Il risorgimento d'Italia/Parte I/Stato d'Italia prima del Mille
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STATO
D’ITALIA
PRIMA DEL MILLE
CAPO PRIMO.
Per ben conoscere quell’Italia, che noi cominceremo
a veder sepolta nella barbarie, e
poi rinascere a nuova cultura, e bellezza,
necessario è riconoscere la prima sua decadenza,
e i principi di questa, da’ quali venne
passo passo al profondo, non potendosi
senza ciò ben comprendere, come dall’alto
stato, in cui l’imperio del mondo l’avea levata,
in tanto abisso potesse precipitare.
Il primo colpo funesto l’ebbe da Costantino, allorchè trasferì la sede imperiale nell'oriente, e seco trasse la metà almen della gloria, e della potenza italiana. Quantunque di buone ragioni potesse aver Costantino a ciò fare, secondo autori gravissimi, pur facilmente comprendasi quale spoglio fu quello, dipartendo un sì gran monarca, e una corte tanto magnifica, ch’eran centro del mondo. Noi vediam tutto giorno nascer presto una città, ove un re mette nuovo soggiorno, restando un deserto là donde partì.
Tal rimase l’Italia allora. Que’ cortigiani, generali, e grandi signori seguirono l’imperatore con le immense loro ricchezze, e servi, e clienti. I primari magistrati, i consiglieri, i ministri anch’essi accompagnati di lor famiglie, e lor genti, questo era un popolo senza numero, riflettendo al lusso di Roma, e di tal corte. La moneta, l’arti, le manifatture, l’industria, che seguirono quella ruota primaria, intorno a cui s’aggiravano, il nerbo principal delle armate, che dovea star presso al capo, tutto il meglio alla fine partì, e lasciò gran vuoto in Italia di abitatori, e di danajo, il qual sempre più co’ tributi andò passando al regio erario, e circolando intorno alla sede imperiale, colà traendo seco il commercio senza tornare addietro mai più per cinque secoli.
Chi può spiegare un tal danno? Basta riflettere ancor solamente ai giardini, che i grandi aveano in Italia, e dal distretto di Roma stendevansi alla Toscana, verso Napoli, oltre il Piceno, e alcuni ne’ laghi, e alle riviere estreme d’Italia, come mostrano ancor reliquie in più luoghi. Furon presto delizie inutili senza i padroni, e restarono incolti giardini senza pur divenire campagne feconde per lungo tempo. Da questo solo può argomentarsi del resto. Gl’imperadori di poi occidentali per la di vision dell’imperio talor rivolti all’Italia poco giovarono, sì perchè prevalse poi sempre Costantinopoli in ogni potenza, sì perchè furono sempre agitati in discordie e sì perchè la divisione avea tutto fiaccato, costumi, industria, popolazione, valor militare, agricoltura, onde il celebre passo di S. Ambrogio1 dipinge la Lombardia fatta deserta per tante città divenute cadaveri, e terre, e castella in perpetuo atterrate, onde poi trascurati, mal difesi, imbelli venuti dieder campo alle irruzioni barbariche, che fan l’epoca seconda de’ mali d’Italia circa il quattrocento dell’era volgare.
Quantunque i Goti, ed i Longobardi, allorchè furono possessori pacifici dell’Italia, lasciassero monumenti di grandezza, di cultura, e di legislazione, anzi ancora di qualche studio2, pur tanti altri più barbari, e venuti solo a predare3 sappiamo abbastanza qual governo infelice fecero qui non sol d’ogni romana magnificenza, ma d’ogni gente, e città per ben tre secoli, e più. Non è bisogno tornar in memoria le stragi i saccheggi, la solitudine, ed il deserto, a che ridussero ogni provincia, che già le storie, e la tradizione assai lasciarono monumenti compassionevoli di tanti mali, e ruine; per quanto alcuno scrittore gravissimo tentasse di giustificarne quegl’invasori barbarici, e scemarne i danni recati all’Italia4.
Certamente si manifesta primo dalla partenza di Costantino, secondo dalla caduta del romano imperio, terzo dalla lunga dominazione de’ settentrionali invasori, che dovettero tutte le cose italiane prendere nuova forma, ed alterarsi del tutto. Ma il sapere, lo studio, l’urbanità, il valore, ogni pregio dell’animo, e dell’ingegno, ch’erano stati mezzi primari dell’emulazione degli uomini per elevarsi alle dignità, e alla fortuna sotto i romani, perchè da loro furono preferiti sempre nel governo, negli onori, e ne’ comandi; nulla più valsero tra gente feroce, che non conosceva altro pregio, fuorchè l’audacia, e la forza, e che tutto lo studio, e il valor riponeva in far prede o contro gli uomini nella guerra, o nella caccia contro le fiere5.
Così tutto vestì sembianze barbariche, e i linguaggi si alterarono, i libri si disprezzajono, l’arti le leggi i costumi la religione oppresse dall’ignoranza universale o si nascosero dentro a’ chiostri, o si compiacquero del loro deformamento. La letteratura pertanto sacra, e profana, che avea fatto ogni sforzo per non perire fino al settimo secolo6, più non potè reggere a tanti urti, e ne’ secoli susseguenti ognor più decadendo potè dirsi estinta. La religione essa sola presso gli altari, e in silenzio serbò il fuoco ognor vivo, sebben languente, e i papi, i concili, alcuni vescovi e monaci ne gittaton scintille, ma più a prodigio di previdenza, che a calore, e vita del cristianesimo. Il latino letterale, la legge romana, e qualche avanzo di lettere, e d’arti perciò rimasero in piedi tra i soli italiani.
Venne alfin Carlo magno, e fece sperare il risorgimento colla distruzione de’ barbari, coll’afforzamento della dignità ecclesiastica, e con altri sussidi. Tra l’immensa ruina ch’ei trovò nell’Italia d’uomini, di città, di costumi, di studi lasciata da’ barbari, vi raccolse alcun raggio di luce rimasto nei chiostri famosi fondati da loro stessi, e protetti talora magnificamente, quando fatti pacifici possessori avean preso dalla religione, e dal clima più mite, e dagli avanzi de’ nostri antichi quasi loro malgrado più mite ingegno, e qualche imitazione d’umanità, e di coltura spirata quasi coll’aria d’Italia. Roma per lui fu nuova patria, ove fatto romano patrizio, e romano imperadore, divenne romano d’animo, e di pensieri.
