L'Universo Misterioso/Capitolo III

Capitolo III - Materia e radazione

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James Jeans - L'Universo Misterioso (1932)
Traduzione dall'inglese di Giovanni Gentile
Capitolo III - Materia e radazione
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Capitolo III

MATERIA E RADIAZIONE


N
ei primordi della scienza, l’accettazione senza discussione della legge di causalità come un principio governante l’Universo condusse alla scoperta e alla formulazione di leggi del tipo generale: «una causa determinata A conduce a un certo effetto B». Per esempio l’aggiunta di calore al ghiaccio ne produce la fusione, o, detto con più precisione, il calore diminuisce la quantità di ghiaccio nell’universo e fa aumentare la quantità di acqua.

L’uomo primitivo dovette convincersi di questa legge, molto facilmente: ebbe solo da guardare l’azione del Sole sulla brina, o l’effetto d’una lunga estate sui ghiacciai montani. Nell’inverno invece doveva notare che il freddo cambiava di nuovo l’acqua in ghiaccio. In uno stadio posteriore si potè scoprire che il ghiaccio, che si era congelato nuovamente, era eguale in quantità al ghiaccio originale, prima della fusione. E quindi sarà stata una deduzione naturale che qualche cosa — riferentesi a una categoria più generale che non sia l’acqua o il ghiaccio — era [p. 72 modifica] rimasta inalterata, in quantità, durante la trasformazione

ghiaccio → acqua → ghiaccio

La fisica moderna è familiare con leggi di questo tipo, dette «leggi di conservazione».

La scoperta che noi abbiamo attribuito all’uomo primitivo è un caso speciale della legge della conservazione della materia. La legge di «conservazione di X», qualunque cosa X possa essere, significa che la quantità totale di X nell’universo rimane in eterno la stessa: niente può mutare X in altro, diverso da X. Ogni tale legge è, di necessità, ipotetica; quello che attualmente si può dire, è che nessun mezzo noi abbiamo, che possa cambiare la quantità totale di X.

E se noi abbiamo tentato abbastanza prove, e ogni volta fallito, è legittimo proporre una legge di conservazione di X, come ipotesi di lavoro.

Alla fine dell’ultimo secolo, la scienza fisica riconosceva le tre maggiori leggi di conservazione:


A conservazione della materia
B conservazione della massa
C conservazione dell'energia


Altre leggi minori, come quella della conservazione del momento lineare e angolare, non devono entrare in discussione, perchè sono semplici deduzioni dalle tre maggiori leggi, già menzionate. Delle tre [p. 73 modifica] maggiori leggi, la conservazione della materia è la più venerabile. Essa era implicita nella filosofia atomistica di Democrito e Lucrezio, che suppone che tutta la materia sia increabile, inalterabile e indistruttibile. Essa asserisce che il contenuto di materia d’un frammento dell’universo o d’una regione dello spazio rimane la stessa, eccetto le alterazioni che possono avvenire per l’entrata o l’uscita di atomi. L’universo è un palcoscenico, su cui sempre gli stessi attori — gli atomi — rappresentano le loro parti, differenti per travestimenti e aggruppamenti, ma senza cambiare d’identità. E questi attori posseggono il dono dell’immortalità.

La seconda legge, quella della conservazione della massa, è di scoperta più moderna. Newton ha supposto che ogni corpo o pezzo di sostanza abbia associata una quantità invariabile, la sua massa, che darebbe una misura della sua «inerzia» o riluttanza a cambiare la propria velocità. Se un autocarro richiede il doppio di forza motrice di un altro per raggiungere la stessa velocità, noi diciamo che ha una massa doppia dell’ultimo.

La legge di gravitazione asserisce che le forze gravitazionali di due corpi sono in proporzione esatta con le loro masse, così che se l’attrazione della terra su due si dimostra eguale, le loro masse devono essere eguali; quindi ne segue che la maniera più semplice di misurare la massa d’un corpo è di pesarlo. [p. 74 modifica]

Con l’andar del tempo, la chimica ha mostrato che gli «atomi di Lucrezio» non hanno nessun diritto al loro nome (ἀ-τέμνειν, non suscettibile di esser tagliato). S’è provato che sono tutt’altro che «indivisibili» e quindi furon chiamati, d’allora in poi, «molecole» riservando il nome atomo alle unità più piccole, in cui una molecola può essere spezzata. Vi sono maniere diverse di spezzare le molecole, e di riaggruppare i loro atomi. Può bastare la semplice contiguità con altre molecole, come per esempio, quando il ferro irrugginisce, o un acido è versato sul metallo.

Le molecole si possono spezzare sia riscaldandole, sia facendole esplodere, o facendovi cader su la luce. Per esempio, se una bottiglia di perossido d’idrogeno rimane sotto l’azione della luce, il semplice passaggio della luce attraverso il liquido spezza ogni molecola di perossido d’idrogeno (H2O2) in una molecola d’acqua (H2O) e in un atomo di idrogeno (H). Se noi sturiamo la bottiglia, noi dovremo sentire un gorgoglío causato dallo sfuggire del gas ossigeno, e troveremo che il perossido si è trasformato in acqua.

Molecole di bromuro d’argento sono formate con l’azione della luce, e questo cambiamento è la base della fotografia.

Prima della fine del secolo decimottavo Lavoisier credette d’aver dimostrato che il peso totale della materia rimaneva inalterato attraverso tutti i cambiamenti chimici che egli poteva provocare. Più tardi [p. 75 modifica] la legge della «conservazione della massa» è diventata parte integrante della scienza. Noi sappiamo adesso che quel che scappa dalla bottiglia di perossido, aggiunto al peso del liquido che rimane, è leggermente più grande del peso del perossido originale, e che la lastra fotografica aumenta di peso, rimanendo esposta alla luce. Tra poco vedremo che la legge è inesatta perchè trascura il peso della luce assorbita dalle molecole di perossido d’idrogeno o dal bromuro d’argento.

Il terzo principio, quello della conservazione dell’energia, è il più recente. L’energia può esistere in una grande varietà di forme, delle quali la più semplice è la pura energia di movimento — il movimento d’un treno sulle rotaie in un tratto rettilineo e a livello, o d’una palla di bigliardo sopra un tavolo. Newton ha dimostrato che questa energia puramente meccanica rimane «conservata». Per esempio, se due palle di bigliardo si urtano, l’energia di ciascuna cambia, ma l’energia totale rimane invariata; l’una dà energia all’altra, ma niente va perduto o guadagnato in questo passaggio. Questo, comunque, è solamente vero nel caso d’urto «perfettamente elastico», condizione ideale in cui le palle tornano indietro con la medesima velocità, con cui si erano avvicinate. Nelle condizioni normali, come è nella natura, dell’energia meccanica qualcosa rimane sempre perduta: un proiettile perde della sua velocità [p. 76 modifica] attraverso l’aria, e un treno si arresta se la macchina non funziona più. In tali casi si produce del calore e del suono. Ora una lunga serie di ricerche ha mostrato che il calore e il suono sono anch’essi forme d’energia. In una classica serie d’esperienze fatte nel 1840-50, Joule ha misurato l’energia del calore, e tentato di misurare l’energia del suono con un rudimentale apparecchio, consistente in una corda di violoncello. Per quanto imperfetti, i suoi esperimenti portarono al risultato che fu scoperta la «legge della conservazione della energia» come un principio che governava tutte le trasformazioni conosciute d’energia, attraverso le varie forme: energia elettrica, meccanica, calore, suono. Essi dimostrano, in breve, che l’energia è trasformata piuttosto che perduta, essendo una perdita apparente di energia compensata da una energia esattamente eguale di calore e di suono; l’energia di moto del treno in corsa è sostituita dall’energia equivalente del rumore prodotto dalle vibrazioni delle carrozze, e dal riscaldamento delle ruote, dei freni e delle rotaie.

