La porta della gioia/L'ombra che scende

L’ombra che scende

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Come guarì Luciana Vannelli

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L’OMBRA CHE SCENDE.

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Allorchè morì, dopo una lunga agonia, il vecchio barone Almichi, colei ch’era stata un tempo per i molti suoi conoscenti Mara, detta la Tizianesca pel colore fulvo dei suoi cappelli, si chiamò d’un tratto la baronessa Anna Maria Almichi, vestì gramaglie vedovili e si dispose a vendere l’antico palazzo di provincia dove s’era cristianamente spento il suo nobile consorte.

Egli aveva sposato al letto di morte, forse per scrupolo di coscienza timorata e forse più per un’amabile gratitudine di gentiluomo studioso e solitario, quella sua baldanzosa amica dai capelli ardenti e dall’andatura ondeggiante, la quale tornava a lui da quindici anni ad ogni mutar di stagione, quando i suoi adoratori incominciavano a disperdersi e le sue vesti a mancar di freschezza.

Ed ogni volta egli le aveva aperto le porte della sua casa non come ad un ospite di passaggio ma come a signora e padrona, felice di accogliere fra le grigie pareti del suo palazzo taciturno quella creatura luminosa come un sole, la quale rideva ad alta voce dove nessuno rideva [p. 220 modifica]mai, parlava con volubile gajezza dove non s’udivano che ordini severi e ossequiose risposte e si abbandonava con le mani dietro la nuca agitando il piedino irrequieto sotto la gonna corta, nelle grandi poltrone di cuoio dorato dove s’era seduta in un atteggiamento di rigida compostezza tutta una dinastia di austere e piissime baronesse Almichi.

Un giorno di primavera, tornando da una sfortunata sosta a Montecarlo, dove un amico straniero ch’ella credeva arcimilionario le aveva giocato e perduto persino le fibbie gemmate delle sue scarpette, Mara aveva trovato il vecchio palazzo del suo vecchio protettore ancora più cupo e più muto del consueto ed invece di sedere con lui alla tavola sontuosamente imbandita e infiorata di cui egli si compiaceva ad ogni suo ritorno, era stata introdotta dal canuto cameriere nella stanza da letto del barone, dove fra le tende sollevate dell’alcova, egli le tendeva con un pallido sorriso la sua mano scarnita.

— Non posso questa volta celebrare degnamente il ritorno della figliuola prodiga — aveva detto egli con debole voce scuotendo la sua lunga barba grigia sulla manina inguantata di Mara. Ed ella, sedendo incerta e contrariata accanto al letto, s’era a poco a poco sentita invasa da una pietà affettuosa, da una tenerezza quasi figliale per quel malato così debole, così solo, [p. 221 modifica]il quale dimenticava la propria sofferenza per rivolgerle le sue abituali parole di gentile galanteria e per informarsi con una affabile curiosità delle sue ultime vicende. E il povero viso incavato dell’infermo s’era tutto illuminato di gioia quando ella gli aveva detto in uno slancio di buon cuore:

— Resterò qui con voi finchè sarete guarito. Mi accettate per vostra zelante infermiera?

— Dite piuttosto finchè sarò morto, mia piccola amica; se pure io potrò acconsentire a lasciarvi sacrificare così, anche solo per breve tempo, la vostra meravigliosa giovinezza.

Ma poichè la meravigliosa giovinezza di Mara contava già quarantacinque anni, ella la sacrificò senza troppi rimpianti durante tre mesi e mezzo, assistendo con una instancabile devozione il barone Almichi fino al giorno della sua agonia.

Quasi nessun disegno di materiale vantaggio, ma un impeto d’affetto pietoso l’aveva spinta ad offrirgli le sue cure, più refrigeranti per gli occhi e per l’anima dell’infermo che soccorrevoli al suo implacabile male; e quando egli dopo aver spedito un messaggio al notaio ed uno al prete le annunziò con semplicità che intendeva darle prima di morire il proprio nome e legarle la sua fortuna, ella non seppe manifestare altrimenti la sconvolgente gioia della sua gratitudine che [p. 222 modifica]mettendosi a piangere in silenzio con la bocca appoggiata alla mano del moribondo.

Alcune settimane più tardi la baronessa Anna Maria Almichi, licenziata la servitù, venduto il palazzo e il suo arredo, libera da ogni legame e quasi da ogni ricordo che l’avvincesse al suo burrascoso passato d’avventuriera alla mercè del caso, scendeva con una matura cameriera nel primo albergo di una cittadina di mare molto lontana dal luogo di origine della sua fortuna e richiamava su di sè la più riguardosa attenzione per la grave dignità con cui portava il lutto vedovile e per la signorile larghezza con cui prodigava l’oro del defunto marito.

Ella cercava intanto una casa ove stabilirsi e dopo alcune guardinghe esitazioni fra varie offerte, risolveva d’acquistare una grandiosa villa detta l’Abbazia, perchè costrutta sulle rovine di un antico convento.

Le era piaciuta per la ricca severità, pel vasto parco che la circondava, per il nome austero ed anche per il buon affare che quell’acquisto rappresentava.

L’agente incaricato della vendita le disse con un mellifluo sorriso dopo ch’ella ebbe firmato il contratto che la rendeva padrona della villa: [p. 223 modifica]

— La signora baronessa può dichiararsi soddisfatta. Ella ha pagato quella proprietà soltanto i due terzi del suo reale valore. Ma il signorino voleva vendere a qualunque costo ed io ho venduto.

— Quale signorino?

— Il maggiore dei due fratelli Reaziani, proprietari dell’Abbazia, quello che vive a Roma. Il minore non pareva disposto a spogliarsi di quella casa a cui è affezionato e sembrava volersi opporre alla vendita. Perciò ho dovuto per ordine dell’altro sollecitare ed accettare le offerte della signora baronessa.

— Reaziani? — mormorò a sè stessa Anna Maria mentre calzava sulla destra, snudata per la firma del contratto, il lungo guanto d’antilope nera. E rimase un momento a fronte corrugata cercando nella memoria la persona che le pareva corrispondere a quel nome. Ma non le riuscì di trovarla.

S’alzò, rispose con un cenno del capo al profondo saluto dell’agente, salì nell’automobile che l’attendeva all’uscita e si recò a prendere possesso della nuova residenza.

