Le confessioni di una figlia del Secolo (1906)/A Don Flaminio
Questo testo è completo. |
◄ | A Carlo | Al Dottor Massimo | ► |
A DON FLAMINIO.
A DON FLAMINIO ...
- Reverendo e caro don Flamiriio ...
È questa forse la prima volta che vi scrivo, venerando amico, che già per me nutriste tanto affetto ed usaste tanta bontà. Da non pochi anni, ormai, voi nulla avete saputo di me oltre qualche indiretta notizia, onde vedendo i miei caratteri — ed in così lunga epistola — dovrete certo provar maraviglia. Ma io ho bisogno di ringraziarvi un'ultima volta della molta bontà — e di aprirvi, prima di chiuderlo per sempre, l'animo mio — mentre gravissimo e buio mi si presenta il domani, mentre tormentoso mi si aggrava l'oggi, mentre disperatamente lontano mi sembra quel recente ieri, che è stata la mia vita sino a questo punto.
Ed io vi ripeto le mille grazie, don Flaminio, per l’indulgenza del sacerdote, per l’affetto del padre, per quel rispetto — sia pur anche un po’ involontario — che voi avete avuto per me, e che ora mi concederà di farmi da voi ascoltare e di ottenere l’estrema vostra pietà.
Sì; anche un po’ di involontario rispetto, io vi ho ispirato. Pur voi avete subito quello strano ascendente, ch’io ho esercitato sempre su quanti mi hanno conosciuta, e che in voi, anima pura ed esperta per gli anni, non poteva fruttar cosa diversa, né migliore, della vostra generosa considerazione. Quante volte me l’avete mostrato allora — e quante volte me l’avete un po’ detto! — che quei miei occhi dorati e diritti, quel mio sorriso un po’ altero, quella mia voce spesso mordente, vi imponevano! Quante volte ad una mia asserzione brusca, o ad una mia obiezione sottile voi siete rimasto senza parola, quasi sbalordito! E allora — io me ne accorgeva, veh!
— voi mi guardavate con la coda dell’occhio, quel buon occhio calmo e grigio come un lago alpino, e stringevate le labbra con l'espressione rassegnata e confusa di chi non sa che cosa rispondere ...
Gli è che io vi ho dato del gran filo da torcere, caro don Flaminio, in quei dieci anni in cui sono rimasta vostra parrocchiana! Ed io lo ricordo ora, se non con il rimorso di una colpa, con la malinconia di non aver potuto dare a me stessa la felicità di sottomettermi alla vostra influenza.
Ricordate, don Flaminio, quando giunsi costi, in cotesto paesello Lombardo, pieno di miserie e di risaie?... Io usciva allora dal convento e voi, buon prete, al vedermi, pensaste chi sa quali meraviglie di teologia io mi portassi entro la scarsella dell’intelletto, e quanta unzione monastica io portassi entro l’altra, solitamente ben più arrendevole, della coscienza. Non era io forse una pecorella di quel vasto e misterioso ovile, che è la Cattolica Chiesa?.. Che dico una pecorella?., ben maggior grado io occupava, al parer vostro: io, cresciuta e nutrita entro la santissima vigna...!
Ricordate, don Flaminio, quel giorno? Ne mancavano pochi altri alla festa dell'Assunta, quando mia zia, ossequente alle regole della creanza, mi condusse da voi. Non era neppure una settimana da che io mi trovava nel paese, e già una grande angustia di spirito mi teneva assediata. Benché usa, purtroppo, alla ristrettezza d'ambiente ed alla vita monotona del monastero, pure amara infinita- mente mi pareva la necessità di seguitare, sotto altra forma, la mia reclusione. Non si hanno invano, ahimè! venti anni; non ci si sente invano ribollire entro le vene tutte le baldanze e tutti i desideri!... Ed il mondo, che io non aveva quasi neppure travisto, mi sembrava l'oasi che il viaggiatore scorge in un miraggio, l'oasi verso cui egli tende le mani disperatamente, nel mentre, caduto sulle ginocchia, egli affonda senza spe- ranza nella rena del deserto. Laggiù ... laggiù, in quell'orizzonte nebuloso ed agitato come la vertigine di un pazzo, eran tutte le delizie e tutte le follìe: la giovinezza e l'amore e la gioia e gli orgogli e i trionfi. Laggiù, soltanto laggiù, io avrei trovato la verità e la vita, poiché la natura, che è verità, poiché l’amore, che è vita, mi vi chiamavano — possentemente incitatori. Quel mondo ... quel mondo, quel grande mistero, di cui io non conosceva che il miraggio fluttuante d’oasi — come e quanto attraeva tutte le fibre del mio essere, tutte le facoltà della mia mente!...
