, sorella del Pontefice Pio IV e del gran capitano Giovanni Giacomo Medici, marchese di Melegnano, imperando Carlo V, e reggendo la sede Pontificia Paolo III. Non molto egli dimorò in questa sua patria, salvo che nei primi anni di adolescenza, passati ora in Arona, ora in Angera per diporto coi parenti, i quali interpolatamente abitavano queste rocche. L'oggetto dell'educazione e dello studio condusse il nostro buon concittadino ad allontanarsi dalla patria in età ancora tenera; cosicchè ben poche memorie ci sono da lui rimaste, le quali per altro noi ambiremmo di poter riferire in maggior copia. Ma sebbene lontano, non tralasciò di far sentite alla patria le emozioni del suo cuore e la sua carità. Investito in età appena di dodici anni della commenda abbaziale de’ santi Gratiniano e Felino, per dismissione fattagli dallo zio il conte Giulio Cesare Borromeo, come si è dissopra notato, seppe tanto bene insinuarsi presso il genitore, che ottenne: dal medesimo la libera amministrazione delle rendite della abbazia, e la facoltà di disporne a suo beneplacito. Soccorrere i poveri è stato il primo suo pensiero, ed i poveri della patria furono a parte della grande sua carità. Così ammirato in gioventù e dalla propria famiglia, cui porgeva molte consolazioni, e dal pubblico, faceva a tutti concepire grandi speranze di se stesso. L'immatura morte del genitore fu cagione che egli dovesse sospendere lo studio di leggi civili e canoniche che aveva incominciato in Pavia, onde restituirsi alla casa pel governo. di essa sebbene gli restasse il fratello. Federico, maggiore a lui di età, chedi buon grado gliene cesse il maneggio. Questo accidente procurò ad Arona il contento di averlo fra se più frequentemente, fermandosi nel castello per attendere alla cure della sua casa. Fu in questo tempo ché si adoperò nel ricondurre i monaci Benedettini della sua abbazia all’osservanza: del loro antico istituto, da cui si erano coll’andare dei tempi, alquanto scostati, e vi riescì col più felice successo. Conseguìto questo intento, e rassettate fe cose della sua famiglia, ripigliò gli studi in Pavia, e sebbene di nuovo interrotto da malattia, fu addottorato nelle leggi civili e canoniche nell’anno vigesimosecondo dell’età sua. Contava egli allora di permanere in patria per dare eseguimento alle molte belle idee che gli erano suggerite se l’avvenimento al trono Pontificio del cardinale suo zio materno Giovanni Angelo Medici, che assunse il nome di Pio IV, non l’avesse nel 1559 chiamato alla capitale del mondo cristiano, istantemente invitatovi dallo zio, che teneva moltissimo bisogno dell’opera e della presenza sua per mandare ad effetto le più importanti faccende della Chiesa che stavano pendenti. Onorata della porpora cardinalizia nel 1560 sotto il titolo de’ santi Vito e Modesto, quale indi cangiò con quello di san Martino de’ Monti, e poscia con quello di santa Prassede, da lì a poco tempo il Pontefice lo destinò alla sede arcivescovile di Milano. Con questa nomina sono stati in gran parte compiti i suoi desiderii, mentre per mezzo di quella egli sperava di mandare ad effetto gli alti progetti che aveva ideato in vantaggio della Chiesa milanese. Non potè però trasferirsi alla sua sede a causa delle fervorose istanze dello zio perchè rimanesse presso di lui come persona che gli era assai cara e tanto giovevole nelle pastorali fatiche. Eletto in seguito a capo della consulta del sacro Collegio de’ cardinali e sommo penitenziere, ottenne alli 26 di aprile del 1562 a questa sua patria inestimabile tesoro dell’indulgenza plenaria per la festa titolare della chiesa di santa Maria. Rimasto poi per la morte del fratello il conte Federico l’unico rampollo della famiglia, si insigniva degli ordini presbiterali, e si adoperava infaticabile per la conclusione del sacro Concilio di Trento. Ma la Chiesa milanese, benchè da lungi con occhio di compiacenza ammirasse le sorprendenti virtù e le gesta del suo Pastore, non tralasciava tuttavia di tanto in tante dal fargli traspirare il desiderio che sentiva di potere apprezzare da vicino le sante opere del suo ingegno. Uomo quale egli era tutto bontà, tutto compiacenza, non seppe resistere ai dolci inviti del suo gregge, e preso commiato dal Sommo Pontefice, si avviò alli 23 di settembre del 1565 alla volta di Milano, dove consolate di sua presenza le popolazioni, da lì a poco tempo tenne il Concilio provinciale, ed attese in seguito con ogni studio alla riforma di quella Chiesa secondo i dettami del Tridentino Concilio.
