Le confessioni di una figlia del Secolo (1906)/A Carlo

A Carlo

../A Edoardo ../A Don Flaminio IncludiIntestazione 30 luglio 2024 75% Da definire

A Edoardo A Don Flaminio
[p. 119 modifica]

A  CARLO ...

[p. 121 modifica] [p. 123 modifica]

A  CARLO.


Carlo,

Da un po’ di tempo — forse fino da quando sei partito — io mi sento assai male. Che cosa abbia non so: so che soffro molto e che mi pare di declinare ogni giorno. Ma, non temere, ho chiamato un medico.

Nell'anima non soffro però. L’idea della morte non mi spaventa, non mi turba neppure. Forse è la prima volta che ciò mi accade: ricordo, in altre mie malattie, di aver patito più del terrore di morire, che non delle pene del male. Né ho dimenticato una volta, in cui, sentendo che tutte le mie forze se ne andavano succhiate da una febbre senza remissione, io mi lasciai andare ad un gran pianto, affondata nel letto, come una piccola creatura che, sola nella notte, vede dinanzi allo sguardo [p. 124 modifica]sbarrato nel buio, sorgere a mille i mostri dalle faccie contorte. Anche a me, quella volta, balenò un orribile mostro che ammiccava, ridendo con la larga bocca. Ed, alla vista, un infinito terrore mi prese che esso allungasse verso me le mani adunche... E piansi... piansi!.. Ma allora io aveva venti anni.

Ora, che ne ho parecchi troppi! — di più, la morte non mi spaventa, poichè ella non mi si presenta in sembianza di mostro divoratore, ma piuttosto di una pallida amica, benigna e pacificatrice. Essa mi sembra aprire le braccia, e mostrarmi il magro seno, come invitandomi a posar la stanca testa, che già il dolore, più che il tempo, va segnando delle stigmate incancellabili della decadenza. E però io non ho paura della morte, anzi la guardo tranquilla, anzi le sorrido, anzi la benedico forse!

E, forse, anche la chiamo, e con tanto ardore, con tanta affannosa insistenza la chiamo, ch’io penso che ella non vorrà mostrarsi sorda e mi concederà la pietà della sua condiscendenza. [p. 125 modifica]Io morirò, dunque — forse morirò — E poiché mi sarebbe grave, sovra ogni cosa, partirmene, recando con me — quale lo tenni per tanti anni sovra le spalle — il peso di una grande menzogna, così voglio scriverti una lettera che, nel caso, ti verrà consegnata. Se non morirò, riprenderò il grave fardello e, con esso, più stanca, più curva verso il suolo, procederò ancora e la menzogna verrà con me indivisibile, come un galeotto che la sorte ha inceppato, con egual catena al mio piede.

La menzogna!... Oh! non era per mentire, ch’io mi sentivo nata! Profonda, quasi invincibile, è stata sempre in me la predilezione, anzi l’istinto, della verità. Io ero nata per la verità, sonora e limpida, per la verità, lucente e schietta, acqua di vena della roccia della coscienza. La mia anima andava alla verità, come alla lucerna va la farfalla — irresistibilmente.

Ma così, come la fiamma arde le ali imprudenti, troppe volte io mi dovetti lamentare che la verità mi avesse ferita, forse mutilata. Ed allora [p. 126 modifica]me ne discostai, non rassegnata, anzi ribelle, anzi piangente, ma discosta, come da un pericolo che poteva inghiottirmi.

Che farci?... La vita ha di queste esigenze; la società, in cui ci muoviamo — automi quasi, tanto essa ci sottrae di responsabilità personale, a beneficio delle sue leggi generali — ha di queste implacabili esigenze. Non importa, se l’anima è pura, come la trasparenza del diamante: bisogna ottenebrarla, coprirla, mettervi sopra, quasi una buffonata d’orgia, la maschera della menzogna e, così, cacciarla a forza di pungolo, entro il baccanale della festa vergognosa, che si chiama il convenzionalismo sociale.

Mentire bisogna! Vestire altri panni bisogna. Bisogna stringere la mano, a chi si disprezza e volgere le spalle a chi si stima — dire alla persona odiata: ti amo — dire alla persona amata: ti odio — dire, alla massa brulicante e schifa come un verminaio: siete miei fratelli! E, nel rossore della menzogna, sentirsi più abietti e schifi del verminaio, e dire ancora: io sono la virtù, io sono l’onore! [p. 127 modifica]Questo bisogna fare, nel nostro civilissimo vivere sociale, se non si vuole andar raminghi e reietti, come bestie malate, se non si vuole, sopra tutto, travolgere nella propria abiezione coloro, che si amano e che si vorrebbero felici.