Nato egli veramente con le più felici disposizioni ad ogni illustre intrapresa, e già date avea pruove di un animo eccelso, e di una rara prudenza, e valore specialmente tra l’armi. Occupato da queste gran tempo, appena avea potuto osservare alcun lineamento di sapienza pacifica e letteraria tra pochi dotti, e studiosi di Francia, ove poi condusse, e chiamò da Roma maestri, e professori, sicchè la coltura là venne da noi, dice Maffei7. Ma venuto in Italia, parve aspettarlo il destino degli uomini veramente grandi, cioè l’amore alle lettere, e a’ letterati. Quantunque in estremo abbattimento qui eran vive però piucchè altrove. Paolo Diacono di Cividal del Friuli caro ai re longobardi, e al lor servigio, poi monaco e carissimo a Carlo Magno intorno al 780. merita il primo luogo. Sarà immortale per la storia sua de’ longobardi, e fu dottissimo per altre opere eziandio poetiche e credesi morto verso l’800. Dopo lui vengono Pietro di Pisa8 amico di lui, e con lui poeta, diacono anch’esso, e professore grammatico a Pavia: Teodolfo, e Landrado pur grammatici professori a Roma, (che allor valea quanto dotti, ed insigni in lettera- tura) il gran Paolino d’Aquileja, ed altri favorì, ed ebbe in pregio. Lo stesso immortale Alcuino, discepolo di Beda, benchè straniero pur ebbe Carlo la prima volta a vederlo in Italia, e qui con lui legò dapprima la confidenza, prendendolo a suo maestro, e la comunicazione reciproca a tanto prò d’ogni studio in appresso. Il celebre passo d’Eginardo suo storico, per cui fu creduto sì gran monarca non avere saputo scrivere, è oscuro non poco, ed è più ancora oscurato da tante altre pruove del suo sapere e del suo studio in ogni genere, sicchè deve tal opinione attribuirsi a quel seducente genio degli scrittori, e dei lettori verso il mirabile piucchè verso il vero9. Certo è, che nel suo stesso palazzo tenne quasi accademia di lettere, e di poesia10, la qual sempre è la prima, ed è cara ai guerrieri, come è necessaria a chi cerca fama, e grandezza.
Ebbe pur nella sua corte scuola di musica, e gli piaceva il canto gregoriano sopra tutti, da lui promosso dopo che a Roma l’avea gustato. La medicina, che allor era più che mai piena di frode, perchè tutta araba, ed esercitata principalmente dagli ebrei fu gran tempo sbandita dal suo palagio, ma invecchiando poi la raccolse, e fu Alcuino dei primi a ricordar il nome, e i libri d’Ippocrate dopo i tempi barbarici11. Così l’astronomia coltivò, e da lui vennero dati i nomi tedeschi anc’oggi usati con poca mutazione in Europa ai mesi, e ai venti. In fine ei promosse per tutto con l’esempio, e con l’autorità studj e scienze, promulgò editti a fondar scuole, e maestri12, convocò concili, raccolse canoni, confortò i dogmi, la disciplina, la sede romana unito ai papi in gran favore della religione, e per raccogliere tutto in uno, fu autore dei celebri capitolari, opera sola bastante a far immortale ogni principe più memorabile a tutte l’età.
Pareva dunque per così eccellenti prerogative di lui sicuro il risorgimento della cultura in Europa, ov’egli sì ampiamente regnava, e soprattutto in Italia, ove stette e tornò sempre più a lei benefico, e quasi nativo di lei. Ma penetrando con applicazione in quei tempi, e costumi, parmi trovare, oltre ai danni venuti per colpa dei suoi successori, una ragione del tristo riuscimento di tante speranze. La grande impresa di riformar popoli, e regni gli si fece conoscere difficilissima, come è in fatti, e fu sempre. Pensò, che la religione era il mezzo più facile, e più efficace, come lo avea provato, a frenare, e tener soggetti i popoli più feroci da lui conquistati. A quella dunque tutto si volse; gli uomini religiosi furono suoi consiglieri, ed Alcuino il principal confidente. Lo zelo di questi tutto rivolto a’ sacri studi, poco a poco ebbe in sospetto gli autori antichi greci, e latini, come corrompitori della morale cristiana, e furon banditi dalle scuole, talchè molto costò di fatica a Sigulfo collega di Alcuino, e men rigido di coscienza a rimetterli poscia in credito. Dunque i soli autori sacri furon promossi, e il sapere fu canonico tutto scritturale teologico. A que’ tempi ancor non dirozzati, e in quei principi facilmente si venne alla disputa, alle controversie, alle sottigliezze, alle prefazioni d’ingegno, che in tanta inopia di libri, e di erudizione dominarono largamente.
Due mali provennero da così lodevole, e saggia intenzione. L’uno, che l’austerità, ed incertezza di tali studi non allettarono l’universale, l’altro, che tra gli allettati, e coltivatori fu chi profanolli. Molti studiosi, e più amanti del piacere, che trovavano in greci, e latini, massimamente poeti, (sempre i più letti, e accarezzati) portarono il gusto profano, l’invenzione, il capriccio, e l’entusiasmo nelle scuole, e nelle scienze ancor sacre, alle quali obbligati pur erano; e quindi in quel secolo noi troviamo ad un tempo e molti verseggiatori, e molti errori, mostruosità, profanazioni, che poi sempre andaronsi propagando. Forse meno sprezzando gli antichi Carlo Magno avrebbe più facilmente dato aiuto durevole alle bell’arti, e agli studi col piacere per una parte, e coll’esempio dell’ottimo gusto, del buon stile, delle lingue morte per l’altra. Laddove trasportato dallo zelo santo, per cui ne vien tenuto in alcun paese siccome canonizzato, non altra letteratura, può dirsi, aver fondata fuor la peripatetica, a ciò concorrendo non poco il commercio cogli arabi sin d’allora13. Imperciocchè il Califo Aronne tra quelli illustre14, che il Carlo Magno può dirsi de’ mori, e tenevasi grandemente amico dell’imperadore, protesse tra suoi l’arti, e gli studj, lasciò monumenti preclari, e fu di lui più felice eziandio per successori più saggi, e più costanti nell’amore de’ letterati. Ecco però un argomento, onde conoscere i fondamenti primi del modo scolastico negli studi, che assai più tardi si crede invalso generalmente. Al che diede ancor più vigore la scuola parigina, o università, che dir si voglia, la qual secondo alcuni non da Carlo Magno fu fondata, ma sì dagli allievi d’Alcuino ebbe principio, e nel secolo appresso numerosa divenne, e chiara principalmente nelle facoltà di teologia, e di filosofia, quella d’indole disputante per gara d’ingegno, e di sottilità nelle sacre materie; questa tutta peripatetica, onde ognor riconobbe per madre la scuola di Parigi, e il famoso Maestro Mannone per padre.