La vostra vecchia perpetua ci disse che eravate nell’orto. Là vi ritrovammo che leggevate il breviario, passeggiando fra quella parvenza di ajuole, più avviluppate di male erbe, che non ordinatamente piantate di cavoli. Chi sa perchè, don Flaminio, avete avuto sempre tanta predilezione per le male erbe? Entrando nell’orticello, io osservai subito la negligenza della sua coltivazione; v’era, in un angolo, un fascio di papaveri rossi violentissimi, ritti in mezzo ad un viluppo di ortiche e di vecce — e nel caos vegetale un cesto di lattuga, mezzo soffocato, sembrava implorare pietà per il suo rigoglio. Più tardi io vi ho domandato il perchè di quella inconsueta predilezione per i selvaggi fiori e le selvagge erbe — s’era aggiunta, ricordo, ai papaveri una manciata fitta di grosse margherite gialle — e la vostra risposta mi rischiarò di molte incertezze passate, come doveva rischiararmi di molte altre vostre parole a venire.
— Sono tanto belli! — diceste, guardando con simpatia la macchia vivace e petulante.
Ma quel giorno io non osai muovere alcuna domanda: mi contentai di osservare la vostra persona di prete, delicato e pallido, i cui quarant’anni sembravano di più — forse per le fatiche della cura malsana e per le privazioni della misera congrua. E, nel viso emaciato e già rugoso, vidi gli occhi placidi e grigi metter soli una nota di forza — forza di bontà e di fede. Voi pure mi guardaste, ricordo, ed il vostro viso ebbe la stessa espressione di simpatia, che poi doveva mostrar per i belli e selvatici fiori. Non era anch’io, infatti, un vivace purpureo fiore di giovinezza, eretto e fresco come appena sbocciato alla vita?
Pochi giorni mancavano all’Assunta e voi, passeggiando nel piccolo orticello, ci manifestavate le vostre angustie di curato, per la pochezza dei mezzi a degnamente festeggiarla. L’annata era stata scarsa; i vostri poveri parrocchiani avevano dovuto troppo stentare per campare sé, per trovare l'esuberanza del danaro e dell’entusiasmo che sono i migliori fattori di qualsiasi solennità. Vi lagnavate che la tovaglia dell’altare fosse consunta, che i fiori delle palme fossero lacrimevolmente sbiaditi, che il purificatoio fosse tutto un brandello.
Io vi dissi:
— Se volete, signor parroco, vi aiuterò. In convento ne abbiamo fatte tante delle feste!...
Oh !... il vostro lieto soprassalto di maraviglia alla proposta! ... E come, con non nascosta soddisfazione, mi vedeste al domani prender possesso della chiesetta e della sacristia, per mandarle letteralmente all’aria! Voi non sapeste mai quanti punti dovetti dare ai vostri paramenti, quanto amido al vostro camice, quanto tripolo aì vostri candelieri!
Poi i miei tesori di educanda offrirono una bella trina a tombolo per la tovaglia ed un ricamatissimo fazzolettino, per surrogare la lacera animetta, mentre i fossi pieni di fiori ed i vecchi olmi coperti di edere offrivano le palme per gli altari, e i festoni per la nicchia della Vergine, e la pioggia fresca di petali e di fronde per la intera chiesetta.
Ricordate, don Flaminio? ... Voi guardavate l’opera delle mie mani con sbalordimento, spaventato, quasi, di vedermi toccare tante cose, che forse non erano mai state toccate da nessuno, neppure per nettarle. Ma il giorno della festa — ricordate? — tutti guardarono a bocca aperta il miracolo, e voi gongolaste di gioia nel purificare le labbra dopo la Comunione, entro il fazzolettino da sposa — e le vostre laudi suonarono più limpide nella chiesetta fiorita e linda, come non mai alcuno l’aveva veduta! ...⁂
Da quel giorno, caro don Flaminio, foste tutto mio. Senza volerlo e solo in virtù di quella spontaneità di cuore, che mi ha fatto sempre profondere ogni cosa di me, io vi aveva conquistato. E la conquista fu poi definitiva quando, un pomeriggio, vedendovi passar frettoloso dinanzi alla nostra casa, vi pregai di permettermi di accompagnarvi.
Andavate ad assistere una povera donna, quasi agonizzante, divorata di malaria, presso a divenir madre. Lungo la via voi mi avevate detto, in poche parole tremanti di pietà e di lacrime, l’infinita miseria spirituale e materiale dei vostri parrocchiani: ignoranti e famelici, come segregati dal mondo, in quella pianura lucente di verde infinito, ma insidiosa di paludi pestifere. Ed alle parole vostre io tutta m’era profferta per aiutarvi del mio meglio nell’opera santa. Una grande ansia di bene mi teneva fino da allora: vedere un bimbo gridar di giubbilo per una ghiottoneria ed una fanciulla arrossire di piacere per una pezzuola scarlatta! Vedere un vecchio sollevarsi confortato nel suo lettuccio ed una madre drizzare, in un impeto di gioia il volto, già chino ansiosamente sul figliuolo malato! Oh profonda e sentita religione dell’anima mia, vera e schietta propensione di tutto il mio sentimento! ...