Perchè la società è implacabile contro i veritieri; più implacabile di aiuti negativi, che non di offese positive. Essa non dà, a colui che soffre di mentire, a colui che non può sottostare al peso della finzione orrenda, il modo di liberarsi — di ritrovare il proprio centro di normale gravitazione. Essa impone di andar incatenati ed obliqui, nella schiavitù e nella stortura generale.

Ed ecco perchè anch’io ho mentito — sebbene, intimo ed indissolubile come una parte vitale del mio essere, io avessi sortito da natura il ribrezzo della menzogna. Ma che cosa sarebbe avvenuto di me, se io avessi detto alto, come la coscienza imponeva: — quest’uomo, che mi avete dato per marito, io l’odio — a quest’uomo, che mi avete dato per marito, io ne preferisco un’altro, dieci altri, cento altri — questi doveri, che voi mi [p. 128 modifica]avete imposto, sono superiori alle forze, che natura mi ha dato — e, però, a questi doveri io non voglio sottostare — anzi: non posso. — Che cosa sarebbe avvenuto di me?...

E pure, Carlo, questo è stato. E, poiché anche più della menzogna, mi sarebbe insopportabile recare con me il peso di aver scroccato, dopo la morte, altra cosa, oltre quanto la mia vita stessa non abbia estorto: il tuo rammarico — così voglio dirtelo, prima di morire: io ti ho odiato — sempre — fino dal giorno primo.

La rivelazione non ti stupirà, forse. Per quanto intensa sia la tinta bugiarda, con cui si cerca imbrattare l’anima, qualcosa, un raggio solo, sfugge al cristallo e scintilla. A traverso i miei occhi qualche pur sottile baleno deve essersi, dunque, traveduto.... La necessità, ha potuto impormi la menzogna, non darmi l'arte sopraffina degli atteggiamenti mendaci.

Tu, dunque, avrai dovuto vederlo questo mio odio, tralucere da uno sguardo, sprizzare da un gesto, sfuggire da una parola e però la mia [p. 129 modifica]rivelazione non deve giungerti nuova, così come altri avrebbe potuto supporre.

Ciò che potrà, tuttavia, sembrarti più oscuro, sarà la ragione di questo mio sentimento, benché per chiarirla tu non abbia a fare altra cosa, oltre un ritorno al passato. Ma poiché questo ti sarebbe pesante, né forse, sapresti farlo con la chiarezza e la obiettività necessaria, lascia che io risalga un po’ il tortuoso e poco limpido, e non prolisso fiume della nostra vita coniugale. Ciò mi farà bene... Chi sa! Ciò forse, mi farà guarire!...

Allorché, per le esigenze dei tuoi interessi, giungesti nel piccolo paese della Lombardia — ove la vecchia parente abitava con me — io aveva ventinove anni. La monotonia e l’inerzia di una vita fuori del mondo, avevano conservato al mio viso ed al mio corpo la freschezza della prima gioventù — e pure io non vedeva, senza angoscia, il tempo passare e gli anni incalzare agli anni. [p. 130 modifica]A ventinove anni, una fanciulla rasenta il limite estremo della giovinezza: un passo ancora ed ella cade irrimediabilmente entro la voragine, in cui tutte le attrattive e le freschezze si sfasciano per sempre. Ed a trent’anni una ragazza è disfatta

— anche se su essa non cadde, maturatrice, l’ardente opera d’amore. Sembra, anzi, che il gelo del cuore e dei sensi, anziché conservarla, come in un balsamo, la dissolva come in una putredine. È certo che non v’è pietà di ruga, miseria di pallore, stigmata di sterilità che sia risparmiata alla «zitellona».

Tu comprenderai, dunque, come io non vedessi senza terrore approssimarsi l’epoca fatale.... e tanto più che, a questo, l’altro terrore si aggiungeva del futuro minaccioso.... Che cosa avrei fatto, più tardi, quando, passata l’età delle attrattive — dalle quali, sole, io poteva sperare la mia liberazione ed il mezzo del mio sostentamento

— io mi fossi trovata sola nel mondo?

