La porta della gioia/Come guarì Luciana Vannelli
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COME GUARÌ
LUCIANA VANNELLI
— Un po’ d’anemia, — dichiarò il vecchio medico di casa Vannelli, dopo aver ascoltato il cuore ed i polmoni, ed esaminate le gengive e le sclerotiche della signorina Luciana. — Le ragazze ai nostri giorni studiano e si distraggono troppo: di giorno, musica, lingue, letteratura, filosofia: di sera, teatro, conferenze, cinematografo. Vanno a letto tardi, stanche spossate, e disperdono così le loro giovani forze. Bisogna mutar sistema: bisogna condurre almeno per qualche tempo una vita più primitiva.
— Fra poco verrà la stagione dei bagni di mare, — osservò la signora Vannelli, che assisteva alla visita medica, — e Luciana avrà dinanzi a sè per rimettersi, due o tre mesi di semplice vita di spiaggia.
— Niente spiaggia, niente mare, cara signora, — la interruppe bruscamente il dottore. — Occorre a sua figlia qualche cosa di meno snervante dell’aria marina e della vita balneare. Altezza e freschezza ci vuole, aria di montagna, vento leggero, carico di esalazioni vegetali che purificano ed arricchiscono il sangue. Prenda la sua Luciana, la metta in automobile e la porti via. Ma non al mare, per carità, a mille metri più in alto, in mezzo ai pini, ai faggi, ai castani; e fra un paio di mesi sua figlia avrà riacquistato tutti i globuli rossi e tutti i chilogrammi di carne che il violino, l’inglese, e la filosofia le hanno sottratto.
Luciana Vannelli sorrise pallidamente dall’ampia sedia a sdraio dove abbandonava, ravvolta in una coperta di seta foderata di pelliccia, la sua smorta e freddolosa gracilità di anemica ventenne, e tese con atto stanco, la mano al dottore che si congedava, accompagnato alla soglia da sua madre.
Questa tornò dopo un momento con un viso contrariato, e le sedette di fronte crollando il capo e sollevando in qualche lungo sospiro l’ampio petto, bene imbustato sotto la camicetta di crespo nero.
— Povera bimba!— esclamò finalmente, — seppellirti nei boschi, condannarti a due o tre mesi di vita primitiva, lontana dalla città, dalle amiche, da qualsiasi distrazione, costringerti alla solitudine, alla noia, alla malinconia della campagna! Io non so se avrò il coraggio di importi un simile sacrificio. Tutto considerato, la tua malattia è una cosa da nulla: un po’ di anemia dovuta al surménage. Consultiamo un altro dottore più giovane e più moderno, che ti prescriva una cura d’iniezioni, di docce, di pillole d’arsenico, che so? una cura più simpatica, più facile e più elegante, senza ricorrere ai mezzi semplicisti ed eroici di quel vecchio dottor Ipecacuana.
Luciana durante il discorso di sua madre continuò a sorridere pallidamente, con la nuca appoggiata al cuscino: ma tratto tratto appariva all’angolo delle sue labbra una contrazione lievissimamente canzonatoria.
— Tutto ciò non è poi così terribile come ti sembra, mamma, — le mormorò, sollevando le spalle con una noncurante lentezza. — Questa parentesi georgica nella mia vita di studio e di mondanità, non mi dispiace affatto.
Prese fiato perchè il parlare un po’ a lungo l’affaticava e finse di non avvedersi dello stupore con cui sua madre la considerava da qualche minuto.
— Sarà graziosissimo, — riprese Luciana ridendo sottovoce, — mi truccherò da pastorella Watteau, con un gran cappello di paglia e la capretta bianca ornata di nastri, come quella che è dipinta sopra lo specchio in salotto.
Tacque un momento continuando a sorridere a quell’immagine che la divertiva ed aggiunse con serietà: — Ho quasi ventidue anni e non ho mai vissuto in campagna, in una vera campagna senza chalets svizzeri, senza rocce di cartapesta, senza cascate artificiali. Sono lieta di poter completare la mia manchevole istruzione curando la mia compromessa salute.
Sua madre ritirò il collo fra le trine della camicetta e ammise con una fredda rassegnazione:
— Quand’è così, non mi rimane altro a fare che mettermi in cerca d’una casetta rustica con l’orticello ed il pozzo, sul coccuzzolo d’una montagna e andarci a seppellire per tre mesi lassù.
— Seppellirci? — ripetè Luciana con una esagerata meraviglia. — Seppellirmi, vuoi dire. Non è necessario che anche tu intraprenda la cura della vita primitiva dal momento che stai benissimo e ti sei ordinata sette toilettes e otto cappelli nuovi per la prossima estate. Andrò io sola con la mia cameriera che adora la campagna e non fa che sospirare i suoi prati e le sue vigne. Tu puoi recarti a Salsomaggiore e a Rimini e ad Aix con qualche tua amica.
— Ci penseremo, — riflettè ad alta voce la signora dopo un lungo soliloquio mentale che oscurò di un’ombra tediata, sotto le onde sapienti dei lucidi capelli, la sua faccia grassa ed incipriata di bella donna in lotta con la maturità. — Intanto bisognerà cercare un villino in montagna, comodo, signorile, col garage e il giardino, non troppo lontano per potere andare e tornare con una certa facilità. Chiederò consiglio a tuo padre, e poichè si tratta della tua salute, me ne occuperò io stessa.
— Grazie, mamma, — susurrò la giovane inferma chiudendo gli occhi e premendosi la palma sul suo debole cuore affaticato che palpitava violentemente.
Senonchè il signor Vannelli, interrogato la sera stessa a proposito della villa che occorreva affittare per la guarigione di sua figlia, sollevò le sopracciglia triangolari nella fronte calva, depose pacatamente il sigaro sul portacenere, e tendendo la mano aperta verso sua moglie in un gesto di tranquilla evidenza, disse:
— Mi pare che in un caso simile non vi sia niente di più adatto della nostra fattoria di Belprato. Ottocento metri sul mare, boschi di castagni e d’abeti, orti e prati, aria purissima ed acqua di sorgente. La casa è un po’ rustica forse e nessuno vi ha abitato da tanti anni, ma se la bambina ha bisogno di vita semplice, non potrete trovar nulla di meglio che arrampicarvi lassù e rimanervi tutta l’estate.
La signora Maddalena Vannelli, anzi Magda, com’ella amava chiamarsi e firmarsi, tacque per un lungo momento, corrugò la fronte, si morse le labbra e rispose laconicamente:
— Già.
«Già, — proseguì fra sè e sè con una irosa amarezza, fissando attentamente i suoi anelli, appoggiata coi gomiti all’orlo della tavola, ancora apparecchiata e scintillante sotto la luce del lampadario centrale. — Già, la prospettiva è piacevolissima. Adesso mi tocca ritornare con mia figlia lassù, a Belprato, in quel vecchio casone di campagna dove sono entrata la prima volta or sono quasi trent’anni, con un paio di zoccoletti nei piedi e un fazzoletto rosso intorno al capo. Dovrò rivedere quella grande cucina semioscura dove ho aiutato la cuoca a spennare i polli mentre il padroncino, addossato al palo della pergola, con le mani in tasca, mi guardava sorridendo di compiacenza e di bramosia.»
E ella continuò a rievocare a sè medesima quel tempo lontano così volentieri dimenticato.
Rivide la siepe di bosso che circondava il frutteto, dietro la quale il giovane Vannelli le aveva dato il primo bacio, e la finestra terrena ch’egli aveva scavalcato per entrare nella stanza dov’ella dormiva in un gran letto scricchiolante di foglie di granoturco, fra sacchi di biada e di carrube, e l’irruzione repentina di suo padre che li spiava, armato di fucile e furente di collera, nella stanza illuminata dalla luna, e la breve scena violenta di grida e di minacce, e la promessa di sposarla per aver salva la vita.
Alberto Vannelli se l’era difatti sposata un mese dopo quasi di nascosto nella chiesetta del villaggio, e il giorno seguente aveva accompagnata la contadinella diciassettenne in Svizzera per rinchiuderla in un collegio di monache francesi, dove l’aveva lasciata per cinque anni.
S’era per caso imbattuto in una intelligenza duttile e in uno spirito ambizioso, ed ella era uscita dall’educandato mutata in tutto, anche nel nome. Si chiamava Magda e non più Maddalena, parlava e scriveva il francese e l’italiano, ed aveva scordato quasi completamente l’umiltà della sua origine, come il chiaro di luna e la carabina paterna a cui doveva la sua fortuna.
Entrata senza vergogna in casa Vannelli, aveva rapidamente completata la sua educazione, imparando a vestirsi e a ricevere, e ai due figliuoli, messi al mondo fra la domestica letizia, aveva fatto impartire dai più celebrati maestri una varia e solida coltura.