Dinanzi all’orribile canile, su cui la povera madre, distrutta dalla miseria e dal miasma, singhiozzava le proprie pene e quelle delle piccole creature, che l’attorniavano, noi ci sentimmo fratelli, don Flaminio, uniti, più che dal sangue o dal dogma, dal fervidissimo nodo della pietà umana ... e voi, da quel giorno mi voleste bene, molto bene ... Troppo, forse, perchè io doveva poi farvi soffrire tanto ... né, ahi, di darvi pena io ho ancora finito! ...
Ma come avreste mai potuto supporre che quella fanciulla, non ancora ventenne, recente allieva di monache, così zelante addobbatrice di chiese, così fervida soccorritrice di miserie, sarebbe stata la più tiepida, anzi la più ribelle anima di neofita, che fosse caduta mai sotto la vostra mite giurisdizione? ... Come avreste mai potuto supporre — semplice spirito di prete campagnuolo — che anima di fanciulla e di donna potesse esistere, così complessa, così — per voi — contraddicente? ... Certo grande dovè essere il dolore vostro, quando vi doveste convincere che unicamente per farvi sorridere di orgoglio io aveva abbellito la vostra chiesuola ed inghirlandato di fiori i vostri altari — e sol per far piacere al mio cuore, che ne godeva, io mi univa a voi nelle opere di carità. Due egoismi, forse — o meglio un egoismo solo: quello di procurare a me stessa il piacere di vedere gli altri felici! ...
E pure, quando io vi accompagnava nelle vostre visite di carità, voi vi industriavate con tutta la eloquenza del prete credente, d’instillare nel mio cuore i germi della fede — poiché, con vostro sbigottimento, vi eravate dovuto persuadere che persino i germi mancavano! ... E, certo, molte volte voi doveste domandarvi che razza di educazione religiosa mi avesse dato il convento, se, dopo così lunga permanenza, io mi era ancora a crollare le spalle alle vostre rivelazioni! .. Ma se tal domanda aveste fatta a me, io vi avrei potuto rispondere che, nei conventi, non si impartisce educazione religiosa — vale a dire che non si prende un’anima, per studiarla, per vederne le buone e le male disposizioni, per fortificar quelle e dissipar queste; per cercare di scendere con l’amorevole ed illuminata persuasione entro quell’abisso e riempirlo di sante e buone cose. In convento nessuno si cura di ciò. Vi imbrancano, qualsiasi siate, nel gregge; vi fanno inghiottire, a forza, quel cibreo indecifrabile che ha il nome di catechismo; vi impancano in un confessionale; vi inchiodano in un coro; vi insufflano una miriade di preci in lingua ignota, che vi obbligano poi a ricacciar fuori, or qua or là, mangiando e lavorando, in chiesa ed in letto. Questa è l’educazione religiosa, che si dà nei conventi — quando non vi si imparino cose peggiori: i brutti intrighi, le ipocrisie ripugnanti ed anche, per colmare la misura, i pasticcetti amorosi, semi nascosti e semi veduti, che deflorano se non altro la verginità dello spirito.
Ora io, don Flaminio, mi veniva diritta da un cotale semenzaio di incoscienza educatrice e di brutture palesi — onde, nel rovinio di ogni rispetto, invano, se bene a lungo, mi parlavate della possanza della Chiesa Cattolica, della bellezza della sua fede, della magnificenza dei suoi dogmi ... ed invano la vostra voce, nelle parole ferventi, aveva la profondità semplice e sonora della squilla del vostro campanile. Io vi ascoltava calma e gelida ... né, malgrado tutto l’ardore vostro, alcuna vostra parola riusciva a penetrarmi entro le viscere e suscitare quel grido di risurrezione, che voi — ed io stessa, forse — auguravate. Io non negava, né discuteva: vi lasciava parlare tranquillamente, con gli occhi dilatati sui verdi piani, bevendo, più che fiutando, il profumo di una corolla, sorridendo col viso eretto verso l’azzurro.
Ah! troppo io adorava la vita e la natura, troppo io ne sentiva il grande rispetto — in contrasto con la noncuranza di ciò che mi si era insegnato a chiamar religione — perché i vostri rigidi precetti mi sembrassero, nonché adottabili, degni di attenzione! No, la vita non era sacrifizio — no, la vita non era dovere — no, la vita non era rinunzia — no, no, mille volte no, non era l'annichilamento della personalità, l’inabissamento d’ogni orgoglio! .... Nascostamente, e peccaminosamente, questo mi aveva dimostrato la vita del convento, e questo ora mi insegnavano quei campi che, per quanto paludosi, cantavano nella loro verde sinfonia la gloria della vita, e quei fiori e quel sole, che l’accompagnavano delle loro note squillanti!