Io sapeva di non possedere che la modesta dote di mia madre. Mio padre, di antica casa ed in [p. 131 modifica]alta posizione sociale, non aveva lasciato sostanze, nello sperpero delle sue due famiglie. La vecchia zia, ormai cadente, non viveva che di una piccola pensione, che cesserebbe con lei; la stessa casetta, che abitavamo in paese, le veniva in virtù di un usufrutto: lei morta, gli aventi diritto si sarebbero fatti innanzi. Mio fratello mi restava, è vero; ma anch’egli, poco innanzi, aveva preso moglie e già la nuova famiglia si annunziava, con tutti i suoi carichi ed i suoi impegni. Che cosa restava a me, oltre la prospettiva di una miseria, appena sostentata di pane?

Ah! ... non son tutte liete, no — né rosee sono — le idee, che turbinano nel cervello di una fanciulla, quando al chiaror della luna, romanticamente appoggiata al balcone, ella fissa il cielo trapuntato di stelle! ... Spesso, fra i fantasmi lusinghieri della fantasia, ella vede, nel firmamento azzurro, una cubitale e poderosa domanda, tracciata a caratteri di fuoco: «Come si pranzerà,.. quando quelli, che mi cibano ora, non ci saranno più?...» Ed ella pensa che bisognerà, [p. 132 modifica]in cambio del pranzo, barattar la persona, e la gioventù e gli ideali e forse, anche, qualche già dolce e vigoroso sogno!... No, non son tutte liete le idee, che maturano nel cervello di una fanciulla di ventinove anni, che sa d’essere quasi povera .... Ella pensa che, per lo meno, le converrà vendersi .... E tutta la ricchezza dei suoi voti si addensa sul voto unico che il compratore sia, almeno, il meno disgustoso! ...

Alcuni anni dopo aver lasciato il convento io aveva, bensì, tentato di sottrarmi alla tirannia di una tal legge vergognosa. E, nascostamente, aiutata soltanto da Edoardo, io aveva con grande ansia cercato un mezzo qualunque, per procacciarmi da vivere, senza limosinarlo dalla pietà dei vivi, prima dalla problematica generosità dei morti, dopo o dal contrattuale obbligo di un marito, in ogni modo. Io sapeva abbastanza dipingere: anzi la pittura costituiva la parte più solida del mio sapere — conosceva un po’ il piano ricamava con discreto buon gusto oltre ciò possedeva quella poca e, peggio, farraginosa [p. 133 modifica]cultura, che si dà negli istituti di educazione, debitamente governativi.

Su questo meschino patrimonio intellettuale, io fondava ― convien pure che lo confessi! ― non poche speranze. Nelle lunghe ore di solitudine e di apprensione, esso mi sorrideva, anzi, come l'unica via di redenzione, che mi fosse consentita.

Ma, invano, Edoardo cercò, per me, con tutto il suo zelo fraterno! Della pittura? ... Ma se v'erano, nelle città, centinaia di artisti, ben migliori di me, che pur si adattavano a fare l'unica cosa, di cui, del resto, sarei stata capace: ventagli, ceramiche, specchi! ... E il rimanente? ... Che cosa mi poteva io ripromettere dal rimanente, se non un qualunque incarico di istitutrice? ... Ma, anche per coprire l'umile posto, si esigevano diplomi, che non avevo e di piano, e di lingue, e di magistero. Non è forse vero che, ora, anche le professoresse si adattano a far le istitutrici? ... Null'altro mi rimaneva, dunque, che piegarmi a servire .... Ma, giunti a questo punto, Edoardo protestò che egli ― e neppur nostro padre ― non [p. 134 modifica]avrebbe permesso mai un tale decadere di una persona della famiglia. Che cosa opporre?... Egli aveva ragione.

Così ripresi la vita monotona e triste del paesello, assistendo giorno per giorno al lento, ma inflessibile, progredire degli anni. Né al mio tormento, mancava l’altro — ancor più, ancor più insopportabile! — della certezza di vedermi sfiorire, senza che sulla mia diseredata esistenza fosse disceso mai, splendente e vivificatore, il raggio della passione. Mi sentiva sana, forte, vibrante, pronta a subire le sacre imposizioni della Natura; mi sentiva nell’anima mille orgasmi ardenti, ed echi confusi di desideri indefinibili, che mi davano, spesso, la tortura di una lacerazione. Mi sentiva donna — con tutte le esigenze ed anche le follie della donna. Comprendeva di essere così, come doveva essere la vergine spartana, maturata all’amore, pronta a cadere nel possesso dell’uomo, che la sceglieva nel manipolo, dopo le prove del circo. [p. 135 modifica]In quell’ora — tragica, perchè il fato imponeva ed incalzava — tu ti facesti innanzi sulla mia via e mi domandasti se voleva seguirti. Eri l’unico uomo, che avesse considerato la mia giovinezza ed anche, forse, la mia misera vita — ed anche, ed anche forse, il tesoro di ardori, che si celavano nel mio essere. Qual cosa poteva io dire?... Qual risposta poteva io dare, che fosse spontanea, che fosse sincera — che muovesse direttamente dal mio libero arbitrio? ... Ben io vedeva che risposte simili mi erano vietate. Tutte le necessità mi premevano alle spalle: del danaro, del tempo, degli istinti. La società e la natura mi comandavano, con eguale tirannia, ch’io acconsentissi — mentre io, vale a dire la mia anima, la mia intelligenza gridavano disperatamente il no della ripulsione.

