Il Novellino/Introduzione
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MASUCCIO, I SUOI TEMPI, IL SUO LIBRO.
DISCORSO.
I.
Il Novellino di Masuccio Salernitano è un libro a pochissimi noto, perchè morde i cattivi costumi dei preti e dei frati, i quali lo messero al primo Indice1, ne distrussero quante copie poterono averne in mano, e così riuscirono a farlo dimenticare. Ora si ristampa non perchè morde i costumi dei chierici, coi quali ci vuole altro che novelle, ma perchè è un libro importante per la storia, per l’arte, per la lingua nostra; perchè ci presenta un vivo ritratto degli uomini e dei costumi napoletani al tempo de’ Re Aragonesi, è un’opera di speciale bellezza, ed è scritto in buona lingua italiana nel mezzo del Quattrocento quando per tutta Italia non si scriveva che in latino. Si ristampa il Novellino perchè è un libro classico, e da oggi innanzi, che sarà letto bene e considerato, dovrà avere un posto nella nostra Letteratura. Masuccio è il Boccaccio napoletano; ed il suo Novellino ha molte parti simili al Decamerone, e pure è un’opera originale. Voi vedrete un napoletano schietto, aperto, senza ipocrisia, che parla grasso per ridere, ma in fondo è buono, è morale, è religioso ancora, e però si sdegna contro i falsi religiosi.
Ma chi fu questo Masuccio? quale fu il tempo in cui egli visse? che cosa è questo Novellino?
II.
Nella prima edizione del Novellino fatta in Napoli nel 1476 sta scritto così: «facto per Masuzo Guardato nobele salernitano»2. Di questo Masuccio, o Tommaso Guardato abbiamo pochissime notizie: in quale anno nacque, in quale morì non sappiamo: visse nel Quattrocento sin verso la fine. Due grandi scrittori suoi contemporanei, Giovanni Pontano e Luigi Pulci, hanno parlato di lui. Il Pontano gli fece questo epitaffio:3
Tumulus Masutii Salernitani fabularum egregii Scriptoris.
Hic quoque fabellas lusit tinxitque lepore,
Condidit ornatis et sua dicta jocis.
Nobilis ingenio, natuque nobilis idem,
Et doctis placuit principibusque viris.
Masutius nomen, patria generosa Salernum.
Haec simul et ortum praebuit, et rapuit.
E il fiorentino Pulci scrivendo una sua novella4 a Madonna Ippolita figliuola del Duca di Milano e moglie di Alfonso d’Aragona Duca di Calabria, a la quale è dedicato anche il Novellino, incomincia così: «Masuccio, grande onore della città di Salerno, molto imitatore del nostro M. Giovanni Boccaccio, illustrissima Madonna Ippolita, mi ha dato ardire a scrivere alla Vostra Eccellenza, leggendo a questi dì nel suo Novellino molte piacevoli cose, le quali poi che io intesi essere da V. S. graziosamente accettate e lette, ho fatto come i naviganti i quali sogliono addirizzar le loro navi dove le loro mercatanzie intendono aver ricapito.»
Nel Seicento Scipione Mazzella nella Descrizione del Regno di Napoli pag. 75, parlando degl’illustri salernitani, dice: «Nelle lettere sono stati famosi Giulio Pomponio Leto, Tommaso Guardati, Gio: Andrea Longo, e Andrea Guarna.» E poco più innanzi dice «che la famiglia Guardati fu tra le nobili di Salerno, e scritta nel Seggio del Campo.»
Leonardo Nicodemi nelle sue Addizioni alla Biblioteca Napoletana del Toppi scrive qualche cosa di più, raccoglie l’epigramma del Pontano, le parole del Mazzella, e le notizie che sono nel Novellino medesimo; e aggiunge, ma non so donde l’abbia saputo, che Masuccio fu anche poeta eccellente, e scrisse versi, quantunque non rimanga altro di lui che questo libro di novelle ingegnose e piacevoli. Io sto col Pontano che lo conosceva, e non dice altro che fabellas lusit.
Qualche altra notizia ho trovata io. Ho avuto a caso fra mani un Genealogico Discorso della famiglia Guardati di Ernesto Tebaldese, dedicato a lo illustrissimo signor Don Carlo Guardati. Venezia 1743. In questo libro è scritto che la famiglia Guardati è nobile ed antica della città di Sorrento; che ceppo di questa famiglia fu Giacomo Guardato, il quale sin dal 1181 possedeva il feudo di Torricella5; e che da costui discesero in linea retto Alferio milite, cioè cavaliere, e possessore del feudo medesimo, Bartolomeo milite e fra i feudatari del 1275 annoverato, Giacomo II milite, Alferio II milite, Paolo milite, Giacomo III il quale ebbe vari figliuoli, di cui il primo Lazaro rimase in Sorrento, e il secondo Luise fu segretario di Raimondo Orsino Conte di Nola, Duca d’Amalfi, e Principe di Salerno, e diramò la sua casa in Salerno, ove fu ammesso in quella antichissima nobiltà nel Seggio del Campo. Questo Luise ebbe in moglie Margherita Mariconda, dalla quale gli nacquero Masuccio, insigne per letteratura, e Francesco. Masuccio tolse in moglie Cristina Pando, dalla quale ebbe quattro figliuoli, Alferio, Luise, F. Vincenzo dell’ordine de’ Predicatori, e Caracciola che fu damigella della Duchessa di Calabria, e da costei fu data in moglie ad Antonio Fagella. Il Tebaldese non dice altro della discendenza di Masuccio, e seguita a parlare dei soli Guardati di Sorrento sino ai suoi tempi. La famiglia ancora esiste nella cittadinanza di Sorrento, ed io conosco il signor Andrea Guardati compito gentiluomo.
I Signori Pinto, nobili salernitani, posseggono un libro manoscritto, nel quale sono le notizie delle famiglie nobili di Salerno. In questo MS. a pagina 205 si legge quanto segue:
«Famiglia Guardati. Castello d’oro in campo argentino. (Nello scudo è disegnato un Castello, che è il feudo di Torricella).
