Istoria dell'Imperio dopo Marco (De Romanis)/Libro IV
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dell’imperio
DOPO MARCO.
LIB. IV.
argomento.
Le reliquie di Severo sono dall’Inghilterra portate in Roma. Quivi, fatta la santificazione e indiato, Antonino e Geta prendono l’imperio, ma sì dissensienti, che, se non era Giulia, aveano già tra loro stabilito i limiti della divisione. Ma, di giorno in giorno inviperendo essi di maggior odio, Antonino assassina il fratello Geta in braccio stesso la madre, e fuggito al quartiere corrompe co’ doni i soldati, si fa dichiarare solo imperadore, e immantinenti incrudelisce crudelmente contro il senato ed il popolo. Quindi datosi a viaggiare, sul Danubio facca il tedesco, in Macedonia l’Alessandro, in Asia l’Achille. Venuto in Alessandria assassinò solennemente molti di quei cittadini. Ed entrato in Partia colla maschera di sposatore, violò l’alleanza, facendo man bassa di que’ popoli inavvertiti. finalmente ucciso è in Cave di Mesopotamia da un soldato, a cui avea morto il fratello; e il suo cadavere renduto in cenere si fa avere in Antiochia alla madre Giulia. E poi eletto imperadore Macrìno, che dopo una incerta battaglia, ritorna in pace co’ Parti, e al partir loro, se ne ritorna colle truppe in Antiochia.
Nello scorso libro abbiamo narrato, quanto per ispazio di dieciotto anni si operasse da Severo. Veniamo ora a’ giovinetti suoi figli, che a spron battuto verso Roma cavalcavano, l’un contro l’altro inviperiti. Adoperavano essi diverso alloggio e diversa tavola, con sospetti continui d’inghiottire cibi o bevande avvelenate per tradimento della propizia servitù: e, a preservarsene, se ne venivano in furia, stimando di
vivere più sicuri nella città, ove, divisi gli spaziosissimi appartamenti dello sterminato imperiale palazzo, avrebbero menato, ognun da per se, vita separata dall’altro.
Pervenuti in Roma, furono accolti dal popolo inghirlandato di allori, e inchinati dal senato. Muoveano innanzi i due imperadori abbigliati della porpora imperiale. Seguiano i consoli, portando sopra gli omeri l’urna che contenea le reliquie di Severo. La gente che uscia fuori a incontrarli, riveria i principi, quindi si genufletteva e con somma riverenza l’urna adorava. Procedendo essi con tanta pompa, la deposero nel tempio, ove sono i depositi di Marco, e degli altri imperadori. Fatto il sagrificio, e celebrate le cerimonie consuete, s’incamminarono a palazzo, ove divisi gli appartamenti, e atturati gl’usci segreti, non si lasciarono comuni che gl’ingressi principali. Ciascuno a suo modo si scelse le guardie,nè mai insieme convenivano, se non quel poco che occorrea a farsi vedere dal pubblico.
Fra queste dissensioni non omisero di celebrare al padre le debite esequie. È consuetudine de’ romani di consagrare quegl’imperadori che lasciano figliuoli, o altri successori, e dopo tal consagrazione scriverli al calendario degl’Iddii. In questa circostanza si usa celebrare un misto di lutto e di festa, perché il cadavere del defonto si sotterra secondo il rito sontuosamente, e nel tempo stesso s’impasta un ritratto di cera al verisimile, e si situa sopra un grande ed alto letto di avorio tutto coperto di broccato d’oro. Questo sì grandemente imita l’originale, che dipinto di pallore, par proprio infermo che giace. Intorno a’ lati del ietto stanno gran parte del giorno, alla sinistra i senatori tutti in gramaglie, a destra matrone venerevoli per la dignità de’ genitori o mariti. Le quali non abbigliano le persone loro di ornamenti di ori o monili, ma vi si conducono vestite di vesti bianche e sopraffine per mostrare più cordoglio. Usan far questo per sette giorni continui, in ciascun de’ quali si fanno i medici presso al letto, e, come se consultassero dell’infermo, asseriscono sempre più peggiorare. Quando poi è loro parso esser morto, allora la più scelta e nobilissima gioventù dell’ordin cavalleresco e senatorio si pone il letto sulle spalle, e per la via sacra lo porta al vecchio foro, dove usano i romani deporre il magistrato. Quivi sono certi gradini a similitudine di scale, nell’un de’ quali si slan fanciulli nobilissimi, nell’altro fanciulle di egual nobiltà, che con tuono flebile ed affettuoso cantano le lamentazioni del morto. Fatte queste cerimonie, prendono nuovamente il letto, e lo portano fuori della città in campo marzo, ove, per quanto è largo, si eleva un palco di forma quadrata, composto tutto di grosse travi a modo di tabernacolo. E questo si riempie di esca aridissima, e di fuori si adorna di ricchi strati contesti d’oro, di figure di avorio, e di pitture varie e bellissime. Nel dritto mezzo del tabernacolo se ne distingue un altro alquanto più piccolo, e a ingressi aperti, ma non dissimile nè di forma nè d’ornamenti. A eguale indicazione un terzo, e similmente un quarto, di mano in mano digradantisi: e così gli altri tutti sino a che all’estremo si perviene, che di tutti è il più piccolo. Si può assomigliare questo edilìzio a quei che torreggiano ne’ porti, e dan lume di notte a’ naviganti per guidarli ad ancorarsi in sicuro, e che volgarmente son chiamali fanali. Elevato dunque il letto nel secondo tabernacolo, vi gittan dentro e vi ammontano aromali, profumi, unguenti, e frutta, ed erbe le più che si hanno odorosissime. Imperocché e le nazioni, e le città, e chiunque di qualche dignità sia insignito, gareggian tutti a onorare di presenti le esequie del principe. Quando si è ammucchiato un grosso mucchio di spezierìe, nè parte alcuna n’è senza, allora cavalca intorno all’edilìzio innanzi e indietro l’ordine de’ cavalieri, torneando con certa legge e con moto detto pirrichio. Si fan poi roteare de’ cocchj da’ cocchieri abbigliati di porpora, e mascherati di maschere rappresentanti i passati illustri generali ed imperadori. Finiti questi spettacoli, il principe ereditario prende una fiaccola e dà fuoco al tabernacolo. Tutti allora si affrettano ad avvivare la fiamma, la quale in un attimo quella secca e resinosa stipa comprende e consuma. Quindi, messo fuoco all’ultimo e più piccolo tabernacolo, si fa dal più alto punto di lui volare un’aquila, che si crede rechi in cielo l’anima del principe. E d’allora in poi il defonto imperadore si venera al par degli altri Dii.