Tu non eri giovane — né bello. Eri un uomo, già di oltre cinquant’anni, pingue e calvo ... lontano, dunque — oh di quanto lontano! — dall’ideale. [p. 136 modifica]che nei miei infiniti sogni di esiliata e di fanciulla, io aveva accarezzato. Certo questi sogni mi parevano ora, al confronto della realtà, eccessivamente romanzeschi, ed io sarei stata — con pieno ed intimo buon volere — pronta a ridurne le proporzioni a più modeste apparenze. Ma tu eri ancor troppo lontano dalla mia pur più modesta esigenza — io, che aborrivo i grassi ed i calvi!

E pure ci sposammo. Si rinnovava, per me, il comunissimo dramma di tante giovinette. Perchè avrei io preteso, che il destino di noi, donne di questo tempo, mutasse, in mio prò, faccia e colore? Anzi, se qualche corollario mi consolò, in quei giorni di incertezza irosa, fu la certezza egoistica di saper ch’io non era la prima, come non sarei stata l’ultima, nella lunga catena delle vendute.

D’altronde tutta la famiglia si era unita, in una premura che pareva furore, a patrocinare la tua causa. A udirla, tu avevi tutte le doti — sopra tutto la dote. Eri ricco. Proprietario di una prosperosa fabbrica. Uomo posato. E.... innamorato. [p. 137 modifica]Mi si diceva — e la turpe impudicizia di quelle parole, mi rivoltava quasi una mezzanità di scozzone — ch’io avevo fatto colpo su te.... che tu, per avermi, prescindevi della pochezza della mia fortuna .... e mi si faceva notare, con alta compiacenza, la meravigliosità del caso! ... Io, questo tuo desiderio, lo leggevo nei subiti rossori della tua larga faccia .... nelle occhiate penetranti e fuggevoli, con le quali cercavi valutare, sotto la semplice veste di lanetta, il volume ed il valore della mercanzia, che ti accingevi a comprare ....

Le pressioni della famiglia, le pressioni ch’io stessa faceva a me — mi fecero annuire. Dopo una notte di molte lacrime, fra le quali, unica, una speranza mi balenò, come un soave compenso — la maternità — mi decisi.... Tanto, io non aveva mezzo di scelta!...

Subito, dal primo giorno, in cui — enfin seuls! — io ti appartenni — subito io ti odiai.

Tu non devi aver dimenticato.... oh non devi [p. 138 modifica]aver dimenticato! perchè — benché dieci anni si sieno ormai accumulati su quell’ora di nausea e di tortura — tu ancora devi arrossire di quel rossore e soffocare di quell’ira, che ti soffocò ....

Ma invero troppe, troppe avventure — sia pur solo di fabbrica! — erano passate sul tuo dorso .... lasciando che le migliori penne della tua energia virile restassero in mano di donne sconosciute che, in ricambio, non ti avevano dato neppure l’illusione dell’amore .... .Tu dovevi saperlo, prima ... tu, ma lo avevi, naturalmente taciuto — sperando, forse, che la mia giovinezza trionfante avrebbe trascinato, in un impeto di risurrezione, la tua incipiente decrepitezza.... Ma se la mia inesperienza di fanciulla, cresciuta in convento e maturata nell’esilio, non ebbe la taumaturgica virtù, che tu speravi — ebbe però abbastanza intuito, per comprendere che la prova era troppo dura, e che un avvenire di simili.... prove, era il più orrendo supplizio, a cui una donna potesse essere dalla sorte condannata. [p. 139 modifica]

Ah!... quei giorni, quelle notti!... Essi contano tripli, quadrupli sul bilancio della mia vita: da essi acquistai tutte, tutte le sapienze — tu non ne trascurasti uno solo, di insegnamento!... — e da essi ebbi tutte le ribellioni più disperate della mia anima, tutte le ripugnanze più acute dei miei sensi — tutte le disfatte, le più complete disfatte, delle mie illusioni di fanciulla e delle mie speranze di donna!...