«La Famiglia Guardati godeva nel Seggio del Campo della città di Salerno. Luise Guardati di Sorrento essendo segretario di Raimondo Orsini Principe di Salerno, portò la sua casa in Salerno. Furono suoi figli Masuccio, Francesco, e Polita che fu moglie di Bernillo Quaranta nobile di detto seggio del Campo. Francesco fu prete. Masuccio uomo faceto ed erudito compose le Novelle che si lodano dal Pontano nel lib. 1. De Tumulis. Da Masuccio nascono Francesco, Alferio abb., fra Vincenzo Domenicano, e Caracciola.
«Francesco nel 1460 ha dal re Ferrante l’uffizio di Credenziere della Dogana del sale di Salerno. Fu medico, e procreò Gio-Roberto, di chi non si ha prole, come neanco delli sopraddetti.
«Questa discendenza si cava dall’Esame sistente negli atti del Juspatronato di S. Maria dell’Ulmo di Salerno pervenuto a Masuccio Guardati da Tommaso Mariconda suo zio per metà. Suo avo anche fu Tommaso Mariconda, come dice Masuccio stesso nella nov. 14. C’è istrumento in bergameno del 1441 in cui è test. Masullo Guadati.» Così dal ms. Pinto; il quale discorda dal Tebaldese soltanto nel nome d’un figliuolo di Masuccio, che il Tebaldese chiama Luise e lo fa secondo, il MS. chiama Francesco e lo fa primogenito.
Dal Novellino poi abbiamo queste notizie: che Tommaso Mariconda fu suo avo materno (nov. 14); che il fratello Francesco morì prima della pubblicazione del Novellino (nov. 6 in fine); che egli fu segretario del Principe di Salerno Roberto Sanseverino (proemio alla parte 5.), del quale in fine del libro piange la morte avvenuta nel 1474.
Al Principe Roberto Sanseverino successe il figliuolo Antonio o Antonello Sanseverino, che fu capo della congiura de’ Baroni contro Re Ferrante. Che avvenne di Masuccio? fu segretario anche di Antonello? E se fu, che parte egli prese nella Congiura? che disse, che fece quando i baroni si congregarono a Salerno, e offerirono la corona a Federico? E quando Antonello fuggì, e gli altri baroni furono presi, e il Conte di Sarno e il Segretario Petrucci decapitati in Castelnuovo nel 1487, che n’era di Masuccio? Non ho potuto saper nulla.
Nell’ultimo parlamento che è in fine del Novellino pare il suo dolore per la morte di Roberto, e non v’è una parola per Antonello. Nel Processo contro i Baroni, pubblicato in Appendice alla Congiura del Porzio da Stanislao d’Aloe nel 1859, il testimonio Francesco de Marchisio di Napoli nomina il cancellero de lo prencipe de Salerno messer Bentivoglia. E di tutti i baroni imprigionati sono nominati ed anche interrogati i cancelleri, ossia i segretarii. Dunque pare che Masuccio non fu segretario di Antonello, il quale si servì di altri uomini, e non di Masuccio che era obbligato ed affezionato a casa d’Aragona, e forse in quel tempo era morto. Se bisogna prestar fede al MS. Pinto, il quale dice che Masuccio nel 1441 fu testimone, e quindi doveva avere non meno di ventun anno, pare che egli sia nato verso il 1420; ed avendo avuto il suo figliuolo Francesco l’ufficio di Credenziere nel 1460, egli dovette aver tolto moglie non so quanti anni prima. Ad ogni modo pare che egli non visse molti anni dopo la pubblicazione del Novellino.
Bartolomeo Gamba nel suo libro delle Novelle Italiane p. 59 m’esce a dire che Masuccio è un nome finto, e che il vero autore del libro fu Tommaso Mariconda. Io non so se il Gamba vide le prime edizioni del Quattrocento, in tutte le quali si legge facto per Masuccio Guardato; non so quali prove può dare alla sua congettura; ma credo che egli non lesse il libro del Tebaldese ed il MS. Pinto, i quali troncano ogni quistione. Ebbe nome Masuccio, cioè Tommaso, e cognome Guardato dal padre, e, se si vuole, anche Mariconda dalla madre.
E questo ho potuto raccogliere intorno a Masuccio, del quale non rimane altro che il libro ed il nome.
Quì è necessario ricordar brevemente intorno alla città di Salerno, che quando fu stabilita la monarchia da Ruggiero Normanno ella fu città regia, e che Carlo II d’Angiò prima di essere re prese il titolo di Principe di Salerno. La Regina Margherita madre di Re Ladislao ebbe dal figliuolo la signoria della città di Salerno, ed ivi stette lunghi anni, ed ivi morì nel 1412. La regina Giovanna II fu la prima che diede in feudo il principato di Salerno ad Antonio Colonna. Alfonso I d’Aragona lo diede in premio a Raimondo Orsino Conte di Nola, del quale fu segretario Luise Guardato padre di Masuccio. Ferrante I lo tolse a Felice Orsino che si era ribellato, e lo diede a Roberto Sanseverino Conte di Marsico, del quale fu segretario il nostro Masuccio. L’ultimo Principe di Salerno fu Ferrante Sanseverino, che ebbe a segretario Bernardo Tasso, e per aver presa parte alla rivoluzione del 1547 che i napolitani fecero per non avere il tribunale del Santo Uffizio, fu dichiarato ribelle, bandito dal regno, e privato dello stato. Così Salerno tornò città regia.
III.
Consideriamo ora Masuccio nella seconda metà del Quattrocento, al tempo di re Ferdinando I d’Aragona. Mentre Luigi Pulci alle cene di Lorenzo de’ Medici leggeva il suo Morgante, e Matteo Boiardo leggeva l’Innamorato alle donne ed ai cavalieri della corte di Ferrara, Masuccio Guardato leggeva il Novellino nella corte degli Aragonesi. Il Pulci conosceva il nome e il libro di Masuccio, e ne parlava: il Boiardo che fu in Napoli nel 1473 con Sigismondo d’Este, il quale venne per condurre Eleonora d’Aragona sposa a suo fratello Ercole Duca di Ferrara, dovette anche conoscere Masuccio che aveva già scritte le sue novelle e dedicatane una ad Eleonora, ed era uomo che piaceva ai dotti ed ai signori. Se ravvicinate questi tre contemporanei li troverete simiglianti tra loro, tutti e tre liberi e piacevoli scrittori, con una certa scucitura grammaticale nella espressione, con un certo modo di dire semplice, con una lingua che non è plebea nè erudita, ma veramente materna, e in ciascuno ha lo stampo del suo paese. Questi due sono grandi poeti: Masuccio è il maggior prosatore di quel tempo; e mi pare più simile al Pulci, perchè, come il Pulci, sta lontano dai latinisti, scrive in lingua popolare, è pieno di motti e d’ironia, se la piglia coi preti e coi frati, e le sue novelle come le poesie del Pulci furono messe al primo Indice.