L’accompagnava la sua cameriera Clelia, la quale la serviva fedelmente da ventidue anni ed era stata sempre consapevole e partecipe delle molte variazioni che i destini della sua signora avevano in sì lungo tempo subito. [p. 224 modifica]

Piccola e brutta, ma vestita con minuziosa cura, dava con la sua vicinanza maggior risalto alle grazie eleganti, divenute con gli anni alquanto opulenti, di Anna Maria ed esisteva fra di esse quella muta intesa reciprocamente tollerante e confidente che nasce e si consolida fra due esseri diversi ma l’uno necessario all’altro.

Le due donne scescero dinanzi alla villa dove il custode le attendeva per la consegna delle chiavi, ed incominciarono ad aggirarsi liberamente per la casa che le doveva ormai ospitare.

Nel dolce pomeriggio di primissimo autunno gli alberi del parco vetusto parevano cosparsi di una polvere d’oro che brillava sotto il sole ancora caldo. E il sole entrava a ondate molli e odorose dalle grandi vetrate aperte, sotto le cortine di merletto a mezzo sollevate, s’allungava in striscie luminose sui pavimenti lucidi di cera, accendeva i colori delle stoffe e dei tappeti, luccicava sulle cornici dei quadri, s’infocava in fondo agli specchi, animava tutta quella casa muta e deserta di una vitalità così chiara, risuscitava un tale palpito di esistenze sconosciute, ne rivelava così serenamente le traccie, che il cuore esperto dell’antica avventuriera se ne sentiva quasi intimidito, come se involontariamente violasse con la sua presenza una intimità altrui.

Ella si indugiò a lungo in una stanza d’angolo affacciata sul parco, più giovanilmente [p. 225 modifica]fresca delle altre nel suo arredo bianco e oro; ed alla cameriera, che la seguiva aprendo e rinchiudendo con solerzia tutte le porte, ella disse con una improvvisa risolutezza illuminata di un tenero sorridere:

— Questa sarà la sua camera da letto.

Clelia sollevò nel viso squallido i suoi piccoli occhi ed attese una spiegazione.

— Elda dormirà in questa stanza. Domani andrò a prendermela in collegio e la terrò qui con me, per sempre.

— La signorina?

— Sì, Elda, mia figlia. Non ti pare che sia giunto il momento di liberarla? Non sospira altro, povera piccola. Un tempo ciò non era possibile, ma nelle condizioni presenti sarà permesso anche a me di avere una figlia.

La sua voce, quasi sempre aspra e sempre priva di fusione e d’armonia, stridette in un breve sogghigno di sfida, il quale divenne saturo d’amarezza quando Clelia le osservò:

— Ha ragione: la signorina ha vent’anni, dovrà presto prendere marito.

Anna Maria la fissò negli occhi.

— Clelia, tu credi che mia figlia possa trovare un uomo che la sposi?

— Certamente, signora.

— Un uomo buono, onesto, capace di renderla felice? [p. 226 modifica]

— Certamente, signora baronessa.

Clelia appoggiò la voce su queste parole come per significare ch’ella rispondeva con quella sicura affermazione non alla povera donna avventurosa del passato, ma alla dama nobile e ricca del presente. Tuttavia l’altra insistette:

— Elda non è la figlia del barone Almichi.

— Ma non è neppure la figlia di nessuno.

— Oh, per questo, no. Ha un padre debitamente registrato nello stato civile.

Seduta in una poltroncina bassa presso la finestra, Anna Maria lasciava errare lo sguardo distratto sulle chiome alte degli alberi investite dall’ultimo sole e pensava intanto a quel disgraziato professor Seregni che fra una lezione di matematica ed una di geografia, prendendosi la piccola Elda su le ginocchia e facendosi chiamare babbo, s’era deciso un giorno a riconoscerla per sua dinanzi alla legge e dinanzi alla società, finchè, morendo di tisi a trent’anni, le aveva lasciato la sua modestissima sostanza perchè si facesse un’educazione da ragazza dabbene.

Sua madre era convinta di aver assolto degnamente quel còmpito. Elda a vent’anni suonava il pianoforte, dipingeva, cinguettava in varie lingue, conosceva il mondo soltanto attraverso all’interpretazione dei poeti classici ed alle confidenze delle amiche di ritorno dalle vacanze.

Ella passava i mesi della villeggiatura in [p. 227 modifica]una fattoria sui colli di proprietà del collegio con le suore e con alcune compagne senza parenti, felice di scorrazzare per i campi e per le vigne, lontana dai libri e dal piano che l’annoiavano tanto. Aveva un carattere dolce, uguale, affettuoso, l’intelligenza aperta ma non pronta, la sensibilità delicatissima ma l’immaginazione scarsa. Non s’era mai fermata a meditare sulla singolarità della sua sorte per cui, avendo una mamma così giovane, ricca in apparenza e libera da ogni soggezione famigliare, non potesse viverle insieme e non la vedesse che raramente per un’ora o due nella penombra del parlatorio e sempre in giorni non destinati alle visite. Ma sebbene la conoscesse pochissimo, ella adorava sua madre e quantunque docile educanda, non sognava che di abbandonare il collegio per vivere accanto a lei.

Pochi giorni dopo la morte del barone Almichi, Anna Maria s’era recata a visitare Elda e per la prima volta le aveva parlato della propria vita raccontandole le sue vicende matrimoniali e vedovili con un linguaggio così patetico di elevati sentimenti e di bontà pietosa, che i begli occhi neri della collegiale si erano velati spesso di commosse lagrime. S’erano lasciate con maggior tenerezza del consueto e per la prima volta ella aveva promesso a sua figlia di farle abbandonare presto il collegio per prenderla seco. [p. 228 modifica]

Le due signore in strettissimo lutto scesero dall’automobile dinanzi ai cancelli dell’Abbazia, e mentre il domestico scaricava le valigie, esse percorsero a braccetto il viale d’ingresso sostando ad ogni passo per ammirare e per commentare. I commenti e le spiegazioni erano mormorati discretamente dalla madre, ma l’ammirazione veniva espressa con vivace gajezza in piccole grida d’esclamazione e di sorpresa dalla giovinetta la quale metteva finalmente piede in casa sua.