Nella seconda metà del secolo decimonono queste tre leggi rimasero inalterate. La conservazione della massa si supponeva fosse la stessa cosa della conservazione della materia, perchè la massa d’un corpo era riguardata come la somma della massa dei suoi atomi. Questo certo spiegava semplicemente, troppo semplicemente, sappiamo adesso, come la massa [p. 77 modifica] totale non si alteri attraverso reazioni chimiche. Ma il principio da poco scoperto della conservazione dell’energia stava a parte, rispetto alle due leggi più antiche, come qualcosa per sè stante. L’universo era considerato come un teatro in cui attori erano gli atomi, dei quali ciascuno conservasse nel tempo la sua massa e la sua identità. Per completare il quadro, un’entità, conosciuta come energia, era passata da un attore all’altro, e questa, come gli attori stessi, era incapace di crearsi o di annichilarsi.

Queste tre leggi di conservazione avrebbero dovuto semplicemente essere riguardate come ipotesi di lavoro, da essere provate in ogni concepibile modo e scartate appena si siano dimostrate manchevoli. Ma sembravano stabilite con tanta sicurezza che erano considerate leggi universali indiscutibili. Nel secolo decimonono i fisici erano abituati a scrivere di esse come se governassero tutto il creato, e su questa base i filosofi dogmatizzarono sulla natura dell’universo.

Era la calma prima dell’uragano. Il primo rombo dell’avvicinarsi della tempesta fu un’investigazione teoretica di J. J. Thomson, che mostrò che la massa d’una particella elettrizzata deve cambiarsi se posta in movimento; più veloce è, più grande diventa la massa, in contraddizione col concetto di Newton d’una massa invariabile. Da quel momento il principio della conservazione della massa parve abbandonare la scienza. [p. 78 modifica]

Per un certo tempo rimase solo cosa d’un interesse accademico; non potè essere dimostrato sperimentalmente perchè particelle ordinarie non possono essere caricate elettricamente in modo sufficiente, o essere poste in moto con sufficiente velocità, perchè diventino apprezzabili le variazioni della massa, che la teoria predice. Allora, quando proprio il secolo decimonono si avviava alla fine, sir J. J. Thomson e i suoi continuatori cominciarono a rompere l’atomo, che è stato dimostrato non esser più un indivisibile, e così non può aver diritto al titolo di «atomo» più della molecola, a cui il nome era stato prima dato. Essi furono solamente capaci di scoprire piccoli frammenti, e ancora la perfetta disintegrazione atomica nei suoi ultimi costituenti non è stata completamente compiuta. Si trovò che questi frammenti sono tutti precisamente simili, e carichi d’elettricità negativa. Questi furono, per comune intesa, chiamati elettroni.

Questi elettroni sono tanto intensamente carichi quanto un corpuscolo ordinario non lo può in nessun caso. Un granulo di oro, battuto finchè è possibile, così da diventare un foglio di un yard quadrato, può a mala pena esser caricato d’una carica di circa 60.000 unità elettrostatiche, ma un grammo di elettroni porta una carica permanente che è di circa nove milioni di milioni più grande. Perciò, e perchè gli elettroni [p. 79 modifica] possono essere messi in moto con forze elettriche con velocità di più che centomila miglia al secondo, è facile verificare che la massa d’un elettrone varia con la sua velocità. Esperimenti esatti hanno mostrato che la variazione è precisamente quella predetta dalla teoria.

Grazie specialmente alle ricerche di Rutherford, è stato ora stabilito che ogni atomo è costituito interamente di elettroni caricati negativamente e di particelle caricate positivamente, chiamate «protoni»; la materia dimostra d’essere nient’altro che una collezione di particelle cariche elettricamente. Con un giro del caleidoscopio tutte le scienze che lavorano con le proprietà e struttura della materia sono diventate ramificazioni dell’unica scienza dell’elettricità. E già prima Faraday e Maxwell avevano dimostrato che la radiazione è, per sua natura, elettrica, così che tutta la scienza fisica è adesso compresa nell’unica scienza dell’elettricità.

Siccome ogni corpo è una collezione di corpuscoli carichi elettricamente, la investigazione teorica già menzionata mostra che la massa di ogni corpo moventesi deve variare con la velocità del suo moto. La massa d’un corpuscolo mobile può essere riguardata come di due parti — una parte fissa che possiede ogni corpo quando è in quiete, conosciuta come la sua «massa in quiete», e una parte variabile che [p. 80 modifica] dipende dalla velocità. Osservazione e teoria hanno mostrato che questa seconda parte è esattamente proporzionale all’energia di moto del corpo; le masse di due elettroni, o di due altri corpi, differiscono di quel tanto di cui differisce la loro energia.

Nel 1905 Einstein estese questa legge con una grandiosa generalizzazione. Mostrò che non solo l’energia di moto ma quella di ogni concepibile specie, deve possedere di per sè una massa; se non fosse così, la teoria della relatività non potrebbe esser vera. In questa maniera ogni prova sperimentale della teoria della relatività diveniva una testimonianza che l’energia possiede una massa. L’investigazione d’Einstein mostra che la massa dell’energia di una specie qualunque dipende unicamente dalla quantità d’energia a cui essa è esattamente proporzionale. E ciò è estremamente piccolo. Il Mauretania, completamente caricato, pesa circa 50.000 tonnellate; se si muove a 25 nodi, il suo moto aumenta il suo peso di circa una milionesima parte d’un’oncia. L’energia che un uomo impiega nel tempo della sua vita di pesante lavoro manuale, pesa solamente la 60.000ma parte d’un’oncia. Questa scoperta rende possibile di ristabilire il principio della conservazione della massa. Per massa s’intende l’insieme di massa in quiete e massa d’energia; e perchè ciascuna d’esse è conservata separatamente (la prima perchè la materia è conservata, e l’altra [p. 81 modifica] perchè l’energia è conservata), deve esserci anche la conservazione della massa totale.

I fisici del secolo decimonono hanno riguardata la conservazione della massa come una conseguenza solamente della conservazione della materia. I fisici del secolo ventesimo hanno scoperto che c’era implicita anche la conservazione della energia; la massa sembra che sia conservata solamente perchè la materia e l’energia sono conservate separatamente.