Il Novellino è un libro di cinquanta novelle, intitolato ad Ippolita Duchessa di Calabria, e futura regina. Ogni novella è dedicata ad un personaggio principale, al Re, a tutti i principi e principesse della casa d’Aragona, a grandi baroni, a signori, dei quali troviamo ricordati i nomi nelle nostre storie. Queste cinquanta persone sono come spettatori innanzi ai quali si rappresenta il dramma della vita. Spettatori e novelle hanno grande importanza per noi; perchè gli uni ci mostrano la parte superiore e più appariscente della vita nostra: le altre ci rappresentano la parte inferiore e più vera e meno conosciuta della vita popolare, di quella vita che i comici ed i novellieri ritraggono meglio degli storici, i quali la trascurano. A voler bene intendere il libro, bisogna conoscere il tempo in cui fu fatto, e le persone che vi sono nominate, e gli avvenimenti ai quali si accenna.
Alfonso I d’Aragona si fece da tutti ubbidire, perchè essendo signore di molti regni era ricco e forte, ed aveva un nobile carattere, che sempre impone rispetto, e fu detto il magnanimo. Ferrante da lui chiamato re nel solo regno di Napoli, era suo figliuolo naturale, era prudente, come si diceva allora, sleale, come si dice oggi, cupo, crudele, avaro, fu sempre in guerra coi baroni, che egli vinceva, chiudeva nelle prigioni di Castelnuovo sotto i suoi piedi, e li faceva scannare, o decapitare, o sommergere in mare: e quando aveva tregua coi baroni, accendeva guerre in diverse parti d’Italia, dicendo sempre che voleva pace. Alfonso suo figliuolo, duca di Calabria, fu prode, violento, feroce, voglioso di guerre, ma nè vincitore nè vinto sapeva riposare, odiato dai soggetti, temuto dai vicini. Questi padre e figliuolo con frode e violenza tennero il regno per trentasei anni; ma non poterono conservarlo nella loro famiglia; e gli ultimi Aragonesi, sebbene non tristi, pur caddero fra pochi anni, ed il regno divenne provincia di Spagna. I nostri baroni quasi tutti forestieri venuti in diversi tempi con tanti re diversi, ai quali avevano dato il loro aiuto nella conquista, e ne avevano ottenuto stati e ricchezze, erano spesso imparentati col re, e si tenevano eguali a lui: patria non intendevano; ma signori del loro stato, per difendere o accrescere la loro signoria chiamavano qualunque straniero potesse assicurarli; e come i Capitani di ventura, stando anch’essi in armi, cambiavano parti secondo i loro interessi: e quando tra loro si univano, la lega era subito sciolta per tradimenti, e tutti erano oppressi dalla forza. Vinti, spogliati, straziati dagli Aragonesi non si acquetarono, se non quando riebbero i loro stati da lo straniero, che distrusse la patria, ed essi non se ne curarono, anzi non se ne avvidero, perchè non erano sangue nostro.
Morto re Alfonso in giugno 1458, Ferrante cavalcò con tutto il baronaggio per i seggi della città di Napoli, e andò nella chiesa maggiore dove fu benedetto e salutato Re. Il giorno appresso mandò ambasciatori a Papa Calisto III, già stato suo maestro6, per la confermazione ed investitura del regno, ma il papa non volle riconoscere la successione di Ferrante, e quando seppe che era stato riconosciuto re dai baroni, gli lanciò una scomunica, e solennemente dichiarò il regno appartenere come feudo alla Chiesa. Tutta Italia per questa novità si pose in arme, e i baroni cominciarono a levare il capo contro un re dichiarato illegittimo anche dal papa. Ma in agosto muore Calisto, e gli succede Pio II, Enea Silvio Piccolomini di Siena, uomo di lettere e di negozii, amico ed ammiratore di re Alfonso, e però benevolo a Ferrante; il quale fu ricevuto in obbedienza, e ribenedetto, e coronato re in Barletta nel febbraio del 1459. In questo stesso mese Pio II convocava in Mantova tutti i Principi Cristiani per far guerra al Turco, che sei anni prima, nel 1453, era entrato in Costantinopoli. Intanto alcuni potenti baroni sollevano la vecchia bandiera angioina: il Principe di Taranto, zio della regina Isabella di Chiaromonte moglie del re, il Duca di Sessa, che aveva in moglie Eleonora sorella del re, il Marchese di Cotrone, seguiti da altri, invitano Giovanni d’Angiò a venire nel regno; e primo il Marchese di Cotrone si leva in armi. Re Ferrante corre in Calabria, e mentre combatte e vince e fa prigione il Marchese, Giovanni d’Angiò sbarca a Mola di Gaeta accolto come Re dal Duca di Sessa. I popoli si sollevano, Napoli è piena di timori, sola la regina Isabella non si scuora e provvede alla difesa. Torna Ferrante, riceve aiuti dal Papa e dal Duca di Milano, combatte, ma è vinto a Sarno nel giugno del 1461. L’Angioino non seppe usare della vittoria, non udì il consiglio di Jacopo Piccinino, bravo capitano che conduceva seco la famosa Lucrezia d’Alagno tanto amata da re Alfonso e allora da lui, e tanto odiata da re Ferrante. Il tempo ristorò l’Aragonese, che aveva seco capitani anche bravi, Federico Montefeltro Duca di Urbino, e Matteo di Capua mandato in Abruzzo, e Roberto Sanseverino spedito in Calabria. Nell’agosto 1462 su la pianura di Troia in Puglia fu data battaglia, e l’Angioino fu vinto, e si rifuggì in Ischia. Ferrante vincitore racquista tutte le città perdute, torna in Napoli. Roberto Sanseverino ripiglia tutta la Calabria, la Basilicata, Salerno, e tutti i luoghi sino a Napoli, ed è fatto Principe di Salerno. Giovanni d’Angiò parte da Ischia per Provenza accompagnato da parecchi napolitani che lo avevano seguito, e lo amavano, e nelle guerre di Francia acquistarono fama di valorosi. Il Duca di Sessa fu fatto prigione con un figliuoletto di cinque anni, e dopo lunghi strazi fu fatto morire nelle prigioni di Castelnuovo, dalle quali Carlo VIII cavò il figliuolo diventato canuto. Il Principe di Taranto fu strangolato in Altamura da suoi familiari, che furono premiati. Il Piccinino volle accordarsi, venire al soldo del Re, e fu accolto cortesemente, poi imprigionato in Castelnuovo, ed ucciso.