Ora Oscar, il primogenito, laureato in ingegneria, perfezionati i suoi studi con viaggi e soggiorni all’estero, cooperava validamente alle grandi industrie seriche del padre; mentre Luciana compiuti i corsi liceali, frequentava l’università. Inoltre accompagnava sua madre alle visite, ai tè, al teatro, e prendeva tre lezioni di violino e due di ballo ogni settimana.
Sotto un’apparenza di fragile e gentile femminilità, ella doveva nascondere nervi d’acciaio, poichè aveva resistito lungamente a quelle intellettuali ed eleganti fatiche, finchè una sera, al concerto wagneriano della contessa Fabrizi, s’era sentita male, così da costringere i famigliari a portarla a casa semisvenuta.
Fu allora che il vecchio medico dei Vannelli, il quale da parecchi anni deplorava lo sperpero di forze a cui assoggettavano storditamente quella bambina delicata, aveva dichiarato con pacata fermezza che in un caso simile tornavano inutili le pillole e gli sciroppi, ma occorreva un cambiamento temporaneo ma radicale d’abitudini e di vita.
⁂
Belprato era un grande cascinale piantato fieramente sulla cima d’un colle, e composto della parte rustica e della parte civile. Quella bassa, oscura, coi tetti d’ardesia spioventi, aperta sopra una vasta aia: questa coperta di tegole rosse, coi muri grigi e le finestre verdi, esposta in pieno sole davanti alla immensa prateria quadrata, che dava il nome alla casa.
Una pergolata d’uva moscatella ombreggiava le stanze a terreno e la grande cucina, e la vite vergine a ciuffi, a festoni, a cascate, correva intorno agli archi della lunga loggia, su cui si aprivano le camere del primo piano.
Luciana passò su questa aperta veranda, tra l’ombra leggera ronzante d’api, e il torpore caldo della giovine estate, distesa in un sedia di vimini, i primi giorni della sua vita campagnuola. Leggeva distrattamente un romanzo francese irto di complicazioni sentimentali, e tratto tratto abbandonava il libro in grembo e riposava lo sguardo e la mente, contemplando l’ondulato verde dei poggi che chiudevano l’orizzonte.
Una mucca di color fulvo pascolava nel prato davanti alla casa, e la vecchia contadina che la custodiva, filava con placida lentezza seduta sul tronco di un albero abbattuto.
Luciana riflettè con un sorriso raccolto che la scena non poteva apparire più pastorale, e la vita che le viveva intorno non poteva essere più primitiva.
Ma d’improvviso un fragore di moderna civiltà sconvolse quell’agreste idillio, e la rossa automobile di sua madre, lanciando all’aria alcuni rauchi squilli di tromba, si avviò ansando lungo l’erta salita, entrò nel portone spalancato, irruppe nel cortile.
Poco dopo la signora Vannelli raggiunse sua figlia, le sedette di fronte, sotto l’arco di mobile ombra, si liberò dal fitto velo che riparava dalla polvere devastatrice e dal cocente sole il suo volto, avvolgendole tutto il capo come un oggetto prezioso.
— Ti senti meglio, bambina? Hai un bellissimo aspetto, ma l’aria annoiata come in un giorno di pioggia.
— Questa è la tua fissazione, mamma. Splende un magnifico sole ed io mi sento lieta come una rondine a maggio.
— Ma che hai fatto per ingannare il tempo durante queste ore?
— Molte cose divertentissime. Ho letto cinque pagine di questo romanzo, ho contemplato il paesaggio, ho pensato, ho sognato.
— Senti, cara, — annunziò con una subitanea animazione della voce e dello sguardo la signora Magda. — Qualcuno in città mi ha incaricata di portarti i suoi più affettuosi saluti e l’augurio fervido di una prontissima guarigione.
— Grazie. Ma di chi si tratta? — domandò Luciana mollemente, dimostrando una scarsa curiosità.
— Di un giovane molto simpatico che porta un bellissimo nome e che ti fa la corte.
— Santandrei?
— Precisamente.
— Ah!
Luciana lasciò cadere dall’alto questa esclamazione con un lieve disdegno che sua madre stimò opportuno non raccogliere. Poichè il marchese Alfio Ubaldo Santandrei era tra i frequentatori maschili del suo salotto colui ch’ella prediligeva, quello che i suoi desideri e le sue speranze destinavano come marito a sua figlia, benchè all’infuori del sonoro titolo nobiliare e della stretta parentela con un cardinale, egli non presentasse alcuna particolare seduzione.
Santandrei, già prossimo alla quarantina, era basso di statura e pingue, e per una malattia sofferta da bambino camminava leggermente claudicando, ciò che gli faceva ripetere ogni momento, con la convinzione di sembrare spiritosissimo, che anche la La Vallière era zoppa, sebbene fosse la favorita di un gran re.
Probabilmente le sue conoscenze storiche si limitavano a questo e a pochi altri fatti della medesima importanza, poichè quantunque erede di un gran nome egli era come valore umano una perfetta nullità.
Luciana lo sopporiava perchè colui la divertiva con le sue boriose scempiaggini, ma il pensiero di poter un giorno lasciar stringere la sua snellezza flessibile e sensibile da quelle corte braccia d’uomo tozzo, di lasciar premere la sua boccuccia schifiltosa da quelle labbra socchiuse sui denti giallastri le dava un brivido di repulsione e insieme un impeto di incredula e beffarda allegria.
— Mi ha annunziato che sul principio del mese prossimo verrà quassù a farti una visita. — proseguì la signora Magda consegnando il cappello e il mantello alla cameriera, in piedi sotto l’arco di verzura ricadente. — Giungerà il mattino e lo riporteremo in città la sera o il domani.
— Spero che avrai anche invitatato altre persone, — disse Lucia con indolenza, fissando un lungo e sottile tralcio che dondolava al vento la sua elasticità quasi felina.
— Non l’ho invitato. S’è offerto spontaneamente di sottoporsi al viaggio abbastanza lungo e noioso per il piacere di rivederti. Non ti sembra un atto cortese?
— Ma sì, cortesissimo, — confermò la fanciulla sbadatamente.
— È così buono quel caro ragazzo! — esclamò con voluto slancio d’entusiasmo sua madre.
— Perchè non dici anche: «è così bello e così intelligente?» — rise mordacemente Luciana.
— Questo no. Sarebbe un esagerare i suoi meriti. Ma quando un uomo possiede un nome come il suo, non ha bisogno di essere nè un Adone, nè Dante Alighieri. I principi azzurri ed i poeti biondi esistono soltanto nei sogni delle ragazze romantiche. Le altre pensano innanzi tutto a crearsi una posizione, e quando già possiedono la posizione, cercano di procurarsi un titolo che permetta loro di figurare degnamente in società.
— Mi hai già ripetuto tante volte questi argomenti, — sospirò sua figlia, riaprendo il romanzo e fingendo di immergersi nella lettura.
— E te li ripeto ancora, — scattò la signora Magda. — Occorre innalzarsi nella vita. Il proprio destino è una scala che bisogna continuamente salire, — sentenziò alzandosi e dirigendosi alla sua camera con una lentezza quasi solenne.
Pensava forse, in quel momento, al primo bacio di suo marito ed alla minacciosa carabina di suo padre, da cui ella aveva sollevata con abilità la propria sorte. Ma Luciana scosse impercettibilmente le spalle, riabbandonò il libro e chiuse gli occhi.
⁂
Dopo una settimana l’inferma era entrata in convalescenza e trascorsi altri dieci giorni ella potè girovagare liberamente pei boschi immensi che si stendevano dietro la casa, ondulati con dolce mollezza sui tondi fianchi dei poggi, come drappeggi morbidi di verzura sopra un corpo sinuoso.
L’ombra vi si addensava fresca e profumata, esalando ondate un po’ acri dai cespugli folti del ginepro e dalle scorze scabre dei pini, da cui stillavano gocciole di resina di un chiaro color d’ambra.
Luciana errava alla ventura ore ed ore, sempre sola, sostando talvolta a riposare seduta sopra una grossa radice che usciva dal terreno coperto di muschio, o sopra un tronco rovesciato.
Sentiva rigermogliare in sè quasi una nuova vita dopo il lungo abbattimento del male, la sentiva pulsare più forte nel battito regolare e calmo delle vene, balzare nella leggerezza delle membra sempre pronte allo slancio della corsa, balenare nella lucida serenità del suo spirito. E riprendeva quel vagabondaggio sognante, senza meta e senza desideri, immergendosi con una inconsapevole voluttà nella ristoratrice freschezza della natura possente, la quale arricchiva il suo sangue impoverito, e le ridonava a grado a grado la fervida gagliardia della vitalità giovanile, consunta dalle piccole cure ansiose del mondo.
Le amiche le scrivevano, parlandole di abiti e di feste, di fidanzamenti e di villeggiature, ed ella non rispondeva nemmeno.