Colpa però del suo secolo principalmente sì fu se miglior frutto non ne provenne, e sola gloria di lui, che tanto pur ne venisse a dispetto del secolo troppo ancora selvaggio per la barbarie degli antecedenti, e troppo tumultuoso per guerre non interrotte. Certo è, che per lui si gettarono semi abbondanti di coltivamento agl’ingegni, e l’Italia n’ebbe gran parte. La più illustre pruova tra la rarità di memorie d’allora, e più preziosa è il celebre Capitolare di Lotario ad esempio di Carlo Magno, e poco dopo la di lui morte per tutta l’Italia promulgato, con cui può dirsi l’ultimo sforzo fu fatto a prò di lei, e degli studj, e scuole, onde gli storici a gara cel conservarono.15
Dissi l’ultimo sforzo, perchè più non troviamo di ciò menzione, anzi troppo sappiamo ognor più caduta ogni cura di lettere a segno, che nel secolo appresso all’anno 960. alcuni dall’orrore commossi, e dalla pietà dell’universale ignoranza più tenebrosa mandarono sino in Germania all’imperadore Ottone il grande solenne dimanda per ottener qualche maestro di lettere, onde venne per gran favore il monaco Adalberto a tal fine.
Questo fin ebbe lo zelo di Carlo Magno tra noi, e d’alcun suo successor nell’imperio, e ne’ varj regni divisi tra i figli imbelli, e nipoti suoi, onde sembra non aver lui tentato di rialzare l’Italia dalla ruina, se non perchè più gravemente poi ricadesse lui morto abbandonata a se stessa.
Spenta infatti dopo incredibili sconcertamenti, e discordie numerosissime de’ suoi discendenti la francese dominazione all’888. e passata l’Italia a dividersi tra i rivali duchi d’Italia, che fu l’origine del governo detto Feudale, divenne ella teatro di stragi, di vizj, di sfrenatezza da un lato all’altro, e sparve in tutto ogni lume di ragionevole vita, non che di lettere, e di dottrine. Noi già siamo al secolo X. precedente al principio del nostro lavoro, ond’è necessario ristringerne in pochi tratti, ma più precisi, i più atri ad aprire la strada alla storia una immagine non confusa, quasi un fondo caliginoso dal pittore disposto a preparare da lungi, e adombrar poco a poco l’albeggiar primo d’un nuovo giorno.
Cominciata pertanto insensibilmente l’indipendenza de’ popoli per le domestiche guerre de’ Carolingi dopo il debole imperio del Calvo, e l’avvilita autorità del Grosso dopo l’870. più non restava un avanzo di quella pace, e tranquillità, che dal Tevere sino all’Alpi avea goduta l’Italia per più d’un secolo16, cioè dal primo abbassamento de’ Longobardi per le vittorie di Pipino, e di Carlo Magno. Guerreggiarono, è ver, gl’italiani anche allora, ma prendevano l’armi, e le amministravano ordinatamente militando a difesa della lor patria, o talor anche fuori sotto le bandiere di que’ bellicosi monarchi, i quali, come sovrani esigevano da: duchi, marchesi, conti, vescovi, e abati italiani certo numero di lor vassalli armati per quella guisa, che oggi mandano i membri del germanico imperio il contingente de’ pattuiti soldati all’armate imperiali. Così colla pace, e con l’ordinamento della provincia vi ripigliaron qualche ordine, e lustro anche i costumi, e gli studi protetti, come vedemmo a quel tempo, ed incoraggiti dal principe. Giovò pur molto a questi la grandissima autorità de’ vescovi, e monaci presso al monarca, il buono esempio de’ quali, la professione pacifica, la necessaria coltura di studi fu a’ popoli più vantaggiosa, avendo essi maneggi, e potere eziandio ne’ civili, e politici affari. Di ciò venne danno più grave di poi, perchè quanto gli uomini di chiesa, e di chiostro contribuirono, ben usando di lor potenza, al buon ordine de’ governi, e de’ costumi, altrettanto poi abusandone, come avviene per poco in professioni sì opposte, la lor potenza secolaresca disordinò gli animi, ed i costumi religiosi, onde al secolo susseguente traboccarono negli eccessi della licenza, dalla prepotenza, delle simonie, combattendosi furiosamente pei possessi, ed usurpazioni reciproche or degli ecclesiastici sopra i principati, e le signorie, or de’ signori potenti sopra i ben della chiesa. Così dopo il IX. che può dirsi un secolo d’oro a fronte del X. tutto venne a depravazione ed eccidio. L’infiacchimento, e poi la caduta del franco impero aveano recato tal nuova forza, ed ardire alle discordie, e pretensioni de’ primari duchi italiani17 e de’ papi dopo l’aumento di lor possanza ottenuto da Carlo Magno, che quindi vennero i turbamenti, e gli orrori di quel secolo di ferro. Allor fu, che l’ambizione rivale di tanti concorrenti al regno d’Italia corruppe in prima ogni ordine di gerarchia nella chiesa, incominciando da Roma, ove ognuno pretese inframmettersi dell’elezione de’ papi, ove i primari romani preser l’armi a predominare, donando il pontificato a persone or per età, or per costumi indegnissime, e avvilendo la dignità suprema con violenze inaudite, con prigione, con orribili stragi al pari di quelle, che Roma avea vedute nelle furibonde gare tra gl’imperadori idolatri de’ tempi più sanguinosi.
Depressa a tal segno la sede di Pietro, caddero nell’obbrobrio le vescovili, nelle quali già s’erano intrusi i cortigiani, i capitani, i favoriti degl’imperadori, che colle mitre premiavano i militari servigi, e i domestici parimente. Si videro sin de’ fanciulli sulle cattedre pontificali, e le più pingui, e venerande abazie date a gente di guerra, e di corte, sicchè ne venne quel nuovo titolo d’Abati-Conti, ed ogni infame traffico simoniaco dominò largamente, benchè papi, e concili, spezialmente il romano nel 981. pugnassero incontro a tanto peccato. Per colmo di mali i tiranni di Roma, detti consoli, o patrizi, come Crescenzio scelleratissimo eran protetti da’ greci imperadori, perlocchè, nella storia ecclesiastica è quel secolo deforme, e oscuro, e il più sciagurato, e il più ignorante appellato.18
Tutti compravano, e tutti vendevano a maggior peso d’oro le dignità, e le rendite della chiesa, poi si venne ad invaderle colla forza, spogliandone a man salva i sacri posseditori, nè le leggi avean più vigore neppure a frenar i privati depredatori. Così le liberalità degl’imperadori, e de’ re longobardi, che con sì magnifiche fondazioni avean preteso onorare la religione, divennero invito, ed occasione alle più indegne profanazioni. Resistettero i più potenti vescovi, e abati; poi sopraffatti dagl’invasori ora cercarono di risarcire i lor danni invadendo altri sacri dominj ed averi, ora dandosi spontaneamente in affitto, livello, e feudo a’ potenti per averne difesa, onde cadevano poi niente meno in lor balia per la rapacità de’ lor perfidi difensori. Così passarono in conquista città, castella, anzi Provincie, giacchè a tanta potenza di possessioni, e dominj eran giunti vescovi, e abati per la prodigalità de’ donatori predetti. Ora occupati così da’ soldati, e cortigiani i monasteri si videro divorati dal lusso di quelli, cacciati i monaci, o almen negletta ogni lor cura, e quindi scandali prevaricazione ozio ignoranza dominar sino a que’ più riposti refugi della pietà, e dello studio. Cadde adunque del tutto quella poca dottrina, ed industria studiosa, che s’era per ultimo riparata tra solitari. Qual dunque esser poteva in mezzo al tumulto dell’armi, e delle stragi?