Nel medesimo tempo, era l’anno 1465, muore la regina Isabella, e viene in Napoli sposa ad Alfonso Duca di Calabria Ippolita, figliuola di Francesco Sforza Duca di Milano e di Bianca ultima dei Visconti. Questa Ippolita era Sforza, e pure da Masuccio e da altri è detta sempre Visconti forse perchè era più nobile per madre. Bella, buona, di diciannove anni, educata da Costantino Lascaris, colta in greco e in latino, amante di libri e di studiosi, diventò ella la principale donna nella reggia aragonese.
Spenti i nemici e chetate le turbolenze delle guerre, Ferrante diede premio ai baroni fedeli, fece Matteo di Capua Conte di Palena, e Roberto Sanseverino Principe di Salerno, il quali fabbricò in Napoli un superbo palazzo, compiuto nel 1469, e un secolo dopo diventato chiesa e convento de’ Gesuiti. E per mezzo di parentele si collegò coi maggiori principi d’Italia. Ad Alfonso diede Ippolita figliuola del Duca di Milano, diede Maria sua figliuola naturale ad Antonio Piccolomini figliuolo del Papa e lo creò Duca d’Amalfi e Gran Giustiziere, Eleonora sua figliuola ad Ercole Duca di Ferrara, Beatrice altra figliuola a Mattia Corvino Re di Ungheria: ed infine egli stesso, mortagli Isabella di Chiaramonte, sposò Giovanna figliuola del re d’Aragona sua cugina.
Questo tempo è ritratto da Masuccio. Il suo Novellino vi presenta in prima la buona Duchessa Ippolita. Eccovi dipoi Re Ferrante coi suoi figliuoli, Alfonso, Federico, Giovanni cardinale, Francesco, e le figliuole Eleonora e Beatrice. Vedete ancora i segretarii del Re, il vecchio Panormita, Antonello Petrucci, Giovanni Pontano, Francesco Scales. Eccovi Roberto Sanseverino il gran Principe di Salerno, ed Antonello allora giovanetto e poi fierissimo nemico degli Aragonesi, e Girolamo Sanseverino Principe di Bisignano, ed altri signori tutti Sanseverini; poi il prode Matteo di Capua Conte di Palena, il vecchio e rigido Onorato Gaetano Conte di Fondi, e Giulio Acquaviva Duca d’Atri, e Federico Duca d’Urbino, e con questi Signori alcune nobili donne, e poi Oliviero Carafa Cardinale e Arcivescovo di Napoli. Eccovi infine l’ultima novella dedicata ad uno dei vinti, ad un Del Giudice che andò in esilio e seguì Giovanni d’Angiò, ed in Francia acquistò nome di valoroso capitano. Generoso Masuccio che sa onorare anche i vinti! Di tutti questi personaggi parlano le storie nostre raccontate dal Costanzo, dal Summonte, dal Porzio; e voi li conoscerete ad uno ad uno. Di alcuni di essi men noti ne troveremo notizie nel Codice Aragonese,7 e li vedremo onorati di ambascerie e della confidenza del Principe.
Cessate le guerre interne, cominciarono le esterne, e le leghe tra il Re, il Papa, i Fiorentini, i Veneziani, i Genovesi, il Duca di Milano, ora alleati, ora nemici. Gli Aragonesi non sapevano star cheti, odiati dai soggetti, temuti dai vicini. Non si sa certo se i Veneziani o i Fiorentini, forse gli uni e gli altri per levarsi da dosso il Duca di Calabria che li struggeva con la guerra, istigarono il Turco ad assaltare il Regno. Nel 1480 i Turchi scendono ad Otranto, e vi fanno un eccidio: i nostri vi accorrono, combattono, cadono i più valorosi, il vecchio Conte di Palena, Giulio Acquaviva Duca d’Atri, Marino Caracciolo. Ma fortuna e valore aiutarono il Duca Alfonso che riprese Otranto, e tornò trionfante in Napoli. La mala signoria degli Aragonesi, la superbia dei baroni, e i malvagi pungelli del Papa fecero nascere la Congiura de’ Baroni nel 1485: e Antonello Petrucci ha i figliuoli uccisi, e dopo due anni di prigionia col Conte di Sarno muore sul palco nel 1487; il Principe di Bisignano, il Conte di Melfi, il duca di Tursi ed altri molti baroni sono fatti uccidere in Castelnuovo. Nel 1494 morì Ferrante: nel 95 morì Alfonso; nel 96 Ferrantino; il buon Federico morì esule e tradito in Francia. Chi sa se Masuccio vide tutta la rovina della casa d’Aragona! Ma torniamo al tempo felice, e al Novellino che ce lo rappresenta.
Nel Novellino noi vediamo rappresentata la vita del nostro popolo, le usanze, i costumi, le credenze, e furberie dei religiosi, le lascivie delle donne, le prepotenze dei signori, le astuzie e le beffe dei cittadini; quanto avveniva in Napoli, in Salerno, e in altri paesi vicini, quanto si sapeva dei paesi lontani. Si vedono i luoghi della città, e le vie, e le case, e gli uomini che ci vivevano, e sono nominati quelli che operano i fatti, e nominati quelli che li avevano raccontati al novellatore. E di questa vita, che egli ritrae come in cinquanta quadri, egli sa vedere e rappresentare il contrasto, la parte comica che produce la piacevolezza ed il riso. Due cose ei dipinge con più vivi colori, i malvagi costumi dei finti religiosi, e la corruzione delle donne, perchè due cose egli pregiava sopra tutte, la religione e l’amore; però si scagliava acerbo contro coloro che guastavano queste due cose bellissime.