Sua madre giungeva di quando in quando dalla città con una nuova veste d’ultimo modello, o con un cappello vistoso: ed ella vi gettava appena uno sguardo, chiedendole, con qualche ironia, se volesse affascinare mediante quelle eleganze il sindaco del paese, che era un mercante di suini, o sedurre il farmacista, settantenne e quasi cieco.
La signora Vannelli si compiaceva difatti nello sfoggiare un lusso eccessivo, adornando la sua maestosa persona di sete e di velluti, di ori e di piume, durante le sue rare apparizioni in quel villaggio che l’aveva veduta passare oltre un quarto di secolo innanzi, fresca villanella, in un abituccio di cotone.
Raramente Luciana l’accompagnava. Ella preferiva le sue corse lungo i sentieri ombrosi e silenti della campagna solitaria, dove cantavano con timida voce acque trasparenti su letti di pietruzze azzurre, tra un dondolìo lieve di salici argentini, che mutavano di colore ad ogni mutar di vento.
Un giorno, verso il tramonto, dopo il lento errare di tutto il pomeriggio, s’era trovata in una radura quasi fosca di cupo verde, fra una corona di vecchi abeti, dove cadeva in rovina un muricciuolo mezzo diroccato, avanzo di una antica abitazione di pastori, sul quale si arrampicava un viluppo aguzzo di rovi, lanciati quindi in volute bizzarre a sostenere lunghi grappoli neri di more giunte a perfetta maturità.
Ella si guardò intorno, sorpresa dell’incanto patetico e pagano di quel lembo di selva che faceva pensare a driadi ed a sileni in agguato dietro la verde rovina, ma subito si scosse sorridendo, attratta dalla pendula lucentezza dei frutti maturi, e spiccò alcuni salti col braccio proteso, senza tuttavia raggiungerli.
— È troppo piccina — disse una voce d’uomo alle sue spalle, ridendo forte; e prima che ella si volgesse verso l’ignoto sopraggiunto, qualcuno che la sorpassava di tutto il capo le fu accanto, tese una mano bruna, staccò facilmente un ramo irto di rovi e le porse con un atto di semplice gentilezza il lucido grappolo nero.
— Grazie — ella mormorò, più meravigliata che confusa, avvolgendo in un lungo sguardo incuriosito il bizzarro personaggio sconosciuto, il quale continuava a spiccar rami senza curarsi delle spine che gli insanguinavano i polsi, ed a raccogliere in un mazzetto selvaggio la fresca maturità dei frutti boscherecci.
Egli era un giovine alto e bruno, complesso ed agile, col torso gagliardo e le larghe spalle ben modellate in uno stretto costume da caccia di grossa stoffa oscura, con alti gambali di cuoio nero ed un cappello floscio, che davano alla sua elastica prestanza un’apparenza di trascurata signorilità.
Aveva posato sull’erba la carabina lucente intorno a cui si aggirava fiutando il suo grosso setter bianco macchiato di scuro, e si volgeva ora ad offrirle l’irto mazzetto, tenendolo pel gambo rivolto verso terra, con la mano alquanto malferma e sorridendo con un leggiero impaccio d’uomo timido.
— Ecco le more, signorina. Temo però che non sieno molto dolci.
— Mi piacciono anche un poco acerbe, — ella assicurò con un amabile riso, accettando l’offerta e badando a non pungersi.
Il giovine tacque, e la guardò con un sorriso un pò incerto sul volto maschio, dorato dal sole e dai venti, così regolare nella classica precisione dei lineamenti, da sembrar scolpito in un chiaro bronzo, mostrando fra le labbra, ancora fanciullesche nella loro tumida freschezza, un eguale candore di denti abbaglianti.
Luciana assaporava i suoi frutti selvatici, li gustava ad uno ad uno con piccoli gesti di graziosa ghiottoneria, che il giovine cacciatore seguiva con lo sguardo dei suoi limpidi occhi grigi, e si chiedeva intanto irresoluta: «Che cosa sarà costui? Un signore vestito da contadino, oppure un contadino vestito da signore?».
Ma non riusciva a trovare una risposta convincente.
— Non ha paura a passeggiare tutto il giorno sola per questi boschi?
— Paura di che? non s’incontra mai nessuno.
— Io l’ho veduta altre volte. E so anche il suo nome.
— Davvero?
— Lei è la signorina di Belprato.
— E come mi conosce se sono qui da così poco tempo?
— La conoscono tutti quassù. E poi....
Egli s’interruppe arrossendo, esitando, e quella espressione di timidezza su quello schietto volto virile aveva una grazia singolarmente delicata.
— E poi? — lo incitò Luciana con la sua curiosità baldanzosa.
— E poi siamo anche un poco parenti.
Il giovane disse questa frase con semplice franchezza, senz’ombra di vanteria e nemmeno d’irrispettosa familiarità, quasi comunicandole una notizia qualunque sul suo parentado, che forse non la interessava, ma che al tempo stesso non poteva offenderla.
Allora Luciana incominciò a comprendere, e sul suo volto fine ed espressivo si diffuse quel sorriso blandamente schernevole che ella aveva di fronte a sua madre, quando questa le parlava dell’avvenire con frasi pompose e con persuasioni vanagloriose.
— Mio nonno e il nonno della signora sua madre erano fratelli. Mi chiamo anch’io Barbano come si chiamava la sua mamma prima di sposarsi.
— Ah, benissimo — esclamò Luciana ridendo; e con esagerata cordialità, gli porse la sua piccola mano bianca, che egli sfiorò appena, quasi temesse di stritolarla chiudendola nella sua, così grande e robusta.
— Voglio comprarmi un fucile e andare a caccia anch’io. Lei m’insegnerà a maneggiarlo. Poichè esiste fra di noi un certo legame di parentela, è ben giusto che io ne approfitti, — ella continuò, sempre ridendo con tono di spavalderia alquanto arrogante, cacciandosi le mani nelle tasche esterne del suo golf di seta verde, ed inarcando avanti il busto sottile in una posa di leggiadra provocazione.
— Oh, no, signorina, — la pregò il giovine con un umile ardore. — Le sue spalle sono troppo delicate per portare un fucile. Lasci queste cose agli uomini. È vero che lei ha studiato e ne sa più d’un uomo, ma ha ancora l’aspetto di una bambina.
Luciana irruppe in una risata, e crollò quelle spalle che egli riteneva così delicate, affermando con un gaio disdegno:
— Lo studio non giova a nulla. Serve soltanto a rattristarci l’anima e ad indebolirci il corpo.
Egli aveva intanto raccolto dal suolo il fucile, gettandoselo sul dorso con un’abile spinta del braccio, e l’ascoltava senza guardarla, tirando e accartocciando le orecchie al cane che si strofinava incontro alle sue ginocchia. E la giovinetta lo osservava con una improvvisa serietà, tenendosi con le due mani le falde del largo cappello di paglia adorno di margherite, e piegandole in un arco di ombra sotto il quale appariva, curiosamente incorniciato di fiori, il suo visetto tutto roseo d’animazione, e i grandi occhi oscuri tra folli ciocche di capelli castani.
Lo fissò un momento senza batter ciglio, poi piegò il capo nell’arco dell’ala infiorata, e gli mandò un repentino saluto:
— Buona sera, cacciatore.
— Buona sera, signorina.
Si lasciarono così, bruscamente, senza nemmeno stendersi la mano nella verdissima radura silvestre, dove il sole al tramonto penetrava con una obliqua violenza di raggi, e si diressero per due opposti cammini, l’una correndo via agile fra tronco e tronco, quasi sorvolando sul terreno erboso, coi sottili piedi calzati di scarpette bianche, leggieri come farfalle; l’altro avviandosi quasi a malincuore lungo il sentiero che lo allontanava da lei, volgendosi tratto tratto a seguirla con lo sguardo, e schiacciando le eriche e le ginestre sotto la cadenzata fermezza del suo passo.
⁂
L’ingegnere Oscar Vannelli giunse a Belprato una domenica mattina accompagnato dal marchese Alfio Ubaldo Santandrei, il quale si recava a passare una giornata in campagna presso la sua piccola amica convalescente.
Ma la convalescente era ormai risanata, e lo accolse con una sorridente affabilità, porgendogli anche la mano, mentre egli scendeva dalla carrozza, e claudicava come la La Vallière, a causa della lunga immobilità.
Le aveva portato in dono una fialetta di essenza parigina, che si chiamava Mon amour, e la traeva con cautela dall’astuccio imbottito di raso, sorridendo coi suoi denti giallognoli e sollevando, nel respiro un po’ ansante, la rotondità del ventre un po’ obeso.
— È il profumo che usa in questo momento mia cugina, la principessa di Carratù.
— Sarà certamente l’ultima parola in fatto di eleganza olfittiva, — ammise Luciana con una gravità ironica.
— Sì, dev’essere squisito, — affermò Santandrei senza afferrare l’intenzione pungente.
In quel punto Oscar apparve ed annunziò:
— Ho combinato per oggi una magnifica partita di caccia. Avremo con noi Arrigo il miglior fucile di tutta la vallata.