A queste già molto lacrimevoli stragi fatte dalle discordie degl’italiani signori s’aggiunsero quelle de’ barbari settentrionali, e meridionali insieme, che nuovamente ogni giorno infierirono, e più che mai nel X. secolo19. Di qua sbucarono gli Ungheri, o Ungri pel Friuli in Italia venuti dalla Pannonia al principio del 900. che dopo avere sconfitto il re Berengario al primo incontro, inondarono la Lombardia: di là i saraceni, o mori d’Africa, e di Spagna desolarono le Sicilie, ed il ducato romano con molte coste marittime dai due lati egualmente20. Gli uni, e gli altri barbaramente operavano il ferro, e il fuoco, anelavano solo alla preda, e alla strage, sicchè spensero affatto gli avanzi d’ogni socievolezza. A quest’epoca deplorabile fu la ruina fatale degli archivj, e delle biblioteche con le reliquie dell’antichità greca, e latina, che qua, e là nelle chiese, e ne’ monasteri serbavansi, onde consunti dal fuoco, o dispersi i codici, e le pergamene, assai ne furon per sempre perduti, e assai furono poi difficilissimi a ritrovare per più di tre secoli di ricerche, che ne furono fatte di poi. Fu spettacolo orribile il vedere l’intere città più popolate, e opulente, i più celebri monasteri, e le chiese ricchissime, i monumenti in fine della romana grandezza, della gotica, e longobarda potenza, infin della pietà, e magnificenza degli ultimi imperadori, e gran principi incendiate, e deserte, tornando ogni anno nuovi eserciti barbareschi a distrugger gli ultimi avanzi fuggiti alle fiaccole, e al ferro de’ precedenti.
A tutto ciò congiunti gli scismi, e gli antipapi, che combattevano colla forza dell’ armi, non colla disputa, e colla dottrina, produssero sol del male, mentre pur l’eresie tengono in moto gl’ingegni, e gli studj nelle battaglie di penna, proteggendo l’errore, od oppugnandolo, sicchè quello, che sempre fu un bene, e rarissimo in altri secoli, cioè l’esenzione dall’eresie, fu in questo sventura ancor esso, perchè lasciò radicar l’ignoranza viappiù che mai, e in parte fu frutto di quella. Essa, che è la sorgente di tutti i mali ne’ popoli pieni d’altre passioni, e lontani dalla simplicità primitiva, prese gran piede in ogni stato. E quali furono gli scrittori! Ne più rozzo stile, nè più scorretti monumenti, nè più svariate tradizioni si videro mai, quanto nel X. secolo, benchè sia questo di cui meno ci restino letterarj monumenti
Diamo un’occhiata al sapere, ed agli uomini dotti di quella stagione per comprovarne ognor più la miseria. Poco avremo a parlarne. E’ ver, che alcuno de’ papi anche in quella notte, allor quando ebbe un poco di tregua da tanti mali, e nimici, rivolse l’animo al coltivamento della dottrina, e si trovano lor decreti, e comandi a’ vescovi di tener scuole aperte alla gioventù, essendo allora usato, che i vescovi, e i monaci fossero eglino stessi maestri di scuola, tanta era scarsezza d’ogni altro. Ma ciò, che pure nel secolo avanti avea prodotto alcun frutto, poco, o nulla nel decimo potè giovare.
Raterio vescovo di Verona era verso il 950. dotto, e n’abbiamo opere21. Azzone vescovo di Vercelli22 il fu ancor più al tempo stesso, levandosi assai sopra il suo secolo col dannare le pruove stolide del duello introdotte da’ longobardi, che obbligavano anche vescovi, e monaci a provare per se, o per altri coll’armi alla mano loro ragioni in giudizio, e così altre superstizioni dominatrici sostennero. Ma poco vanto all’ Italia recano questi, essendo il primo, secondo alcuni, fiammingo, e francese forse il secondo. Fu bensì un Agnello Ravennate (giacchè il suo concittadino Guidone detto il Geografo Ra ignano non è del IX. come alcuni pensarono, ma del VII. secolo), fu, dico, Agnello scrittor delle vite degli arcivescovi di Ravenna in gran pregio presso a’ nostri eruditi23, ma per la rarità appunto d’altri scrittori di que’ tempi; Liutprando pavese di patria assai fu benemerito della storia del suo tempo, ma satirico insieme, e maledico la corruppe; uomo più atto agil’ intrighi di corte, che alle lettere, onde meglio la sua politica gli giovò ad ottenere il vescovado di Cremona, la grazia de’ principi, le ambasciate all’imperadore Costantino Porfirogenito, la prima per nome di Berengario II. re d’Italia, di cui fu segretario, l’altra per nome d’Ottone il grande24. Poco altro possiam registrare di letteratura lombarda a quel secolo, la cui ricchezza maggiore si fu qualche vita, e cronaca rozza più di molt’altre25.
Volgendoci a Roma, ove furono in ogni tempo gli studj più favoriti, poco più avremo a dirne. Molti pontefici per santità, e per zelo fiorirono, ma poco valsero incontro all’universale ignoranza, e poche memorie ne restano. Benedetto IV. sin da principio, Stefano Vili. Leone VII. Agapito II. dal Mabillone sono tra i buoni citati. Appartien soprattutto a questo secolo il gran berto monaco, quantunque sul fin d’esso abbia soltanto a vantarsene l’Italia, cioè quando fu abate di Bobbio, poi arcivescovo di Ravenna al 998. Fu papa l’anno seguente col nome di Silvestro II. uom singolare tra monaci per dottrina moltiplice, e per sommo ingegno, siccome gran luminare della chiesa in appresso tra tutti i prelati, e i pontefici. Da piccola, e bassa origine egli levossi con quelle doti, e col talento eziandio nelle cose politiche, e ne’ raggiri cortigianeschi alle più alte dignità, e divenne l’oracolo dell’Europa26.
Passiamo avanti cercando nell’Italia più orientale alcun raggio di luce, e questa viene per qualche orma di medicina, e di filosofia, che dai greci principalmente diffusesi in quella parte. Benevento contò allora, se vogliam credere all’anonimo Salernitano, trentadue filosofi, tra quali ei nomina, come più insigne, un Uderico. Il Muratori poi crede aver ragion di trovare in Salerno la medicina fiorente prima del mille, onde ebbe poi vita la scuola salernitana.
Ed ecco tutta la gloria dell’italiana erudizione, e sapienza in quel misero secolo per non venire tessendo contro il nostro istituto un catalogo di meschini scrittori, e di lor opere poco degne di chi va in traccia dell’utili cognizioni27.