Tutto la meravigliava e la riempiva di gioia: la vegetazione intensa di una esuberanza secolare e i sedili ancora nuovi in terra di Signa disseminati qua e là nel folto dell’ombra. Le piaceva la piccola portiera semplice come una cella, incappucciata di caprifoglio e la rapiva d’entusiasmo la facciata della villa severa e fastosa con la doppia gradinata in marmo grigio e il massiccio lampadario in ferro battuto.

Ma quando si trovò nella sua camera si guardò intorno e vedendosi per la prima volta in tanti specchi che la riflettevano intera, da capo a piede, di fronte e di profilo, un turbamento nuovo, piacevole ed affannoso insieme l’afferrò al cuore, e le diede un palpito violento. Ebbe in quel punto la sensazione quasi paurosa della vita diversa che l’attendeva e la sua timidità [p. 229 modifica]ignara, la sua candida e dolce inesperienza ne furono così agitate ch’ella impallidì e chiuse gli occhi côlta da una breve vertigine. Ma subito dopo si rifugiò fra le braccia di sua madre e ancora un po’ tremante ma sorridente nel suo pallore roseo, le chiese perdono di quella sciocca emozione.

— Se tu sapessi, mamma cara, quanto sono contenta! Non so neppure come dimostrarti la mia riconoscenza per la bella casa che m’hai preparato, per il bene che mi vuoi, per tutto ciò che ti devo.

Ella si esprimeva con le frasi dei suoi componimenti di scuola, ma era sincera nel dichiararsi turbata e felice e dopo un momento di riflessione soggiunse:

— Nessuna delle mie compagne ha una mamma buona e bella come sei tu. Se tu vedessi come si vestono quelle povere signore, te ne divertiresti. La madre di Adele Ferrani che è la moglie di un farmacista, porta sul cappello un giro di pallottoline nere spioventi intorno all’ala che paiono la réclame alle pillole del marito. La madre di Rita Vazzi che è la moglie di un capitano a riposo....

— Ascolta Elda, — la interruppe Anna Maria con una carezza lenta sui neri capelli ondulati della fanciulla, — ora scendiamo a colazione e dopo ti condurrò a visitare minutamente tutta la casa. [p. 230 modifica]

— Sì, mamma.

— E non parlerai che di te, di ciò che tu desideri, di ciò che speri. Mi dirai tutto quello che pensi e quello che sogni, ogni giorno, non è vero?

Le aveva circondato col braccio la vita sottile e la conduceva seco parlandole con semplicità d’accento, ma v’era nel tono della sua voce una tale commossa e quasi accorata gravità che ella medesima se ne sorprese.

Era una improvvisa voce materna piena di note contenute e profonde che saliva dalla sua più inesplorata coscienza di donna.

Una delle sue particolarità meno seducenti, forse l’unica stonatura della sua bellezza, era stata sempre, ed ella lo sapeva, lo stridore aspro della sua voce. Parecchi dei suoi amici non vi badavano, alcuni la canzonavano, ma taluno d’orecchio più sensibile non aveva potuto sopportare, per altri meno delicati godimenti, la sofferenza acuta dell’udito.

Ora ella ascoltava se stessa parlare a sua figlia con una inflessione mutata, con una cadenza quasi armoniosa di tenerezza semplice, un po’ triste, un po’ trepida, sempre sommessa e grave, quasi per un trattenuto rimpianto, per un inconfessato timore, per una soggezione confusa che Elda le ispirava.

Ed ella incominciò da quel momento a [p. 231 modifica]sentirsi veramente madre, una madre appassionata sotto l’apparenza del comune affetto, vigilante e confidente, una onesta mamma borghese, limitata di aspirazioni, perfetta di sacrificio, la quale non cerca che di abolire sè stessa ritraendosi nell’ombra della figliuola, e non pensa che a procurarle un conveniente matrimonio.

Elda non le rassomigliava; era snella e bruna, con due splendidi occhi neri e una grazia fragile e carezzevole che chiedeva protezione, ma vestite entrambe di nero con la medesima sobria eleganza, parevano quasi due sorelle un po’ dissimili d’anni e di persona, per la freschezza ancor giovanile dell’una, per la serietà composta, dovuta all’educazione monastica dell’altra.

Il lutto severo dissimulava l’eccessiva vistosità della persona d’Anna Maria, ne velava il fulvo splendore dei capelli, ne fondeva, smorzandoli, quegli atteggiamenti e quei gesti di eccessiva disinvoltura ch’erano i residui, talvolta ancora apparenti, dei suoi trascorsi.

Passarono l’inverno in un mite tepore di simulata primavera ed in una deliziosa solitudine fraterna di affettuosa famigliarità, attaccandosi l’una all’altra in un abbandono pieno di confidenza pel cuore schietto di Elda ma irrequieto di oscure ansie per l’esperienza amara di Anna Maria.

Ella sapeva che il suo passato poteva [p. 232 modifica]nuocere all’avvenire di sua figlia e per le vie, in qualche pubblico ritrovo, in qualche sala ove si recavano insieme a prendere un thè o ad ascoltare un concerto, non l’abbandonava un attimo il timore che qualcuno tra la folla la riconoscesse, che qualcuno si presentasse a salutarla, invitandola a cena con la graziosa amica che l’accompagnava.

Ella stava di continuo all’erta, si celava quanto più le era possibile dietro l’ombra del velo, anche pronta a rinnegare sè stessa ed a mortificare con una altera smentita il malaccorto che avesse osato avvicinarla.

Ma quantunque il caso le fosse stato fin’ora benigno e l’aiutasse la sua attenta vigilanza, ella non cessava dal soffrire di una umiliata amarezza, talvolta sorda e latente, ma talvolta così viva ed acerba che la costringeva a respingere dalle proprie labbra la guancia fresca di sua figlia, quasi pel timore di contaminarla con un bacio.

Era stata sempre una donna appassionata, anche quando la ricchezza del sentire non poteva tornarle che superflua imprudente o nociva ed aveva sofferto di distacchi e di abbandoni, di tradimenti e di offese con una sensibilità acuta, quasi sempre in stridente contrasto con le errabonde esigenze della sua vita affettiva.