— Chi è questo Arrigo? — chiese Luciana, mentre il baleno di un dubbio le attraversava il pensiero.
— Dovresti averlo notato, perchè è anche un bellissimo giovane, — rispose ridendo Oscar, — ed abita non molto lontano. Gli ho parlato or ora. Verrà qui nel pomeriggio.
— Ho inteso, — mormorò la sorella, e si morse il labbro, accendendosi in volto di una lievissima fiamma.
S’erano rivisti due altre volte dopo il primo incontro: la prima sulla piazzetta della chiesa mentre ella usciva con sua madre dalla messa cantata; la seconda lungo la stradicciuola che dalla casa dei contadini saliva, per un dolce pendio, ai vigneti. Egli si era tolto con rispetto il cappello, ma la sua faccia dal netto profilo si era alquanto alterata, quasi intorbidita per il riflesso dello sguardo, in cui si raccoglieva un oscuro fuoco.
Non le aveva parlato, neppure incontrandola sola. Forse si pentiva di esserle sembrato troppo familiare il primo giorno, e voleva ora mostrarsi consapevole della distanza che separava il rozzo ed incolto campagnuolo dalla elegante e ricca signorina, sebbene questa si fosse degnata di parlargli e d’ascoltarlo per una volta con cortese affabilità.
Ma quando il giovine entrò nella sala da pranzo dei Vannelli, egli fissò per un momento Luciana con due occhi carezzevoli, umili, rapiti, imploranti, sollevando l’ampio petto ad un trattenuto sospiro, come se il vederla, il poterla finalmente contemplare dopo tanti giorni di lontananza, gli procurasse un impeto di felicità irrefrenabile.
I due uomini si erano allontanati per prepararsi alla partenza, ed egli continuava la sua muta adorazione, diritto ed immobile accanto alla tavola, a due passi dalla signora Vannelli, la quale, intenta a leggere un giornale, non gli badava.
Ma Luciana, alquanto a disagio, sollevava ad ogni istante su di lui lo sguardo inquieto, ed osservava come la sua fronte fosse più bianca del resto del viso, liscia, pura, quasi puerile di candore sotto l’onda bruna dei capelli; osservava il piccolo orecchio roseo che usciva dal molle colletto arrovesciato, così in contrasto con la poderosa aitanza della persona.
Era veramente un magnifico esemplare umano quel giovine venticinquenne, nato e cresciuto ai liberi soli e agli aspri venti delle foreste, lanciato il giorno e la notte come una fiera rapace attraverso alle forre ricche di preda: e la fragile fanciulla malata di eccessiva civiltà, dal sangue impoverito per soverchia raffinatezza, dal cuore affaticato di troppe pulsazioni, dai nervi stanchi di esagerata sensibilità, si sentiva oscuramente attratta e dominata dallo sguardo fermo di quegli occhi, che la avvolgevano tutta dall’alto in un’ondata calda e possente di bramosia.
Santandrei rientrò in sala pel primo, col fucile appeso ad una spalla ed un grande carniere a frange che gli pendeva dall’altra piuttosto comico in quel costume che pareva aver servito nelle storiche battute di caccia di qualche re longobardo, e incominciò ad interrogare il giovine Arrigo, sollevando il capo per guardarlo in faccia senza accorgersi del tono tronco e quasi tediato con cui l’altro gli rispondeva, nè della propria apparenza caricaturale.
Ma se ne avvedeva Luciana, la quale li guardava da alcuni minuti con intensa attenzione, e confrontava quel nobilissimo rampollo di una illustre ed antica prosapia, così fisicamente mal costrutto non ostante i magnanimi lombi da cui discendeva, e quel figlio della terra, nato da un agricoltore e da una mandriana, che appariva non di meno un superbo campione d’umanita.
La sera, al ritorno, ella non lo rivide, ma il domani partito Santandrei con sua madre che lo accompagnava in città, ella rimase sola col fratello il quale si concedeva una settimana di vacanza e intendeva impiegarla tutta quanta nel divertimento della caccia che lo appassionava. Allora Arrigo Barbano venne quasi ogni giorno a prenderlo a Belprato.
La correttezza rigidamente inglese di Oscar lo induceva non a tenerlo a distanza ma a trattarlo con la fredda cordialità che gli era abituale, intrattenendosi con lui su argomenti unicamente cinegetici, non parlandogli che di lepri e di pernici, di peste e di giacigli, d’appostamenti e di colpi, discorsi che suscitavano in Luciana, costretta talvolta ad ascoltarli, una invincibile noia.
Arrigo rispondeva con un tono rispettoso, ma senza umiltà, manifestando brevemente ma con tranquilla sicurezza di conoscitore esperto ciò che sapeva; e la schietta rigidezza dell’uno s’accordava così bene con la serietà semplice dell’altro ch’essi passavano insieme le giornale, non amici, ma piacevolissimi compagni.
Una mattina Oscar Vannelli dovette partire all’improvviso chiamato da un telegramma d’affari e mandò ad avvertire Arrigo della sua momentanea assenza, ma questi non ricevette in tempo il biglietto e giunse a Belprato all’ora già stabilita, entrò come di conueto in sala da pranzo e vi trovò Luciana sola. Ella stava seduta sul parapetto della finestra bassa, intenta ad infilare in un sottile cordoncino le perle di un suo vezzo che si era spezzato e sollevò la fronte sorpresa eppure lieta dell’inatteso arrivo.
— Mio fratello non c’è. Dovette recarsi stamane in città, ma le scrisse due parole prima di partire, — ella gli annunzio interrompendo il suo leggiadro lavoro, e notando con un lieve tremore d’ansia a sommo del petto la vampa che lo aveva investito fin sulla fronte nell’accostarsi a lei.
— Mi scusi, non ho ricevuto nulla, altrimenti non sarei venuto, — egli avverti con una voce piena di timido impaccio, la quale contrastava stranamente con l’ardito fervore del suo sguardo. Ed attese ch’ella lo congedasse con la gentilezza sorridente del suo saluto. Ma Luciana continuava ad infilare le perle a capo chino, sporgendo un poco la vermiglia tumidezza del labbro inferiore e sollevando nel respiro frequente la seta bianca della sua camicetta ampiamente scollata.
— Suo fratello tornerà domani? — domandò egli dopo una pausa.
— Forse stasera stessa, — ella rispose senza levare il capo.
— E allora domattina ripasserò. Buon giorno, signorina.
Ella alzò finalmente la fronte, e si rizzò rapida sul busto con un atto così repentino che alcune perle posate sul parapetto caddero e rotolarono senza rumore sul pavimento coperto d’un tappeto di stuoia.
Arrigo si chinò a cercarle, le raccolse con delicatezza e gliele porse nel cavo della mano, più bianche e più soavi su quell’arida pelle abbronzata, avvicinandosi maggiormente alla deliziosa persona, aspirando il profumo indefinibile che esalava dalla sua epidermide, mentre gonfiava il petto e dilatava le narici come quando respirava nel cuor della selva l’odore dell’agile preda fuggente.
Ma Luciana non fuggiva. Rideva con brevi trilli acuti come gorgheggi di capinera, afferrando con la punta delle dita affusolate i piccoli globi color dell’aurora, luccicanti nella sua palma e gli insegnava intanto ch’esse non erano vere perle d’oriente, ma una imitazione abbastanza perfetta d’occidente, e che un simile vezzo naturale, così mostruoso di bellezza e di grandezza, poteva valere tutta la fattoria di Belprato, compresa la sua padroncina.
A questo apprezzamento Arrigo protestò con un subitaneo slancio d’eloquenza, affermando che la padroncina di Belprato valeva da sola tutti i tesori del mondo.
Luciana allora lo considerò un attimo con meraviglia e poichè le piaceva l’impeto un po’ tremulo della sua voce e il bagliore dei suoi denti mentre le parlava ritto al suo fianco, si dilettò a punzecchiarlo con sottile malignità come usava con gli amici suoi e particolarmente col marchese Santandrei.
— Parla sempre con questo entusiasmo quando fa la corte alle forosette del villaggio?
— Io non faccio la corte a nessuna. Non mi piacciono le ragazze stupide e ignoranti, — egli rispose quasi con durezza.
— Quali le piacciono, dunque?
Arrigo non rispose più, ma coi denti serrati sotto le mascelle trasse un profondo sospiro e fissò lo sguardo fosco lontano, oltre la finestra spalancata, con una espressione di così selvaggia violenza che Luciana ne rabbrividì. Ma subito egli addolcì il suo volto di un sorriso un poco incerto mormorando:
— Io devo averle detto molte sciocchezze quel giorno nel bosco. Vorrei che le avesse dimenticate.
Alludeva agli accenni sulla loro lontana parentela che certo le erano sembrati un pretesto ed un appiglio per entrare in confidenza con la sua famiglia e con lei.