Indiato in tal guisa il padre, se ne tornarono a casa i due giovani imperadori, ed insieme alle discordie ed alle rivalità, ordendosi contro delle insidie ed ogni spezie di maligni e acerbi fatti adoperando, intenti sempre a irretirsi reciprocamente, e a porre in opera ogni abominazione ed ogni scelleratezza per restar soli all’imperio. Eran parimente dissensienti gli animi de’ principali di corte tirati a partito da segreti biglietti, e da grandiose promesse. La maggior parte però se la facea con Geta, per apparire in lui qualche segno di probità, e nelle udienze mostrarsi affabile e manieroso. Si era poi dato a lodevoli studj, onorandosi continuamente della compagnia di uomini dotti, e versando alla pa lestra ed in altri onesti esercizj. Era egli eziandìo paziente e piacevole senza distinzione di persone, e tal, correane la fama, che si era guadagnato tutti i cuori. All’incontro Antonino avea modi bestiali e feroci, ed alieno dagli studj geniali di Geta, affettava parere zelante della durezza castrense e della vita militare, e sempre in furie, e minacciando piuttosto che persuadendo, per paura, non per benevolenza accattivava amicizie.
Intanto, riescendo inutili tutti gli sforzi della madre per riconcigliarli, venne loro in capo di partire in due parti l’imperio, acciò la stanza di Roma non desse luogo all’uno di soggiacere all’insidie dell’altro. Per l’effetto del qual pensiere, fatti venire gli amici del padre, in presenza della madre presero a discorrere, che l’Europa si rimarrebbe ad Antonino, e le terre che le son dirimpetto, e van comprese sotto il nome di Asia, aggiudicherebbonsi a Geta, quasi che la divina provvidenza avesse a tal’uopo frapposto il mare tra i due continenti. Furono insieme di accordo, che Antonino aver dovesse il suo quartier generale a Bisanzio, e Geta in Calcedoni di Bitinia, città che guardandosi di fronte erano al caso di servir da propugnacoli a’ due imperj, e vietarne l’accesso. Dipoi che i senatori europei rimanessero in Roma, e gli altri se guitasserò Geta. Il quale per capitale del suo imperio destinava Antiochia, o Alessandria, che di poco si diminuivano a Roma in grandezza. Cedea poi ad Antonino, delle nazioni di mezzodì i mori e i numidj, e le altre tutte sino all’oriente si serbava per se.
Essendo essi occupati in questa divisione, e gli altri tutti per mestizia fissando cogli occhi la terra, levossi su la madre Giulia, ed in tal forma parlò: Voi avete, o figliuoli miei, trovato modo di partir tra voi la terra ed il mare, e certo che la frangente acqua divide tra loro i due continenti. Ma come dividerete la madre vostra? La madre vostra infelice come sarà da voi distribuita e divisa? Squartatemi piuttosto, e, presane egual porzione, ciascun di voi presso se la sotterri, acciò, qual del mare e della terra, tal sia di me. Così parlato con molte lagrime e grida gli strignea fra le braccia, e si affaticava di riconcigliarli. Onde vinti da compassione tutti riprovarono tal consiglio, e i principi si ritirarono ne’ loro appartamenti.
Ma di giorno in giorno rifioriva tra loro più feroce l’odio e la discordia. Imperocché se si avea da fare'qualche promozione di generale o di magistrato, ciascun de’ fratelli mettea innanzi e favoriva il suo amico. Se teneano ragione, eran sempre discordi con grave danno de’ piati tori che sentian giudicare le loro cause, non con giustizia ed equità, ma capricciosamente. Così negli spettacoli e ne’ giuochi venian sempre parteggiando. Oltre di questo accumulavano insidie con insidie, ingegnandosi scambievolmente di sospignere i cuochi e i coppieri agli avvelenamenti. Le quali cose andando a dilungo, pel tenersi che facea ciascun di loro in grande e diligentissima guardia, non pigliando essi cibo di sorte alcuna senza i massimi riguardi, venne in mente ad Antonino di non più tenersi; ed invaghito da cieca cupidigia di regnar solo, deliberò di operare all’ingrande, e tutto di egual modo si attendere: e, messi da parte i veleni e le frodi che non aveano avuto nè aver potevano niun esito, far uso della violenza e del pugnale. Onde, avventatosi furiosamente nella camera del fratello che tutt’altro attendea, gli fesse il cuore in grembo alla madre, di modo che il sangue ne sgorgò tutto su di lei. Ciò fatto, va via: e, traversando in un baleno tutto il palazzo, grida di essere scampato da un gran pericolo, ed a fatica riescilo di porsi in salvo. Così dicendo, comanda a’ soldati della guardia che lo piglino di peso, e lo conducano a salvamento nel campo, asseverando ch’era ito se quivi più a lungo si trattenea. Quelli dando fede alle sue parole, e ignari di ciò che là entro era accaduto, cor tono a lui che discorrea tutto il palazzo, e si accompagnano seco. Gran tumulto si levò tra il popolo nel vedere il principe trascorrere per mezzo la città in tanta fretta, e in su la sera. Quando e’ fu nel campo, entrò in quella cappella, nella quale sono esposte le insegne e bandiere dell’esercito, e prosteso in terra ringraziava gl’Iddii, e votava loro la sua salvezza. Itone l’avviso a’soldati che si trovavano allora o a bagnarsi o a riposare, corrono là entro tutti spauriti; e Antonino, fattosi circolo di loro, non dicea come andette la faccenda, ma gridava essere scampato da un grandissimo pericolo, ed aver fuggito le insidie di un suo capitale nemico, che così chiamava il fratello: avere egli dopo lunga tenzone superato i suoi avversarj, e, sormontati grandissimi rischj, essere alla fine restato solo imperadore per favore della benigna fortuna. Con tali e simili sutterfugi e raggiri cercava piuttosto di essere inteso che udito. Promettea inoltre per la sua salute, e per lo conseguito imperio, duemila e cinquecento dramme attiche per ciascun soldato, e due volte più del consueto di spese. Ponea quindi in loro balìa di prendere quanti mai voleano denari da’ tempj e dalle pubbliche casse, in un giorno solo profondendo quanto in dieciotto anni avea accumulato Severo col dar di piglio nel sangue e negli averi. I soldati, presi da sì grandi ricchezze, è venuti in cognizione della verità divulgata da quei ch’eran fuggiti di palazzo, acclamano lui solo imperadore, chiamando Geta inimico e ribello.