IV.
Qui alcuno dirà: ma che tempi e che corte era quella in cui un libro di novelle, delle quali la metà sono licenziose, è dedicato ad una principessa? E che donna era costei, a cui Masuccio indirizza la novella 44 nella quale narra un’avventura galante del Duca Alfonso, e neppure sospetta che il racconto a lei moglie debba dispiacere? — Oh, se non erano quei tempi, quella corte, quelle donne, e quei signori, non sarebbero venuti francesi e spagnuoli a lacerare il regno, non ci sarebbe stata la servitù d’Italia per oltre tre secoli. Il Costanzo su la fine delle sue Istorie dice che Ferrante «disonorò molte case principali, le quali si tacciono per non offenderle, pigliandosi pubblicamente dalle case dei padri le figliuole, e togliendole a mariti illustri a cui erano promesse: a questo s’aggiunse l’esempio che diede ad Alfonso suo figlio primogenito Duca di Calabria, il quale seguendo il medesimo stile, accumulò tanto odio all’odio che aveva acquistato il padre, che non solo dai sudditi del regno ma da altri potentati d’Italia fe’ desiderare la rovina sua.» I Re Aragonesi ebbero tutti un nugolo di figliuoli e di figliuole bastardi, che sposavano a figliuoli de’ Papi, di principi, e di grandi signori del regno. Ippolita fu detta donna di pudicizia inaudita8; ma usata alla lettura dei classici, e alle dissolutezze del suocero e del marito, non doveva scandalezzarsi d’un libro che era anche bello per arte. È vero che quegli uomini erano più schietti di noi, dicevano così alla buona quello che facevano, e noi abbiamo gli stessi vizi inverniciati col galateo, ma il galateo significa anche pudore. Fra i signori di quel tempo c’era corruzione ed oscenità, nel popolo c’era l’oscenità sola: e male si giudicherebbe Masuccio se si guardasse soltanto a le lascivie che egli descrive. Il popolo napoletano, come l’antico ebreo, parla osceno naturalmente; e chi volesse giudicarlo dalle parole direbbe che egli è il più corrotto popolo del mondo; eppure egli è migliore di molti altri che si vantano civili, ed è più temperante. Il nostro popolano dice parole oscene anche quando si raccomanda a Dio, ma non bestemmia, non si ubbriaca, ama la moglie e ne è geloso, ama teneramente i figliuoli, ama religiosamente la mamma sua, e salta come una tigre contro chi gli bestemmia i morti, ossia contro chi lo insulta nelle care e sacre memorie della famiglia. Chi ama tanto la famiglia non può essere corrotto. E poi certe cose chi le fa non ne parla, e chi ne parla troppo non può farle. Altrove sotto parole oneste vedi disonestissimo veleno, la più stemperata lascivia, la corruzione profonda del cuore, e quel riso maligno che discioglie ogni legame di famiglia, distrugge la santità del matrimonio, disprezza come sciocchezza il pudore. Ora pigliate uno dei nostri popolani che hanno ingegno pronto e piacevole, dategli coltura gentilezza ed aria di corte, e voi avrete Masuccio che fuori è faceto, dentro è morale e religioso, e con le sue facezie ferisce coloro che guastano la religione con le brutte opere.
Prima di lui il Boccaccio e il Sacchetti, dopo di lui i novellieri del Cinquecento, anzi i novellieri di tutte le nazioni e di tutti i tempi, vanno in dipinture lascive. Oh perchè, e tutti così? La novella è ritratto della famiglia, degli uomini come sono in casa non fuori e nelle faccende pubbliche: e l’uomo, anche grande, anzi quanto più grande è, non può sfuggire alla forza degl’istinti animali, e in casa vi si abbandona. Il novelliere che osserva la famiglia e l’uomo in casa, trova sempre e dovunque il vecchio che fa qualche ragazzata, il savio qualche sciocchezza, il santo qualche debolezza; trova l’uomo con le sue necessarie contraddizioni, trova il contrasto tra l’animale e il razionale, ed egli lo dipinge, e piace perchè dice il vero che altri non dice, e fa sorridere perchè mostra che in certe cose i più grandi fanno come i più piccoli, e siamo tutti di un modo. Che il novelliere dunque dipinga lascivie non è a scandalezzarsene, come fanno i santoni che forse ci stanno fitti più a dentro; anzi è necessario che le dipinga, se egli vorrà ritrarre intimamente e compiutamente la natura dell’uomo. E questa necessità, veduta dalla ragione, è confermata dall’uso di tutti i novellieri, tranne quei pochi che scrivono novellette pei fanciulli e per le giovanette. E così s’intende ancora perchè i novellieri dipingono più spesso e con più vivi colori le lascivie dei preti e dei frati, i quali sono predicatori di castità e penitenza ed essi più degli altri si godono la vita, vogliono farsi credere santi e superiori agli uomini e in segreto sono meno che uomini; e però in loro il contrasto è più osservabile, e il ridicolo scoppia più vivo e piacevole. E siccome la lascivia è una parte della vita dell’uomo, non tutto l’uomo, così la dipintura di essa nell’arte non può nè deve essere altro che un mezzo per ritrarre l’uomo anche dal suo lato animalesco. Il lascivo e l’osceno sono mezzi dell’arte, e non fine; e come mezzi sono belli nelle opere degli antichi greci e latini, e nel Decamerone e nel Novellino. Il buon Masuccio non ha per fine la lascività che egli descrive, perchè non se ne compiace nè la loda, ma ve la presenta per farvi ripensare alle birbonerie umane, e riderne o maledirle: e spesso compiuta la novella, ei la giudica, e si scaglia con generose parole contro i frodolenti e lascivi chierici, e prega Dio che distrugga presto il Purgatorio acciocchè presto finisca la gran baratteria de’ finti religiosi. Questo Masuccio ebbe il coraggio che pochi ebbero, di scrivere apertamente che la fonte principale della corruzione de’ suoi tempi erano i preti e i frati (come non proibirlo in capite?). E dice questo al Pontano già famoso e potente, e con bella e napoletana franchezza gli dice che fra tante virtù ha una macchia, conversa troppo strettamente con religiosi d’ogni sorte che gli vanno in casa, e un dì o l’altro gli faranno qualche brutto tiro; e gli racconta la novella de le brache di S. Griffone, e finisce con fiere parole contro questi ingannamondo, questi soldati di Lucifero, che dovrebbe aprirsi la terra e tranghiottirli vivi. E tutto il discorso di Masuccio dà molto lume al carattere del Pontano.