— Io mi ricordo soltanto d’aver divorato un mucchio di bellissime more, — ella rispose con gaiezza, e poichè sul volto d’Arrigo si diffondeva ancora l’espressione corrucciata di prima, ella lo ammonì, di nuovo alquanto pungente:
— Perchè riprende quell’aria tenebrosa? È molto più bello quando ride.
— E giusto che una signorina come lei si pigli gioco di un ignorante come me, — affermò egli ancora più cupo, quasi offeso da quelle blande parole che parevano schernirlo.
Avvezzo alla rozza e schietta naturalezza delle femmine agresti, egli non conosceva i sottili armeggii delle donne raffinatamente ambigue che fingono di mordere quando vorrebbero baciare, e si scrollava di dosso con una fiera ruvidezza le amabilità un poco beffarde che non capiva e che lo molestavano. Egli era composto di una sostanza umana assai diversa da quella che componeva i Santandrei: se costoro nella loro scarsa sensibilità logorata dai secoli potevano tranquillamente sottomettersi con indifferente apatia al sarcasmo elegante di una bella fanciulla, pur di goderne innocui e sereni la confidente amicizia, egli, sotto quelle sottili punture di scherno sentiva balzare in sè qualche cosa di vivo e d’indomabile che lo spingeva ad afferraria per i polsi ed a pregarla con voce roca di lasciarlo in pace se non desiderava di provocare una lotta nella quale egli l’avrebbe facilmente vinta e soggiogata.
Luciana scherzò con questo pericolo per alcune ore, aggirandosi con lui pel vasto giardino, sedendo al suo fianco sotto le pergole che cingevano la casa come verdi cinture, continuando a ridere, a narrare storielle spiritose e a dirgli graziose impertinenze con la sua vocetta squillante la quale talora s’ammorbidiva e tremava perplessa sotto una sguardo più avvampante del giovine.
Quand’egli rientrò in sala da pranzo per riprendere il fucile ed il cappello, la fanciulla lo seguì e andò a contemplarsi con civetteria nel grande specchio verdognolo che sovrastava il camino.
— Guardi come sono arruffata, — diceva sorridendo e sollevandosi alle tempia alcune ciocche ricadenti in capricciosi riccioli lungo le gote.
Ma Arrigo non parlò e nella stanza già in ombra pel tramonto imminente e pei tralci di vite che incorniciavano le finestre si diffuse un improvviso silenzio.
Ella, tuttora immobile dinanzi allo specchio, non potè più troncarlo col suo ridere inquieto. Sentì Arrigo avanzare verso di lei con un passo muto, raggiungerla lentamente, quasi sospinto da un’altra volontà più forte della sua, sostare un attimo esitante alle sue spalle, ma già così accosto ch’ella ne sentiva l’anelante respiro.
Avrebbe potuto volgersi, fermarlo con un gesto freddo e con una sdegnosa parola, ma in quel momento non rammentò che egli fosse considerato nel mondo qualche cosa da meno di lei stessa.
Egli non era più che un desiderio d’amore, ella non era più che un’attesa d’amore e il sentirsi ghermita da quelle braccia avvincenti, baciata da quella bocca vorace le dette un tale spasimo di felicità ch’ella credette di morirne.
⁂
Ripartito il fratello e tornata sua madre, Luciana ripigliò il vagabondaggio ozioso e igienico sulle pendici selvose, ma vi si avviava ora con una segreta trepidazione, frenando l’impazienza del passo. Sapeva d’incontrare in qualche folto d’ombre più inesplorabili, fra il colonnato fitto di una pineta o in una radura inghirlandata di ginepro il suo giovine amico che l’aspettava.
Tornarono a raccogliere le more ai piedi del muricciuolo sgretolato, ed egli la sollevava fra le sue braccia affinchè giungesse ai rami più alti che dondolavano mollemente i lucidi grappoli, quasi offrendoli alla loro ghiotta tentazione.
Si rincorsero come due ragazzi nella boscaglia sonante d’echi, nascondendosi per gioco dietro i tronchi più arrotondati o nell’incavo di qualche castagno decrepito.
Cercarono i funghi, frugando con un bastoncino fra lo strato delle foglie secche o nel muschio morbido e denso, che rivestiva certi nascondigli ignorati dal sole.
Ella si sentiva vivere più intensamente, con una più sana e più limpida freschezza vicino a quell’essere così prossimo alla natura, pieno di raccolta forza e di chiara semplicità, il quale l’amava con un fervore quasi selvaggio e insieme con una trepida paura, il quale nei momenti di maggiore tenerezza le parlava con un linguaggio immaginoso, con espressioni di devota preghiera, e nei momenti di gioia e di giocondità la portava con leggerezza nelle sue braccia, come una bambina, stringendosi al petto quel tesoro prezioso, quella creatura così bianca, così fine, olezzante come un fiore, che si afferrava al suo collo con lievi grida di timore e con lievi grida di piacere.
Come l’animale infermo cerca, con un prodigioso istinto, fra i vegetali della terra l’erba medicinale che guarirà il suo male, così quella giovinetta malata di estenuamento, dalle vene povere di sangue, si era diretta per istinto verso il rimedio che la risanava, verso la ricca energia umana a cui abbandonarsi perchè rinvigorisse la sua debole fragilità.
Un medico esperto le aveva prescritta una cura di vita primitiva, ossia un temporaneo ritorno alla chiara semplicità della puerizia umana, quando gli uomini si nutrivano di caccia e di pesca e si congiungevano alle loro donne su giacigli di fiori, e quel suo fervido innamorato, bello e sereno come un giovine dio delle selve, faceva inconsciamente parte con l’aria, il sole, gli aromi, della cura risanatrice ordinata dal medico sagace.
Anche la materna origine campestre favoriva forse codesta inclinazione verso la natura. Nascosta per vergogna, per orgoglio rinnegata, soffocata nell’educazione squisita, dimenticata fra le distrazioni della mondanità, essa insorgeva nondimeno nelle vene e nei nervi della figliuola con la prepotenza di una legge atavica, e la ripiegava docile verso le disprezzate radici.
Una sera che Luciana rientrò alquanto in ritardo, notò lo sguardo investigatore con cui sua madre l’accolse e non si meravigliò ch’ella le dicesse poco dopo con fredda severità:
— Ti avverto che non mi piacciono queste tue scorribande prolungate nei boschi fino a sera.
— Me l’ha ordinato il dottore, — si scusò la fanciulla con la mansuetudine di chi si sente colpevole.
— Ti ha pure ordinato di cercarti un compagno di passeggiate?
— Non capisco questa tua domanda.
— Te la spiego subito. Sei stata vista in compagnia di un giovine, un villano qualsiasi dei dintorni che una signorina della tua condizione dovrebbe vergognarsi di frequentare.
— Ho incontrato due o tre volte quel cacciatore amico di Oscar, che si chiama Barbano.
— Barbano? — ripetè la signora Magda col sussulto interno e il viso rabbuiato che sempre le procurava un’allusione anche involontaria al suo antico passato villereccio.
— Già, — confermò Luciana con innocente soavità, — e non c’è alcun male s’io mi sono fermata un momento a discorrere. Veniva a Belprato ogni giorno quando c’era qui Oscar.
— Sta bene. Ma ora, poichè tu sei completamente guarita, — decretò la signora Vannelli dopo una pausa di riflessione, — puoi sospendere le tue corse igieniche e incominciare a prepararti alla partenza.
Luciana non replicò, ma la notte seguente s’agitò in un inquieto dormiveglia, senza prender riposo, assillata dal pensiero disperante del prossimo distacco.
Il giorno dopo approfittò del sonno pomeridiano di sua madre per correre cautamente al convegno e quando si trovò fra le braccia del suo giovine innamorato si strinse a lui perdutamente con un viso così accorato ch’egli se ne sbigottì.
— Come sei pallida e come tremi, — egli le diceva, accarezzandola con trepida delicatezza. — Che hai? Ti senti male? O non mi ami più?
— Taci, — ella implorò sottovoce, — ti amo tanto che ho presa una decisione estrema per non lasciarti.
— Per non lasciarmi?
— Mia madre vuol portarmi via. Prima che questo avvenga, devi portarmi via tu.
— Che cosa vuoi dire?
— Voglio dire che domani sera io fuggirò con te. E quando avrò passato una notte e un giorno con te, dovranno per forza permettermi di sposarti. D’altra parte, ho ventidue anni, e posso disporre della mia volontà.
Per la prima volta ella manifestava così chiaramente con quale decisiva gravità quell’amore fosse penetrato nella sua vita, e con quale risoluta energia ella intendesse far valere il proprio diritto a scegliersi per marito l’uomo che le piaceva.
Il giovine, ancora perplesso dinanzi a quella subitanea audacia, taceva fissando il suolo, con una ruga di corruccio fra l’arco dei cigli, finchè obbiettò un po’ roco, senza sollevare la fronte, come se non ardisse guardarla:
— Tu forse non hai pensato a una cosa.