Arona in questi tempi non conta fatti a Carlo riferibili, perchè è vissuto da lei lontano, e sempre occupato in rilevanti faccende: aveva però egli riservato i segnalati suoi benefici alla patria al suo ritorno nella sede arcivescovile, dalla quale si era sul fine del 1565 allontanato per assistere negli estremi giorni lo, zio Pontefice. Ritornato dipoi alla sua sede, sì recò nel 1567 alla visita di questa chiesa parrocchiale; e nei decreti dati in tale circostanza il comune di Arona ripete il diritto di nominare i fabbriciere di detta chiesa, leggendosi in essi: Deputentur a consilio duodecim cum adjunctis communitatis viri, duo qui una cum paroco sint fabricerii, administrent redditus fabricæ, et legatorum, ac jurium omnium pertinentium ad Ecclesiam, seu capellas, seu missarum celebrationem quovis modo.
Nell’anno 1571 sotto i di lui auspici, ed in gran parte co’ suoi peculiari ausilii, si fondò in questo territorio un convento di Cappuccini nel luogo anche in oggi denominato il monastero, che resta al ponente di Arona. Intanto che si erigeva la fabbrica, di cui il pio arcivescovo a proprie spese fece costrurre il dormitorio, e fornillo degli occorrenti mobili, alloggiò i Padri nella casa della sua abbazia in Arona; e giunta poi a termine la fabbricazione del convento, nell’anno 4574, alli 4 di settembre, ne consacrò in persona la chiesa in occasione che si portò quivi per: la seconda visita pastorale. Si. mantenne questo convento sino all'anno 1652, in cui si portarono i Cappuccini al nuovo convento eretto da loro medesimi sul monte dì san Carlo.
Se la fondazione di questo religioso chiostro è stata di grande vantaggio agli Aronesi per il beneficio dell’amministrazione dei Sacramenti a quella parte del territorio che vi stava vicina e per l’aumento della religione, non ridondò a minore utilità la erezione che fece il grande arcivescovo nell’accennata circostanza della seconda visita pastorale di un monte di pietà in questa sua patria a sollievo dei poverelli, con capitali suoi proprii, stati dipoi accresciuti per effetto del suo esempio da altri pii benefattori19.
Era in questi tempi, che gli Aronesi bramavano di vedere i sacri corpi de’ santi martiri Fedele e Carpoforo che sapevano esistere nella chiesa del monastero de’ Padri Gesuiti. Esternato a quei religiosi tale desiderio, si prestarono con ogni compiacenza alla ricerca, e venne loro fatto di rinvenirli al luogo già da noi accennato, in cui dal Nunzio Pontificio erano stati sino dal 1189 collocati. Indicibile fu l’allegresza degli Aronesi per tale estrazione soltanto li affliggeva il pensiero di non essere in grado di riporre quelle venerande ossa in un più degno deposito; per cui si pensò di riporli dietro dell’altare maggiore in poca distanza dei corpi de’ santi Gratiniano e Felino. Fu contemporanea a questo fatto la venuta in Arona nella qualità di visitatore, mandato da san Carlo, di monsignor Gerolamio Ragazzoni veneziano, vescovo di Famagosta, e poscia di Bergamo. «Questo degno prelato (così dice il Padre Zaccaria) udendo da un canto che meno dicevole era quel sito per sì rispettevol tesoro, e che dall'altro canto considerando che non era possibile di far un acconcio altare, propose ai Padri il partito di trasportare le ossa di quei santi a Milano nel magnifico tempio dedicato a san Fedele, in allora eretto, dove oltre alla maggiore decenza avrebbero potuto conseguire un maggior culto. Acconsentirono i Padri al progetto, e questo poscia partecipatosi all’arcivescovo san Carlo, ordinò egli il trasporto allo stesso monsignor Ragazzoni, che obbedì alle giuste premure del metropolitano, e quindi spiccò il seguente decreto: «In Ecclesia sanctorum Gratiniani et Filini de Arona societatis Jesu, corpora sanctorum Fidelis et Carpophori transferantur Mediolanum in Ecclesiam que ab eadem societate modo ædificatur