Finchè l’atomo era considerato come permanente e indistruttibile — «l’immortale pietra fondamentale dell’universo» per usare la frase di Maxwell — era naturale si trattasse come il fondamentale costituente dell’universo. L’universo era, insomma, un universo di atomi, la radiazione essendo cosa di importanza assolutamente secondaria. Ogni volta che un atomo era supposto messo in vibrazione, come un campanello dopo una scossa, emetteva radiazione per un certo tempo, come un campanello emette del suono, finchè non ritorna allo stato normale di quiete. Ma la radiazione era ritenuta un costituente della materia di più che non fosse il suono parte costitutiva del carillon dei campanelli. Incidentalmente questo spiega perchè si trovava impossibile d’immaginare come il sole potesse continuare a irradiare per migliaia di milioni di anni e più. La luce del sole si credeva che fosse prodotta dall’agitazione degli [p. 82 modifica] atomi, ma non si poteva immaginare come fosse mantenuta l’agitazione.

La scena cominciò a cambiare subito che fu riconosciuto che l’atomo è fatto di particelle cariche elettricamente, che non potessero uscire al di fuori del raggio delle loro attrazione e repulsione. Questo mostra che un elettrone deve, in un certo senso almeno, occupare tutto lo spazio. Faraday e Maxwell si esprimono anche più esplicitamente di così; immaginano una particella elettrica come dotata di struttura tentacolare, un piccolo corpo materiale che manda fuori specie di antenne o tentacoli, chiamati «linee di forze» attraverso tutto lo spazio. Se due particelle elettrizzate s’attraggono o si respingono, ciò avviene perchè i tentacoli dell’una hanno qualcosa che fa presa sull’altra, e la respinge o l’attira. Questi tentacoli son supposti formati da forze elettriche o magnetiche, di cui la radiazione pure è formata. Se un atomo emette radiazione scarica semplicemente qualcuno dei suoi tentacoli nello spazio, come si dice del porcospino che manda fuori i suoi aculei. Questo concetto poneva la radiazione e la materia in più intima relazione che mai prima.

Poichè tutti i tipi di radiazione sono forme di energia, esse devono, in accordo col principio d’Einstein, portare della massa associata con loro.

Se un atomo emette radiazione, la sua massa diminuisce della massa della radiazione emessa, [p. 83 modifica] proprio come, per così dire, un porcospino diminuisce del peso degli aculei che ha lanciato. Così se un pezzo di carbone è bruciato, il suo peso non si riottiene con quello del fumo o della cenere; noi dobbiamo a questo aggiungere il peso della luce e del calore, emessi nel processo di combustione. Solamente allora il peso totale sarà il peso dell’originale pezzo di carbone.

Molto tempo fa, nel 1873, Maxwell ha mostrato che la radiazione deve esercitare una pressione su una superficie su cui cade. Noi consideriamo ciò come una conseguenza necessaria del fatto che la radiazione porta della massa con sè: un fascio di luce consta di masse moventisi con la velocità della luce — 300.000 km. al secondo. Lebedew, e dopo, Nichols e Hull, misurarono questa pressione e trovarono che la sua intensità era quella calcolata da Maxwell. Una piastrina può essere veduta rinculare sotto il colpo della radiazione della luce bianca, proprio come se un palla fosse stata sparata contro di essa. Ma l’urto di tale luce, come noi sperimentiamo sulla terra, è estremamente piccolo; per vedere le intere conseguenze del fenomeno noi dobbiamo lasciare la terra e la fisica che noi abbiamo sviluppato nei laboratori terrestri, per interessarci del cielo e della fisica più grandiosa che noi vediamo in opera nei colossali crogioli delle stelle. Riscaldate un’ordinaria palla di cannone di sei pollici a oltre 50 milioni di gradi, che è la temperatura del centro del sole, e la radiazione [p. 84 modifica] che emetterà, sarà sufficiente a spingere indietro — per semplice urto, come un getto d’acqua da una pompa d’incendio — qualsiasi cosa che si avvicina a 50 miglia di distanza da essa. Infatti nell’interno delle stelle questa pressione di radiazione è così grande che contribuisce in rapporto apprezzabile al peso delle stelle.

Calcoli mostrano che circa un diecimillesimo d’oncia di luce solare cade ogni minuto su ogni miglia quadrato di piano direttamente sotto il sole; esso cade con la velocità della luce, ed essendo ridotto allo stato di quiete, esercita una pressione di circa 0,000.000.000.04 atmosfere sul piano. La cifra sembra assurdamente piccola — il peso d’un raggio di sole che cade in un secolo è minore del peso della pioggia che cade in un secondo d’un forte acquazzone. Però la quantità è piccola solo perchè un campo di un miglio quadrato è piccola cosa nello spazio astronomico. L’emissione totale di radiazione del sole è con la maggiore esattezza 250 milioni di tonnellate al minuto, che è qualcosa di simile a 10.000 volte la quantità media d’acqua che scorre sotto il ponte di Londra. E, incidentalmente, se il nostro fattore 10.000 è grossolano, ciò non è perchè noi non sappiamo il peso esatto della radiazione solare, ma perchè non conosciamo la corrente media del Tamigi con precisione molto grande. La fisica astronomica è scienza, molto più esatta della idraulica terrestre. [p. 85 modifica]

Una certa quantità di radiazione cade sul sole dalle altre stelle, ma questa è assolutamente inapprezzabile in confronto con il peso della radiazione che ne va via, così che il sole può mantenere il suo peso solo se la materia confluisce su di lui in quantità di circa 250 milioni di tonnellate al minuto.

Siccome il sole viaggia nello spazio, deve continuamente raccogliere materia sperduta sotto forma di atomi interi o di molecole, di pulviscolo e di meteoriti. Questi ultimi sono oggetti solidi che esistono in numero enorme nel sistema solare, e girano intorno al sole in orbite simili a quelle dei pianeti. Occasionalmente essi entrano nell’atmosfera terrestre: allora la resistenza dell’aria, nella loro caduta verso la terra, li porta all’incandescenza, ed essi appaiono come stelle cadenti. Generalmente essi si dissolvono in vapore prima di raggiungere la superficie terrestre; solo occasionalmente hanno una massa sufficiente da sopravvivere all’effetto disgregante di questa resistenza dell’aria e allora colpiscono la terra in forma di pietre, conosciute come meteoriti.

Questi sono spesso di dimensioni enormi. La caduta d’un meteorite in Siberia nel 1908 produsse uno spostamento d’aria che devastò le foreste per un’area enorme, mentre il colpo del suo urto contro la terra solida produsse onde sismiche che furono notate migliaia di miglia lontano. E una depressione in forma di cratere in Arizona, di tre miglia di circonferenza, [p. 86 modifica] si crede sia stata causata dalla caduta d’un ben più grande meteorite in tempi preistorici. Ma simili giganti sono rari, e il meteorite medio è ben poca cosa, generalmente non più grande d’una ciliegia o un pisello.