— Che cosa? — scattò Luciana con impazienza.
— Che potrai un giorno pentirti di ciò che adesso decidi con tanta sicurezza. Tu sei una signorina di città, ricca e istruita: io non sono che un contadino rozzo, e non posseggo che il mio fucile e quattro palmi di terra al sole. La vita che io posso offrirti è troppo diversa dalla tua, perchè non ti sembri meschina.
— È la vita che mi piace, ed oltre a questo mi è ormai impossibile rinunziare a te.
— La gente dirà ch’io ho fatto con te una buona speculazione.
— Lascierai parlare la gente, o la manderai da me se desidera spiegazioni al riguardo. Del resto, questo tuo preoccuparti del mondo significa che non mi ami.
— Oh, anima mia, piccola madonnina santa che io adoro in ginocchio, che io prego ogni notte e ogni giorno, e ogni ora, perchè mi conceda la grazia di lasciarsi amare! Non oso quasi baciarti, non oserò avvicinarmi a te, domani a sera.
Ella lo ascoltava con un sorriso d’ebbrezza sul volto intento, poi si chinò al suo orecchio, e gli chiese in un sussurro:
— Dove ci rifugieremo domani sera?
— Non so. Lasciami riflettere, — mormorò Arrigo raccogliendosi nel suo pensiero. — Forse il luogo più adatto sarebbe la casetta della vigna, a mezz’ora da casa mia, dove passo le notti per vigilare l’uva quando è matura. Sono due stanzette abbastanza decenti. Una volta un pittore volle prenderle in affitto e vi rimase tutta l’estate. Ma a te sembreranno miserabili.
Luciana gli coperse la bocca con la sua palma rosea, mormorando:
— Non parlare a questo modo. Mi parranno deliziose come il rifugio della felicità.
Il domani Luciana Vannelli rimase quasi tutto il giorno nella sua camera, fingendosi occupata nei preparativi della partenza. Aveva aperto un baule, e vi riponeva lentamente i suoi libri, i suoi ritratti, i suoi ninnoli, tutte le piccole cose sue intime e care che l’accompagnavano ovunque, e si fermava tratto tratto in mezzo alla stanza con gli occhi fissi al suolo ed il pensiero assente.
Sapeva che l’amico suo avrebbe errato durante quelle ore attraverso alla foresta tante volte percorsa al suo fianco, e lo vedeva seduto sul tronco arrovesciato, morbido di licheni, dove sostavano a riposare; lo vedeva accartocciare con la destra nervosa le orecchie del cane accovacciato al suo piede, mordendosi la nocca dell’indice sinistro, gesto che gli era consueto nei momenti di agitata perplessità. Poi balzare al sibilo di un pennuto tra le fronde alte, afferrare il fucile, mirare un attimo, sparare e correre ad afferrare la vittima caduta, con un sorriso di trionfo sul bel volto di giovine dio silvano.
Quando ella scese all’ora del pranzo, sua madre le domandò perchè si fosse trattenuta in casa tutto il pomeriggio.
— Non mi hai detto di preparare le cose mie? Non mi hai avvertita di apparecchiarmi alla partenza? Ho obbedito, — ella rispose con una soave rassegnazione che intenerì la signora Magda.
— Confessa che in fondo non ti dispiace affatto di lasciare questo romitaggio, dove si passano le giornate a sbadigliare. Ci siamo assoggettate ad un vero sacrificio, ad una vera menomazione della nostra personalità in questi due mesi di completa solitudine e di compagnie troppo inferiori. Lo abbiamo fatto abbastanza volontieri, col docile adattamento delle persone ragionevoli, tu per giovare alla tua salute, ed io per giovare a te. Da quasi venticinque anni non ritornavo quassù, ed auguriamoci di non doverci ritornare almeno per altri venticinque anni.
— Chi sà? — dubitò Luciana sollevando le spatle con atto ambiguo, tra serio e sorridente. — Chi sà?
Entrò in quel punto la cameriera portando la posta, la quale arrivava lassù a tarda sera, portata ancora dall’antica diligenza che Luciana chiamava «la negligenza», perchè era una vecchia carrozza sgangherata, trascinata da due magri ronzini e giungeva a destinazione quando voleva e come poteva.
La signora Magda lesse in silenzio una lettera di suo marito che la esortava a trattenersi per un altro mese a Belprato, commentò con un sorriso alcune cartoline illustrate di amiche e d’amici fra cui una di Santandrei che mandava un saluto da Villa d’Este, e s’immerse nella lettura di un giornale. Luciana andò quasi subito a letto ma non riuscì a pigliar sonno e s’addormentò soltanto quando i galli mattutini intonavano il loro inno all’aurora.
S’alzò a tarda mattina e trovò sul davanzale della sua finestra che sporgeva sul giardino un mazzo di ciclami di selva, di color cupo e di profumo acutissimo, giunto lassù dal basso, diretto da una mano sicura e da un abile gesto di lancio.
Ella bacio i piccoli fiori selvaggi che le recavano un muto messaggio del suo amore, un avvertimento, una preghiera, una promessa, e li premette sul cuore quasi per calmarne con quel puro contatto la convulsa inquietudine.
Anche gli alberi s’agitavano quella mattina scossi da un vento furibondo, e per tutto il giorno quell’urlo lamentoso che pareva il grido prolungato della sua febbrile impazienza, le frustò i nervi, la irritò, la sconvolse. All’ora del thè sua madre la trovò così pallida e abbattuta che s’allarmò e le chiese se si sentisse male.
— È il vento, — le spiegò Luciana forzando la voce ed il gesto ad una calma noncuranza. — Ho lasciato stamane le finestre aperte nella mia camera e un po’ di freddo mi si è infiltrato nelle ossa. Non è nulla. Il thè mi riscalderà.
Si riscaldò pure con una corsa nel frutteto, con un attento esame del piccolo cancello che si chiudeva semplicemente con un chiavistello scorrevole e con una chiave arruginita che non funzionava più. Poi tornò in camera sua e incominciò a riempire di minuti oggetti indispensabili una valigetta larga poco più d’un palmo, foderata di raso verde, che conteneva infissi nel coperchio lo specchio, i pettini, le spazzole, i piccoli strumenti necessari all’acconciatura femminile, e che l’accompagnava sempre nei suoi viaggi. Quando questo fu compiuto, ella nascose la borsetta in un armadio, quindi scelse l’abito, il cappello, il velo che avrebbe indossato la sera e rimase alquanto a riflettere se dovesse scrivere a sua madre un biglietto per renderle manifeste le ragioni della sua fuga. Ma con alcuni argomenti già meditati il giorno innanzi si persuase dell’opportunità di non lasciare indizi che potevano essere trovati troppo presto e porre qualcuno sulle sue tracce innanzi tempo, nuocendo ai suoi disegni.
Scesa a pranzo, toccò appena i cibi con tale evidente disgusto che la signora Magda, piuttosto impensierita, le consigliò di andarsene presto a letto, e di inghiottire come cura preventiva una pastiglia di chinino.
Luciana sorrise di quei timori e l’abbracciò assicurando che stava benissimo e che cadeva dal sonno, e salì nella sua stanza correndo, pel bisogno di trovarsi sola, coi palpiti così accelerati in fondo al petto, che il gran vento tutto impeti e grida della profonda sera le pareva accordarsi col ritmo del suo respiro.
Era ella stessa un solo battito dalla fronte alle caviglie, un solo fremito dalla nuca al piede, e le stelle di cui si adornava la notte imminente, simile a una donna innamorata che volesse piacere all’amor suo, tremavano anch’esse, come se posassero sopra un seno agitato da palpiti fremebondi.
Tacquero a poco a poco tutti i rumori della casa, disparvero a poco a poco tutte le luci. Nella camera di sua madre il riflesso di una lampada accesa durò più a lungo, e si spense nel punto in cui l’orologio a pendolo suonò le undici e mezzo.
L’incontro con Arrigo sulla strada maestra era fissato per la mezzanotte, e Luciana già tutta pronta, vestita di scuro, calzata di sandali, con un piccolo cappello e un fitto velo sul volto, in piedi, al buio presso la piccola porta socchiusa, attese quel momento, stringendo i denti che le battevano febbrilmente, torcendosi le mani per frenare la sconvolgente ansia che la dominava.
Udì suonare le undici e tre quarti, ma non potendo più durare in quello stato d’angoscia, afferrò la valigetta ed uscì sulla veranda col passo silenzioso dei suoi sandali.
La porta in fondo alla scala s’aperse ad una lieve spinta senza cigolìo, ma il cane di guardia venne a lambirle le mani scodinzolando e mugolando e la seguì mentre ella scavalcava agilmente il basso muro che circondava il frutteto, percorse al suo fianco il viale fiancheggiato di meli che metteva all’uscita.