Eppur fiorirono due grandi uomini, che furono insieme due sommi principi Ottone il grande imperatore sino al 973. e il detto Silvestro II. al 1000. veramente immortali. Benchè l’uno germanico, l’altro francese dì nascita, pur dominarono, e stettero lungo tempo in Italia, e tentarono risuscitarla dal suo letargo, ma senza frutto. Sebben può dirsi, che non fu inutile a lei quel gran papa, potendo a giusta ragione attribuirgli assai del benefico influsso venuto al secol seguente, giacchè salì nella sede romana sol l’anno 999. sino al 1008. in cui morì.
Qual maraviglia però, se tanta fosse ignoranza, e pigrezza di studj, e d’ingegni a tal tempo immerso in guerre feroci, e in barbariche desolazioni? Il furore dell’armi fu sempre nimico di lettere, e dee riguardarsi, come il primario ostacolo all’italiana letteratura quello spirito ora feroce, or solo ancor militare, ma indisciplinato, per cui presso al mille, e assai dopo era negletta non solo ogni dottrina, ma tenevansi a vile eziandio gli studiosi, e gli studj, qual professione d’anime vili, e codarde. Barbarie ancor permanente tra molte genti di spada in Europa, che si fan vanto dell’ignoranza, e spregiano insieme gli uomini tutti di toga, e di lettere, come imbelli, e
A finir questo quadro lugubre del novecento italiano raccor si ponno gli ultimi tratti, mostrando piuttosto quel, che non era l’Italia, e quanto lontana e diversa ella fosse dallo stato presente, che per ciò ch’ella fosse, o facesse, di che mancano monumenti in un secolo d’ignoranza incapace di pur rispondere di se medesimo. Dobbiam però figurarcela, e specialmente la Lombardia, come un deserto, e solitudine vasta. Molte città distrutte affatto, altre diroccate in gran parte e disabitate; pochissime con muraglie, e difese; le più ridotte a villaggi di pochi e squallidi abitatori, molti essendo periti per morte di pesti, e di guerre, molti fuggiti a cercare scampo altrove. Gli incendi i saccheggi lo spopolamento aveano tolta ogni difesa e guardia contro fiumi e torrenti, de’ quali siamo per ogni parte assaliti dall’alpi e dagli appennini, sicchè divenner 28 paludi vastissime, come furono prima di Roma territori e provincie, che noi abitiamo sicuramente per tanti argini e ripari non osservati da noi, perchè trovati al nostro nascere già prefissi, e sicuri. A tanta scarsezza fu il popolo allora, che gl’imperadori, e specialmente gli Ottoni mandar dovettero di Germania, ove sempre abbondò il genere umano, colonie per avere dei sudditi, ove aveano de’ dominj29. Siccome poi la vita d’ognuno era guerriera e sempre in armi, così erano ancor le leggi guerriere. Ognun professava una propria legislazione, avea tribunale distinto in ogni patria, se patria potea chiamarla il colono tedesco di recente venuto a starvi, l’errante avventuriere, che per caso vi soggiornava, il soldato alla fine incerto sempre della sua stanza. Pur ne’ pubblici affari, o contratti ognun dichiarava di vivere or secondo la legge de’ longobardi, or de’ bavari, or dei romani, e secondo ogni legge poi decidevansi militarmente i contrasti; le cause tra principi, e tra privati si decidevano co’ duelli. Tutto in fine era guerra sino a’ vescovi e abati guerrierri e in armi, non che i duchi marchesi e conti, ch’eran soldati più che altro degli imperadori, e nemici poi sempre gli uni degli altri. Per conseguenza ignorante, e rozza era tal gente in ogni studio, ed arte, di cui non ha bisogno, e per cui non ha tempo un vivere disfrenato. La lingua stessa primo legame tra gli uomini, e primo bisogno, è men necessaria, ove bastano cenni, ed anzi urli, che voci, per chi ha la spada ognor in mano a farsi intendere, ed ubbidire. Provveder di che vivere, o come assalir l’inimico, goder della preda per libidine, o per cupidigia, queste sono le idee, le occupazion di tal gente, e a tutto ciò basta ogni linguaggio. Mal si parlava, peggio scriveasi; ciò, che fu detto e creduto di Carlo Magno, fu poi verissimo d’altri principi, che per ciò usarono cifre improntate a suggello, avendo a scrivere il loro nome. Il più spesso supplivano alle lettere loro, e al carteggio i messaggi specialmente militari, ogni soldato a ciò bastando. Dunque sorta alcuna di letteratura non potea coltivarsi tra chi non sapea pur gli elementi, sicchè leggiamo ancor con orrore lo stile di que’ notaj, cancellieri o segretari di principi, e di città, ch’erano i dotti per professione di latinità.
Nè diverso era lo stato delle arti e manifatture, eccettuando i lavori in metallo, che più si sostennero, essendo alla milizia essenziali. Dunque pitture e scolture d’allora (tra le poche avanzate) vediamo deformi al sommo; anzi poche ne furono d’italiane, perche i pochi lavori siffatti eran di greci rozzi anch’essi. Architettura del pari barbarica: allor però nel vero assai più si smantellava, che non si fabbricasse. Il più delle case anche in Italia di legno fatte, e di creta sì per l’inopia comune, come per lo pericolo ognor vicino di perderle, e coperte di paglia, e mal fondate, siccome, abitazioni passeggiere; alle quali case era proporzionata la suppellettile, senza divisioni, senza vetri, senza focolari, affumicate, perchè cucina era in mezzo, nè cammini si usavano, come appena s’usavan letti, un solo per molti, se v’era, e questo di poca paglia, e con qualche coperta grossolana, o pelle più dozzinale allestito; così il mangiare, il vestire così. Non selciate le strade nè pur di città; non vetture, fuorchè di carra, o di giumenti, essendo i cavalli di gran prezzo (ove le razze mancavano), e venuti da lontano, e più necessari in guerra; non pubblici alloggi a’ viandanti, non ponti, o porti su i fiumi, (anzi laghi, e paludi) fuor qualche barcaccia qua30 e là, tenendosi da ognuno quasi sempre le vie de’ monti, perchè meno interrotte. Agricoltori però radi assai, perchè i campi allagati, le continue scorrerie, gli arrolamenti impedivano i lavori tranquilli. Oltre a ciò le carestie frequentissime, e le pestilenze. Se manca spesso la vettovaglia tra noi con tanti provvedimenti, e leggi, e magistrati, e commercj, qual penuria sarà stata allora? E se sì tardi abbiamo allontanati i contagi con tanti sforzi, qual maraviglia, che s’incontrino sì frequenti nelle storie d’allora, e tanto desolatori? Ma quai governi, quai magistrati, quai reggitori erano quelli? Ognuno intento a violenze usurpazioni e dissolutezze, appena talor frenati dai messi dominici, cioè inquisitori mandati dai sovrani, che rado, o non mai al bisogno accorrevano. Non ambasciadori fissi alle corti, non corrieri, o poste regolate, nè cambisti a fuggir ladri, portando l’oro, nè libri, ne stampe, nè ombra di geografia, o di novelle pubbliche; onde frequenti gli assalti improvvisi de’ nemici, tradimenti e ribellioni di sudditi, o di alleati, congiure, tumulti, terrore, e impunità d’ogni parte. Da cotanta ignoranza, e salvatichezza la superstizione prese vigore. La provvidenza trasse un bene dagli altri mali, come dicemmo, che neppur vi fu dottrina bastante a sparger errori contro la fede. Ma fu altrettanto deplorabile la superstiziosa pietà tutta all’estrinseco, come esser dovea tra gente sì ignara di sua religione, tutta in pellegrinaggi31, reliquie, immagini tenute per prodigiose, voti e offerte tanto più larghe, quanto da’ più scellerati massimamente in morte fatte. Basta leggere i creduli, e semplicissimi scrittor di vite de’ santi, per vedervi i santi oltraggiati per intenzione di glorificarli con miracoli falsi, e favole portentose di visioni apparizioni, e rivelazioni contraddittorie ridicole ed incredibili. Col gusto medesimo l’altre storie e leggende, e sopra tutto le poesie ridotte in gran parte ai versi leonini, alle sequenze ritmiche, ad ogni capriccio più deforme.