E pure tacqui. La solita, e solitamente vana, domanda mi si presentava dinanzi. Che cosa fare?.. Che cosa poteva io fare, fanciulla non più, moglie a mala pena, quasi dubbiosamente?... Delle recriminazioni?... E come renderle legali, se tu — bene o male — potevi anche oppugnarle?... Del rumore?... Dello scandalo?... Una separazione?... E poi?... Senza contare il ribrezzo di un chiasso, mosso da simili argomenti, qual guadagno ne avrei avuto io? Delle risa molte, un po’ di commiserazione, ed i rabbuffi certi di coloro, che mi vedevano ricader sulle loro spalle.... Sarebbe stato l’ultimo naufragio della mia situazione avvenire: [p. 140 modifica]una spostata di più — ecco che cosa le mie recriminazioni avrebbero fruttato.

Tacqui, dunque. E, valorosamente — perchè io dovetti radunare da tutte le energie della mia anima, dà tutti i globuli del mio sangue il coraggio necessario — io mi gravai della soma della grande menzogna, che ora — ch’io sto, forse, per morire — mi schiaccia. Per dieci anni io mentii, al mondo, a te, a me stessa. Per dieci anni ogni mio atto fu una menzogna. Io ho ingannato te, con la simulazione di una stima che non provavo; ho ingannato il mondo, con la parvenza di una virtù, che non praticavo; ho ingannato me stessa, con la illusione di una felicità che mi ipnotizzava, come un disco di luce — e che io ho voluto fingermi tangibile. Né tu te ne sei accorto, né il mondo se ne é accorto — io sola, ho conosciuto tutto l’inganno fatto a me stessa, e ne ho assaporato tutto l’amaro.... fino all’ultima stilla!...

E pure, perchè non avrei mentito?... Nel mentre le esigenze del vivere civile non mi [p. 141 modifica]consentìvano la verità — che sarebbe stata la liberazione e la salvezza della mia dignità e della mia onestà di donna — le esigenze della mia anima, le imposizioni della mia giovinezza mi additavano la menzogna, come la sola, da cui io potessi sperare di rifarmi, di strappare ancora una qualche gioia, per riempire il mio povero cuore deserto ed abbellire la mia meschina esistenza sacrificata. E però mentii, in tutti i modi, in tutti i significati, cercando il coraggio necessario alla menzogna, in tutte le più alacri energie della mia disperazione.

Ma ti odiai — né io avrei potuto non odiarti — mentre da te mi veniva e l’ostacolo alla verità liberatrice e l’incitamento alla menzogna compensatrice — odiatissime cose entrambe, che facevano sollevare le mie viscere in una furia d’ira ribelle.

Ma a quell’odio, ch’io credeva insorpassabile, altro se ne aggiunse — ed ancora la ragione mi venne da te. [p. 142 modifica]Un giorno, d’un tratto, la prosperità dei tuoi affari declinò. Un cattivo vento devastatore sembrò passare sulle tue imprese e tu, con molta fatica e chi sa quante colpevoli transazioni — io lo posso pensare — riuscisti appena a salvare quel tanto, necessario ad un ben più modesto andamento di casa. I tuoi beni furono venduti, il ricco appartamento, che occupavamo, fu abbandonato per un altro assai meno costoso.

Questa improvvisa, e quasi totale, rovina mi addolorò molto. Usa ormai al benessere ed alla eleganza dell’ambiente e delle vesti, che rispondevano a pieno ai miei gusti raffinati — io soffrii di dover ridurre, tutto quanto di bello e di comodo mi circondava, alle proporzioni di una mediocrità borghese, quasi appena decente. Ma non mai — né allora, né poi — dalla mia bocca uscì una parola che sapesse di lamento, o di rimprovero. Sincera questa volta, io ricordai l’umiltà della mia vita antecedente, presso la vecchia zia — e ripresi le cure ed i lavori della casa, con tranquilla rassegnazione. Fu in grazia di ciò — [p. 143 modifica]vorrai, suppongo, convenirne — se, esteriormente, poco ne apparve del nostro disagio e se, forse, soltanto qualche uomo d’affari seppe che, in realtà, noi ci reggevamo per miracolo di equilibrio.