Stato dunque Antonino tutta quella notte nel tempio, e confidando nell’effusa largizione fatta a’ soldati, se ne andette il giorno appresso in senato, facendosi accompagnare da tutto l’esercito in attitudine assai più fiera di quella con cui sogliono scortare l’imperadore. Entrato nella sala, fatto ch’ebbe i sagrifizj, ascese il trono imperiale, e in tal forma parlò: Non si è chiusa la mia mente in modo di non comprendere che Vuccisione di un congiunto è sempre udita con ribrezzo, e che, a primo aspetto, frutta infamia di tradimento. Tanto è vero che non reggiamo dinanzi alla pietà degl’infelici, e, muovendoci a invidia la potenza, ci adduciamo a credere, che non il vinto ma il vincitore abbia offeso. Se però fasciando star la passione, e con avvedimento riguardando, esaminerete come ciò accadesse, e chi se ne debba imputare, voi allora assai apertamente vedrete che il vendicare l’ingiuria è più giusta e necessaria cosa che il sottoporcisi. Non si suole forse vituperare di dappocagine e di codardìa lo sventurato, e il vincitore, oltre la { eseguita salute, non ne sorte egli con vanto di valoroso e gagliardo? Torturando voi i suoi servi, ben potete venire in chiaro con quali insidie e con quanti veleni abbia egli infellonito contro di me. Nè ad altro fine gli ho qui tutti trascinati, se non perchè dall’accorger vostro la verità non si scinda: chè molti di loro han già tra’ tormenti confessato quanto vi verrà posto a sott’occhio. Ma per venire al fatto, voi dovete sapere, che stando io con mia madre, te lo veggo sopraggiugnere scortato da’ sicarj colla spada al fianco. Io allora, prevedendo ciò che tramava, di lui, come di crudele inimico, presi vendetta. Imperocché nè amore nè mente di fratello nudria egli per me. Ma il vendicarsi di chi prima con insidie ti circuisce, è cosa non solo giusta, ma passata già in uso ed approvata. E Romolo istesso fabbricatore di questa città, non sopportò il fratello dispregiunte le opere sue. Tacerò di Germanico fratello di Nerone, e di Tito di Domiziano. Marco stesso, ostentatore di filosofia e di mansuetudine, non sofferse la soperchierla di Lucio suo genero, ma con frode lo spense. Ed io, alla vista di tanti veleni, e sentendomi il coltello alla gola, ho spento quell’inimico che fieramente avverso mi si mostrava. Ringraziate dunque gl’Iddii, che un de’ principi hanno a voi conservato, di maniera che stando sotto un solo imperadore godrete di quella quiete che vi togliea la contrarietà de’ partiti. E forse Giove, che fra gl’Iddii è il solo imperante, ha voluto a un solo fra gli uomini questo imperio concedere. Tali cose mandò fuori con occhi di fuoco, e voce terribile, fissando in volto atrocemente gli amici di Geta già pallidi e tremanti. E ritornato a palazzo fa incominciare l’uccisione di tutti gli attinenti e dimestici di lui, e di coloro che convivevano seco, non men che degli altri ministri, di modo che non perdonava la vita nemmeno a’ bambini. E quei cadaveri gittati per vilipendio in su’ carretti, si trascinavano fuori di città, e quivi, accatastati, erano senza alcun riguardo scagliati in sul fuoco. E nessuno rimase vivo di quei che avessero avula con Geta la menoma attinenza. Fu fatta man bassa eziandìo de’ gladiatori, de’ cocchieri, degl’istrioni, e per fino di chiunque avesse agli occhi o agli orecchj suoi recato diletto. Cagioni da nulla, e dispregevoli spionaggi, eran sufficienti a far dannare alla morte, per aderenti all’ucciso, quei senatori che di nobiltà o di ricchezze si fossero distinti. Fece morire la sorella istessa di Comodo, già vecchia e da tutti gl’imperadori avuta in quell’onore che si convenìa alla figliuola di Marco, accagionandola di aver pianto presso sua madre la morte di Geta. Similmente levò di vita la propria moglie, figliuola di Plauziano che se ne slava rilegata in Sicilia, e un suo fratello cugino nominato Severo, il figliuolo di Pertinace e di Lucilla: in ultimo quanti rimaneanvi di stirpe imperiale, o di patrizia senatoriale nobiltà. Uccise ancora tutti i comandanti ed i governatori delle provincie, accusandoli di amicizia con Geta, e spendea le intiere notti a variare questi orribili macelli. Fece sotterrare vive delle vergini vestali, quasi avessero contaminato il pudor verginale.