Ella discese a balzi di cerbiatta lungo il pendio tortuoso che sbucava sulla strada provinciale e senza esitare, sebbene il buio la cingesse d’ogni parte, si diresse al bivio, dove, presso la linea scura ed eguale d’una siepe, sostava un gruppo nero. Udì lo sbuffare di un cavallo, udì un suonar metallico di finimenti e subito dopo una voce sommessa che usciva dall’oscurità:
— Sei tu?
— Sono io.
— Nessuno ti ha vista?
— Nessuno.
Due braccia la sollevarono d’impeto, le premettero il cuore contro un cuore pieno di battiti, il viso contro un viso avvampante di desiderio, la bocca contro una bocca olezzante di giovinezza.
— T’aspettavo già da un’ora.
— Amore caro!
— Non hai paura?
— No.
— Non sei pentita di ciò che fai?
— Sono felice.
— Andiamo?
— Andiamo.
E andarono nella notte profonda, lungo la via deserta, sotto le collane di tremule gemme che pendevano sul loro capo dall’alto cielo, fra il coro ampio dei grilli che cantavano loro dalle siepi di biancospino una trillante marcia nuziale.
⁂
Allorchè la cameriera annunciò alla signora Magda Vannelli che la signorina non si trovava in camera sua e che il letto pareva intatto dal giorno innanzi, questa non intese subito il significato di tali parole.
— La signorina si sarà alzata presto per fare una passeggiata all’aria fresca del mattino. Stava poco bene ieri sera, — le rispose con tranquillità, stirando le braccia fuor delle coltri e prendendo quindi dal vassoio che la ragazza le porgeva la tazza di caffè fumante.
— No, signora, nessuno ha dormito in quel letto. Io supponevo che la signorina avesse preferito la stanza dei forestieri perchè è più grande ma anche quella è vuota.
La signora inghiottì d’un fiato il caffè e il colpo con cui posò la tazza sul vassoio fu così violento che la cameriera barcollò.
— Tu hai semplicemente le traveggole, ragazza mia.
Questa sollevò le spalle con una smorfia ed un gesto di tranquilla impertinenza, e senz’altre parole si volse, ed uscì, richiudendo dietro di sè la porta per precipitarsi a commentare il fatto in cucina, dove la stupefacente notizia s’era già sparsa.
Ma un colpo reiterato di campanello la richiamò. La signora, avvolta in una vestaglia rossa nella quale si espandeva libera dalle strettoie del busto la sua matura corpulenza, s’aggirava con l’irosa inquietudine di una furia nella camera di sua figlia, cercando febbrilmente qualche cosa, una lettera, una spiegazione, un indizio qualsiasi che le scoprisse la ragione di quella assenza.
La fantesca si fermò sulla porta, nascondendo a testa china un sorriso che le balenava negli occhi, lisciandosi con le due mani il grembiule bianco, adorno di merletti.
— La signora desidera?
— Va a domandare ai contadini se nessuno ha veduto stamane la signorina mentre usciva di casa. Luciana è qualche volta un po’ bizzarra e può darsi che....
— Ho già domandato, signora. Ieri sera fra le undici e mezzanotte una carrozza era ferma laggiù, all’imbocco della strada provinciale, e qualcuno aspettava sotto il mantice sollevato. Lo ha visto il vecchio Simone mentre tornava molto tardi dalla fiera, ed ha riconosciuto il cavallo.
— Che c’entra il cavallo?
— C’entra, signora, perchè sembra che appartenga al figlio dei Barbano, ossia a quel giovine cacciatore che veniva qui spesso quando c’era l’ingegnere Oscar.
Avrebbe voluto aggiungere altre notizie ancora più significative sul conto del giovine cacciatore e della signorina Luciana, ma temeva la collera della padrona, quella collera rimasta piuttosto volgare nelle sue manifestazioni: — nonostante il collegio svizzero e le amicizie aristocratiche, — la quale talvolta insorgeva in acute grida, e in contumelie villane. Ora però, con un dominio sorprendente su sè medesima, la signora Magda riuscì a trattenere l’ira e gli insulti e a ordinare freddamente alla cameriera di mandarle il meccanico, ed al meccanico prontamente accorso, di prepararsi subito alla partenza.
Quel nome di Barbano era stato per lei un lampo burrascoso nell’ombra. Ella sapeva ora da chi e dove poteva attingere notizie di sua figlia, ma le occorreva risalire col pensiero fremente di corruccio a trent’anni innanzi, quando suo marito, che era allora «il signorino di Belprato» scavalcava il parapetto basso della finestra e saltava di piè pari nella sua stanza, fra i sacchi di biada e di carrube.
Doveva esistere ancora laggiù, in quella casa larga e bassa, fra i campi gialli di stoppie, da cui ella era uscita fortunatamente in tempo per diventare nel mondo delle persone dabbene la colta ed avvenente signora Vannelli, doveva esistere ancora laggiù un vecchio Barbano, padre del giovine Arrigo, di professione cacciatore in ogni genere di selvaggina, il quale era certamente consapevole del nascondiglio di quella piccola stupida di sua figlia e del suo scaltro rapitore.
Il vecchio Barbano fumava placidamente la pipa seduto sull’orlo del pozzo mentre ella si recava ad interrogarlo, e rimase sbalordito dall’irrompere dell’automobile nell’aia cosparsa di covoni, e dalle domande che la signora, senza scendere dalla vettura, gli rivolse con voce imperiosa.
— È in casa vostro figlio?
— No, signora, non lo vedo da ieri mattina.
— Non sapete indicarmi dove potrei trovarlo? Mi occorre urgentemente di chiedergli una informazione.
— Chi lo sa? Arrigo gira pei boschi tutto il giorno e qualche volta tutta la notte. Va a caccia.
— Già, va a caccia, anche troppo. Questa notte però andava in carrozza nelle vicinanze di Belprato.
— Ah, sì. Poichè ha un cavallo è ben giusto che lo adoperi.
— Insomma, riflettete. Si tratta di cosa grave. Dove poteva recarsi vostro figlio questa notte con la carrozza?
— Qualche volta va alla casina della vigna.
— Dove si trova la casina della vigna?
— Sul colle, lassù, ma l’automobile non ci arriva.
La signora Magda si sventolò col suo fazzolettino profumato il volto acceso dalla collera contenuta e dal sole estivo che brillava sui covoni d’oro.
— Se la signora volesse aspettare mezz’ora manderei un ragazzo svelto a cercar mio figlio lassù.
— Sta bene. Mandatelo. Ma faccia presto.
— Non vuole scendere intanto e riposarsi un poco all’ombra?
La signora Magda accettò, quantunque a malincuore, l’offerta del vecchio Barbano, scese dalla vetura che scottava nel cuoio e nel metallo, andò a sedere sotto il noce gigantesco.
E allora sospirò di malinconia. Quello era stato il rifugio della piccola Maddalena nelle ore d’ozio domenicali, quando poteva leggere senza essere interrotta il libro di preghiere, il catechismo e qualche libercolo fra sacro e profano che il parroco conoscendo il suo amore per la lettura di tanto in tanto le imprestava.
Il vecchio Barbano, con la serena noncuranza dei contadini per le cose che non li riguardano, dopo avere spedito un suo servitorello scamiciato e scalzo in traccia del figlio, risedette sull’orlo del pozzo e ricominciò a fumare in silenzio con l’aria meditabonda che gli era abituale, ignorando tuttavia che quella ricca signora giunta in automobile, vestita di seta, con due enormi brillanti alle orecchie, portasse per nascita il suo stesso nome e dovesse la propria fortuna alle finestre piuttosto basse di quella medesima casa ed alle persuasioni di una carabina famigliare.
Dopo un’ora e mezzo d’attesa il contadinello tornò di corsa annunziando che il padrone sarebbe arrivato fra poco in carrozza con la signorina.
— Quale signorina? — domandò burbero il vecchio, afferrandolo ad un braccio e scuotendolo con energia.
— Non so come si chiami, — strillò il ragazzo, torcendosi per liberarsi dalla stretta. — Quella signorina che era con lui — spiegò quindi fuggendo rapido col fruscìo d’ali dei suoi piedi scalzi e precipitandosi a ricevere la moneta d’argento che la signora gli porgeva come compenso.
Questa, dritta sulla soglia del cortile, col petto ansante e la faccia dura sotto l’ombrello di seta azzurra, guardava la carrozzella che avanzava verso di lei con una esasperante lentezza riconducendole quella sciagurata creatura di sua figlia.
Allorchè Luciana balzò a terra dall’alto predellino, tentò di sorridere a sua madre, che la salutò con ostentata naturalezza.
— Buon giorno, mamma. Perchè incomodarti a venirmi incontro? Sarei tornata oggi a Belprato.
— Taci almeno, disgraziata, — le mormorò cupamente la signora Vannelli. — A Belprato, dopo quanto è accaduto, non metteremo più piede.