Shapley ha stimato che alcune migliaia di milioni di stelle cadenti entrano nell’atmosfera terrestre ogni giorno; ciascuna di queste è ridotta in polvere o vapore, e il peso della terra è corrispondentemente accresciuto. Un numero incomparabilmente più grande deve cadere sul sole, valutato a milioni di milioni al secondo, e questo probabilmente costituisce il più largo possibile contributo di materia dispersa, raccolta dal sole. Tuttavia Shapley stima che il peso totale della materia meteoritica che cade sul sole può appena superare le 2000 tonnellate al secondo, che è meno della 2000ma parte del peso perduto per radiazione.

Così sembra certo che sulla bilancia il sole deve perdere peso in ragione di circa 250 milioni di tonnellate al minuto; è come un vasto edificio, che gradualmente scompare di fronte ai nostri occhi; si scioglie come un banco di ghiaccio nella Corrente del Golfo. E lo stesso deve esser vero anche per le altre stelle.

Questa conclusione si accorda bene con i grandi fatti generali della astronomia. Sebbene qui manchino le prove assolute, una larga massa di dati sperimentali [p. 87 modifica] danno a vedere che le stelle giovani sono più pesanti delle stelle vecchie. Esse non pesano semplicemente pochi milioni di tonnellate di più, ma sono parecchie volte più pesanti, spesso 10, 50 o anche 100 volte. Secondo la spiegazione più semplice il fatto è che le stelle perdono la parte più grande del loro peso nel corso della loro vita. Ora un semplice calcolo mostra che il sole, perdendo peso in ragione di 250 milioni di tonnellate al minuto, richiederà milioni di milioni di anni per perdere la parte maggiore, o per lo meno una parte considerevole del suo peso.

E siccome le altre stelle raccontano la stessa storia, noi siamo condotti ad assegnare una vita di milioni di milioni di anni alle stelle in generale.

Noi abbiamo altri mezzi per calcolare la lunghezza della vita delle stelle.

In particolare, il moto delle stelle nello spazio attesta la loro estrema antichità, e assegna di nuovo ad essi vite di milioni di milioni di anni. Noi abbiamo visto quanto lontane l’una dall’altra sono le stelle nello spazio — tanto che è un evento molto raro per due stelle di avvicinarsi sensibilmente l’una all’altra. L’attrazione gravitazionale che le stelle devono esercitare l’una sull’altra in queste occasioni non deve essere in generale così intensa da strappare dei pianeti, ma deve essere sufficiente da incurvare le orbite delle stelle e cambiare la velocità del loro moto. [p. 88 modifica]

Nel caso d’un sistema binario che consiste di due masse separate moventisi attraverso lo spazio in legame doppio simili ad una stella unica, l’attrazione gravitazionale d’una stella vicina porterà a una disposizione nuova nelle orbite dei due costituenti della stella binaria.

Adesso tutti questi effetti possono essere calcolati in dettaglio, così che noi conosciamo esattamente quel che c’è da aspettarsi se le stelle hanno realmente vissuto le vite, terribilmente lunghe di milioni di milioni di anni, che noi provvisoriamente abbiamo assegnato ad esse.

E tutto ciò che ci aspettiamo di trovare, troviamo. Tutti gli effetti anticipatamente predetti si verificano, e per quanto noi possiamo dire, la grandezza loro indica che le stelle hanno vissuto per milioni di milioni di anni.

Contro tutto ciò, vi sono prove d’altro genere, che sembrano a prima vista condurre a conclusioni molto differenti. Si deve perciò entrare in maggiori particolari e discutere in una maniera tecnica più elevata; il che ci porterà nella parte più difficile della teoria della relatività.

Come vedremo nel prossimo capitolo, questa teoria ci dice che lo spazio stesso è curvato, nella stessa maniera com’è curva la superficie della terra. La curvatura dello spazio è responsabile dell’incurvamento dei raggi luminosi, osservata nelle eclissi [p. 89 modifica] solari, e della curvatura nell’orbita dei pianeti e delle comete, che noi siamo soliti attribuire alla «forza» di gravitazione. Secondo questa teoria, la presenza di materia non deve produrre una «forza» che è un’illusione, ma un incurvamento dello spazio. Più materia vi è nell’universo, più lo spazio è incurvato, più rapidamente questo si chiude su sè stesso, e, per conseguenza, più piccole divengono le dimensioni dell’universo — proprio come un circolo la cui curvatura è tanto più grande quanto più piccolo è il suo raggio.

Il ben conosciuto esperimento di elettrizzare una bolla di sapone può rendere il concetto più chiaro. Una bolla di sapone, gonfiata nel modo solito, è lasciata in riposo sul piatto d’una macchina elettrica. Quando la macchina è messa in azione, la bolla diventa sempre più carica d’elettricità, le sue dimensioni continuamente crescono finchè non scoppia.

Qui (a parte lo scoppio finale) la bolla di sapone è analoga all’universo; le sue dimensioni dipendono dalla quantità di carica elettrica, proprio come l’universo dipende dalla quantità di materia che contiene.

Dove tuttavia sono due differenze essenziali. La prima è che una bolla di sapone ha una curvatura inerente alla sua struttura, così che essa è di dimensioni definite, anche quando è scarica; la seconda è che un aumento della carica elettrica fa crescere le [p. 90 modifica] dimensioni della bolla, mentre l’aumento di materia fa diminuire le dimensioni dell’universo.

Einstein tentò di ovviare a questa ultima obbiezione, come ad altre, facendo l’universo più simile alla bolla di sapone.

Egli lo immagina con una sua propria curvatura, oltre quella prodotta dalla materia, di tale genere che le sue dimensioni dovrebbero crescere se la quantità di materia cresce.

Comunque, vi è sempre una differenza che rimane. Le masse gravitazionali nello spazio si attraggono l’una l’altra, ma le cariche elettriche invece si respingono, perchè sono di elettricità simile, o negativa o positiva.

Come conseguenza di ciò, la bolla elettrizzata è completamente di struttura stabile. Aggiungete un po’ di carica in più ed essa si aggiusterà da sè a una nuova, leggermente espansa, posizione di equilibrio. Scotetela, e lei, dopo aver tremato per un po’, ritornerà, di nuovo, in quiete. Ma, appunto per ragione della differenza tra attrazione e repulsione, una bolla di sapone carica con materia attraentesi dovrà essere instabile. Il matematico vedrà come questo può essere. E sebbene ci sia una grande differenza tra una bolla di sapone, a due dimensioni, di «film» liquido, e l’universo, una recente investigazione d’un matematico belga, l’abate Lemaître, ha mostrato che la analogia rimane, e che il genere d’universo che noi [p. 91 modifica] abbiamo discusso sarà un edificio instabile; esso non può rimanere in quiete a lungo, ma, da un certo istante in poi, comincerà a espandersi sino a raggiungere dimensioni infinite o a contrarsi in un punto. Quindi lo spazio attuale di un universo antico può sia contrarsi che espandersi, e i vari oggetti, in lui, possono tutti reciprocamente respingersi o precipitarsi addosso l’uno all’altro, con velocità molto grandi.