Finalmente commise scellcragine non più udita nè fatta : assistendo egli a’ giuochi del circo, scagliò il popolo non so che motteggi contro un cocchiere suo favorito. Saltatogli in testa che si beffassero di lui, comanda a’ reggimenti della guardia di dargli addosso, e imprigionare ed uccidere tutti coloro che aveanò ingiuriato il cocchiere. Ma i soldati facendosi valere la licenza di rubare e ferire, e non essendo al caso di distinguere coloro che aveano sparlato, perchè in tanta folla si menila la verità, fecero man bassa indistintamente di tutti quei che cadean loro sotto mani, ovvero, rubatigli di ogni cosa, ne riscattavano a caro prezzo la vita.
Dopo tali cose straziato dagl’interni supplizj con cui gli martoriava l’animo la scellerata coscienza, gli venne in odio il soggiorno di Roma, e determinò di partirsene per passare in rassegna le truppe, e visitare le provincie. Onde, partito d’Italia, pervenne alle ripe del Danubio, ed a quelle provincie dell’ imperio che sono sottoposte al settentrione. Quivi o si esercitava col correr ne’ cocclij, e col uccider di propria mano ogni genìa di fiere, ovvero (raramente però) coll’amministrare ragione, dando di botto la sentenza, e decretando dopo avere udite in tutta fretta poche parole. Ma i tedeschi tutti trasse alla sua amicizia, e si legò di maniera, che condusse ed arrolò a’ reggimenti della guardia quei ch’eran tra loro i più belli ed i più valorosi. Spesso eziandìo, lasciata la toga romana, si vestiva alla tedesca in sajo varieggiatp di argento e a più colori, sovrapponendosi in testa de’ capelli biondi posticci, pettinali a quella moda. Delle quali cose tripudiando que’ barbari, lo amavano di amor sopragrande, e non men di loro la soldatesca romana accattivata dalla di lui profusa liberalità.
Egli poi era il primo a sostenere i carichi della milizia. Se si avea a scavar fosse, era il primo a lavorar colla zappa: se lavorar ponti su’ fiumi, spianare monti, riempier valli, o altra faticosa opera manuale fosse stato duopo eseguire, egli sempre il primo esercita vala. Si cibava parco, e in piatti e bicchieri di legno, di vivande vili e di pane impastato senz’arte. A tal’uopo macinava colle proprie mani tanto grano quanto a lui solo bastasse, e, fattene pagnotte, le cuoceva in sulla bracia e mangiavate. In una parola abborriva ogni delicatezza, e si trattava come il più vii soldatello. Oltre di questo, più caro gli era da’ suoi soldati compagno che imperadore esser chiamato, e spesse volte in cammino marciava a piedi con loro, raramente salendo in carrozza o a cavallo. Portava esso stesso le sue armi, e qualche volta eziandìo s’incollava le insegne militari ch’erano ed alte e per gli ornamenti degli ori di sì grave peso, che le reggeano a fatica i più robusti granatieri. Per tali ed altre simili cose l’esercito lo amava come un buon militare, e come gagliardo e forte in ammirazione lo avea, parendo loro cosa miracolosa che un omicciattolo, qual’egli era, reggesse a tante fatiche.
Ma dato ordine ai soldati che tenea sul Danubio, e venutosene nella Tracia provincia limitrofa alla Macedonia, subito si trasformò in un altro Alessandro. Imperocché la memoria di questo re in tutti i modi rinnovò, comandando che in tutte le città si ritraesse, e gli si rizzassero statue, e Roma stessa e il Campidoglio fece delle sue immagini riempire. Vedemmo similmente certi ritratti ridicolosamente dipinti a due visi ritraenti da un sol corpo, l’uno di Alessandro, e l’altro di Antonino. Egli poi usciva in pubblico vestito da macedone con in capo quell’ornamento che dicono causia, e a’ piedi calzari che han nome di crepide. E messo insieme uno sceltissimo corpo di giovani gli die’ nome di falange macedone, imponendo agli uffiziali di nominarsi co’ nomi de’ generali di Alessandro. Ad altro corpo poi di giovani fatti venire di Sparta, die’ nome di compagnia laconica e pitanite.
Fatte queste cose, e ordinate alla meglio le città, se ne andette a Pergamo città d’Asia per farsi curare co’ rimedj di Esculapio. E quivi, pasciutosi quanto volle di chimere, se ne passò ad Ilio, e visti tutti i rimasugli di quella città , s’incamminò alla sepoltura di Achille. Ed isparse sopra di lei con gran magnificenza ghirlande e fioriture, ne venne fuori trasformalo in Achille. Ambendo però di avere anch’egli il suo Patroclo, accadde, che un de’ liberti referendarj detto Festo suo gran favorito venisse a morire, dicono alcuni di veleno mesciutogli da lui per celebrargli l’esequie di Patroclo, altri poi affermano che mancasse di malattia. Comandò dunque che se ne portasse il cadavere al rogo che di molle legna avea fatto costruire, e fattolo situare nel centro, e sagrifìcativi animali di ogni spezie i gli diè fuoco egli stesso, e spargendo Tino da una tazza che tenea nelle mani, indirizzava nel tempo stesso a’ venti devote preghiere. Mosse poi le risa a tutti il vederlo cercarsi in testa i suoi radi capelli per istrapparne una ciocca a fin di gittarla in sul fuoco, e quindi a tale effetto tutto dischiomarsi. Infra tutti i generali encomiava massimamente Silla romano, e Annibale africano, ed in più luoghi fece loro rizzare statue ed immagini.