Prima di levare la penna da questa scena funesta volgiam l’occhio addietro a considerare l’Italia de’ tempi felici in confronto di questa, che non è certo perduta opera, e senza premio, dice il Guicciardino32, il considerare le varietà de’ tempi, e delle cose del mondo. Vediam l’Italia con Roma signora di tutta la terra conosciuta, centro di tutte le ricchezze, e grandezze umane. Quel jus latii, quel jus italicum giunto ad essere obbietto dell’ambizione delle nazioni più illustri sino a muover guerre feroci per ottenerlo, cioè per l’onor d’essere all’Italia congiunti per dipendenza più nobile, quasi participando così della sovranità di lei sul mondo. Tutte le nostre città a gara con Roma ornate d’anfiteatri e teatri e cerchi, e spettacoli sontuosi, piene di famiglie divenute romane, di magistrati romani, di arti, e di leggi, di templi, e d’ogni pompa, e lusso, non men che di studj di lettere, d’urbanità pur romana, al cui paragone tutti i popoli eran barbari reputati. In ogni parte d’Italia ancor le lapide abbiamo, che tutto questo confermano, come pur le reliquie delle pubbliche vie, de’ ponti, degli archi trionfali, che abbellivano insieme, e rendevano agiato il commercio, la navigazione, la socievole vita, e facevano l’ammirazione di tutte le genti, che qui concorrevano a tributare a servire a ingentilirsi. Tanto adunque di sangue, tanti tesori, tanta sapienza, e valore italiano di tanti secoli, e tante vittorie e trionfi33 doveano poi riuscire a far l’Italia lo steccato della barbarie, un vasto campo di stragi e d’ignoranza, una palude, un deserto senza industria, e senz’arti, senza popolo, e senza leggi, senza ragione e senza religione?
- ↑ Ambr. Epist. 39. verso il 390.
- ↑ Specialmente il famoso re Teodorico ristoratore d’Italia tra Goti, e Agilulfo con Teodelinda verso il 600. per monumenti di religione, e pietà, e per leggi eziandio sanissime, perchè dettate dalla ragione, in vece di quelle, che poi dettaron gli abusi.
- ↑ Oltre a cento altre masnade, ed irruzioni di barbari, dominarono Odoacre nel 476. cogli Eruli; Teodorico nel 473. coi Goti, Atalarico, Amalasunta, Teodato, Vitige, Teobaldo: Totila, e Teja ucciso nel 552. Alboino nel 569. diè principio al regno dei Longobardi, che finì in Desiderio nel 774. Alboino invitato da Narsete (che dopo Belisario avea sostenuti i diritti di Giustiniano, e Giustino, e frenati i Goti inItalia coll’armate dei Greci) venne dopo una fiera pestilenza del 566. prede fu spopolata l’Italia da questi Greci occupata. Restano tanti nomi greci intorno al lago di Como, quel di Chrisopoli, a Parma etc. circa 550.
- ↑ Maff. Verona illust. p. p. 303. Mur. ed altri
- ↑ Non sapeano scrivere: non ebbero leggi nè scritte, nè scolpite. Maff. Ver. Ilustr. p. p. 316. in fol. I danni recati da costoro alla misera Italia son vivamente, e in più luoghi dipinti da S. Gregorio Magno, e singolarmente nel terzo libro dei dialoghi. Ei fu papa circa il 600. e ciò ch’ei dice del suo tempo pe’ longobardi, può far epoca non dissimile dalla citata di S. Ambrogio due secoli prima.
- ↑ I più illustri italiani scrittori di questo spazio furono i santi e dottori Ambrogio, e Leon papa, s. Damaso, e s. Pier Grisologo, i ss. Gaudelizio, e Filastrio, s. Massimo ed altri sino a s. Gregorio Magno. Ma in quei secoli appunto V. e VI. non può nella storia patria tacere un italiano la nascita di Venezia per l’irruzione dei barbari. Aquileja, Padova, Altino e altre primarie città invase da loro la formarono co’ più ricchi e illustri lor fuggitivi, che il meglio salvarono di lor sostanze. Tra l’eccidio d’Italia veniva ella crescendo nelle sue isolette, asciugando qua la palude, là fabbricando su l’alture più asciutte, poi con arte nuova e mirabile nell’acqua stessa gittando solidi fondamenti, aumentando navigli, stendendo il commercio, facendo leggi e magistrati, e poco a poco aggregando insieme l’isole e gli abitanti fino a far quella città e repubblica, che dovea compensar le ruine d’Italia, e durar più che tutti gl’imperj del mondo. Atti veri di sovranità non si trovano da lei usati se non che verso l’800. Le più potenti famiglie ivi rifugiate poteron tornare alle lor patrie sotto il dominio di Teodorico e dei Goti, che favorì la gente romana, leggi, governi etc. che poi ricaddero a terra pei Longobardi.
- ↑ Verona Illust. p. p. fol. pag. 338.
- ↑ E il fece presidente alle scuole di palazzo e suo maestro, dice il Cav. del Borgo ( Vol. IV° sopra le cose pisane. )
- ↑ Maffei Ver. Ill. p. p. p. 337. ediz.. in fol. sostiene quella opinione: Muratori è contrario.