La passione materna, risvegliatasi tardi nella sua coscienza, l’afferrava ora con una affannosa [p. 233 modifica]violenza dove, alla dolcezza di vivere presso quella soave creatura nata da lei, s’univa, intorbidandola, la paura di recarle danno. Ella era certa che un giorno, forse lontano, forse vicino, sua figlia sarebbe venuta fatalmente a conoscere la verità e ciò non doveva accadere prima che Elda nel suo doloroso stupore, od anche in un rancore disgustato verso di lei, potesse rifugiarsi in un altro affetto più completo e più esclusivo dell’affetto figliale.

Occorreva che Elda si sposasse presto, non solo per queste sue ragioni sentimentali ma anche per altre più pratiche considerazioni. Era troppo facile ad un malevolo, ad uno sfaccendato, ad uno zelante moralista intessere, su dati e date ingegnosamente raccolti, il romanzo di una bella donna misteriosa; ed era troppo piacevole divulgarlo con un sussurrìo sorridente sul suo passaggio, perchè in quella cittadina di oziosi annoiati non si giungesse un giorno non lontano a scoprire le sue passate gesta.

Fin’ora, per buona sorte, ella non era che la vedova del barone Almichi, proprietaria di una sontuosa villa fra colle e mare, e madre di una ragazza da marito, giovane graziosa e provvista certo di una cospicua dote; ed ella si sentiva risoluta a favorire con tutte le sue forze e con tutte le sue scaltrezze il caso fortunato il quale la ponesse sulle tracce di un aspirante alla [p. 234 modifica]mano di Elda, prima che il più leggiero soffio della maldicenza ne offuscasse col più vago sospetto della verità il nome ancora incontaminato.

Elda doveva trovare nella limpida regolarità della sua esistenza quella serenità di gioia che a lei era mancata forse per sua colpa o forse per colpa altrui, doveva portare ad un uomo degno l’intatta freschezza della sua anima chiara, trasmettere ai suoi figli il dono divino della vita con l’orgogliosa felicità della creatrice forte e cosciente.

Nessuna ombra di male, nessuna frode, nessuna vergogna, nessun disdegno doveva oscurare la fronte della creatura nata da lei e accolta senza compiacimento. La triste fatalità del suo passato avrebbe almeno servito ad innalzare sua figlia, quell’altra sè stessa, verso un più luminoso futuro, al modo stesso con cui la pura statua marmorea si solleva a volo verso la luce poggiando il piede sul grigio e scabro granito il quale chiude un sepolcro. Le pareva che l’antica donna avida di lusso e di piacere, l’avventuriera ambigua giunta alla fortuna attraverso il capriccio di un vecchio, giacessero ormai sepolte per sempre e per tutti in quella tomba chiusa.

Una mattina di marzo Elda Seregni s’aggirava nel parco dell’Abbazia cercando sotto le [p. 235 modifica]siepi le violette nuove, quando udì un leggero scampanellio argentino e sollevando lo sguardo scorse a pochi passi un cagnolino bianco, il quale la osservava curiosamente con due vivaci occhi neri circondati di due macchie oscure in forma d’occhiali, piantato in mezzo al viale sulle quattro zampette, immobile bianco e liscio come un gesso di Lucca.

Elda lo chiamò con un gesto d’invito sorridente, ma la bestiola fuggì, descrisse un rapido arco di corsa, poi tornò a lei ed incominciò a balzarle intorno con un latrato festoso ed interrogativo.

— Di dove sei entrato carino? Come ti chiami? A chi appartieni? — lo interrogava a sua volta Elda tentando d’accarezzarlo; e quasi senza avvedersene seguiva i balzi del piccolo fox-terrier che la conduceva verso l’ingresso.

Colà giunto il cagnolino si fermò e si pose ad abbaiare con furiosa gioia verso un giovine signore alto e biondo, vestito con seria eleganza, il quale lo chiamava ripetutamente.

— Qua Happy! Happy qua!

Egli si levò con molto rispetto il cappello al sopraggiungere della giovinetta e chiedendole scusa spiegò l’incursione del piccolo indiscreto nel giardino della sua villa.

— Perdoni, signorina, Happy conosce il parco per avervi scorazzato alcuni anni in libertà e [p. 236 modifica]se ne crede ancora il legittimo padrone. Ha trovato per un attimo semi aperto il cancello ed è entrato. — Elda arrossì, scosse il capo perplessa senza comprendere, e nel suo timido e pur lieto impaccio appariva così gentile, così graziosa nella sua veste di lana bianca orlata di cigno al collo ed ai polsi, che il giovane osò insistere:

— Mi permetta di presentarmi, signorina. Mi chiamo Jacopo Reaziani e vengo quasi ogni giorno a passeggiare dinanzi a questa villa che anch’io come Happy ho abitato parecchi anni.

— Il signor Reaziani? L’antico padrone dell’Abbazia? — potè dire finalmente Elda e gli sorrise attraverso le sbarre della cancellata chiusa, fra le quali il piccolo fox insinuava ora con qualche fatica il suo agile corpo predace per raggiungere il suo padrone.

Questi lo rimproverò scherzosamente per le sue ineducate scorribande, quindi s’accomiatò, con un ossequioso saluto, dalla giovinetta e s’allontanò verso il mare sotto il grigiore argenteo degli ulivi, mentre Elda lo seguiva con lo sguardo intento, gualcendo fra le dita gli steli delle sue violette novelle.

Pochi giorni dopo Jacopo Reaziani ricevette un biglietto dalla baronessa Almichi, la quale lo invitava a prendere una tazza di tè alla sua antica villa e poneva a disposizione del suo piccolo amico il parco dell’Abbazia. [p. 237 modifica]

Egli vi andò il domani alle cinque, attraversò con qualche emozione il grande giardino pieno di ricordi, sostò alquanto appresso alla grande gradinata di marmo grigio dalla quale due anni innanzi la spoglia materna era discesa, portata a braccia verso il carro mortuario.

La baronessa lo attendeva nel salotto a terreno che era stata la stanza preferita di sua madre e dove quasi nulla era mutato. Così alta, pallida, vestita di nero, col fulgore dei cappelli attenuato da una acconciatura bassa e semplice, con le mani bianche prive di anelli, adorne soltanto della fede nuziale, la voce grave, i modi cortesi e dignitosi ella gli impose subito un’ammirazione piena di riverenza.

Ma a grado a grado gli si dimostrò affabilissima e tutta indulgente di tenerezza materna nel rammentare il piccolo ma insolito avvenimento di pochi giorni innanzi, che sua figlia, ancora sconvolta dalla sorpresa, era subito corsa a narrarle.