Tutto il trionfale creato proclamava troppo a piena voce la sovranità della vita, la santità dell’ azione — perchè io potessi sentire la vostra povera voce di uomo, di prete, cercare di mentire alla natura, e contendere alla giovinezza, alla vitalità umana, il diritto alla forza, al piacere, il diritto alla passione. Questo diritto, che più alto ancora del creato, il mio essere stesso proclamava in un’osanna, era più grande di Dio, più grande di ogni sua legge — o, meglio, più grande delle leggi, che, in nome di Dio, la Chiesa ha create e bandite per vere.
E, nel mentre voi, don Flaminio, con lo zelo del pastore, quasi del missionario, mi ripetevate instancabile le vostre dottrine, entro me, per una reazione strana e quasi inconcepibile, un’onda si levava di gagliardìa e di giovinezza, ed io la sentiva correre alle tempie pulsanti, e correre al cuore gonfio, ed invadere fin l’ultima estremità del mio corpo di donna giovane e sana, ed esalarsi in un grido quasi selvaggio, per le mie labbra dischiuse....
Voi, a quel grido, vi arrestavate interdetto, povero don Flaminio, e ci perdevate proprio il vostro latino .... io, arrossendo più dell’increanza, che non della rivelazione, vi giurava di aver veduto una splendida farfalla svolazzare al di là del fosso ... Allora lasciandovi in asso, me ne fuggiva come un poledro a traverso i rigagnoli e le siepi, per frugare entro le erbe, per tuffarmi tutta in qualche viluppo profumato, che sapesse di vita, che sapesse di giovinezza, e di gioia, e mi confortasse dell’uggia del vostro amorevole sermoneggiare ....
Ma un giorno — e voi non dovete averlo dimenticato, don Flaminio — mi credeste davvero convertita. Solenni i rintocchi, che annunziavano il Viatico si erano fatti udire, ed io, pensando che una qualche povera creatura combatteva in quell’ora r ultima battaglia, resa più atroce ancora dalla visione della miseria superstite, mi avviai alla parrocchia, sollecitamente. Teneva in mano un grosso libro di preghiere. Voi, uscendo dalla porta della chiesa, tutto chiuso nel sacro velo, sotto il simbolico ombrello, mi vedeste appena, unirmi a quei pochi contadini che il lavoro non tratteneva ne’ campi.
Salmodiando la piccola processione passò per un viottolo, incassato fra due marcite. Si approssimava il tramonto della purissima giornata di maggio. Dense da un lato del viottolo si allineavano le robinie, cariche degli aulentissimi grappoli bianchi; giù, dalla proda, a mille le mammole si confondevano ai miosotidi. Le voci rauche dei villani rispondevano, ciangottando, ai salmi latini e la piccola processione sfilava nel viottolo, come una visione ....
Sola io incedeva alla coda, leggendo il mio libro di preghiere, ed alternando la lettura con profonde aspirazioni voluttuose, che facevano entrare nelle mie fibre tutte le essenze portentose di quei profumi e le conducevano, in guizzi scudiscianti, entro i miei nervi ... Il sole presso al tramonto, fasciava d’oro lo smeraldo de’ prati, ed ognun d’essi pareva l’enorme gemma caduta dal monile di una qualche dea, seduta sopra i naviganti cirri del cielo.
Io leggeva, e guardava, e aspirava — con eguale delizia.
Come la pia e triste cerimonia ebbe compimento — io lasciai, ricordo, alla famiglinola angustiata le ultime cinque lire, che mi restassero di un già paterno dono pasquale, e voi lo vedeste, e me ne rimproveraste, poi, dolcemente — ce ne tornammo per la via già fatta, né io smisi mai la pia ed assorbente lettura. Certo, nel vostro buon animo di pastore, grande dovè essere l’allegrezza nel constatare il mio raccoglimento e la divota attenzione, ch’io poneva nella lettura del sacro volume. E, certo, nel salmodiare ancora gli inni del ringraziamento, per il rito cristiano, voi innalzaste un nuovo silenzioso ringraziamento a Dio per l’avvenuto miracolo.
Al fine, tornati alla parrocchia e deposti i paramenti, voi veniste a raggiungermi sotto il tiglio, che guarniva il sacrato e dava ombra ad una panchetta di pietra. Anche l’ampia ombrella del tiglio era in fiore e giù, per le pendule rame, sul nostro capo pioveva l’effluvio dolcissimo. Io taceva, col mio libro sulle ginocchia, forse un po’ pallida, forse un po’ ebra L’ora era grave e soave, e voi pure la sentiste così, perchè non parlaste subito. Poi domandaste:
— Che cosa leggete, Viviana?