Masuccio non visse tra i tanti eruditi latinisti e grecisti del suo tempo, ma tra i signori ed il popolo; e popolo e signori egli ritrae al naturale, e con la lingua che essi parlavano allora. Non è la vita artefatta e convenzionale dei dotti del Quattrocento, ma egli mi presenta un popolo vivo, mi parla un linguaggio che io intendo pienamente, nomina luoghi e famiglie che io conosco, accenna usanze che ancora durano; mi ritrae i Salernitani bizzarri come ancora sono, le gare tra Salernitani Amalfitani e Cavoti che non sono in tutto dimenticate: mi presenta Napoli coi suoi tanti gentiluomini, e tanti frati, e tanti camorristi che allora non prendevano questo nome ma facevano quello che ora fanno. Onde io dico fra me che queste novelle sono più vere della storia di quei tempi. Molti di quei signori a cui sono dedicate le novelle ebbero parte nella Congiura dei Baroni narrata dal Porzio. Sono gli stessi uomini: Masuccio ve li presenta lieti ascoltatori di novelle, il Porzio congiuratori, condannati, uccisi. Prima tante piacevolezze, poi tanti delitti: il Novellino è come il prologo della Congiura.
V.
Il Boccaccio fu il novellatore della Corte Angìoina, Masuccio della Corte Aragonese, e cercò imitare il Boccaccio. «Conoscerai, egli dice di sè stesso9, li lasciati vestigi del vetusto satiro Giovenale, e del famoso commendato poeta Boccaccio, l’ornatissimo idioma e stile del quale te hai sempre ingegnato d’imitare.» Ammira Giovenale perchè non vuol ridere per ridere, ma per ferire e svergognare le turpitudini de’ suoi tempi, e non essere spensierato come il Boccaccio del quale vuole imitare pur l’idioma e lo stile. Egli è Giovenale dentro, e Boccaccio fuori. Il Novellino non è certamente il Decamerone, non ha quella gran ricchezza d’invenzione, quelle figure disegnate colorite finite con tanta squisitezza, quelle tante varietà di caratteri, quello stile elegante e forbito, ma è un lavoro d’arte anch’esso, un lavoro d’uno speciale organismo, e bello di schiettezza e di ardire. Egli dice di volere imitare il Boccaccio, ma non può nè vi riesce, e dove si sforza di farlo si impaccia, dove si abbandona alla sua natura è franco, spedito, schietto come si parla10. Il Boccaccio era fino e malizioso, Masuccio bonario e sdegnoso: il Boccaccio ride della religione, Masuccio della superstizione e dei finti religiosi; il Boccaccio rimane sempre sereno, e vede le cose molto a dentro, e gli uomini sotto la pelle, Masuccio si lascia trasportare, e talvolta sfuria senza riguardi: il fiorentino è misurato e corretto, il napoletano è di una natura aperta, e parla come vien viene: Messer Giovanni ebbe ingegno e dottrina, e fu al suo tempo un grande erudito; Masuccio fu segretario di un signore, non si perde in erudizioni, e confida soltanto nel suo ingegno rigoglioso.
Ma dopo l’unico Decamerone, a me pare che il Novellino sia l’opera meglio organata e compiuta. Nella prima parte si tratta della materia dei finti religiosi; nella seconda di varie beffe fatte a gelosi; nella terza delle male arti delle donne; nella quarta di materie lacrimevoli e piacevoli alternativamente; nella quinta di magnificenze e cortesie: in fine v’è un parlamento dell’autore al suo libro. Ogni novella ha in principio una lettera11 detta esordio, e in fine una conclusione morale intitolata Masuccio. Se volete vedere quanto queste lettere e conclusioni sieno necessarie non pure all’armonia artistica dell’opera, ma all’intendimento dell’autore, confrontate la novella delle brache di S. Griffone fatta da Masuccio con la medesima rifatta dal Casti che ne ha tolto l’esordio e la conclusione, e vedrete che il Casti non vuole altro che farvi ridere, Masuccio dopo che ha raccontato il fatto, vi ripensa nella conclusione, se ne scandalezza, se ne sdegna, e vi fa pensare. Quella conclusione, quella parola Masuccio mi dà una certa somiglianza al Coro del dramma antico, perchè qui come nel coro sono le riflessioni sul fatto, raccontato nella novella, rappresentato nel dramma.
«Non si può negare, dice il Nicodemi, che le novelle sieno ingegnose, di modo che i più celebri novellisti non si sono astenuti di rubargli le invenzioni di alcune di esse. Fra questi furti si può contare la traduzione francese di diciannove delle dette novelle inserite in quelle del Mondo avventuroso stampate a Parigi presso Stefano Grouleau nel 1575 in 8°, e poi ristampate più volte a Parigi ed a Lione.» Ma pare, come osserva il Verdier nella sua Biblioteca francese, che tutte le cinquanta novelle furono tradotte in francese, e soltanto pubblicate quelle diciannove. Qui sarebbe inutile ricercare da chi e come e quando in Italia e fuori è stato saccheggiato il Novellino. Nel mondo si è fatto sempre così, e specialmente poi della roba scomunicata.