Elda apparve in quel punto e gli porse le dita, con le gote rosee e gli occhi brillanti nell’ombra dei suoi bei capelli neri.

— Come le sarò sembrata stupida e poco cortese l’altro giorno, — si scusò ridendo con franchezza. — Avrei dovuto invitarla subito con Happy ad entrare nel giardino ed a venirvi a passeggiare quando le piace. [p. 238 modifica]

— Dopo tutto è un diritto che noi le abbiamo usurpato, — aggiunse la baronessa.

— Quando l’usurpatore possiede la loro cortesia e la loro grazia la vittima non può che rallegrarsi della propria sorte, — ammise inchinandosi con una sorridente galanteria Jacopo Reaziani. E presero il tè in faccia alla terrazza che scendeva nel parco, dove l’ombra violacea del tramonto s’addensava fra i tronchi degli alberi vetusti; e quando il giovine si congedò chiedendo il permesso di ritornare, la madre e la figliuola lo accompagnarono fino ai cancelli lasciando in lui un senso confortevole di famigliarità ancora riservata, ma tanto benevolente, che gli parve di sentirsene l’anima intiepidita come per la carezza di una morbida mano cordiale.

Aveva temuto giungendo di trovarsi a disagio in quella casa che era stata sua, ormai occupata e signoreggiata da persone ignote, forse non abbastanza delicate per impedirgli di sentire l’impaccio sottilmente umiliante dello spodestato. Invece gli era parso di trovarsi fra due amiche di età e figura diversa, ma quasi egualmente piacevoli ed attraenti, l’una che più lo inclinava alla confidenza; l’altra che più lo attirava verso la tenerezza, e quelle stanze dove si era svolta una parte della sua vita dolcemente cara al suo sentimento, non gli erano sembrate invase e profanate da gente straniera. [p. 239 modifica]

Tutto vi era rimasto come prima, perchè la baronessa aveva rispettato il buon gusto un po’ severo della disposizione e dell’arredo il quale s’addiceva bene allo stile grave dell’edificio ed al tenore di vita che ella intendeva seguire nell’andamento della nuova casa.

Ella, esperimentata conoscitrice di uomini, s’avvide subito dell’ottima impressione prodotta nel giovane e se ne allietò nelle proprie materne speranze. Jacopo Reaziani apparteneva ad un’ottima famiglia, ora alquanto decaduta pel disordinato sperperare del fratello primogenito, Attilio, figlio d’un’altra madre, che viveva a Roma e vi conduceva vita di nottambulo e di giuocatore. Appunto a causa delle sue dissipazioni la villa dell’Abbazia era stata venduta quasi contro la volontà di Jacopo, il quale aveva dovuto come sempre, piegarsi al prepotente insistere del fratello e concedere a malincuore il suo consenso.

Jacopo era un timido, intelligente e orgoglioso. Nato da un padre piuttosto attempato e da una madre molto giovane, risentiva nel carattere le debolezze esitanti di uno spirito immaturo insieme alla coscienza troppo vigile e pessimista, propria della vecchiaia. Perciò, dopo aver ceduto all’ostinato volere di Attilio, nello spogliarsi di un possesso che gli era caro, se n’era sentito così offeso e così sordamente incollerito che aveva abbandonato la sua città [p. 240 modifica]vivendo per parecchi mesi all’estero. Tornato da poco, sdegnoso e noncurante di rifarsi una casa abitava solo col suo piccolo cane all’albergo, e vi coltivava a sbalzi una sua intermittente inclinazione musicale e un suo continuato tedio commisto di malinconia e di serenità.

Ora tra questo tedio si animava qualche cosa di blandamente dolce e pure inquietante come un pensiero fisso e l’immagine della fanciulla bruna che viveva nella sua casa e coglieva violette nel giardino memore della sua adolescenza, gli insisteva nella fantasia con una deliziosa varietà d’atteggiamenti e d’espressioni.

Quando vi ritornò, dopo una settimana di fervido fantasticare, la trovò momentaneamente sola e la stretta ch’essi si diedero con entrambe le mani fu così viva d’appassionato slancio che tutti e due si ritrassero subito con una leggera confusione, come per una confessione involontaria ma irrefrenabile.

Dopo quell’attimo di istintiva sincerità non si manifestarono a parole il loro sentimento, ma esso appariva con tale palese adorazione negli occhi sagaci di Jacopo, con tale ingenua franchezza nel sorriso trepido di Elda, che la madre esperta non tardò a cogliere nei loro cuori ancora taciturni lo scatto della divina favilla e fu sottilmente abile nel secondarne il dolce divampare. [p. 241 modifica]

— Che ha fatto delle sue giornate durante questa lunga settimana? — chiese al giovane con una sollecitudine da materna amica.

— Non ho atteso che il momento di ritornare, — egli rispose, dissimulando con la leggerezza dell’accento il fervore delle parole.

— Ma perchè attendere otto giorni? Non le fu possibile tornare prima? — domandò a sua volta Elda, porgendogli con le piccole mani un po’ malferme la tazzina fumante.

— Avrei voluto, ma non ho osato, — egli confessò a mezza voce, ed avvolse la fanciulla in un lungo sguardo implorante.

— Ritorni ogni giorno, la prego, — intervenne la baronessa con un gesto di cordialità signorilmente ospitale. — Questa casa è ancora e sempre la sua casa. Se ne ricordi.

Da allora Giacomo ritornò quasi ogni pomeriggio all’Abbazia e divenne a poco a poco l’amico devoto e fiducioso della madre, il corteggiatore discreto e fervido della figliuola. Spesso egli si faceva precedere da un magnifico fascio di fiori rari, i quali crescevano senza sforzo in quella terra arrisa da una perenne primavera; qualche volta sedeva al pianoforte con Elda e mentre ella suonava per compiacerlo, inquieta e distratta, egli s’abbandonava all’onda della musica con l’intenso rapimento di un innamorato che vi esali l’eccesso della sua anima [p. 242 modifica]traboccante. E venne il giorno in cui Jacopo Reaziani chiese alla baronessa Almichi la mano di sua figlia Elda. Era la settimana pasquale ed al giovane, alquanto mistico di tendenze e religioso di educazione, parve di buon augurio il fidanzarsi in quel tempo di resurrezione, simile al risorgere della sua vita da un lungo letargo di tristezza e di solitudine per balzare incontro ad una nuova ed intima gioia.