Sorrisi.
— L’Imitazione di Cristo.
— Santissimo libro! — esclamaste con calore — Tommaso da Kempis vi ha distillato tutto il suo grande fervore di cristiano e di credente. Quante parole di pietà! quanti pensieri di elevazione!... Quanta purezza di rinunzia e d’oblìo di sè, nella immensità dell’amore divino!... E che capitolo avete letto, Viviana?
Aprii il libro — era scritto in francese, ricordate don Flaminio? — ed io ne lessi una pagina del mio meglio, e con la mia migliore pronunzia, e col mio più profondo sentimento.
Ora, che io l’ho dinanzi, ne ricopio le frasi dolci e vibranti:
„L’amour est une grande chose: c’est un bien tout à fait grand. Lui seul rend léger tout ce qu’ il y a de pesant et supporte avec égalité les inégalités de la vie, car il porte son fardeau sans en sentir le poids et il rend doux et agréable ce qui est amer .... Celui qui aime vole, court avec joie: il est libre et rien ne le retient. Il donne le tout pour le tout, et possedè tout dans le tout, parce qu’ il se repose au dessus de toutes choses, dans le seul et souverain bien .... Souvent l’amour ne connait point de bornes; mais son ardeur l’emporte au delà de toute mesure.... L’amour veille et ne dort pas même pendant le sommeil: il se fatigue sans se lasser, il est a l’etroit sans ètre gene, il est effrayé sans ètre troublé; et, comme une vive flamnie, comme un flambeau ardent il se fait passage en haut, et y monte sans obstacle ... Celui qui aime connaìt la force de ce mot d’amour... C’est un grand cri.... „
Nella sera, che già era caduta sulla campagna e sopra noi, insieme al profumo delle rame pendule, la mia voce tremò, forse di spasimo, forse di pianto.... il pianto del desiderio inappagato... E le frasi ardenti si tacquero nel silenzio stupefatto delle miti e semplici cose d’intorno.
Voi don Flaminio, non parlaste, no, preso di commozione nuova e, forse, di spavento, udendo che le parole sante a traverso le mie labbra, di vergine e di donna, avevano preso cotanto senso di passione umana. E non parlaste, no, forse temendo che la sorpresa tradisse la vostra intenzione. Taceste, ed io tacqui pure — e, su noi, la sera continuò a cadere profumata di tutti gli effluvi della fiorente primavera.
Ma da quella sera rinunziaste alla mia conversione, comprendendo alfine che mai, mai la mia passionalità, ardente e dilagante come un filone di lava, che mai la mia orgogliosa e bella giovinezza avrebbe potuto sottostare al giogo delle vostre massime austere, e rinunziare a quanto essa giudicava unica bellezza ed unica meta di vita.
Né, più tardi — quando le tante amarezze della esistenza ebbero abbeverata l’anima mia fino alla sazietà, quando l’esperienza, tristissima maestra, mi ebbe additata ogni piaga ed ogni sozzura, io trovai ragione per non amare la vita. Gli uomini, sì, li trovai abietti e sozzi e degni di ogni odio più feroce, e se, nella mia sostanza stessa, viva non avessi sentita palpitare quella religione della vita, io avrei usato della mia forza e dei miei mezzi di donna, per vendicarmene ad oltranza. Ma tutto il mio essere era plasmato per amare — unicamente: amare l’uomo, amare gli animali, e i fiori, e il cielo, e tutto il creato e tutte le creature. Voi avete dovuto comprenderlo, allora, quando mi vedevate correre, con gridi di gioia pe’ prati; avete dovuto comprenderlo, quando mi vedevate pallida, e smarrita, con le labbra semiaperte, bere il profumo, che pioveva dal tiglio del sacrato, o quando, seduta al sole, tutta investita dalla carezza del sole, io levava il viso verso la sua spera, offrendo al bacio di quel meraviglioso Dio la mia carne palpitante ...
Avete dovuto comprenderlo alfine da tutti i miei moti, da tutti i miei sorrisi, da tutte le mie parole. E però, invano voi mi parlavate di sacrificio, di virtù, di astinenza, e mi narravate di castighi e di pene, e mi additavate la Chiesa come il più confortatore rifugio: le vostre parole, che voi volevate scagliare alate al cielo della mia anima, ricadevano dopo breve tragitto, più gravi di macigni. Nulla, di quanto mi dicevate, io comprendeva, nulla toccava cellula vitale di intelligenza, o fibra di cuore: fra me e le vostre parole, era la tenue e pure incommensurabile, barriera di un istinto e però il loro suono non giungeva quasi al mio udito.