sub invocatione sancti Fidelis; relictis in supradieta Ecclesia sanctorum Gratiniani et Filini, sanctorum ipsorum corporibus sub quorum auspicio Ecclesia ipsa constructa est. Mediolani die xxv januarii 1576. Hieronymus Episcopus Famagustanus visitator apostolicus.» Il giorno seguente san Carlo serisse a Prospero Colonna, preposto di Besozzo e vicario foraneo, che si recasse subito ad Arona per assistere a detta traslazione. Questa è la genuina copia della lettera scrittagli: «Dovendosi trasferire per ordine di monsignor reverendissimo visitatore apostolico li corpi di san Fedele e san Carpoforo dalla chiesa dell'abbazia di san Graziano di Arona a questa di san Fedele di Milano della Compagnia di Gesù, vi trasferirete ad Arona per assistere in nome nostro a quella traslazione, e dare al Padre Filippo rettore di quel collegio ogni aiuto che abbisognasse a quest’effetto; procurando insieme con lui, che questa azione segua con quella quiete, e divozione, che conviene nel modo che da lui intenderete, dandovi noi perciò in virtù della presente ogni opportuna facoltà di fare in mome nostro» quel che potressimo fare Noi medesimi se fossimo presenti. Non fate motto di questa cosa con alcuno prima che parliate col Padre Filippo; e Dio vi guardi. — Di Milano li 26 di gennaro 1576. Tutto vostro Il Cardinale di santa Prassede al reverendo prevosto di Besozzo vicario foraneo nostro carissimo.»
Come si era concertato, vennero nel giorno nove febbraio successivo i corpi de’ suddetti santi dal Padre Tullio Rachelli recati a Milano, e riposti nella chiesa del collegio di Brera, ove san Carlo li riconobbe, e ne ha fatto stendere istromento dal notaio vescovile Giovanni Battista Oldone; quindi furono segretamente trasportati alla chiesa di san Sempliciano, da dove nel giorno undici dello stesso mese vennero solennemente trasferiti alla chiesa vecchia di san Fedele, e consegnati ai Padri Francesco Adorno provinciale, e Giovanni Battista Perusco preposito dei Gesuiti per atto ricevuto dal medesimo notaio. Accortisi gli Aronesi solamente alcuni giorni dopo la suddetta traslazione della mancanza dei sacri corpi, corsero a Milano a farne al santo Pastore le più amare loro doglianze, alle quali inteneritosi, e fatto chiamare il suo medico ed un esperto chirurgo (certo Gabrio da Cuneo), andò alla chiesa vecchia di san Fedele, riconobbe nuovamente que’ sacri corpi, ed ordinò al chirurgo di cavarne un osso delle braccia di ciascuno d’essi, che, ravvolti in un zendado, collocò in un coffanetto di velluto rosso, consegnandolo al Padre Alfonso Sgariglia rettore del collegio di Brera, per recarli ad Arona per consolazione de’ suoi concittadini, come consta da atto pubblicò, rogato pure Oldoni, la di cui copia esiste colle sacre ossa in detto coffano.
È da notarsi quanto in ordine alla sommossa del popolo di Arona per questo fatto scrive monsignor Bescapè nella vita di san Carlo Borromeo: «At populus Aronensis, quo inscio corpora fuerant asportata, paulo post cum id cognovisset, valde commotus est, acri admodum studio, ut vehemens esse solet in huiusmodi genere popolaris impetus, deque recuperandis reliquiis institit; neque congquievit, donec carum partem a Carolo acceptam in eandem Ecclesiam Aronæ referret.» Recò infatti il Padre Sgariglia ad Arona le sacre. reliquie nel giorno tredici di marzo del 1576, accompagnato dai Padri Francesco Grana e Cristoforo da Compostella, riponendole nella chiesa de’ santi Gratiniano e Felino. Del che turbatisi gli Aronesi, pretesero che sì dovessero portare nella chiesa parrocchiale, per il mal animo che avevano concepito verso i Gesuiti, che consideravano come autori della tacita traslazione alla chiesa di Milano; ne riclamarono all’arcivescovo , il quale giudicò giusto che dette sante reliquie si riponessero nella stessa chiesa ove prima riposavano gli intieri corpi.