— Dopo quanto è accaduto? — ripetè con simulata meraviglia, Luciana, cercando con gli occhi Arrigo onde renderlo testimone che non era accaduto nulla di malvagio. Ma il giovine per non assistere a quel procelloso incontro fra madre e figlia era risalito in carrozza e guidava il cavallo verso la scuderia. Ed ella prosegui con voce calmissima:
— Non poteva accadere nulla di più semplice e di più naturale; e non me ne vergogno, nè tento di nascondere la verità. Ho stabilito di sposare Arrigo Barbano, ossia l’uomo che amo, e poichè non trovavo altro mezzo per ottenere il tuo consenso e quello di mio padre, sono fuggita con lui. Ecco tutto.
— Tu sei pazza, Luciana, tu sei pazza, — proruppe a voce bassa e concitata la signora Magda. Poi tentò di dominarsi e aggiunse: — Ma discorreremo più tardi di questo. Ora sali in automobile e vieni via con me immediatamente.
— No, mamma. Non mi porterai via prima ch’io abbia ottenuta da te una promessa, — rispose la giovinetta con una risoluta dolcezza, avviandosi verso l’ombra del noce gigantesco.
— Non parlare di promesse, nè di consensi, nè di approvazioni. Non posso neppure immaginare mia figlia sposata a un contadino, a un ignorante, a un villano e costretta ad una vita miserabile.
— Miserabile no. Una vita primitiva, mamma. Quella che il dottore mi ha ordinato e che giova magnificamente alla mia salute.
— Ma io mi oppongo. Con tutte le mie forze mi oppongo.
— Ormai è troppo tardi, mamma.
— Nè io, nè tuo padre ti permetteremo di rovinarti con una simile vergognosa follia.
— Ho ventidue anni, mamma.
Erano giunte passo passo fin sotto le fronde del noce secolare il quale allargava patriarcalmente le ampie braccia ad accogliere a sè quella sua vecchia figliuola già dispersa pel vasto mondo e quella figliuola giovinetta che dal vasto mondo gli ritornava.
La signora si lasciò cadere sul sedile di pietra crollando il viso nascosto nel fazzoletto, gemendo e lamentandosi con una flebile voce inarticolata.
— Ascolta, mamma.
In piedi dinanzi a lei, sottile, pallida, vibrante nel suo abito oscuro, Luciana difendeva l’amore suo piegandosi verso di lei, congiungendo le mani come se pronunciasse una preghiera.
— Ascolta, mamma. Lasciami parlare una volta con sincerità, senza le superbie e senza le vergogne convenzionali che ingombrano il cervello e oscurano il ragionamento alle persone della nostra condizione sociale. Nessuno me lo ha mai rivelato con chiarezza, ma io so perfettamente che anche tu, prima di sposarti, eri una semplice e povera contadina.
— Luciana, bada, io non posso sentirti parlare a questo modo.
— È la verità, cara mamma. Pare un’ironia del destino, ma quando tu hai conosciuto mio padre abitavi in questa medesima casa. Eri giovanissima, molto bella ed anche molto intelligente. Egli ha avuto il buon senso ed il buon gusto di farti istruire, educare, diventare una vera signora.
— Luciana, basta, te ne prego.
— Non dico nulla che ti possa offendere, mamma. Sei stata e sei ancora ammirevole, ma sembra che la natura abbia voluto vendicarsi di questa frode a suo danno disponendo che la tua unica figlia ritornasse di nuovo una creatura dei campi. Io che ho studiato il latino ed il greco, che parlo il francese e l’inglese, che leggo libri di filosofia e suono il violino, che posseggo, in una parola, una cultura superiore, mi sono innamorata di un contadino il quale sa appena scrivere una lettera senza errori.
— Infelice! Come dovrai pentirtene un giorno!
— Non lo credo, mamma. Quel ragazzo mi piace più di tutti i giovani eleganti e titolati conosciuti nel nostro mondo, e vicino a lui sento di potere sfidare qualunque pericolo e qualunque male. E poi, lo ripeto, mi pare di subire una fatalità, di obbedire ad una legge di natura unendomi a quell’uomo. È la voce del sangue che parla in me, è un oscuro atavismo che mi riconduce in grembo alla terra dove tu sei nata. Tu eri una Barbano prima di sposarti, io ritorno, sposandomi, una Barbano. Ecco tutto. Ed ora possiamo andare.
Quindi ella s’allontanò correndo per salutare Arrigo. Questi durante l’agitata scena era rimasto a discorrere sommessamente col padre, tuttora seduto a fumare sull’orlo del pozzo, e le venne incontro pieno d’inquietitudine.
— Che t’ha detto?
— Nulla. Ora andiamo in città, e questa sera parlerò con mio padre. Ti scriverò domani. Addio, caro. Ricordati che sono tua per sempre.
⁂
Quando sua figlia gli chiese il permesso di sposare Arrigo Barbano, il signor Vannelli che toccava quasi i sessant’anni ed era di temperamento scettico e gaio, non potè trattenere una risatina motteggiatrice e lasciando ricader la palma sulla spalla di Luciana sospirò con beffarda indulgenza:
— Anche tu!
Sua moglie lo aveva già illuminato sugli avvenimenti disgustosi della vigilia, proponendogli di lasciarle partire entrambe per un lungo viaggio, giovevole a distrarre la fanciulla dal suo stolto capriccio ed a smemorare gli altri dello scandalo e delle sue conseguenze.
Ma il signor Vannelli sapeva per propria esperienza che a queste follìe dei nervi giovani si rimedia solo con la grave catena ribadita dalla legalità, la quale senza pietà li ammansa e li frena. Perciò fra le risatine motteggiatrici e i sospiri beffardi aveva già preso le sue deliberazioni.
Luciana, più intimidita dalla sarcastica gaiezza di sua padre che dalle ire e dal pianto materno, attendeva la sentenza in un silenzio pieno di sordi palpiti, levandogli in volto due occhi atterriti ed imploranti.
— Potrei tenerti un lungo ed eloquente discorso per dimostrarti che hai commesso una deplorevole sciocchezza, ma siccome prevedo che ciò non servirebbe a nulla e sono convinto che ciascuno è padrone della propria buona o cattiva sorte, tralascio questa parte importante dei miei paterni doveri, e ti domando senz’altre formalità se hai intenzione di sposare subito il signor Arrigo Barbano.
— Al più presto possibile, babbo.
— Sta bene. Fra pochi giorni saranno fatte le denunzie e credo utile consigliare che vi sposiate anche voi due lassù, in quella chiesa campagnuola dove ci siamo già sposati tua madre ed io circa trent’anni or sono.
— Oh, babbo mio, grazie, grazie! — irruppe Luciana fra il sorriso e le lagrime, soffocata dall’emozione.
— Non c’è da ringraziare, bambina mia. Mi rassegno ad una specie di fato famigliare, simile a quello che grava su certe tragedie greche — sogghignò alquanto amaro suo padre. E dopo una pausa di riflessione soggiunse quasi allegramente: — Con la tua dote avrai anche la fattoria di Belprato. Desidero che quella casa passi in proprietà altrui, perchè ormai è già riuscita abbastanza di malaugurio alla dinastia dei Vannelli.
— Non dire così! — pregò Luciana con voce accorata.
— Non dirò così, — ripetè il genitore magnanimo, battendole sul braccio alcuni colpettini fra teneri e sardonici. E proseguì ridendo: — Ed ora asciugati gli occhi e va ad annunziare a tua madre che fra poche settimane ti chiamerai la signora Barbano, invece di chiamarti, com’ella credeva fermamente, la marchesa Santandrei.
— Sarà assai meglio se glie lo annunzierai tu, babbo, — lo supplicò con un sorriso ancora trepido sua figlia, cingendogli il collo con le braccia carezzevoli.
— Ma sì, bambina mia, promise con ilare condiscendenza il signor Vannelli. — Ormai sono sulla via delle concessioni e porterò anche a tua madre il gradito messaggio.
— Come sei buono!
— In fondo, non ho fatto anch’io a trent’anni, quello che oggi tu fai? Forse io non ne avevo colpa e forse non hai colpa nemmeno tu.
— Sai di chi è la colpa nel caso mio? — arrischiò Luciana con una vocina ardita, accarezzando ad occhi bassi la mano di suo padre. — È tutta del dottore che mi ha ordinato due o tre mesi di vita campagnuola. Se non era per questa ragione io non sarei andata lassù e non avrei incontrato Arrigo.
— Il medico ti ha prescritto una cura di vita primitiva e tu, constatato che giovava alla tua salute, hai deciso di adottare senz’altro la cura per il resto dei tuoi giorni.
— Sì, babbo, — rise Luciana rasserenata, baciandolo sulla tempia calva. — Ho fatto male?
Egli la guardò per la prima volta in fondo agli occhi con quella gravità penetrante che costringeva i suoi soggetti a tremare di rispettoso timore, poi si alzò appoggiando le due mani alle spalle di sua figlia e rispose senza sorridere:
— Questo lo dirà l’avvenire.