Partendosi poi d’Ilio, e viaggiata tutta l’Asia, la Bitinia, ed altri paesi, divenne in Antiochia, dove fu accolto con grande onore e magnificenza: e dimoratovi qualche tempo, prese il cammino di Alessandria, dando ad intendere che vi andava appunto per vedere la città edificata da Alessandro, e per adorarvi quel Dio a cui gli alessandrini sono sì grandemente devoti. Simulando adunque e la religione dell’Iddio e la memoria dell’eroe, comandò che si tenessero in pronto delle ecatombe ed ogni spezie di sagrifizj. La qual cosa subito che fu annunziata al popolazzo di Alessandria ch’è di carattere leggiero e mobilissimo, tutto fuori di se per l’allegrezza si tenea sommamente di quella tenera benevolenza del principe. Apparecchiossi dunque a riceverlo con la più grande magnificenza, e maggiore dell’usata con alcuno in passato: ed am manita una musica di ogni spezie d’istromenti, faceano risuonare le vie di suoni dolci ed armonici. Profumarono l’aria dell’odor degli aromati e di altre squisite spezierìe, illuminarono tutta la città, e da per tutto la fiorirono di fiori per fargli onore.
Entrato che fu Antonino, andette subito a visitare il tempio, ed immolate molte ostie, e sparso molto incenso sugli altari, passò alla sepoltura di Alessandro, ove depositò la porpora imperiale, e i suoi anelli tempestati di preziosissimi gemme, la militare cintura, ed ogni altra cosa preziosa che avea indosso. Tali cose vedendo gli alessandrini, oltrèmodo lieti notte e dì lo festeggiavano, non sapendo qual’odio contro loro covasse in seno. Adoperava egli queste finzioni per aver campo di tagliare a pezzi tutta la popolazione. La cagione di questo occulto odio era tale: gli era stato rapportato al tempo che si trovava in Roma che, vivente il fratello, ed anche dopo la sua morte, aveano gli alessandrini mordacemente inveito contro di lui. E veramente sono essi di natura beffeggiatrice, e pajono fatti apposta per dileggiare e schernire, avendo sempre in bocca delle facezie che scagliano contro i migliori e i più potenti, e che parendo a loro piacevolezze, sono da’ beffeggiati riputate impertinenze. E questi tanto più ne son punti, quanto maggiormente si sentono toccati sul vero. Per la qual cosa, avendo essi in più maniere sparlato, e non istandosi zitti neppur dell’assassinio del fratello, chiamavano la madre Giocasta, e di lui si beffavano, ch’essendo un palmo d’uomo, ardisse gareggiare gli Alessandri e gli Achilli massimi e fortissimi campioni. Spassandosi a questi motteggi trassero quella cruda ira e bestiale di Antonino a tender loro insidie mortali.
Finita dunque la festa e le funzioni, vedendo egli Alessandria piena di calca per l’affollamento de’ vicini paesi, fece affiggere un editto, nel quale comandò che tutta la gioventù si riunisse in una pianura, asserendo che come avea le falangi macedonica e spartana, volea di egual modo ordinarne una alessandrina in onor di Alessandro. Ordinò poi che que’ giovani sarebbero situati a date distanze, per poter essere in istato di meglio considerare la loro età, statura, e militare robustezza. Gli fu creduto, riferendosi a’ grandi onori compartitigli : e una numerosa gioventù tutta giojosa e festiva vi concorse insieme co’ loro padri e fratelli. Scorrendo Antonino fra le file ed Squadrando ciascuno da capo a piedi, gli pascea di lodi per dar tempo all’esercito di mettere in mezzo quegli spensierati. Come poi si ebbe persuaso di averli racchiusi fra le armi, e dirò quasi irretiti, ad un tratto si tirò indietro colle sue guardie, e dette il segno a’ soldati, i quali, avventatisi da ogni parte su quell’inerme e da lor circuita gioventù, ne fan orribile macello, insiem con quanti erano ivi concorsi. Veduto avresti gli uni intenti solo ad uccidere, gli altri, scavate larghe e profonde sepolture, accatastarvi i cadaveri, e, sovrappostavi terra, elevarne tumoli smisurati, entro i quali trascinavano quegl’infelici mezzo uccisi e taluni pieni ancora di vita. Non se la passarono però molto bene neppure i soldati, essendovi molti di loro periti: perchè quei che aveano qualche fiato di vita e non erano al tutto destituiti di forze, avviticchiandosi a’ sospignenti soldati gli ghermiano, e traean seco loro a ruinare là dentro. E sì orribile fu quella strage, che, adimandosi per la pianura una riviera di sangue, tinse di sanguigno le foci stesse del Nilo e tutto il littorale della città. Dopo tali prove Antonino se ne partì ed incamminossi verso Antiochia.
Ambendo poi il cognome di Partico, e acquistar fama di vincitore de’ barbari di oriente, benché si stesse con loro in pienissima pace, machino questa trama. Manda lettere ad Artabano re de’ parti, ed ambasciadori con doni di materia e di artifizio preziosissimi. Le lettere aveano questo contenuto: Voler per sua donna la figliuola di esso re: che sendo principe e figliuolo di principe non gli si convenia apparentarsi con gente privata e di umil nazione, ma competergli la figluola di un grande regnante: il romano ed il partico essere due imperj grandissimi, che divenendo uno per tal parentado, nè più si parendo da gran fiumi divisi, sovrastarebbero con tal preponderanza di forze da divenire inespugnabili. Imperocchè le altre nazioni barbariche, che sono a’ due imperj soggette, non ne scuoterebbero il giogo, se si riguardasse di farle reggere da’ governatori locali. Avere essi la infanteria romana che a tutte le altre è superiore in quei combattimenti ne’ quali a corpo a corpo si combatte colle aste e colle spade, e la cavalleria parta di numero infinita e abilissima saettatrice. Con tali forze, insieme ristrette ed usate di accordo, avrebbero essi facilmente tenuto in soggezione l’intero orbe terracqueo. Ed aggiungea: che tutti gli odorosissimi aromati che provengono di loro e le celebratissime tele, come pure i nostri metalli ed i nobili prodotti delle arti nostre, non più come prima si commercierebbero di tratto in tratto, e per mano di pochi e timidi negozianti, ma copiosamente da ognuno, accomunando, come in un fondaco comune, i prodotti tutti de’ loro imperj.