A perenne memoria di queste riconsegna hanno i nostri padri stabilito, che perpetuamente in avvenire si celebrasse con solenne pompa il giorno tredici di marzo sub pœra scuti unius auri contra inobedientes, applicandi pro medietate accusatori, et pro altera fabricæ sanctæ Mariæ Aronæ20 come da quel giorno in poi è stato costantemente eseguito, portandosi con divota pompa per il paese le ricuperate reliquie fra gli inni di numeroso clero, e fra le acclamazioni di folto popolo che concorre dalle vicinanze animato da una singolarissima divozione verso di questi santi.
Gli Aronesi prima del pontificato di san Carlo dipendendo dagli abbati per tempo dell'abbazìa Benedettina, non si credevano soggetti ad alcuna diocesi, e sostennero per lungo tempo questo vero, o supposto loro privilegio; ma san Carlo vedendo quanto tale insubordinazione fosse nociva alla loro salute spirituale, li aggregò nella prima visita alla diocesi di Milano, ed alla regione di Angera con placito di Gregorio XIII ritenuto però il rito romano che si :praticava dall’abbazìa21.
Mentre il santo Arcivescovo da una parte poneva ogni cura per la salute spirituale, e per il decoro temporale della sua patria, dall’altra il suo fratello conte Federico gli faceva eco, e nell’anno 1560 tentò col maggiore impegno di far erigere un vescovado in Arona, e di nobilitarla col titolo di città; ed avendo a questi generosi tentativi annuito il Pontefice Pio IV ed il cardinale Giovanni Antonio Morone vescovo di Novara, che si era dimostrato pronto a smembrare alcune terre dalla sua giurisdizione per unirle al nuovo vescovado, le medesime terre si opposero a così pia disposizione; che rimase senza effetto 22.
La difficoltà dei tempi nei quali visse quest’uomo veramente grande, le moltiplici operazioni assuntesi, i fortissimi contrasti che sostenne: per la riforma della chiesa Milanese, i disagi che provò per la peste che desolò Milano, e gran parte di quel vasto ducato , ed il troppo breve corso della preziosa di lui vita stata abbreviata dalle immense fatiche sostenute per il bene del suo gregge, gli impedirono che potesse eseguire il nobile già esternato disegno di illustrare la patria, ciò che mandò poi ad effetto il di lui nipote cardinale Federico Borromeo, secondo padre e benefattore di questo paese. Due giorni prima della sua morte trovavasi il santo arcivescovo in Arona reduce da Varallo alla visita di quel sacro monte, e poi da Ascona, dove aveva stabilita l’erezione di quel collegio, solcando per le acque del Verbano due consecutive notti, correva la solennità di tutti i santi, e volle celebrare nella chiesa parrocchiale di Santa Maria le funzioni pontificali che furono le ultime che celebrasse: il giorno in seguito, giorno della commemorazione dei defunti, portossi alla stessa chiesa, ma non potè celebrare per essergli sopraggiunta la febbre, che da qualche tempo lo travagliava; ed ascoltate le mattutine preci, si avviò tantosto a Milano. Colà appena giunto postosi per consiglio dei medici a letto, sentendosi spossato dal male, si dispose con santa rassegnazione a rendere l’ultimo tributo alla natura. Nè l’arte medica, nè altro umano soccorso valsero ad arrestare il termine di sì preziosa esistenza, perchè infievolito il corpo da tante fatiche, e tanto macerato dai patimenti, ha quindi reso l’anima a Dio verso le sei ore di notte delli 3 alli 4 di novembre del 1584, in età appena di anni quarantasei.
Nelle altre epoche di sua vita da noi non rammentate per causa della di lui lontananza dalla patria, noi nol possiamo altrimenti rammemorare in questi scritti, che laborioso sempre per il bene della sua diocesi, per la conclusione del sacro Concilio di Trento; sollecito per sovvenire alla carestia, per la cura de’ poveri appestati, per la riforma di alcuni ordini religiosi, per la instituzione di altri: infaticabile nelle cure in fatto di ecclesiastica giurisdizione, tutto zelo, tutto amore pel suo clero,e pe’ suoi diocesani; niente curante di se stesso, nè timoroso dei pericoli; uomo veramente ammirabile, sulle di cui sante azioni per quanto si possa dire, non sarassi mai abbastanza detto, e commendato.
- ↑ Fiamma in Manip. flor. cap. 132.
- ↑ Giulini, tom. II, pag. 340, 374; ed il Muratori: Antiq. med. avi. tom. II, pag. 747.