Le conclusioni di Lemaître sono basate sul concetto d’Einstein d’un universo le cui dimensioni, se in quiete, dipendono dalla quantità di materia presente. Prima, una teoria molto differente era stata proposta dal prof. De Sitter di Leida. Egli suppone che un universo sprovvisto di materia possiede una certa curvatura, impostagli dalle proprietà inerenti dello spazio e del tempo. La presenza della materia produrrà una curvatura addizionale, ma la materia è così sparsa nell’universo attuale che questa sarà trascurabile in confronto con la curvatura risultante dalla natura dello spazio e del tempo. De Sitter, quindi, studiando matematicamente le proprietà del suo universo, ha trovato nel suo spazio una tendenza ad espandersi o a contrarsi, e per tutti gli oggetti una spinta ad allontanarsi tra loro o a precipitarsi l’uno sull’altro.

Da prima il concetto d’universo di De Sitter parve interamente in opposizione con quello precedente [p. 92 modifica] d’Einstein, e i matematici si contentavano d’aspettare qualche cosa per decidere fra i due. Ma l’opera di Lemaître adesso dimostra che i due concetti non sono l’uno contrario dell’altro, ma l’uno complementare dell’altro. Così l’universo instabile d’Einstein si espande, la materia in lui si disperde sempre più finchè tende ad un universo vuoto del genere immaginato da de Sitter. Gli universi d’Einstein e di de Sitter possono, a ragion veduta, essere pensati come posti ai due capi d’una catena, ma noi andremo troppo in là, se li immaginiamo occupati a una specie di gioco del tiro alla fune. Essi semplicemente segnano i limiti di possibili universi e un universo che parte da un punto vicino ad una capo della catena (Einstein) deve gradualmente scivolare lungo la catena sino all’altro capo (De Sitter). Se il nostro universo è costruito su queste linee, la questione che si pone davanti a noi non è a quale capo della catena esso sia, ma come questo abbia proceduto lungo la catena.

I due universi ideali ai due capi della catena sono simili in questo: che gli oggetti in essi debbono o precipitarsi l’uno contro l’altro o sfuggirsi. Questo, dunque, non è vero solo agli estremi della catena, ma è vero sempre. Se l’universo è costruito in accordo col principio di relatività, come è molto probabilmente vero, allora gli oggetti debbono od allontanarsi o precipitarsi l’uno sull’altro.

Queste conclusioni sono di grande interesse, [p. 93 modifica] perchè è stato, da alcuni anni, rilevato che le remote nebulose spirali, secondo tutte le apparenze, si allontanano dalla terra, e presumibilmente l’una dall’altra, con velocità grandissime che diventano sempre più grandi a mano a mano che noi procediamo nello spazio.

L’ultima nebulosa investigata sul Monte Wilson — una delle più lontane che è stato possibile osservare in un grande telescopio di 100 pollici — s’è trovata possedere una velocità d’allontanamento in ragione di 12500 miglia al secondo. I dottori Hubble e Humason, che hanno fatto uno studio speciale della questione al monte Wilson, trovano che la velocità, con cui le nebulose individuali si allontanano da noi, sono, parlando all’ingrosso, proporzionali alla loro distanza da noi, e così dovrebbe essere, se la cosmologia della teoria della relatività è corretta. Una nebulosa la cui luce impiega dieci milioni di anni per raggiungerci, ha una velocità di circa novecento miglia al secondo, e le velocità delle altre stelle sono, approssimativamente almeno, proporzionali alla loro distanza. Per esempio, la luce della nebulosa, mostrata nella tavola I, impiega cinquanta milioni di anni per raggiungerci e la nebulosa mostra velocità di recessione di circa 4500 miglia al secondo.

Le cifre attuali sono importanti, perchè se noi tracciamo all’indietro i movimenti percorsi dalle nebulose, troviamo che tutte le nebulose devono essere state [p. 94 modifica] raggruppate nei pressi del sole, solo poche migliaia di milioni d’anni fa. Tutto questo ci induce a supporre che noi viviamo in un universo che si espande, e che ha cominciato ad espandersi solamente poche migliaia di milioni di anni fa.

Se tutta qui fosse la storia, ci sarebbe molto difficile assegnare delle vite di milioni di milioni di anni alle stelle; questo deve portare alla conseguenza che esse furono ammassate strettamente insieme, oppure convergevano verso una piccola regione dello spazio, per milioni di milioni di anni, e solo recentemente, durante l’ultima millesima parte della loro esistenza, hanno cominciato a disperdersi. Se noi supponiamo i movimenti di recessione, trovati ultimamente, essere una realtà, è appena possibile di attribuire più di un’età di poche migliaia di milioni d’anni all’universo.

Ma qui v’è luogo a una buona discussione sui dubbi se queste grandi velocità siano vere o no. Esse non sono state misurate con un processo diretto di misura, ma sono state dedotte come applicazione del principio conosciuto di Doppler. È materia di comune osservazione che il rumore emesso da una tromba di automobile è di tono più profondo, se questa viene verso di noi che se essa se ne allontani. Per lo stesso principio la luce emessa da un corpo che si allontana appare più rossa, in colore, di quella emessa da un corpo che si avvicina a noi, colore in luce [p. 95 modifica] corrispondente al tono del suono. Misurando accuratamente il colore d’una ben definita linea spettrale, gli astronomi sono in grado di scoprire se il corpo emettente si avvicina, o si allontana da noi, e possono valutarne la velocità. E la sola ragione per pensare che le nebulose remote si allontanino da noi è che la luce che noi riceviamo da esse ci appare più rossa di quello che normalmente dovrebbe essere.

Ma vi sono altre cause che possono render più rossa la luce: per esempio, la luce solare è spostata verso il rosso per il semplice peso del sole; è più spostata verso il rosso per la pressione della sua atmosfera; è ancora più spostata verso il rosso, sebbene in modo diverso dal suo passaggio attraverso l’atmosfera terrestre, come noi vediamo all’aurora o al tramonto. La luce emessa da certe stelle di un genere diverso è spostata verso il rosso in maniera che non ci è dato intendere. Di più, nella teoria dell’universo di de Sitter, la sola distanza produce lo spostamento della luce verso il rosso, così che anche se le lontane nebulose sono ferme nello spazio, la luce ci apparirà rossa, e noi saremmo indotti a dedurne che esse si allontanino. Nessuna di queste cause sembra capace di spiegare lo spostamento della luce nebulare, ma recentemente il dott. Zwicky dell’Istituto di California ha suggerito che una causa del tutto diversa di spostamento verso il rosso potrebbe cercarsi nell’attrazione gravitazionale di stelle e nebulose sulla luce che passa vicino ad esse, [p. 96 modifica] la stessa attrazione che è causa dell’incurvamento dei raggi stellari, osservati nelle eclissi del sole.