Ricevuto ch’ebbe queste lettere il re de’ parti, da prima irritrosì, dicendo: Non convenire a uomo romano matrimonio barbarico, non gli parendo che vi potesse essere legame di amore tra due persone di lingua diversa, e non usi a vestirsi e cibarsi nel medesimo modo. Fiorire Roma di molti patrizj, le cui figliuole sarebbero più al caso per lui, come egualmente far più per esso gli ars acidi. Non iscorgere plausibil ragione d’imbastardire i due sangui. Così da principio rispondendo, si ricusava di aderire alla petizione di Antonino. Ma questi di nuovo pressandolo, e accattivandosi l’animo di lui co’ donativi e col giurarglisi tutto suo, ed ancora asserendo che più non capìa in se la bramosa voglia d’impalmarne la figliuola, riesci di farlo acconsentire a tal matrimonio, in maniera che, datagliene la sua parola, solea di già nominarlo col nome di genero.
Divulgatosi tal parentado, i barbari tutti di un volere si apparecchiavano ad accogliere il principe romano con allegra speranza di eternare la pace. Ed Antonino, avendo attraversato senza opposizione i fiumi divisorj, e cavalcata quasi sua fosse tutta la Partia, la rinvenne in ogni lato parata di altari tutti ornati a corone, e innanzi a cui si uccidevano ostie e si bruciavano soavissimi profumi. Ei lìgnea esser gratissi mo e fuori di se per onori si grandi: e, procedendo innanzi, pervenne dopo lungo viaggio alla reggia di Artabano, e quivi in una vasta pianura vicino alla città gli si fece incontro lo stesso re per abbracciarlo quale sposo novello e genero futuro. Quindi quel luogo fu pieno di una moltitudine infinita di barbari inghirlandati con fiori proprj a quei paesi, e vestiti di vesti vaneggiate di ori e a colori diversi, i quali festeggiavano ballando in cadenza a suon di pifferi, di zampogne, e di naccare: chè van essi pazzi di queste danze, ed in ispezie quando son prevaluti dal vino. Ma poiché la folla si ritrasse tutta quanta insieme, e posati i cavalli cogli archi e i turcassi, attendea solo a mangiare e bere, e quasi tutta confusamente ammucchiata nuli’altro pensava se non a vedere lo sposo, eccoti che Antonino, dato il segno a’ soldati, comanda loro di scagliarsi su’ barbari e passarli tutti a fil di spada. I barbari » spaventati da tale inaspettato e repentino assalto, fuggono precipitosamente fra le ferite e la morte. Artabano tratto via dalle sue guardie e messo su di un cavallo, a fatica con altri pochi suoi compagni si salvò. Il resto de’ barbari venne tutto quanto tagliato a pezzi, si per essere scesi da’ cavalli che avean dimessi a pascere e su’ quali fan prodigj, sì ancora per trovarsi avviluppati dalla lunga zimarra, che insino a’ piedi loro discende, e i più non eran venuti provisti nè d’arco nè di turcasso. E qual bisogno poteva aversene in una festa di nozze! Assassinata tanta gente, Antonino si parte con gran preda e prigioni, e senza che nessuno se gli opponesse, arde borghi e città, e a’ soldati dà licenza di rubare tutto quel che possono e vogliono.
I barbari dunque, tutt’altro aspettandosi, ebbero duopo di soggiacere a tanto infortunio. Ed Antonino di poi ch’ebbe penetrato nel cuore del regno, si ritirò co’ soldati già stracchi di rubare e di uccidere nella Mesopotamia. Di dove scrisse al senato e popolo romano di aver domo l’oriente, ed a se soggettate tutte quelle nazioni. Ed il senato, benché fosse al giorno di tutto (che non mai si possono adombrare le cose de’ principi) tuttavìa per timore e per adulazione gli decretò tutti gli onori della vittoria.