E Masuccio ha inventate egli le sue novelle, o le ha prese da altri? — A questa dimanda io rispondo prima semplicemente, e dico che Masuccio non pretende di avere inventato egli nulla, anzi vi prega di credere che egli narra fatti veri ed approbati, e vi dice da chi e quando l’ha uditi raccontare, e che egli non ci leva nè pone, e soltanto egli fabbrica la novella, cioè la narra con la sua arte. Quei fatti, o realmente avvenuti, realmente creduti dalla coscienza comune, sono determinati da tanti particolari, che per quanto io mi sappia, nessuno altro li ha raccontali prima di lui. E poi rispondo pensatamente e dico, che il fatto racchiuso nella novella, a simiglianza del proverbio, molte volte non appartiene a nessun uomo particolare, ma a tutto un popolo, anzi a molti popoli, e ognuno lo ripete a modo suo, lo fa avvenire nel suo paese, e al suo tempo. Il merito di chi lo narra sta nel fare proprio ciò che è comune, nel rendere il fatto vivo e presente, nel disegnar bene e colorire i personaggi i quali nel racconto comune sono profili incerti, senza rilievo, piuttosto concetti che personaggi. E spesso avviene che chi l’ha saputo l’ultimo, ma lo ha raccontato meglio, è creduto egli il primo inventore. Quando io odo a dire che la critica storica ha scoperto che la massima parte delle novelle del Decamerone sono vecchi racconti francesi che si leggono nei fabliaux, io credo che questa sia critica di femminette e che non ha scoperto nulla. Se voi scoprite che una statua fu fatta dello stesso marmo della cava onde fu fatto un mortaio, che avrete scoperto? Il pregio dell’arte non è dalla materia: e materia è un racconto comune, una leggenda una tradizione qualunque della quale l’artista fa la sua novella, che come la statua è tutta sua ed originale. Il frate che gabba i villani con le false reliquie è la materia onde il Boccaccio fa la mirabile statua del suo frate Cipolla, e Masuccio la sua bellissima del frate Girolamo. Sono due rappresentazioni d’una stessa cosa, la quale prima del Boccaccio fu certamente osservata da altri, e forse anche rappresentata, ma così no, e nel così è il pregio e l’originalità ancora.
Lasciando adunque sì fatte quistioni oziose, bisogna considerare il Novellino come opera d’arte. Il carattere proprio del libro è questo, che esso è tutto napoletano, e del tempo aragonese; e di qualunque cosa vi parla, anche antica e lontana, ve ne parla come allora si soleva in Napoli. Nessun altro italiano avrebbe raccontata la novella del Barbarossa nel modo che la racconta Masuccio, il quale non vede in lui il gran nemico dei comuni lombardi, ma il sacro imperatore, il cavaliere cristiano che dà in pegno del suo riscatto il corpo di Cristo al Soldano; e nei vituperii che dice del Papa si scorge non pure l’onesto cristiano che si sdegna contro colui che guasta con le opere la religione, ma l’uomo aragonese avverso al Papa che voleva distruggere il regno ed infeudarlo a la Chiesa. Dal Mille in poi tutti gl’italiani del mezzogiorno ordinati a regno, ritennero sempre nella coscienza il sentimento del regno, e si opposero ad ogni invasione temporale della Chiesa, quantunque fossero religiosi, e taluni anche superstiziosi: vogliono cangiar padroni, chiamano anche forestieri al trono, ma distruggere il regno, e farne un feudo della Chiesa, no. Masuccio ha questo sentimento del regno, e morde i finti religiosi perchè gli offendono anche questo suo sentimento, gli sono anche nemici politici: se fossero buoni e non si curassero delle cose di questo mondo che loro non appartengono, oh ei li terrebbe per santi.
E però il libro ha una certa aria signorile: non loda se non il nobile, e tutto ciò che a nobiltà si appartiene; e se rappresenta il popolo lo fa per dare uno spettacolo grato ai signori; onde vi accorgete che è scritto al tempo dei potenti baroni. Lo scrittoio ha cura di dirsi nobele Salernitano. E anche la lingua è nobile, mista di alcune parole e modi di dialetto, ma senza goffaggini e storpiature plebee; è la stessa lingua che parlavano e scrivevano Re Ferrante, Antonello Petrucci e Giovanni Pontano suoi segretari, e che si legge nel Codice Aragonese, è la stessa lingua che scriveva Francesco de Tuppo, che tradusse l’Esopo; è la stessa lingua un poco più forbita che scrisse il Sannazaro trent’anni dopo; è la stessa lingua tinta di dialetto che anche oggi si parla fra noi da le persone civili. E se volete riconoscer bene quest’aria di nobiltà, ricordatevi che allora v’erano signori e plebe, e questa è la lingua dei signori: un secolo dopo quando i signori diventarono volgo, si prese ad esempio la plebe, e nel Seicento i poeti napoletani, come lo Sgruttendio, ritrassero la plebe imbestiata e riuscirono ad una laidezza fastidiosa.
Masuccio non fu un erudito, però scrive in lingua materna mentre tutti scrivono in latino, mentre in latino scriveva Girolamo Morlino ottanta novelle e venti favole, e Poggio Bracciolini le sue Facezie. Egli non fa pompa di storia antica, nè di mitologia, nè di alcuna maniera di erudizione, e parla così alla buona: ma vivendo egli nel secolo dei latinisti, certi modi e costruzioni latine non sa evitare, e si diletta ancora di quelle orazioni che allora tutti gli uomini colti, ed anche le donne e le fanciulle, facevano innanzi a Re Imperatori e Papi, e questi le ascoltavano volentieri, e oggi nessuno più le vuole ascoltare. Quando non pretende a rettorica egli è facile, scorrevole, malizioso, bizzarro, nuovo nei concetti e nella espressione. Quando dipinge i suoi Salernitani nella novella XX egli li ritrae vivi e parlanti: e se il contrasto è gagliardo, i caratteri dei suoi personaggi risaltano belli, come quello nobilissimo di Beltramo d’Aquino, quello accortissimo della Chiara monaca di Marsico, quello dello sciocco Stratico, e quei due giovanetti uccisi dai Lazzarini, che fanno una vera pietà.
Ma il buon Masuccio non sa la grammatica, la quale non era ancora fatta: gli eruditi non si curavano del volgare, e contendevano fieramente fra loro per qualche parola latina. Però Masuccio spesso vi lascia un gerundio così appeso; comincia una sentenza con un El che, che talvolta significa onde e talvolta non significa niente; usa per la cui cagione invece di per la quale cagione; intreccia stranamente una proposizione in un’altra; gli adopera, per a lei, a loro; si piace di certi modi di dire tutti suoi, che spesso ripete. Così fatte scorrezioni, che sì leggono anche nei migliori toscani, sono cosa esteriore, non offendono la verità, l’ordine, la bellezza dei concetti particolari e del pensiero generale, sono come un po’ di ruvida scorza, sotto la quale sta un dire semplice e naturale, un ingegno vivo, una gran rettitudine di animo.