Ma tu non potevi rassegnarti. Il dispetto della sconfitta, l’invidia pe’ tuoi competitori, l’impazienza dei mezzi insufficienti a riprendere su larga scala gli affari e, con essi, la rivincita — ti riempivano d’ira. Passavi le giornate, rodendo il freno ed imprecando e meditando la scoperta del rimedio. Ben m’accorgeva io, in queste mute ore di collera, che tu mi guardavi con occhio stranamente acceso... Ma il tuo sguardo aveva avuto sempre di tali accensioni concupiscenti, quando si posava su me, ed io pensai che — per una qualsiasi reazione della carne, contro gli accasciamenti dello spirito — tu provassi più acuta quella, già acutissima, attrattiva che mi aveva dato tanti avvilimenti, ma contro la quale aveva ormai, da un pezzo, cessato di lottare.

Dovess’io vivere mill’anni non dimenticherò mai quel giorno. [p. 144 modifica]Era d’estate, faceva caldo. Dopo il pranzo io mi era gettata sopra una poltrona di Vienna: mi dondolava pigramente, agitando il ventaglio. Non ricordo quale fosse il mio abbigliamento — ma senza dubbio, esso doveva consistere in una di quelle fluenti vestaglie scollate, di stoffa leggera e di colore vivo, che sono la mia abituale estiva toilette di casa. Col capo rovesciato sulla spalliera e le braccia levate in alto, io credo dovessi presentare un quadretto abbastanza appetitoso, nella nudità del collo e delle braccia ed in tutto l’abbandono della persona. Certo è che tu, seduto da me poco discosto, mi chiamasti d’un tratto.

— Viviana!

Confesso ch’io non volai al tuo appello. Provai, anzi, la consueta uggia di un richiamo alla realtà miserevole, da chi sa quale meraviglioso sogno di poesia. Volsi nonostante la faccia verso te, interrogando. Tu ripetesti, più accentuatamente:

— Viviana!...

— Che cosa vuoi?... — diss’io seccata. [p. 145 modifica]

— Vieni un po’ qua....

Levai le spalle.

— A far che?...

— Vieni un po’ qua — ripetesti.

Mi alzai, senza nascondere la mia cattiva voglia.

E quando fui ritta dinanzi a te, domandai:

— Ebbene?

Tu mi prendesti per le mani e, d’un colpo, mi facesti cadere sulle tue ginocchia. — Subito mi dibattei, stizzita.

— Lasciami.... che fai.... non mi seccare....

L’ora volgeva trista pe’ miei sogni e la solita scena ripugnante incominciava! Ma tu mi tenevi stretta pe’ fianchi, vietandomi d’alzarmi.

— Sta qui....

— Ma no.... lasciami andare.... non senti che caldo!... O via!... lasciami.

Su me, le tue mani si facevano più violente e più ardite.

— Lo sai che sei bella?... — balbettasti.

— Sì.... lo so.... lasciami....

— Lo sai che sei attraentissima? ... [p. 146 modifica]— Lo so.... lo so.... lasciami andare....

Tacesti un po’, ed io credetti di potermi liberare. Tesi i muscoli .... Ma tu mi tenevi attenagliata fra le tue ginocchia.

— Lo sai, Viviana, che molti uomini darebbero chi sa che cosa per possederti?...

Ti guardai di sbieco, trovando straordinariamente comico questo tuo annunzio, che voleva parer rivelatore. Risi di cuore.

— Ah!... Ah!... Che strana idea!...

— Strana?... Niente affatto.... È la verità... E poi, via, non lo sai anche tu il tuo valore?...

Mi rifeci seria; mi sdegnai, anzi.

— Senza dubbio.... E non sei stato certo tu a tenermene all’oscuro. Ma ora lasciami andare....

Allentasti la stretta ed io mi drizzai, rigida. Ritornai alla mia poltrona. La domèstica portava il caffè; tu accendesti il sigaro. Sperai dissipata la burrasca, e mi ributtai pigramente indietro, a dondolarmi ed a farmi vento. Ma l’illusione durò poco. [p. 147 modifica]

— Viviana!... — chiamasti ancora, d’un tratto, con la stessa singolare espressione di voce.

Mi agitai impaziente.

— Ma, insomma, che cosa hai questa sera?... Ti ha fatto male il pranzo?...

Volli scherzare.... ma tu venisti ad appoggiarti dietro la spalliera della poltrona, col viso così vicino al mio, ch’io non potei sottrarlo al con- tatto. E mormorasti, con un grande fremito nella voce:

— Senti, Viviana.... Tu sai se mi piaci... Non te l’ho mai nascosto.... e te l’ho anche provato.... in tutti i modi.... Da che t’ho sposata, anzi, mi piaci sempre di più.... Allora ero un po’ stanco... sì, un po’ esaurito.... ma, ora, sto bene.... e tu lo sai.... anche meglio di me.... Vicino a te ho ritrovato più di quanto speravo... tu sei, indiscutibilmente, la perfezione della femminilità.... ed io posso valutarlo, non è vero?... codesto tuo splendore di forma....