L’esperimento di Compton mostra che la radiazione può tanto esser deviata quanto diventare rossa se incontra elettroni nello spazio. Se la radiazione interagisce gravitazionalmente con stelle o altra materia nello spazio, si sa che subisce una deviazione e l’ipotesi di Zwicky è che essa diventi anche più rossa.

Per provare questa ipotesi, Ten Bruggencate ha esaminato la luce di un certo numero di ammassi globulari, tutti pressappoco ad eguale distanza da noi, ma scelti in modo che la quantità di materia gravitazionale che interveniva variasse grandemente dall’uno all’altro ammasso. La luce di questi mostrò uno spostamento verso il rosso, che se fosse causato dalla espansione dello spazio, avrebbe dovuto essere lo stesso per tutti gli ammassi stellari. Ma l’osservazione provava che era tutt’altro che uniforme; esso era più probabilmente proporzionale alla quantità di materia intervenuta, esattamente come richiederebbe la teoria di Zwicky, e quantitativamente si trovava in accordo sufficiente con le formole di Zwicky.

Siccome noi possiamo con difficoltà immaginare che gli ammassi stellari che appartengono al nostro proprio sistema galattico, possano sistematicamente allontanarsi da noi, diviene così sempre più debole l’ipotesi avanzata che le nebulose spirali si allontanino da noi, poichè la teoria di Zwicky fornisce una [p. 97 modifica] possibile spiegazione dell’osservato spostamento verso il rosso della luce.

Altri fatti d’esperienza suggeriscono che il sospettato allontanamento delle nebulose possa essere solo apparente. Per esempio la luce delle più vicine nebulose non è più rossa ma più azzurra del normale, e siccome la luce può diventare più azzurra solo a causa d’un reale avvicinamento della fonte che emette, questo può solo significare che le più vicine nebulose vengono realmente verso di noi. Di più le velocità apparenti delle nebulose non sono in alcun modo proporzionali alle loro distanze da noi; per esempio, nebulose che si crede stiano alla stessa distanza da noi di sette milioni d’anni di luce mostrano variazioni di 240 miglia al secondo sopra una velocità totale di 640 miglia al secondo.

Tuttavia, se l’universo è costruito nel modo che abbiamo descritto, le nebulose nel loro insieme, debbono indubbiamente allontanarsi da noi; considerazioni teoriche richiedono questo, ma nulla di più, ma esse non ci dicono la velocità del movimento delle nebulose.

L’opera di Zwicky e Ten Bruggencate non permette dubbio se vi sia un moto reale di allontanamento; ciò che rimane dubbio è se il moto è quello stesso che gli astronomi hanno dedotto dallo spostamento verso il rosso delle linee spettrali. Presumibilmente la maggior parte di questo effetto può essere attribuito all’effetto indicato da Zwicky, o a cause simili, [p. 98 modifica] mentre un piccolo residuo rappresenta un moto reale di recessione. E’ impossibile determinare la velocità di recessione perchè l’effetto minore è interamente mascherato da quello più grande.

La questione è ancora aperta, ma se si accetta che la parte più grande di queste apparenti velocità è d’altra origine, scompare l’argomento in favore d’una vita corta delle stelle, e noi diventiamo liberi d’assegnare ad esse le lunghe vite di milioni di milioni di anni che i fatti accertati dall’astronomia sembrano richiedere.

Come noi abbiamo già veduto, la totalità delle esperienze suggerisce che il sole ha versato fuori parte della sua massa in forma di radiazione, in ragione di 250 milioni di tonnellate al minuto, per un periodo di alcuni milioni di milioni di anni. Calcoli precisi mostrano che il sole appena nato, deve avere avuto una massa parecchie volte più grande dell’attuale, in conformità con il fatto di generale osservazione, che le stelle giovani hanno una massa molte volte più considerevole delle antiche. In quale forma potè essere immagazzinata tutta la massa che da allora in poi è scomparsa sotto forma di radiazione?

La massa in quiete d’un elettrone o altro corpo carico è in generale enormemente più grande della sua massa d’energia, l’ultima assumendo la sua più grande importanza ad alte temperature. Ora la temperatura al centro del sole è circa 50 milioni di gradi, [p. 99 modifica] e anche qui la massa in quiete rappresenta l’uno su 200 mila della massa totale. È improbabile che il sole appena nato abbia potuto essere più caldo di così, quindi sembra probabile che la parte più grande della massa originaria del sole sia risieduta nella sua massa in quiete. Se così, solo una conclusione è possibile: il sole originario deve aver contenuto un numero maggiore di protoni ed elettroni, e perciò più atomi di adesso. Questi atomi sono spariti solo in un modo: essi devono essersi annullati e la loro massa deve essere rappresentata dalla massa della radiazione che il sole ha emesso nella sua lunga vita di milioni di milioni di anni.

Questo argomento può essere tuttavia poco attendibile, perchè si ha a che fare con concetti molto al di fuori delle possibilità sperimentali dei laboratori di fisica. Fortunatamente nei laboratori di recente si sono ottenute delle prove molto chiare, che, sebbene lungi dall’essere conclusive, forniscono una valida conferma di questo reale annullamento della materia su larga scala negli abissi dello spazio.

Noi possiamo difficilmente aspettarci di ottenere prove dirette dell’annullamento della materia che ha luogo nell’interno delle stelle, perchè la radiazione prodotta in questo processo può attraversare solo una breve distanza senza essere assorbita dalla sostanza della stella. Questa ne sarebbe riscaldata, e la [p. 100 modifica] corrispondente energia sarebbe, in ultima analisi, emessa dalla stella sotto forma ordinaria di luce e di calore.

Un’analisi matematica dei fatti dell’astronomia suggerisce che il processo di annullamento atomico sarebbe probabilmente spontaneo come la disintegrazione attiva. Se è così, esso non sarebbe limitato nell’interno caldo delle stelle, ma dovrebbe essere in via di svolgimento, dovunque la materia astronomica esiste in abbondanza sufficiente.

Nella sua forma più semplice il processo consisterebbe nell’annullamento simultaneo di un singolo elettrone e un singolo protone. Noi possiamo figurarci l’avvenimento a vivaci colori se pensiamo che queste due particelle cariche si vengano incontro, sotto la loro mutua attrazione, con velocità sempre crescente, finchè non si saldano insieme; le loro cariche elettriche si neutralizzano, e la loro energia combinata vien posta in libertà sotto un’unica scarica di radiazione, come un «fotone» della specie discussa a pagina 61.

Noi abbiamo visto che la massa è «conservata» quando un atomo emette della radiazione. L’atomo perde una certa massa, ma questa non è distrutta; essa è portata via dal fotone di cui rappresenta la massa.