Lo disse ad Elda con una voce rôca di commozione, baciandola sulla fronte sotto l’ombra dei capelli neri e sentì il cuore dolere, quasi afferrato da una mano morbida e tenace quando ella gli si abbandonò pallida incontro al petto e chiuse gli occhi colta da una breve vertigine. Ma subito ella si sollevò con un sorriso luminoso nel volto, chiedendogli perdono di quel momento di debolezza come aveva fatto con la madre il giorno del suo arrivo.

Ora la madre la guardava in silenzio, con un ansare frequente del petto, ritta presso la finestra e un poco in disparte, come se temesse di turbare con la sua vicinanza la purezza ardente di quell’abbraccio. E quando a tarda sera ella disciolse, come ogni giorno, le trecce della figliuola, non fu sorpresa di udirla confessare:

— Se Jacopo non avesse voluto sposarmi sarei ritornata nel mio collegio e vi avrei preso il velo. [p. 243 modifica]

— Gli vuoi dunque tanto bene? Più che a me? — ella domandò passandole adagio nei capelli il largo pettine di tartaruga.

— Non saprei dire. Certo in un modo diverso — sussurrò Elda esitante, e scosse più volte la nera mantiglia ondosa che la copriva sino ai fianchi. Poi si chinò a baciare sua madre e la lasciò sola.

— Sono alquanto preoccupato, — confidò Jacopo alla baronessa in una momentanea assenza di Elda. Mio fratello venuto non so come, a conoscenza del mio fidanzamento, mi scrive una lettera adiratissima in cui m’accusa di infinite colpe immaginarie, compresa quella reale, di aver troncato da oltre un anno ogni nostra corrispondenza. Vorrei scrivergli chiedendogli scusa del lungo silenzio ed invitandolo al mio matrimonio. Non ho altri parenti e sono così felice che ho quasi dimenticato i motivi di contrasto ed i risentimenti. Che ne dice, mia buona amica?

— Ha ragione. Ogni rancore deve tacere. È suo fratello, porta il suo nome, è necessario, è anzi doveroso invitarlo alle nozze.

— Grazie. Gli scriverò questa sera stessa.

Tacquero poichè Elda sopraggiungeva [p. 244 modifica]correndo dal giardino, seguita da Happy che ne era divenuto l’inseparabile compagno. Ma ripresero il medesimo discorso pochi giorni dopo.

— Attilio ha risposto al mio invito, non solo accettando, ma annunciandomi che giungerà fra una settimana o due per iniziare, sebbene un po’ presto, la stagione dei bagni di mare. Soggiunge con la sua solita sgarbatezza che a Roma si incomincia a parlar di partenza e che invece di andare a finire a Rimini o Viareggio verrà ad annoiarsi qui. Conclude facendo dello spirito ironico e dicendosi molto curioso di conoscere quelle persone molto straordinarie destinate a diventare la sua futura cognata e la mia futura suocera.

Anna Maria si morse le labbra per trattenere una parola sdegnosa, ma non trattenne un sogghigno amarognolo.

— Suo fratello non pare troppo entusiasta di questo matrimonio.

— Ciò mi è indifferente, — dichiarò Jacopo con freddezza. — Del resto non vi badi, baronessa. È lo stile di Attilio. In fondo non è cattivo, ma si rende qualche volta intollerabile con la sua arroganza. Per fortuna non abbiamo nulla di comune, nè dentro, nè fuori.

— Con chi? — intervenne gaiamente Elda che tornava in quel momento dalla lunga e faticosa prova di un abito da sera. [p. 245 modifica]

— Con Attilio, il mio fratellastro.

— Non vi rassomigliate?

— Affatto. Siamo diversissimi di viso, di persona e di carattere. Domani vi porterò alcune sue fotografie perchè possiate confrontarmi, per ora solo in effigie, con lui, e riconoscere ch’io sono infinitamente più simpatico, più piacevole e soprattutto più buon ragazzo, — promise Jacopo ridendo e si chinò a baciare con devota famigliarità le dita della baronessa nella quale persisteva, non ancora dissipata, l’ombra di una oscura molestia.

E fu con la più tranquilla semplicità di gesto con la più leggiera amenità di parole che il domani, finito appena di sorbire il caffè nella veranda aperta in faccia al parco denso di verde frescura, che Jacopo Reaziani si fece portare dal domestico una grande busta col nome impresso in oro di un celebre fotografo della capitale e traendone alcuni grandi ritratti, disse con scherzosa solennità:

— Ho l’onore di presentarvi, per ora solamente in carta, il signor Attilio Reaziani, di professione viveur, mio fratello.

Passò il largo cartoncino oscuro al di sopra della tavola e lo porse alla baronessa. Ella dava le spalle alla luce e poichè il suo volto sotto le tende a mezzo abbassate s’avvolgeva di penombra, nè Jacopo, nè Elda s’avvidero del guizzo [p. 246 modifica]improvviso che scosse le sue spalle, del pallore repentino che coperse le sue gote.

Ella torse alcune volte la sua bocca in una contrazione nervosa, sbattè alcune volte le palpebre, poi sentì che occorreva dissimulare quell’assurda emozione e che per dissimulare occorreva sorridere.

Sorrise, fissò sul volto un simulacro di sorriso, il quale durò finchè Elda e Jacopo, dopo aver osservato e commentato gli altri ritratti, le si volsero e la interrogarono.

— Che ne dici, mamma? Io trovo che ha l’aria d’un uomo di quarant’anni.

— È vero, baronessa, che non mi somiglia?

— No, non le somiglia, — ella ripetè, e soggiunse dopo una pausa, senza sorridere: — Questa è la faccia d’un uomo cattivo. Mi fa quasi paura.

I due giovani risero come d’uno scherzo e con alcune altre osservazioni che ella non intese abbandonarono le fotografie sul tavolo fra le tazzine vuote, i fiori morenti, le sigarette spente e si posero a rincorrersi come due ragazzi con risa e grida di gioia fra le ombre del parco, accompagnati dall’allegro abbaiare e dall’argentino scampanellìo del piccolo fox.