Un po’ impaziente.... un po’ interessata ti ascoltava. Voleva vedere dove saresti andato a finire [p. 148 modifica]con lo stranissimo discorso. Non ti interruppi, dunque.

— Il pensiero che altri possa far suo tanto tesoro mi è sempre stato insopportabile.... e non ho mai pensato alla possibilità che tu mi tradissi, senza un sentimento violento di gelosia... E pure... so bene che è una follia.... fors’anche è una colpa... e pure, in fondo al mio spirito, mi sembra di sentire come un desiderio, come un’ansia di sapere e... di vedere... che tu appartieni ad un altro.

Ti interrompesti. Ma io, paralizzata dalla maraviglia, non feci moto. In quel momento mi sentiva incapace di esprimere qualsiasi cosa, in qualsiasi modo. Proseguisti:

— Non sono più giovane, ormai... e tu sei ancora, al mio confronto, giovanissima. Nella mia vita ho gustato molti piaceri.... anzi tutti i piaceri.... Ed è ciò, forse, che mi fa desiderare con tanta acutezza, sia pure morbosa.... lo spettacolo orribile, ma orribilmente eccitante....

Descrivendo ora la scena, così inverosimile, che s’io la raccontassi nessuno mi crederebbe — [p. 149 modifica]stupisco di me stessa. Non comprendo come non mi drizzassi e non ti schiaffeggiassi — semplicemente. Invece non mi mossi e mi contentai di crollare il capo, come dinanzi ai vaneggiamenti di un pazzo.

Dopo una breve sosta, in cui tu ed io e l’ambiente stesso sembrammo raccolti in un solo stupore ed in una sola curiosità, riprendesti più piano ancora:

— Senti, Viviana.... io conosco un uomo che ti vorrebbe....

Fremei nelle viscere. Ma nulla, sul mio volto, tradì il fremito improvviso.

— È un uomo attempato.... Respirai.

— .... ciò che infine non mi dispiacerebbe.

— Ah sì? — ghignai, d’un tratto, riacquistando la parola.

— Eh!... capirai.... un uomo attempato è sempre meglio disposto a largheggiare.... Si sa che l’amore della donna non c’entra.... e quindi, la gratitudine deve mostrarsi maggiore.... [p. 150 modifica]— Ah!... la gratitudine?!...

— Senza dubbio. Tu capirai ch’io non mi contenterei di cedere i miei diritti.... scientemente, senza un tornaconto qualsiasi. Un marito può essere ingannato, e, quindi, derubato.... ma un marito non regala....

Scoppiai in una risata stridula.

— Vende, eh?...

— Oh Dio!... Non c’è bisogno di adoperar parole sonore.... Si dice: si accomoda.... E, certo, s’io potessi conciliare i miei gusti.... chiamiamoli pure degenerati... con il mio interesse.... Se potessi togliermi un capriccio ed insieme trovare il mezzo di accomodare i miei affari.... io, proprio non vedrei ragione....

A questo punto ricordo che m’alzai tutta d’un pezzo. Non potevo proferire parola.... anzi non potevo neppure formulare un pensiero.... Tu volesti seguirmi, io ti tenni lontano con un gesto. Volesti parlare, spiegare, definir meglio..., ti troncai la parola con un moto.

Ed entrai nella mia camera. [p. 151 modifica]Ma non appena mi vi fui chiusa, io mi guardai d’attorno, come un sonnambulo, svegliato a mezzo di un viaggio sui tetti, deve guardare attorno a sé il vuoto che lo circonda. Stupore e paura insieme mi tenevano inchiodata in mezzo alla stanza. E come?... Io aveva udito da mio marito una cosa simile?...

Sull’argomento non tornammo più, apertamente. Tu, forse, comprendesti di esserti spinto tropp’oltre — ed, in seguito, ti contentasti di accennare al progetto come ad un grazioso assurdo, che non sarebbe stato spiacevole tradurre in realtà.

Per mio conto, stentai un pezzo a rimettere in carreggiata i miei pensieri — addirittura fuorviati. Ricordo che, per molto tempo, rimuginai fra me la prospettiva, con il proposito di vedere se, in fondo — poich’eri tu ad additarmela — io poteva adattarmivi, senza suscitare tutte le ribellioni del mio spirito e del mio sangue.