Soggiornando Antonino nella Mesopotamia per ispassarsi alle corse ed alla cacciagione, teneva seco due generalissimi Audenzio e Macrino. L’uno era un vecchio che niente intendeva di reggimento civile, ma passava per uomo pratico dell’ arte militare; l’altro poi era assai versato nell’esercizio del foro, e avea riputazione di giureconsulto di gran vaglia. A costui, come dappoco e ignorante generale, dava sempre briga Antonino, motteggiandolo, e talora anche con villania. Ed avendo spiato che viveva lautamente e si beffava de’ cibi grossolani, de’ quali egli soldatescamente faceva sfoggio, e che vestiva eziandio di vesti cittadinesche, lo rampognava, tacciandolo di codardo e di femminile, e alcune volte infieriva a segno di minacciargli la morte. Dalle quali insolenze Macrino ne andava fortemente esacerbato. Intanto accadde cosa che levò dal mondo lo scellerato principe. Era egli avidamente curioso, e non solo pascea tal passione col ricercare i fatti degli uomini, ma scrutinava eziandìo i misterj celesti e infernali. E parendosi circuito da insidie, dava attentissima mente a tutti gli oracoli, tirati intorno a se magi, astrologhi, indovini, e tutti gli architetti di somiglievoli babuaggini. Ma, sospettando anche di loro come se storcessero le divinazioni per adularlo, fa una lettera ad un tal Materniano, sotto la cui diligenza e cura avea affidato il governo della città, al quale come al più fedele degli amici avca sempre confidato ogni suo segreto; e in questa gl’impone di fare esattissima ricerca de’ più celebri professori di magia, e per incantesimi merchi della sua fine é delle insidie che si tramano contro l’imperio. Materniano si prestò a soddisfarlo: e, o che in verità lo rilevasse dal diavolo, o pure fosse per odio che avea a Macrino, risposegli che soprattutto si guardasse da costui, e più presto che gli sia possibile lo spegnesse. Questa lettera, suggellatala come si fa insieme colle altre, la consegna a’ postiglioni senza dar loro alcun’ avvertimento. Costoro pervennero colla solita celerità ad Antonino in su quell’ora appunto che si apparecchiava alla corsa, e già era sul cocchio montato, e gli presentarono il mazzo intero delle lettere, frale quali si stava anche quella che riguardava Macrino. Ma Antonino, avendo l’animo tutto intento alla corsa, commette a Macrino di leggere le lettere, e se in esse rinvenga affari d’importanza glieli riferisca, se no, ci dia ordine e faccia l’officio suo di prefetto, come gli aveva ingiunto altre volte. Date queste disposizioni, attese alla corsa. Macrino aperte in disparte tutte le lettere s’abbattè in quella che trattava della sua morte. Conosciuto dunque il gran pericolo che gli sovrastava, e ben sapendo quanto fosse Antonino furioso e crudele, in ispezie potendosi palliare di tanto spezioso pretesto, nascose quella lettera, e solo riferì al principe il tenore delle altre. Ma temendo che Materniano tornasse a scrivere su ciò, fu di avviso convenirsegli piuttosto porsi all’azzardo co’ fatti, che soccombere inoperoso: e a tale effetto ordì quanto segue. Eravi un Marziale capitano delle guardie, che per ovunque seguiva Antonino. Il fratello di costui era stato pochi giorni innanzi giustiziato per ispionaggio e senza il menomo processo, ed esso beffeggiato di codardia e poltronaggine, e per derisione appellato amico di Macrino. Macrino dunque che il sapea vinto da disperato dolore per la morte del fratello, e per quegli scherni furibondo, il fa a se venire, e come a suo devoto e obbligato, gli persuade che più presto che può apposti Antonino e lo ammazzi. Marziale, commosso dalle promesse, e dall’odio e desiderio di vendicare il fratello incitato, gli si mostrò tutto pronto a obbedirlo tosto che glie se ne presentasse l’occasione. É questa non molto dopo gli si offerse; perchè trovandosi Antonino a Gazza città di Mesopotamia, esci di palazzo, e s’incamminò al tempio della Luna che non ne dista grande strada, e che quei del paese hanno in grandissima venerazioue. E per, quel tratto di cammino trasse seco per non disagiar tutto l’esercito una scorta di pochi cavalli affin di sollecitamente tornarsene, fatti che avesse i suoi sagrifizj all’Iddio. A mezza via, essendoglisi smosso il corpo, fece porre in disparte la scorta, ed esso accompagnato da un solo servitore, si discostò per fare i suoi bisogni. Nel ritirarsi che fecero tutti, e più che poteano lontani per ossequio e riverenza, Marziale il quale gli facea tutte le poste, subito che lo vide solo, corse là come se glie ne avesse fatto cenno lo stesso principe per fargli vedere o sentire qualche cosa, e all’indietro e mentre si slacciava gli dà un colpo con un coltello che tenea nascosto e gli passa da parte a parte le giunture, di maniera che, mortalmente feritolo, lo fa cascar morto a’ suoi piedi. Ciò fatto, monta tosto a cavallo e procura di scampar colla fuga la vita. Ma i soldati di cavalleria tedesca ch’erano il cuor di Antonino, e lo servivano di guardie, avvistisi dell’accaduto, inseguirono Marziale, e, lo trafissero a colpi di lancia.
La qual cosa intesa ch’ebbe l’esercito, corse tutto ov’era il cadavere di Antonino, e Macrino soprattutto abbracciandolo e forte piangendo se ne mostrava più che alcun altro dolente. Grave però e molesta molto fu questa morte ai soldati, a’ quali pareva aver perduto un amico, un compagno, e non un imperadore, e non passando loro per mente il menomo sospetto di Macrino, tenean per certo che Marziale avesse voluto dar isfogo a’ suoi rancori, e così se ne tornò ciascuno a’ suoi quartieri. Macrino poi ne fece bruciare il corpicciuolo, e situatene le reliquie in un’urna, le rimise alla madre che si trovava allora in Antiochia. Questa donna fu si vinta dal dolore della perdita de’ figliuoli, che poco dopo si ammazzò, non si sa se spontaneamente, o per averne avuto comando. Questo fine ebbe Antonino e sua madre Giulia, dopo aver vivuto di quella vita che dicemmo, e lui imperato non più di sei anni dopo la morte del fratello.