Se un protone ed un elettrone si annichilano, il fotone risultante deve avere una massa eguale a quelle combinate del protone e dell’elettrone che sono scomparsi. Adesso la massa combinata d’un elettrone [p. 101 modifica]e d’un protone è conosciuta con grande precisione, perchè essa è esattamente eguale alla massa d’un atomo d’idrogeno.

Così se è un fenomeno reale l’annullamento della materia, fotoni di massa esattamente eguale a quella dell’atomo d’idrogeno dovrebbero attraversare lo spazio in gran numero, e alcuni di essi cadere sulla Terra.

Vi possono essere tuttavia fotoni con massa ancora più grande, perchè noi possiamo immaginare che un atomo di un certo elemento improvvisamente venga annullato e che la sua energia si disperda interamente come un fotone la cui massa sarebbe eguale a quella dell’intero atomo. Una possibilità è di speciale interesse. Sebbene noi crediamo che tutta la materia sia in ultima analisi costituita da protoni ed elettroni, vi è un aggregato particolarmente compatto di quattro protoni e due elettroni che possiamo considerare come una nuova e indipendente unità. Essa costituisce una parte cospicua della radiazione emessa dalle sostanze radioattive, ed è comunemente conosciuta come particella α.

L’atomo di elio, che è l’atomo più semplice dopo l’idrogeno, è costituito da una particella α e da due elettroni che girano con un movimento orbitale intorno ad essa. Poichè una particella α ha la stessa carica elettrica di due protoni, essa può essere condotta all’annichilimento dall’unione con due elettroni, nel [p. 102 modifica] qual caso il fotone risultante dovrebbe avere la stessa massa d’un atomo di elio.

Fotoni di una di queste due specie dovrebbero avere una massa senza paragone più grande di quella della radiazione ordinaria, e dovrebbero essere così immediatamente riconoscibili. I fotoni potrebbero riguardarsi come pallette tutte moventesi alla stessa velocità, la velocità della luce. Se una certa quantità di pallette sono lanciate fuori da un cannone tutte con la stessa velocità, i proiettili con massa maggiore apporteranno maggiore danno, e quindi avranno potere penetrante più grande. Lo stesso avviene con gruppi di fotoni di specie diversa; i fotoni più massicci hanno il potere penetrante più grande. Vi è una formola matematica che ci permette di dedurre il potere penetrante d’un fotone dalla sua massa, ed essa mostra che fotoni con la massa dell’idrogeno o dell’elio dovrebbero avere un enorme potere di penetrazione.

Noi abbiamo già parlato della radiazione altamente penetrante, comunemente chiamata «radiazione cosmica» che cade sulla Terra dallo spazio esterno, e che è capace di penetrare diversi «yards» di piombo. Non è tuttavia certo se questa sia una vera e propria radiazione o semplicemente una corrente di elettroni; ma la prima alternativa sembra la più probabile perchè gli elettroni dovrebbero muoversi con un’energia inconcepibilmente alta per aprirsi a forza una via [p. 103 modifica] attraverso diversi «yards» di piombo prima d’essere ridotti in quiete.

La questione per adesso appare risoluta. Un fascio di elettroni che cadesse sulla terra dallo spazio esterno, risentirebbe l’azione del campo magnetico della Terra, e quindi sarebbe influenzato nel suo movimento.

Se gli elettroni si movessero abbastanza veloci per avere il potere penetrante della radiazione cosmica, un calcolo mostrerebbe che quasi tutto il fascio di elettroni sarebbe stornato dalla sua traiettoria e colpirebbe la Terra vicino ad uno o all’altro dei poli.

Nessuna proprietà del genere dimostrano i raggi cosmici; differenti osservatori, operando in differenti regioni della Terra, trovano che la radiazione ha la stessa intensità dovunque. Per esempio, la spedizione anglo-australiana-neo zelandese dell’Antartico trovò a 250 miglia dal polo magnetico sud la stessa intensità, che altri sperimentatori hanno trovato in regioni, lontane dai poli.

Questo fatto rende plausibile l’ipotesi che la «radiazione cosmica» sia vera radiazione, e non semplicemente di natura corpuscolare. Se così è, noi possiamo dedurre la massa dei fotoni della radiazione dal potere penetrante osservato, per mezzo della formola già citata.

Il potere penetrante di questa radiazione è stato studiato con cura estrema dal professore Millikan e [p. 104 modifica] dai suoi collaboratori a Pasadena, dal prof. Regener di Stoccarda, e da molti altri. Essi hanno tutti trovato che la radiazione è una mescolanza d’un certo numero di costituenti di potere penetrante molto diverso, o, che è la stessa cosa, una mescolanza di fotoni di massa diversa.

Ora sembra altamente significativo che i due costituenti di potere penetrante maggiore consistono di fotoni le cui masse, per quanto noi possiamo dirlo, sono eguali alle masse d’un atomo d’idrogeno e d’un atomo d’elio; in altre parole sono essi dei fotoni del tipo, che ci dovremmo aspettare se nelle profondità dello spazio avesse luogo il fenomeno dell’annichilimento di protoni e di particelle α, i primi in unione con un elettrone, che neutralizzerebbe le loro cariche, i secondi in unione con due elettroni, che produrrebbero lo stesso effetto.

Dobbiamo dichiarare che le masse dei fotoni non possono essere misurate con precisione assoluta, cosicchè non si può dire con certezza che esse siano proprio quelle che ci dovremmo aspettare da tali processi di annichilimento. Tuttavia l’accordo è abbastanza buono, per quel che l’esperimento lo permetta; in ogni caso vi è un accordo a meno del 5 per cento, e il potere penetrante della radiazione non può essere osservato con precisione maggiore. Una tale concordanza è troppo buona perchè possa essere ammessa come una pura coincidenza, così che sembra [p. 105 modifica] altamente probabile che questa radiazione abbia la sua origine nel reale annichilimento di protoni e di elettroni.

Tuttavia la questione non è ancora chiusa e il punto di vista che io ho esposto non è universalmente accettato dai fisici.

Il prof. Millikan, in particolare, ha suggerito che la radiazione cosmica possa avere la sua origine dal processo di formazione di atomi pesanti da atomi più leggeri, e così interpreta questo fatto come una prova che «il creatore sia tuttora al lavoro». Per fare l’esempio più semplice, un atomo d’elio contiene esattamente quattro atomi d’idrogeno — cioè quattro elettroni e quattro protoni — ma la sua massa è solamente eguale a quella di 3.97 atomi d’idrogeno.

Così se quattro atomi d’idrogeno dovessero essere martellati insieme per formare un atomo d’elio, la massa superflua, corrispondente a 0,03 atomi d’idrogeno, prenderebbe la forma di radiazione, e potrebbe essere emesso un fotone con una massa eguale al 3 per cento della massa dell’atomo d’idrogeno.

Non possiamo dire che esso sarà proprio irradiato, perchè se quattro atomi d’idrogeno cadono insieme per formare un atomo d’elio, sembra probabile che il processo avvenga in stadi successivi, e così ne risulterebbe l’emissione d’un certo numero di piccoli fotoni anzichè di uno grande.