In buona fede e di buona volontà, tentai, anche, qualche mossa pratica.... Avevi detto il vero: le [p. 152 modifica]condizioni del nostro bilancio famigliare non erano, certo, floride. Abituata, negli anni precedenti, a tutte le superfluità — avevo dovuto limitare i menus dei nostri pasti ed il numero delle mie toilettes.,.. Mi era ridotta con una sola serva.... e con un sol vestito per tutta la stagione.... Sì che — a volte — e in buona fede e con l’intenzione di provare se ciò che tu avevi suggerito, era — nei suoi vari aspetti — possibile, io cercava di osare qualche mossa pratica. Tu lo sai: vi son tanti uomini..,, non più giovani, che adocchiano le donne, per via!... Sono ben conservati, a volte, e ben ritinti e, per solito, elegantissimi.... Passano vicini, susurrano una parola.... non dicono niente, anche.... Ma fanno intendere,.,. Che cosa occorre, dunque, per far loro capire che sì.... che sì... che non si è mal disposta?... Un nulla. Una occhiata... Un radunare di gonnelle un po’ più provocante... Una caduta di ombrellino, sapientemente opportuna.... E la cosa va da sé.... la cosa è fatta.

Qualche mossa pratica tentai — t’ho detto. Ma non appena io m’accorgeva che essa aveva sortito il [p. 153 modifica]suo effetto..., che gli sguardi di quell’uomo mi scorrevano la persona... che, un cenno ancora, ed egli avrebbe parlato..., io fuggiva a precipizio, strozzando un urlo di terrore, come se avessi veduto un leone farmisi addosso.... Ed erano invece, per lo più, dei poveri spennacchiati barbagianni!

In verità, Carlo, io non ho mai potuto assuefarmi a quella tua idea — di una sensualità, così pervertita e di una condiscendenza, così speculatrice. La povertà, sì — la miseria anche. Nessun vestito — nessun gioiello — pane asciutto. Ma quella cosa lì — no, no, no — assolutamente no! Tutte le mie viscere si sollevavano, come un popolo in rivolta, furiose ed incomposte, al solo vedere lo spettacolo fangosissimo — Tu sai ch’io ho la immaginazione fotografica!

E pure — quando si muore si può ben dire la verità, finalmente! — tutte queste mie ribellioni non erano già mosse dalla rigidezza delle mie virtù coniugaH. Oh no!... Troppe cose odiose erano precipitate fra te e me — anzi erano sempre state, fino dal giorno in cui ti conobbi — [p. 154 modifica]perchè fra noi non fosse una formidabile muraglia di rovine. Io giovane, io ardente, io ho amato — oh! amato, con tutto lo spasimo e tutta la voluttà; che dilania e bea chi tardi riesce a toccare quanto ha agognato per lunghi e lunghi anni. Prima, io non aveva amato mai ed aveva amato sempre... Impastata d’amore, come d’elemento vitale, io doveva per forza e amare e amare e amare — quando, strappata alla catalessi di una verginità forzata, io fossi entrata nella vera vita.

Tu — se fossi stato il marito della mia libera scelta — avresti potuto avere quel mio grande amore e, vedi, ti giuro — ora che sto per morire — che, dinanzi a te io avrei vissuto a ginocchione, come dinanzi ad una divinità tutelare, poiché da te mi sarebbe venuta la felicità — dell’amore, della verità, e dell’orgoglio. Tu avresti appagato le esigenze della mia carne e le aspirazioni della mia anima, salvandomi dalla necessità di andarne a mendicare il soddisfacimento dal capriccio, dal desiderio, o dalla follia di altri uomini. Tu mi avresti dato l’amore, che è bacio, [p. 155 modifica]e mi avresti dato la dolcezza di sapere che a te solo - mio marito - io doveva la gioia di quel bacio. Fatalmente ciò non è stato. Io non ho avuto da te nulla, se non la ripugnanza atroce di dover appartenere al tuo piacere per dieci anni — e l’obbligo di portare con me, quale un fardello di schiavo, una menzogna assidua ed oculata e paziente, come una virtù.

E non ti ho amato, no — anzi ti ho odiato, per tutto ciò che non mi hai dato e per tutto ciò che mi hai tolto — e che è la più grande, la più divina meta, per una donna: la possibilità di vivere ancora e a lungo, e di divenire, serenamente, una vecchia mamma serena.

Ora muoio, perchè sono malata tanto e nulla — e nessuno — mi può salvare, oramai. Ma tutto questo ho voluto dirti, perchè mi sarebbe ripugnante, ancor più di tutto il resto, di estorcere al tuo rammarico di vedovo, una lacrima superflua.

E addio.

Viviana,