La vostra chiesetta, per la quale, pure, tanti punti ingegnosi ho dato, e tante ghirlande ho composto, non diceva nulla alla mia anima. Il suo organo, su cui un povero maestro parodiava le cabalette di Donizetti o di Bellini per accompagnarne le funzioni, mi faceva ridere o rivoltava il mio senso artistico ... I suoi quadri crostosi, le sue lampade di stagno, i suoi candelieri d’ottone, che conoscevano la forza dei miei gomiti, mi parevano lacrimevoli emblemi di un culto stravagante. Persino la nicchia della Vergine Madre, benché costellata di cuori d’argento, mi pareva una povera cosa, a cui mancasse l’elemento primo: la logica. Le vostre cerimonie mi erano insopportabili, le vostre omelie, povero don Flaminio, mi pesavano infinitamente. Tutta la miseria, la grettezza, la dubbia pulizia di una chiesetta di campagna urtava il mio gusto, indisponeva persino il mio ragionamento, con lo spettacolo di una cosa troppo miserrima, perchè avesse nulla di comune con quel grandissimo Dio, del quale voi mi andavate catechizzando.
Ah! ... quando usciva da quelle pestifere funzioni — in cui la mia ingordigia del profumo era stata cosi svillaneggiata, da tutti gli animaleschi effluvi dei vostri parrocchiani — quando usciva sul sacrato e, largo per la campagna verde, io vedeva diffondersi il sole e sentiva l’aria vibrare, ed udiva levarsi d’ogni intorno l’inno della natura, ben altrimenti possente e glorioso dei cantici vostri ... allora io doveva frenarmi per non gettare un grido di osanna, un grido, che entro il grande inno, fosse la nota della mia giovinezza, fosse il do di petto della mia virtuosità di artista della vita! ...
Alcune volte, soltanto, io ho sentito qualcosa nella vostra chiesa — ed è stato quando essa era chiusa per tutti e quando io vi penetrava, passando per la canonica. Era, solitamente, l’ora del tramonto — l’ora che, anche nella natura, conduce un senso di malinconia e di raccoglimento. Io sgusciava allora nella chiesetta immota, in cui solo palpitava, come una viva lucciola, la fiammella della lampada dell’altare. Seduta in qualche angolo, i miei occhi guardavano le meschine e volgari cose, che l’adornavano, e ad essi pareva di trovarle, in verità, meno sciatte ... prodigio del sole, che, penetrando per la finestra sovrastante la porta, lambiva di tutti i suoi raggi l’altare ed empiva di un dolce color di rosa la navata. L’aveva messa io quella tendina rossa alla finestra, ricordate don Flaminio?
Ed allora, in quel silenzio, in quella immobilità, in quella luce rosea, che i candelieri d’ottone avvivavano di punti di oro, le mie membra si sentivano pervadere da un languore dolcissimo, mentre il pensiero ondeggiava in una fantasticheria soave e tormentosa. E, a volte, lenta dal cuore, ma acuta, un’ansia mi saliva alla gola e richiamava lacrime ne’ miei occhi: lacrime non di dolore, ma di tenerezza, lacrime di nostalgia ... di nostalgia d’amore, di nostalgia di baci, di nostalgia di felicità .... E così ardente, a poco a poco, l’ansia cresceva, che io doveva fuggirmene da quella rosea e silenziosa chiesetta mutata per me in un tempio di sovrumano amore ... Voi mi vedevate giungere, allora, con gli occhi lucenti nell’orbita infossata, e mi domandavate benigno: — Donde venite Viviana.... Dalla chiesa?
Io balbettava di sì.
— Avete pregato, figliuola mia?
Ancor più io impallidiva. Se aveva pregato!? ... Ma io aveva gettata tutta l’anima mia, tutta la veemenza dell’anima mia, in quella invocazione, che implorava la grazia, la divina grazia di amore!
E vedete, don Flaminio, tutto questo complicato sentire mi ha seguita sempre: esso ha fatto parte del mio bagaglio psicologico, altrettanto fatale come un istinto — né io ho tentato di disfarmene mai, né tento disfarmene oggi — e lo potrei, forse? — in cui anche esso si aggrava sulla mia vita, e si unisce al resto per impormi la morte.
Perchè, povero don Flaminio, io son per darvi un’ultimo grande dolore... un grandissimo dolore, di cui non si consolerà mai la vostra credente anima di prete, e la vostra affettuosa anima di amico. Io mi uccido, don Flaminio.... io conduco a me, con le mie mani, la morte!...
Ma quella enorme, quasi folle, passione di vita, che sola mi faceva inchinare dinanzi alla sua divinità, e che mi ha seguita sempre nel mio non lungo viaggio, ancora oggi mi investe, mentre nessun tesoro di vita ho più, per cui mi sia possibile goderne ed adornarne la sua ara.