- ↑ Sino a prendere nomi accademici, come nei tempi più colti. Alcuino chiamossi Orazio, o Caliopico, cioè alunno di Calliope, Angilbreto Omero, altri Ovidio, altri Virgilio, e l’imperadore Davide. Dal che vediamo, ch’egli unì al principio l’educazione civile con la letteraria, i cortigiani, e i guerrieri co’ dotti uomini. Cosi l’urbanità, e il valore, il buon gusto dei greci, e de’ romani, e l’ordine del suo governo, e della sua milizia accordati avrebbon fatto un nuovo secol d’oro. Ma prima di morire divise dal resto gli studj, e divennero sacri; lui morto tutto perì.
- ↑ Hypocratica tecta dice egli, come se nel palazzo vi fossero assegnate stanze varie alle varie scienze.
- ↑ Gettando per tal maniera le fondamenta prime dalle università di Parigi, di Bologna, di Pavia, benchè poi tanto tardate da’ miseri tempi dì poi. Con ciò spiegasi la vera origine delle università, che non può precisamente assegnarsi a certo tempo. Quella di Parigi specialmente, secondo gli storici suoi, riconosce la sua prima sorgente dalla scuoia palatina, cioè del palazzo di Carlo M· da noi sopraccennata, nel quale eresse biblioteche, stando massime in Acquisgrana, oltre quelle d’Isolabarba presso Lione, di s. Gallo negli Svizzeri, ed altre a’ collegi date di gioventù fondati in Germania pei gli studj.
- ↑ Sia dall’anno 765. i mori di Spagna erano giunti a gran coltura di vivere. Cordova poteva dirsi la loro Atene, e Abderamo il loro Augusto; la mollezza, il lusso, l’arti, gli amori vi furono in voga, e a sommo studio di dilicatezza. Sembra di là esser venuta la cavalleria romanzesca pei giuochi, pugne, corse satte in presenza delle donne, e premiate per loro mano, come la musica, e la poesia amorosa, con cui celebravan le Belle.
- ↑ Tra lor celebre è il Califo Almamone figlio suo, e settimo della famiglia degli Abassidi, che salì sul trono all’813. e fè tradurre dal greco i migliori libri, e promosse grandemente l’Astronomia tra suoi arabi: onde venne gran lume in Europa. Gli ebrei di Spagna con loro a gara ebbero la miglior parte nelle Tavole Alfonsine, come vedrassi
- ↑ Capitolare di Lotario all’819, in circa, che dà chiara idea del proccurato risorgimento alle lettere in Italia da Carlovingi = Dovran venire a studiare sotto Dungallo in Pavia i giovani di Milano, Brescia, Lodi, Bergamo, Novara, Vercelli e Como.
In Ivrea Io stesso vescovo le lettere insegnerà.
A Torino verran d’Albenga, da Vado, da Alba, e da Ventimiglia.
In Cremona verranno allo studio que’ di Reggio, Piacenza, Parma, e Modena.
In Firenze si farà scuola a tutti gli studenti della Toscana.
In Fermo a quei del ducato di Spoleti.
A Verona concorreranno da Mantova, e Trento.
A Vicenza da Padova, da Trevigi, da Feltre, Ceneda, ed Asolo.
L’altre città di quelle parti manderanno i or giovani alla scuola del Foro di Giulio, o sia Cividal del Friuli.
Questo Capitolare s’attribuisce all’influsso che nel governo aveano due fratelli, e monaci Adelardo, e Walla, il qual sotto nome d’Arsenio fa Abate di Corbeja e in gran conto presso Lotario; uomo dotto eziandio, non che grande d’animo, e di consiglio, la cui vita abbiamo da Ratberto, e dal P. Mahillon. Il monaco scozzese Duugallo molto pur vi concorse per l’ esecuzione, vedendosi qui che tenne egli scuola in Pavia. Ma nell' altre città saranno stati maestri gl’italiani più spesso. Certo è, che dell’826. nel Concilio Romano Eugenio II. avea dato l’esempio ordinando, che in ogni casa di Vescovo, o di Parroco vi fosse scuola di lettere, e si spiegasse la Sacra Scrittura, e ciò gratis il che Lotario non fece. - ↑ Perchè dal Tevere al Garigliaoo, e oltre lo stretto vi fu anche allora furor di guerre, tra Greci, e Saraceni, e Italiani, e tra i principi di Salerno,di Cspoa, di Benevento, di Napoli ec.
- ↑ Lamberto con Guido suo padre duchi di Spoleti, Berengario del Friuli, Bosone, e Suppone di Lombardia (che a Bosone successe passato viceré in Provenza) Adalberto o Areberto di Toscana; tutti governatori, e vicerè con titolo di duchi, o marchesi a nome degli imperadori primi sovrani, e poi alcun d’essi fattosi imperadore.
- ↑ V. Baronio, Bellarmino, Pagi ec.
- ↑ Monte Casino, Farfa, Volturno, Subbiaco, Novalesa, Nonantola famose abazie principali già divenute quasi città, ebbero quella sorte per gli ngheri, ovvero Avari, ed Agareni di tartara origine. Così le città quasi tutte. Basti dir di Pavia dagli storici di quel tempo detta bellissima, e popolatissima, e ricca di 43. chiese, la qual fu ridotta a un mucchio di cenere al 914 talchè non vj rimasero fuorchè 200 abitatori in vita, e questi salvaronla offerendo ai barbari otto moggia d’argento, che avrebbon raccolto dalle ceneri della patria. Quasi tutta la Lombardia fu del pari da loro trascorsa. Non meno i saraceni fecer man bassa dell’Italia orientale, e s’impossessarono di piè fermo di gran parte della Sicilia, Puglia, Calabria, onde scorrevano poi nel ducato romano per terra, e sulle coste per mare d’ogni lato. Il più forte nimico di costoro erano i greci (detti allora romani eziandio,) a’ quali que’ barbari avean tolta di mano la Sicilia nel 878. con la ruina di Siracusa capitale ricchissima, e potente città, che fu data alle fiamme, ed al sacco, uccisi per la maggior parte i cittadini. Palermo anch’esso cadde in lor mano, ma lo serbarono a lor sede, e fortezza, onde divenne poi la metropoli, e crebbe in popolazione, e grandezza. Indi fecer gran danni di qua dallo stretto, e il ducato di Benevento allor più illustre d’ogni altro in quelle parti, e il principato di Salerno che furono desolati più volte colle città, e co’ principi, duchi, e conti diversi di Napoli, di Gaeta, di Bari, di Capoa, d’Amalfi, e di Napoli. Taranto presero nel 927. Genova fu loro preda nell’anno 935. messi a fil di spada gli uomini tutti, e le donne, e i fanciulli trattine a schiavitù.
Una parte di loro erasi rifuggita nel 906. a Frassineto tra Nizza, e Monaco, ove si fecero forti, e numerosi sino al 942. correndo a saccheggiar di colà il Piemonte, il Monferrato, e la Lombardia. Il celebre monastero della Novalesa fu lor preda al 906. Nonantola appresso, e Modena n’ebber danni gravissimi, e così molt’altre città. - ↑ Gio. X. papa fu valoroso in reprimerli; essendo allor decente anche a’ Papi il valor militare come fu lodata tal scienza da molti autori in Gio. XV. Papa(morto al 996.) In armis eruditus, & multos libros composuit; fu di lui scritto.