Allora Anna Maria tornò a curvarsi su quel ritratto e lo fissò a lungo, intensamente, con volto duro, con sguardo carico d’odio. [p. 247 modifica]

D’un tratto, come per un baleno improvviso nell’oscurità opaca della memoria, quel viso, quel nome, quell’uomo erano risorti dal suo turbinoso passato e la guardavano con un sogghigno beffardo, le dicevano con una smorfia malvagia, con una voce d’ilare e freddo sarcasmo:

«Eccoci dunque di nuovo qui, l’una di faccia all’altro. Tu m’hai lasciato vituperandomi e ti ritrovo dopo un discreto numero d’anni mutata in tutto, anche nel nome. Io sono sempre Attilio, il fannullone, ma tu sei diventata la baronessa Anna Maria Almichi, onesta gentildonna in apparenza ed hai anche una figliuola da marito che si è fidanzata a mio fratello. Mi rallegro, Mara, mi rallegro. Però esistono alcune difficoltà, poichè mio fratello non deve sposare la figlia di una, diciamo così, di una volgare benchè astuta avventuriera. Mio fratello appartiene come me ad una onorata famiglia e non può imparentarsi con gente della tua specie. Hai inteso?».

Queste parole pronunciate con un ilare e freddo sarcasmo parevano esalarsi da quel cartoncino oscuro da cui una faccia d’uomo, una magra faccia affilata, asimmetrica nella contrazione dell’orbita che sosteneva il monocolo, la guardava con una sprezzante fissità di nemico. Un freddo nemico era stato per lei nel brevissimo svolgersi della loro relazione quel giocatore arrogante e borioso che l’aveva strappata una sera [p. 248 modifica]di disdetta ad un avversario fortunato per rimandargliela pochi giorni dopo come una preda già venuta a noia.

Il suo nome, forse appena noto, non le era rimasto nella memoria, ma era rimasto nella sua vigile sensibilità il cinismo malvagio col quale egli l’aveva trattata, il disprezzo insultante col quale egli s’era liberato di lei come di un ignobile ingombro.

Fra le molte umiliazioni a cui una specie di fierezza, sopravvissuta non ostante tutto ad ogni naufragio, l’aveva troppe volte esposta durante la sua burrascosa carriera, l’offesa inflittale da quell’uomo era rimasta in lei come una piccola ferita cicatrizzata, dimenticata, ma ancora indelebile.

Rammentava d’essere allora fuggita a cercar rifugio nella casa del suo vecchio amico, dove l’amabile galanteria, l’affettuoso rispetto di cui egli la circondava l’avevano in parte guarita e smemorata del suo disgustato avvilimento.

Anna Maria allontanò da sè con un gesto di disprezzo quell’immagine che le faceva paura, ma subito riflettè che fra pochi giorni non solo l’immagine ma la persona stessa, viva, parlante, sogghignante, le sarebbe apparsa, l’avrebbe guardata, l’avrebbe riconosciuta; e quel pensiero sembrò fermarle nel petto la violenza angosciosa dei suoi battiti. [p. 249 modifica]

In quel momento Elda e Jacopo riapparvero in fondo al lungo viale del parco. Giungevano tenendo l’uno il braccio intorno alla vita dell’altra, entrambi vestiti di bianco da capo a piedi e così agili, alti e snelli, camminavano con tale festosa leggerezza sotto le mobili macchie d’oro che il sole, filtrando tra le fronde, accendeva sul suolo, sui loro abiti, sui loro capelli scoperti, che parevano raccogliere in sè l’essenza stessa della giovinezza felice, la gioia irrompente della nuova estate; e quella donna già troppo maturata dalla vita, già logorata dalle passioni e dagli errori, dal male fatto e dal male ricevuto, si sentì all’improvviso dinanzi ad essi così stanca e così inutile, impregnata di vecchiezza, di miseria e di menzogna, che l’esistere tuttavia, il trascinare tuttavia i suoi giorni tardivi d’inganno fra quelle due creature di chiarezza e di freschezza, le sembrò una assurda presunzione, una grottesca caparbietà.

— Bisogna che io me ne vada, — ella disse d’un tratto a sè medesima, mentre con un sorriso un po’ stirato all’angolo della bocca tendeva le mani ai fidanzati che salivano verso la veranda.

— Come sei pallida mamma, — le osservò Elda, infilandole alla cintura il lungo ramicello d’edera ch’ella teneva dianzi fra i denti.

— Mi duole tanto il capo, — spiegò Anna Maria stringendosi le palme alle tempia, — che [p. 250 modifica]mi vedo costretta a ritirarmi nella mia stanza ed a lasciarvi pranzare soli.

— Bisogna che io me ne vada, — ella si ripetè durante tutta la notte; e durante i giorni che seguirono l’idea dominante più non l’abbandonò, anzi andò divenendo ora per ora più insistente e più smaniosa.

Col trascorrere implacabile del tempo s’avvicinava l’arrivo di quell’uomo temuto, s’avvicinava il momento di guardarlo, d’essere guardata e riconosciuta, ed a questo pensiero i suoi denti scricchiavano nello sforzo di trattenere un gemito.

Sapeva, sentiva ch’egli non le avrebbe fatto cenno del passato, ma sapeva, sentiva che un lungo riso irrefrenabile, una risata di sorpresa e di scherno, di beffardo compatimento e di gaudio perfido l’avrebbe colpita in pieno, l’avrebbe investita come un getto di vapore asfissiante e corrodente.

Sapeva che subito dopo egli si sarebbe trascinato seco il suo povero fratello ignaro, la cieca vittima di quel comico inganno, l’ingenua preda caduta in un equivoca rete di astuzie e con motteggi aspri ma con franca brutalità lo avrebbe ampiamente istruito sul passato della baronessa Almichi, della donna destinata a divenire sua suocera.

Ed ecco che la sua unica ragione di vita per sè è per sua figlia, il bene supremo a cui [p. 251 modifica]tendevano entrambe con tutte le loro forze, dissimili ma egualmente intense, si spezzava, cadeva ai loro piedi in una pozzanghera fangosa e fetida.

Si disperdeva fra una risata d’odio e un singhiozzo di rabbioso rimpianto l’attesa trepida delle nozze, l’imminente dolcezza del rito che consacra l’intimità e rende l’amore indissolubile e puro. Per la figlia di un’avventuriera non rimaneva che il freddo rifugio del chiostro, o la viziosa errabonda irrequietudine della vita materna.