Che cosa volete, don Flaminio, che io più faccia di me poiché non posso più amare? ... Che cosa volete che faccia di sè. una donna? ... La missione, che ci fu data quaggiù, non ha tanti paragrafi: esser moglie, esser madre, od essere amante. Falliti i tre scopi, che cosa a noi resta ? Noi non abbiamo mete speciali da conseguire: non la gloria, non le sue idealità, non i guadagni con le sue realtà. Non abbiamo un’arte, a cui dedicarci, una fama, a cui applicare ogni intento nostro; non abbiamo responsabilità sociali, che assorbano il nostro spirito ed usino le nostre facoltà. Amare soltanto ci incombe — con le sue delizie, si, ma anche con le sue miserie. Io ho vissuto così, come mi plasmò natura, e come fui lasciata crescere: per l’amore soltanto. Avrei voluto essere buona moglie e buona madre.... ma ciò non mi fu consentito. Ho cercato di essere una buona amante, e, veramente, in mancanza d’altro più nobile scopo, ho la coscienza di aver posto in questo ogni devozione di anima, ogni raffinatezza di pensiero, ed anche ogni alacrità di azione ...
Ma^ ahimè!.... non si può essere eternamente donne d’amore! j
Un’età giunge, in cui bisogna abdicare a questa parte ultima della missione femminile, se non si vuol precipitare nell’ultimo fango. A trentanove anni, io son l’artista esimio deliziatore di pubblici al grande bivio: ritirarmi dalla scena? recitare ancora? ... Attorno a questo dilemma molti cervelli si sono usati e molte fame distrutte. Attori celebri, votati alla gloria e che della gloria avevano già colto a piene mani gli allori, si sono andati disfacendo, su quella medesima scena, che li aveva veduti belli ed eloquenti come dèi, suscitando la pietà e, spesso, le risa di quel pubblico, che un giorno li aveva portati alle stelle. Altri, più savi, ma non certo più felici, avevano prima della disfatta, raccolto le ultime forze per creare la forza massima, necessaria a ritirarsi dal luogo, donde avevano tratto glorie e trionfi, per andare a nascondere, in un angolo remoto, gli ultimi oltraggi del tempo. Io, attrice della vita, ho prescelto questa seconda via, parendomi orribile quella lotta disperata a palmo a palmo — e già d'avanzo perduta — - delle donne, che non avendo il coraggio d' invecchiare, non hanno neppur quello di morire, e restano, poveri cenci umani, tutti pieni di strappi, in balìa dell'ultima ferocia delle passioni.
Due cose sole mi avrebbero potuta salvare — due cose, che non ho: la fede e la maternità. Ma l'una è stata sempre troppo lontana da me, incompatibile con la sostanza stessa del mio essere, con le tendenze del mio spirito, con gli istinti del mio sangue. L'altra mi è stata negata, per la viltà di un uomo prima, e per la feroce ipocrisia della società dopo. Una credente ed una madre non si uccidono: l'una ha il suo Dio, la sua fede, dinanzi a cui inginocchiarsi ancora, ed ancora invocare, ed ancora effondere quell'immor- tale profumo d'amore che sorvive alla giovinezza, e che è la poesia suprema della vita. L'altra ha il figlio delle sue viscere, la carne della sua carne, il fiore vivente del suo amore, la creatura che potrà baciare ancora, stringere ancora al seno, anche quando le sue labbra saranno appassite, ed il suo seno si sarà disfatto, come un frutto troppo maturo.
Un Dio — od un figlio. Ecco le uniche cose, che avrebbero potuto salvarmi, e ridare alla mia vita uno scopo, e ridare alla mia anima un'ideale, e ridare alla mia non lontana canizie una dignità. Un Dio, in cui sperare — Un figlio, in cui rivivere — L'uno, o l'altro, altare dinanzi a cui usare in adorazione quanto mi avanzava di vita! — l'una, o l'altra, divinità dinanzi a cui arderel'incenso delle energie, sempre giovani e sempre palpitanti, del mio essere.
Ma il figlio, che non ho potuto avere dal marito, non ho dovuto avere dagli amanti: e come, nelle mie nozze, non è valsa la mia sana giovinezza di femmina, così, nei miei amori, non è valsa l'esuberanza della mia sensibilità e della mia passione. Quale scandalo enorme sarebbe scoppiato, entro la mia casa e sarebbe dilagato al di fuori, se io avessi dato un figlio, a chi poteva sapere non esserne padre? Quale enorme urlare di tutte le ipocrisie e di tutte le viltà, se, anziché il piacere, da sterili e febbrili carezze, prodigate quasi disperatamente nella menzogna, io avessi, da una carezza sola, sia pure illegale per la società, ma benedetta dalla natura, raccolto il frutto dell'avvenire, la creatura che mi avrebbe redenta!...