- ↑ Di Raterio è l’arte grammatica col curioso titolo Serva dorsum ovvero secondo il Maffei Sparadorsum per avviso a’ fanciulli di schifare per essa le battiture. Bella edizione dell’opere di Raterio in Verona del 1766.
- ↑ Fu dotto in leggi canoniche, e civili, come in teologia, sue opere nella Vaticana; alcune stampate. Fu secondo molti italiano. Il suo trattato de Pressuris Ecclesia basta a far conoscere il misero stato d’Italia del suo tempo, che fu dal 935. in etti fu vescovo al 967. in cui morì.
- ↑ Il Pontificale d’Agnello fu illustrato dal P. Bacchini dottamente.
- ↑ Liutprando prima paggio a corte dei re Ugo d’Arles, o di Provenza, che fu fatto re d’Italia nel 926. fu autore dell’Antipodosi, o Retribuzione contro di Berengario Relazione della sua Ambasc. 2. a Niceforo Foca. Storia de’ suoi tempi con sue opere. Morì circa il 970.
- ↑ Noi non farem caso delle meschine cronache di que’ tempi, salvo che per farli conoscere ancor pei esse infelici. Chi può contar tra le opere dell’ingegno italiano per esempio la vita di Matilda Scritta da Donizone in versi leonini, o la scurissima descrizione della guerra fatale alla sua patria di Mosè da Bergamo, o tali altre sozzure del X.e XI secolo benchè utili alla storia.
- ↑ Gerberto fu maestro d’Ottone III. Imperatore, e di Roberto re di Francia, da cui fu fatto arcivescovo di Reims nel 991. L’imperadore nel diploma, con cui lo conferma papa, lui dice eletto propter summam ejus philosophiam, e a lui scrivendo già prima: Gerberto philosopho peritissimo, atque in tribus Philosophiae partibus laureato, dice il P. Pagi. Solenne disputa sostenne di matematiche in Ravenna contro d’Otrico soprannomato il filosofo, presenti l’imperadore, e Adalberone arcivescovo di Reims, di cui era stato segretario nel 969. Restan di lui lettere, ed un trattato de Infelicitate Episcoporum. Scrisse in aritmetica, e in geometria; l’Abacus, cioè le tavole ordinate di varj computi per l’arabe cifre fatti, è opera a lui attribuita; e ne restano esemplari in regie biblioteche; dal qual prese il nome di poi Paolo dall’Abaco fiorentino per averlo forse illustrato. Gran merito ebbe in raccogliere codici per tutt’Europa facendoli comperare, e copiare dovunque potea scoprirne. Chiamò a se quanti potè dotti uomini, e premiolli. Infin potè dirsi un vero prodigio per quei tempi, onde ebbe auch’esso la sorte per cagione di sapere più che gli altri, d’esser tenuto per mago, e per tal accusato in giudizio. Ma fu sempre assai autorevole, e potente da potersi beffar delle accuse. Il suo epitaffio, che ancor si legge sul suo sepolcro, basta non meno a giustificarlo, che a mostra l’alto pregio, in che fu tenuto; vedi le storie dei papi.
- ↑ L’anonimo Salernitano morto prima del mille è crednto lombardo d’origine. La sua cronaca de’ principi longobardi è piena di favole, e dì triche grammaticali.
L’anonimo Beneventano contemporaneo del detto lasciò un frammento di storia men rozzo.
Il panegirico di Berengario I. è certamente fatica d’un italiano vissuto verso la metà del X. secolo, ed ha più merito di tutti presso i compilatori della storia di que’ tempi; e basti questo cenno in tal genere, che non dee dirsi letteratura. - ↑ Sigonio, e Muratori tal dicono essere stato il Modanese, e così gli altri scrittori delle nostre città lombarde. Ognun sa, che i monaci di quel tempo assai terre acquistate, come paludi, rendetter fruttifere coll’asciugarle. Quindi tanti nomi anc’ oggi di ville intorno al Pò specialmente danno indialo di essere stato sotto l’acque l’anticamente Polesine, Paludano.
- ↑ Par più probabile, che que’ popoli in qualche angolo delle montagne rimasti colla lor lingua tedesca vengan da tali colonie, come que’ del Veronese e Trentino, che il Maffei crede avanzi dei Cimbri da Mario sconfitti.
- ↑ Tra i popoli ancor vicini non era pratica, e lontanissimi si credeano a cento miglia soltanto pei pericoli e incomodi del viaggiare, onde usi a star tra loro nè conoscendo geografia ignoravano le distanze, o le immaginavan grandissime. Privi di pubblici alberghi aveano per sacra cosa l’ospitalità, come anche oggi usano i popoli mancanti di società. Gli ospitali perciò furon le prime cure a favor dei malati e pellegrini con leggi prescritte e con grandi liberalità, sicchè produssero ordini cavallereschi e potenti. Fatti gl’italiani socievoli prima degli stranieri divenne per loro un fonte di ricchezze il concorso di questi nelle crociate, e ne’ pellegrinagi pei pubblici alloggi aperti sulla via romea, poi dapertutto in Italia, e fu estinto lo spirito d’ospitalità ne’ privati. Non fu però tra noi, o non dominò quella barbara legge invalsa altrove di confiscare i beni de’ forestieri, che qui morivano, o di farli schiavi, se naufragavano su le coste d’altro stato. Il droit d’aubaine tradotto in Albigenato, perchè talor fu tra noi pure, è cosa quasi ignota tra’ nostri, benchè duri altrove tuttora, e se n’esalti l’estinzione ove è fatta.
- ↑ Essendo ognuno in gran disagio nella patria, cercava altrove miglior sorte pellegrinando. Sia prima del mille frequenti furono i pellegrinaggi in terra santa, e da que’ primi principi vuol prendersi l’entusiasmo scoppiato poi due secoli dopo a tanta violenza per la conquista di quel paese che tanti di quei pellegrini vantavano per vantare i lor patimenti, ed averne larga ricompensa da’ creduli, e pii cristiani ed ornavano di tante loro ora esagerazioni, ora illusioni, che sono i privilegi del pellegrino. Presso al mille molti vi si trasportarono per morir santamente ne’ luoghi santi, e per accostarsi alla valle di Giosafat, ove tra poco aspettavano di esser chiamati al giudizio finale, di chi tra poco diremo.
- ↑ Storia I. I.
- ↑ Ben si sa, che non sol contro Annibale combatterono gl’italiani, ma che furono essi solj, o poco meno i conquistatori d’una gran parte dj Asia, oltre la Grecia, la Macedonia etc.