— Bisogna ch’io me ne vada, — impose un’ultima volta a sè stessa Anna Maria quando Jacopo le pose sott’occhio il telegramma col quale Attilio annunciava il suo arrivo per la sera del domani.

Ella lo lesse due volte con palpito sordo in fondo al petto e la bocca improvvisamente arida e dopo un momento propose con calma serena una passeggiata in barca.

Adagiata sui cuscini all’ombra della vela avendo accanto sua figlia e di fronte Jacopo che remava gagliardamente, ella si lasciò cullare in un sogno blando, in una dolcezza molle e confortatrice, ignota oramai da tanti giorni, col pensiero vago e leggero di chi si sente già staccato da quanto prima lo avvinceva e lo turbava, di chi a poco a poco già scende verso un oblìo riposante. [p. 252 modifica]

Mentre sfioravano una piccola insenatura scogliosa che comunicava per un breve passaggio sotterraneo col parco dell’Abbazia ella disse con indifferenza:

— Verrò qui uno dei prossimi giorni ad incominciare la mia cura di bagni di mare. La stagione è già propizia.

— Aspetti l’arrivo di mio fratello prima di mettersi a fare l’ondina. Vi terrete compagnia, — le consigliò Jacopo celiando; ed abbandonò i remi per accendere una sigaretta.

Ma la baronessa scosse il capo con un sorriso un po’ acre:

— Preferisco fare l’ondina in solitudine. È più consigliabile alla mia età.

— Badi che questa scogliera è pericolosa, — l’avvertì il giovane tra una boccata e l’altra di fumo. — L’acqua è così fonda che chi v’annega non ne esce più nè vivo nè morto.

— Un posto ideale per i candidati al suicidio, — osservò Anna Maria distrattamente, ma la piccola Elda rabbrividì, poi rise e abbracciando Jacopo gli annunziò con una scherzevole tragicità:

— Se tu mi tradirai verrò a buttarmi da questi scogli.

Approdarono al tramonto tra un cielo pieno di fiamme ed un mare sfolgorante di riflessi d’oro; e la baronessa s’appoggiò al braccio di [p. 253 modifica]sua figlia per risalire il lungo viale della villa, tanto si sentiva stanca. Durante la serata ella s’irrigidì più volte contro una specie di torpore letargico che la invadeva e le oscurava quasi la coscienza, ma a notte fatta si ritirò nelle sue camere e riscuotendosi da ogni debolezza ripassò con cura la sua corrispondenza, distrusse parecchie carte, lacerò tutti i suoi ritratti quindi si pose a scrivere per sua figlia un piccolo testamento in forma di lettera con la data anteriore di alcune settimane nel quale ella si dichiarava esultante di materna gioia per le sue prossime nozze con Jacopo Reaziani e piena di fiducia pel felice esito di quell’unione, legava ad essi l’intera sua sostanza e li abbracciava benedicendoli entrambi.

All’alba si pose a letto e protrasse il suo pesante sonno fino ad alta mattina, poi s’alzò aiutata dalla sua fedele cameriera Clelia e quando scese a colazione si scusò del ritardo coi fidanzati, i quali l’aspettavano con giovanile impazienza.

— Sei un po’ abbattuta, — le osservò Elda carezzandole una spalla con tenerezza ansiosa.

— Ero alquanto agitata e ho dormito poco e male, — ella rispose rendendole la carezza. — Ma oggi farò un bagno di mare e ciò calmerà immediatamente i miei nervi.

— Non s’era decisa per oggi una gita in [p. 254 modifica]automobile prima d’andare incontro ad Attilio che giunge questa sera? — domandò Jacopo alquanto contrariato.

— Andateci voi, miei cari. Io rimango e v’aspetto.

Allorchè il velo bianco di Elda e il berretto a scacchi di Jacopo accompagnati dal sibilo della sirena sparvero oltre i cancelli dell’Abbazia, la baronessa Almichi si diresse a lento passo verso la scogliera. Trascinava sulle ghiaie azzurre del sentiero la sua lunga veste nera e riparava dal sole con un ombrellino bianco la sua faccia d’un pallore di vecchia cera, la sua testa scoperta e avvampante di lucide chiome fulve.

La stradina era deserta e sulla spiaggia scogliosa, presso la piccola capanna di legno, l’attendeva Clelia per spogliarla e indossarle il costume. Ma ella non volle lasciarsi toccare.

— Vattene pure. Farò da me, — e la congedò con un gesto. Ma quando già l’altra s’allontanava la richiamò, sedette su uno scoglio basso, coi piedi quasi lambiti dall’acqua e disse dopo una pausa con la voce un po’ rôca:

— Dirai che mi sentivo male e che... — si interruppe, scosse il capo, contrasse il volto in uno spasimo e dopo una pausa esitante soggiunse:

— Non dirai nulla, invece. Nulla, ricordati, Dammi la tua mano, Clelia. [p. 255 modifica]

Strinse con una forza convulsa l’umile mano di quella donna, di quella devota compagna della sua esistenza randagia, l’unica mano ch’ella potesse ancora stringere in un addio alla vita, in un estremo commiato dal mondo, poi le mormorò con un sogghigno amarissimo:

— Adesso vai pure. E non scordarti di dare gli ordini necessari. Vi sarà un ospite questa sera alla villa. — L’altra si avviò perplessa, volgendosi indietro alcune volte, finchè sparve ad uno svolto del sentiero.

La scogliera si profilava sempre più cupa sul mare ancora pallidamente luminoso che vaporava di viola nella imminente sera.

— È l’ombra che scende, formulò a fior di labbra la donna, immobile sullo scoglio basso come un nero viluppo dimenticato. — L’ombra che scende su di me, sul mio passato e sul mio presente, sul male che ho commesso e su quello che ho ricevuto, sul male che avrei ancora potuto fare e su quello che avrei ancora dovuto soffrire.

Ripiegata su sè stessa, col volto curvo sulle ginocchia, ella pianse a lungo con un femminile abbandono, pianse con una passione raccolta, con una pietà trafiggente su sè medesima e sulla propria fine. Quindi s’alzò a fatica ed appoggiandosi all’ombrellino bianco salì grado grado sul più alto scoglio e si lascò scivolare ad occhi chiusi nel gorgo.