E pure, don Flaminio, per quello che voi prete — ed il codice — avreste chiamato delitto, io non commetterei ora quello, ben più grande, di troncare da me stessa la mia vita — come si recide uno sterpo inutile, che le tempeste hanno schiantato, e che però non ha mai dato frutti né fiori. Io muoio, ora, per aver dovuto — circuita ed appostata da tutte le parti, come una fiera, dalle esigenze di queste vostre moralità, civile e religiosa — salvare quelle, che sono abiette apparenze, e che si chiamano, abiettamente, l’onore. Moglie onesta ho dovuto comparire — non essere, che la società non domanda tanto — e però ho dovuto ingannar tutto e tutti, e prima di ogni altro la superiore natura. Ed essa si vendica, togliendomi la forza di resistere ancora, e condannandomi, io arida ed inutile, alla morte.
Dio, voi dite? ... Tornare a Dio? ... Potrei, forse, tornare se sua fossi mai stata. Ma, io, il Dio della Chiesa, quel Dio oscuro e terribile e vendicatore, non l’ho mai conosciuto, non l'ho mai sentito. Alla mia età non si va al vostro Dio — si può soltanto ritornare — per vivacchiare, dopo le allegre diserzioni vergognose, beghinamente, ed in odore di santità morire.
Io non ho Dio, e non ho figli — E, però, muoio volontariamente oggi, mentre ancora la vita potrebbe arridermi, se io la volessi abbellire dei godimenti di una buona tavola, delle soddisfazioni di una vendetta, o delle ultime fangosità di una parvenza — caramente pagata — di amore. Ma io non son ghiotta, don Flaminio, e sono incapace di far male ad alcuno, e non saprei mai, e poi mai, adattarmi a pagare una mercanzia, che, finora, mi fu tanto liberalmente regalata. Che cosa far più povero don Flaminio?... Madre no, beghina no, buoni pranzi neppure, e neppure cattive azioni, e neppure signori Alfonso ...
A questo punto io sento la vostra voce, che trema di pianto e di pietà umana, come quando mi narravate le miserie grandi dei vostri parrocchiani. Essa geme: — „ Amate ancora, Viviana, poiché questo è il vostro comandamento: amate gli uomini, se non potete più amare l’uomo. Voi avete tesori di carità nell’anima, cotesto vostro cuore è pieno ancora di fervore per le povere creature miserabili e dolenti. Fate del bene, Viviana; che quel bene diventi il solo scopo e la gioia della vostra vita. „
Ed ecco, don Flaminio, dove la tragedia diventa quasi comica, a forza di atrocità. Io non ho più nulla. Io sono povera: mio marito ha divorato anche la mia piccola dote: egli stesso ha perduto gran parte della sua sostanza: noi viviamo appena decorosamente, nascondendo con sforzi di abilità la nostra rovina. Come potrei, in queste condizioni, fare del bene ... Per questo, caro don Flaminio — ed è atroce, ma logico, ma indeclinabile — occorrono dei denari. La buona volontà non basta, lo zelo neppure, il più puro amor del prossimo menò che mai! Denari sonanti, in borsellini gonfi, occorrono per pagarsi anche questo, che è — e non dovrebbe essere — il più grande lusso, che possa passarsi il ricco.
Il conforto morale, le buone parole contano poco al giorno d’oggi. Una filantropia, sulla base di verbali consolazioni, sembra un cattivo scherzo all’operaio disoccupato, alla vedova carica di figli. La carità, ora, si fa parlando poco e spendendo assai, perchè la gente è sazia di ciarle, morali o politiche, vengano esse da un prete o da un demagogo. Danari essa vuole — e non ha torto — poiché quando si ha fame, né la rassegnazione in Di, né la prospettiva della rivoluzione sociale, empiono lo stomaco.
Che cosa volete, dunque, che io vada a fare al letto di un malato, nella stamberga di uno scioperante, se non ho in mano di che ristorare quelle membra, e quello spirito? ...
Dire, forse, a quei miserabili che, benché il pane a me non manchi, io sono più miserabile di loro? Ohibò! Io avrei ancora l’ultimo smacco di vedermi ridere in faccia, perchè la gente che ha pane per lo stomaco e vesti per la persona non può, assolutamente, non essere felice.
E allora? ... Nulla mi resta a fare, don Flaminio, se non una cosa: morire. Ed è ciò che faccio — ed è ciò che sarà avvenuto, quando voi leggerete questa lettera.
Ah com’erano belli quei vostri papaveri, cosi arditi, e quelle vecce avvolgenti, e quelle grosse margherite gialle! .... Belli ed orgogliosissimi — e voi ne avete avuto pietà per questo, e non li avete sbarbicati. Io sono stata di quei fiori audaci e diritti, come in un trionfo. Ma poiché, al pari di essi, io non ho dato cosa buona e degna di sopravvivermi, cosi da me stessa io mi recido.
Addio, don Flaminio, pregate pace alla povera anima mia.
Viviana.