Però anche se tutta l’energia liberata formasse un [p. 106 modifica] unico fotone, esso avrebbe un potere penetrante minore della reale radiazione cosmica.

Se, comunque, 129 atomi d’idrogeno cadessero insieme per formare un atomo di xenon, il singolo fotone emesso nel processo avrebbe circa la stessa massa d’un atomo d’idrogeno, e quindi avrebbe quasi lo stesso potere penetrante del secondo più penetrante costituente della reale radiazione cosmica. Con questa opinione sull’origine della radiazione, le componenti meno penetranti possono essere, facilmente e in modo naturale, spiegate come aventi origine dalla sintesi d’atomi meno complessi dello xenon. Invece la componente più penetrante sembra presentare una difficoltà insuperabile per una tale interpretazione.

Se i suoi fotoni vengon fuori dal martellamento di atomi di idrogeno a formare un unico atomo enorme, quest’ultimo deve necessariamente avere un peso atomico di circa 500, il che sembra essere oltre i limiti del probabile. Sembra altrettanto improbabile che la seconda componente più penetrante possa esser prodotta dalla sintesi di atomi di xenon o altri elementi di simile peso atomico, poichè tutti questi atomi sono di una estrema rarità.

Così, io penso che qualunque sia l’origine delle varie componenti meno penetranti, le due più penetranti invece possono essere molto plausibilmente spiegate con l’ipotesi dell’annichilimento della materia. [p. 107 modifica]

La quantità di radiazione che cade sulla Terra è enorme. Millikan e Cameron l’hanno stimata un decimo di quella ricevuta da tutte le stelle del cielo eccettuato, naturalmente, il sole.

Fuori, nelle profondità dello spazio, al di là della via Lattea, la radiazione altamente penetrante deve essere circa altrettanto abbondante che alla superficie della Terra. Ma poichè la luce stellare lo è molto meno, così, facendo una media su tutto lo spazio, questa radiazione altamente penetrante è probabilmente il tipo più comune di radiazione.

La sua grande quantità si spiega in parte con il suo alto potere penetrante, che le procura quasi l’immortalità.

Un raggio di radiazione, propagandosi attraverso lo spazio per milioni di milioni di anni, non incontrerà materia sufficiente a assorbirla in quantità apprezzabile. Così noi dobbiamo pensare che lo spazio sia percorso tuttora da quasi tutta la radiazione cosmica, che sia stata mai generata da che il mondo esiste. I suoi raggi ci arrivano come messaggeri non solo delle regioni più lontane, ma anche dalle profondità più remote del tempo.

E se non c’inganniamo, i loro messaggi ci annunciano che in qualche luogo, in qualche tempo, nella storia dell’universo, la materia è stata annientata, e che questo processo è avvenuto non in piccola, ma in grandiosa quantità. [p. 108 modifica]

Se noi ammettiamo che le prove astronomiche dell’età delle stelle e le prove fisiche sulla radiazione altamente penetrante stabiliscano insieme che la materia realmente può essere annientata o piuttosto trasformata in radiazione, allora questa trasformazione diventa uno dei fondamentali processi dell’universo. La conservazione della materia scompare interamente dalla Scienza, mentre la conservazione della massa e dell’energia diventano la stessa cosa. Così le tre maggiori leggi di conservazione, quelle della conservazione della materia, della massa e dell’energia, si riducono ad una. Una semplice fondamentale entità che può prendere varie forme, materia e radiazione in particolare, è conservata in tutti gli scambi; la somma totale di questa entità forma la completa attività dell’universo, che non cambia la sua quantità totale. Ma essa cambia continuamente qualità, e questi cambiamenti sembrano essere le operazioni principali che hanno luogo nell’universo che forma l’umana sede materiale. Tutte le testimonianze, che hanno un valore, mi sembrano indicare che il cambiamento è, con possibili insignificanti eccezioni, sempre in una medesima direzione — sempre materia solida si volatizza in radiazione senza sostanza: sempre il tangibile si trasmuta nell’intangibile.

Questi concetti sono stati discussi con una certa ampiezza perchè ovviamente hanno una speciale [p. 109 modifica] importanza per la questione della struttura fondamentale dell’universo.

Nell’ultimo capitolo noi diremo come la meccanica delle onde riduce l’intero universo a un sistema d’onde. Gli elettroni e i protoni consistono di onde di un genere; la radiazione di onde di genere differente. La discussione del presente capitolo ha suggerito che materia e radiazione non possono costituire due forme di onde distinte e non trasmutabili l’una nell’altra. Le due possono trasmutarsi e l’una diventar l’altra come la crisalide diventa farfalla: — al che alcuni scienziati, come vedremo in seguito, potrebbero trovar necessario aggiungere «e così noi possiamo pensare che la farfalla ridiventa crisalide».

Questo naturalmente non vuol dire che materia e radiazione siano la stessa cosa. La trasformazione della materia in radiazione ha sempre un certo significato, sebbene il concetto adesso sembri incomparabilmente meno rivoluzionario di quel che sembrò quando ne avanzai per la prima volta l’ipotesi ventisei anni fa. Anche se conoscessimo con certezza tutti i fatti, che ignoriamo, sarebbe difficile esprimere la situazione accuratamente in linguaggio non tecnico, ma possibilmente noi siamo ben vicini alla verità se pensiamo della materia e della radiazione come di due specie di onde, una che gira descrivendo dei circoli, e un’altra che procede in linea retta.

Le onde di questa seconda specie naturalmente [p. 110 modifica] vanno con la velocità della luce, quelle invece che costituiscono la materia vanno più lentamente. Moshanafa e altri hanno proposto di esprimere così, tutta la differenza tra materia e radiazione: che la materia sia una sorta di radiazione congelata che si propaga con velocità minore di quella sua normale. Noi abbiamo già visto (pag. 68) come la lunghezza d’onda dipenda dalla sua velocità. La dipendenza è tale che una particella propagantesi con la velocità della luce deve avere precisamente la stessa lunghezza d’onda d’un fotone di egual massa. Questo fatto notevole, come parecchi altri, induce a pensare che si possa dimostrare essere la radiazione semplicemente materia che si muove con la velocità della luce, e la materia essere radiazione che si muove con velocità minore di quella della luce. Ma la scienza qui ha ancora molta strada da percorrere.

Per riassumere i principali risultati di questo e del precedente capitolo, la tendenza della fisica moderna è di risolvere l’intero universo materiale in onde e nient’altro che onde. Queste onde sono di due specie: onde, per così dire, prigioniere che chiamiamo materia, e onde libere, che noi chiamiamo radiazione o luce.

Se l’annientamento della materia ha luogo, il processo è semplicemente quello di svincolare onde di energia imprigionate e lasciarle libere di percorrere lo spazio. Questi concetti riducono l’universo intero a [p. 111 modifica] un mondo di luce potenziale o esistente, e non sembra più sorprendente che le unità fondamentali della materia debbano mostrare molte delle proprietà delle onde.