Morto Antonino, si trovando i soldati tutti confusi ed incerti, stettero due giorni senza imperadore, occupandosi insieme della scelta da farsi. Imperocché ebbero nuove che veniva a grandi giornate Artabano per vendicarsi dell’ingiuria sofferta, e per placare col sangue loro le anime di quelli che uccisi furono in mezzo alla pace e a’ conviti. Eleggon dunque imperadore Audenzio, uomo intendente di guerra e capitano di fama illibata. Questi però se ne scusò allegando la sua vecchia età. Allora si voltarono a Macrino, a insinuazione principalmente de’ tribuni, i quali furono dopo la morte di lui, come diremo di poi, sospettati d’aver cooperato all’assassinio di Antonino. Dettero dunque i Soldati l’imperio a Macrino, non tanto perchè avessero in lui fiducia ed amore, quanto mossi dalla necessità e dall’occorrenza presente. Fatta questa elezione, ecco sopraggiungere con grand’isforzo Artabano alla testa di numerose truppe, e traendosi appresso un forte corpo di cavalleria, lancieri infiniti, e uomini in su’ camelli ar mati di tutte armi, e che si battono con lunghissime aste. Poiché Macrino ne fu avvertito radunò l’esercito, e si dice che così cominciasse: Che voi vi dogliate della morte di tal principe, o, per dirla come sta, del vostro commilitone, non è certo da farsene maraviglia. Gli uomini prudenti però sopportar debbono con moderazione le umane calamitose vicenda. Fissa eternamente rimaner si debbe ne’ cuori nostri la memoria di lui: ed, estendendosi alla posterità, ritrarrà lode sempiterna delle grandi ed egregie sue imprese, e seco loro della benevolenza ed amor vostro, e de’ sudori che insiem con voi ha egli sparsi. Ma ora però, che state sono celebrate con tanto onore le di lui esequie, duopo è porci in guardia contro il pericolo che ci stringe. Avete voi innanzi agli occhi il gran signore, che, traendosi appresso tutto l’oriente, ci è già sopra per ghermirci, mosso, secondo a lui si pare, da giustissima ragione, tenendosi provocato per aver noi rotta in pienissima pace la guerra. Dalla vostra fede dunque dal vostro valore pende la salvezza di tutto l’imperio, perchè non dissentiamo noi con questo barbaro su’ confini, o di qualche fiume, ma andiamo a batterci per lo stato medesimo, venendo egli invaghito di vendicare i parenti suoi ed i figliuoli assassinati da noi (com’esso dice) barbaramente. Prendiamo le armi, e come si conviene a’ romani, abbiam cura di tenerci ordinati, avvisandoci che tanta folla di barbarica moltitudine impedendosi reciprocamente nel combattere, tornerà loro in danno; laddove voi, concordemente negli ordini e disposti alla pugna, ne sortirete vittoriosi coll’esterminio de’ nemici. Per la qual cosa io voglio che voi vi battiate con allegra speranza, da romani, e da quei valorosi che vi siete sempre mostrati. Così, disperdendo i barbari, e gloria grande acquistando, farete fede a Roma e agli altri popoli tutti, che voi vinceste la prima vittoria non per inganno o per frode, ma da valorosi e gagliardi. Dopo questo discorso, conoscendo i soldati il bisogno, si ordinarono da per se stessi e si posero sulle armi. Al levare del sole, veggono Artabano che marciava alla testa di gente infinita. I barbari, salutato ch’ebbero (come usan di fare) il nascente pianeta, si spingono feroci, e assordando l’aere di strida sopra i romani, e torneando colla cavalleria, fan piovere addosso a loro una tempesta di saette. Ma i romani, messo in ordine l’esercito, avvalorando i suoi fianchi della cavalleria moresca, e allargando le file per ricovrarvi i volteggiatori che sogliono a un tratto e assalire e avventarsi, prendono arditamente la battaglia e sostengono l’impeto di quei barbari. I quali, a mille a mille saettando, e quelle aste sterminate vibrando, come usi sono d’in su’ cavalli o camelli che cavalcano armati di tutte armi, facean macello de’ romani. Questi però, potendo riuscire di appressargli, rendean loro la pariglia. Quindi, si vedendo premuti dalla folla de’ cavalli e camelli, fan vista di fuggire, e spargono il cammin corso di triboli ed altri ferramenti puntati, che dall’arena coperti e renduti invisibili, faceano sterminio di cavalli e camelli, e di quanti sopra loro combattevano. Imperocché i cavalli, calcando i suoi piedi in su quelle punte, ed in ispezie i camelli che han unghie tenerissime, davan continue stramazzate, e scavalcavano il barbaro. Il quale quando è a cavallo o su’ camelli è combattitor ferocissimo, ma scavalcato o smontatone, incodardisce e si dà per prigione, non osando venire alle mani: e, impedito dalla zimarra che gl’ingombra le calcagna, nè di fuggire nè di dar dietro ha potere. Si combattè due intieri giorni dal levar del sole sino a sera, e le notti dividendoli, tornavan ciascuno a’ quartieri con segni di vittoria. Il terzo giorno si affrontarono in certa pianura. I barbari, prevalendo di numero, faceano forza di circuire i romani, e ad ogni lato serrargli. I romani all’incontro, non addensandosi, ma dando una più estesa fronte a’ loro battaglioni, si teneano in guardia di non esser posti nel mezzo. Giacque in quel giorno sì lunga tratta d’uomini e di giumenti, che ne fu coperto tutto il piano, e si elevarono monti di morti, e massime di camelli: onde, incespicatisi reciprocamente i combattitori, e vietati di appressarsi e vedersi da quelle sterminate altezze di affastellati cadaveri, si ritirarono a’ loro quartieri. Macrino avvedutosi, non per altra cagione Artabano con tanta pertinacia e furore combattere, se non perchè si vedea aver che fare con Antonino (che solendo i barbari non regger lungo tempo e presto venir meno, se i primi scontri non riescon loro come si erano proposti, allora all’opposto, non sapendo esser morto l’autore della guerra, induravano, e si tenean pronti a riprender la battaglia, tosto che avessero dato sesto a’ cadaveri col bruciargli) manda de’messi per far loro sapere: Che l’imperadore è morto, ed ha pagato la pena della violazione dell’alleanza e del giuramento: se essere stato da’ romani dispositori dell’imperio eletto principe: non annuire a quanto si era operato, e perciò renderebbe i prigioni e tutto ciò che loro fu tolto: desiderare che l’inimicizia si volga in amistà, e che la pace si santifichi col giuramento e colle libazioni. Letto ch’ebbe Artabano questa lettera, e informato che fu da’ messi della morte di Antonino, fu di opinione che avesse questi bastantemente pagato il fio della violata alleanza: e, soddisfacendosi di avere senza ulteriore spargimento di sangue e i prigioni e tutto il bottino, strinse alleanza con Macrino, e ritornò a’ suoi stati. L’imperadore romano, fatta sguarnire la Mesopotamia dell’esercito, si diresse ad Antiochia.
Fine del Libro Quarto.