- ↑ In proposito del che il conte Verri nella Storia di Milano, tom. I, cap. 6, dice: «I cognomi cominciarono a formarsi nel secolo XI, e nel XII erano generalmenre praticati. La maggior parte ebbe l'etimologia dai luoghi donde traeva l'origine, ovvero dove dimorava la famiglia.
- ↑ Il P. Pertossi, pag. 91, chiama Obizzo Visconte coute di Augera e del Seprio, appoggiato all’opinione di Galvagno Fiamma.
- ↑ Muratori: Antichità Estensi, tom, I, cap. V.
- ↑ Vedansi i rogiti del notaio Giacomo Caccia seniore.
- ↑ Sedem mediolanensem adeptus est Arnulphus hujus nominis primus anno 971 in finem vergente. Saxius in vita mediol. antistitum, pag. 359, edit. mediol. 1755. Ed altrove lo stesso a pag. 381: Esempto ad humanis Landulpho Archiepiscopalem dignitatem suscepit Arnulphus secundus anno 998.
- ↑ Verri, Storia di Milano, tom. I, cap. III.
- ↑ Antico modo di investire e cedere ragioni per fustem, per ramos arboris, per fustecam nodatam per cultellum. - Vide Mœrum in Hierolexicon; e più ancora il conte Verri nella Storia di Milano, tom., I, cap. 3, che così scrive: e «Per fare un atto solenne di donazione il costume esigeva (parlando de’ secoli anteriori al X) che si adoperasse un coltello, un bastone nodoso, un ramo d'albero, ovvero un pampino di vite: qualche altra volta si adoperava per tale atto un’altra cerimonia, ed era di porre sulla terra la carta ed il calamaio, ed il donante la prendeva dal suolo e la poneva nelle mani del notaio, pregandolo a scrivere la donazione, ed autenticarla.»
- ↑ Ora chiamata Angera, e questo nome lo prese appena sui fine del secolo XIII V. Muratori, tom. II, Antiquit.. Ital.
- ↑ Bianchini, delle cose rimarchevoli di Novara a pag. 68.
- ↑ «Il soldo anticamente era una moneta d’oro effettiva, e valeva poco meno di un zecchino di Milano, ma poi divenne moneta ideale, e riceveva maggiore o minor prezzo, secondo l’uso delle nazioni. Nell’anno 850 il soldo era una moneta d’argento composta di 12 danari, e 240 di questi formavano la libbra, ora chiamata lira, E siccome venti danari formavano un’oncia d’argento, corrispondente a 10 paoli, così un soldo conteneva 12 vigesime parti di un’oncia d’argento, corrispondenti a 6 paoli. Il valore dell’oro in quei tempi stava in ragione di 12 volte quello dell’argento. Il valore dell’argento de’ tempi antichi in paragone de’ nostri è come dall’uno al dodici in circa, e perciò la differenza che passa tra un danaro di Milano d’oggidì, ed un denaro antico è circa come dall’uno al 1080. Lo stesso dicasi pure del soldo e della lira.» Giulini, tom. I, peg. 268, anno 587.
- ↑ Tom. VII, pag. 176.
- ↑ Vicario in quei tempi chiamavasi il giudice.
- ↑ Il P. Zaccaria a pag. 158, ed il conte Giulini tom. VII, pag. 483.
- ↑ Giulini, tom. XI, pag. 223.
- ↑ Vedansi gli istromenti di elezione 28 gennaio, e di convenzioni 7 febbraio 1509, rogati Giovanni Filippo Caccia, nell'archivio notarile di Arona.
- ↑ Questa divisione di territorio è stata fatta perchè la maggior parte dei terreni coltivi di migliore qualità è situata appunto sotto il canale della roggia de’ molini, derivato dal torrente Vevera. Gli altri terreni quotati all’uno per ogni trenta stanno superiormente al detto canale, e sono per lo più vigneti, che costituiscono circa la metà del territorio.
- ↑ Intorno a questa ed alla precedente istituzione vedansi le ordinazioni di monsignor Taruggi, visitatore delegato da san Carlo, del 1579, in archivio municipale, e nello stato delle chiese del 1642 a pag. 66 e 75, non che l’istromento di erezione del monte di pietà del 1574 ricevuto Giovanni Pietro Scotto protonotario Arcivescovile.
- ↑ Ordinato della comunità delli 8 aprile 1576 che si conserva nell’archivio della collegiata.
- ↑ Abasilica Petri a pag. 76, lib. I.
- ↑ Domenico Macagno ed Abasilica Petri succitato.