La lingua del Novellino è italiana, e buona italiana, con una certa tinta di dialetto non propriamente napoletano ma salernitano. E dico tinta, perchè pochissime parole del dialetto vi sono, le altre son parole comuni alquanto variate nella terminazione sia pel modo diverso della pronunzia, sia pel modo antico e ancora incerto che si teneva nello scrivere. Queste varietà non fanno differenza. Io non pretendo che altri le usi, nè le userei io, ma chiedo licenza di lasciarle stare come sono in un libro del Quattrocento, e credo che saranno intese da tutti. Infine io lo voglio pur dire, il Novellino è un libro che ha pregio anche per la sua lingua, che è sempre schietta, sempre elegante, come si conveniva a signori, e sempre efficace; non è lingua toscana ma italiana, non è lingua volgare ma materna.
VI.
Vediamo ora le vicende di questo libro. Le edizioni del Novellino sono queste.
1.ª Il novellino. (a la fine) Qui finisce il Novellino con li L argomenti et morali conclusioni de alcuni exempli per Masuzo Guardato nobele Salernitano facto et intilulato alla ill Ippolita de Calabria Duchessa. A. D. MCCCCLXXVI in civitate Neapolis sub aureo saeculo et augusta pace Ferdinandi Regis patriae. in folio12.
Questa è la prima edizione fatta in Napoli da Francesco de Tuppo, stampata da Sisto Reisinger di Argentina che venne in Napoli nel 1471; e vi portò la nuova arte della stampa. Di questa edizione i bibliofili conoscono un solo ed unico esemplare che era nella biblioteca del Principe di Fondi in Napoli, ed ora è nella gran biblioteca di Parigi.
2.ª Fatta in Milano nel 1483, in folio, a due colonne, carattere semigotico, senza numerazione di carte. Si conserva nella biblioteca della Minerva in Roma, dove io l’ho veduta; e credo sia una copia fedele della prima. Eccovi qui come è fatta. Non c’è frontespizio: la prima pagina è bianca: in dorso senz’altro cominciamento, v’è questa dedica:
«Per ben che la lira de Horpheo piuttosto necessaria seria in questo inepto mio principio, o illustrissima Ipolita de Aragona et de Visconte per propria virtù diva e non terrena, ad possere non che enumerare ma pensare li toi alti e reali costumi, lo animo grande accompagnato da inaudita liberalità, de continentia fonte, et de beltà singolarissima masso13; pur guardando io, a tua illustrissima signoria dedicatissimo, ai teneri felici anni toi che al nostro ausonico Regno per tua virtù futura regina te trovasti, devenendo per legitimo matrimonio sposa del mio terreno Idio Alfonso de Aragona Duca de Calabria, primogenito del invitto e potente Signore don Fernando de Sicilia Ungaria et Jerusalem Re pacifico e felice; quale guardando la inaudita pudicitia14 tua, el reale e arcano secreto teco como unica figliola partecipa15. Tu in consiglio sei un’altra Sibilla Cumana, tu in humanità trapassi quante romane e greche e troiane donne mai foro al seculo: del che meco medesimo pensando devento statua più che i guardanti Medusa. E certamente potesi per nostri Partenopei benedire lo superno Jove averne alli dì nostri de toa immensa virtù donati in amore al nostro terreno, dove nè humana nè celeste ira per toe sante orationi pote mai fulminare. Dove trovandome io Obbligatissimo, como la mia rude penna dimostra, a tua Sublimità, non resterò mai, fin che posseda queste a fatigose membra el mio piccolo spirito, e laudare et extollere al cielo la tua virtù, e prestissimo quanto fido schiavo comparere a quanto posso e fazzo per Tua illustrissima Signoria. De che venendome tra mano per mezzo del Parmisano Johan Marco16, unico scriptore de quante littere mai foro al mondo, e regio familiare, a me carissimo amico, me parse tal libro non doversi senza fama tenere: e benchè fosse lo originale de propria mano del Auditore delaniato17, e brusato da coloro che dentro senteano nova de loro casa, l’ingenio mio fo maggiore a serbare la copia: e quello como per Masuccio a Tua Serenità intitulato, cosi stampato a Te illustrissima mia Iddea pia Ipolita Duchessa de Calabria serà per me indirizzato. Vale. fido servitore Francesco de Tuppo de Napole.18»
A fronte di questa lettera, e nella seconda pagina c’è un Repertorio o vero Tavola degli argumenti de tutte le cinquanta novelle deyci per deyci in cinq parti destincte secondo de sotto se contene. E questa Tavola nella quale sono abbreviati gli argomenti che stanno in capo a ciascuna novella, mi pare fatta da lo stesso de Tuppo. In fine della Tavola sono queste parole: Novella del nobele materno poeta masuccio guardato da leruo intitulato alla illustrissima Hippolita daragoa et da vastate duchessa de calabria, et in primo el prologo felicemente comencia. Nelle quali parole sono molti errori di stampa, e bisogna leggerle così: «Novellino del nobele materno poeta Masuccio Guardato da Salerno intitulato alla illustrissima Ippolita d’Aragona et de Visconti Duchessa de Calabria.»
Nella terza pagina comincia il Novellino, in capo al quale sono queste parole latine: Massucii Salernitani de quinquaginta argumentis moralibus ad illustrissimam Hippolytam. Prohemium. E comincia il proemio.
In fine del libro sono queste parole. «Qui finisce il Novellino con le L argomenti et morali conclusioni di alcuni exempli per Masuccio Guardato nobele Salernitano facto et intitulato alla illustrissima Ipolita de Calabria Duchessa. Impressum Mediolani per Cristophorum Waldatser Ratisponensem emendatum et correctum cum magna diligentia19. anno dominice passionis mcccclxxxjjj die xxvjjj Mai, regnante excellentissimo ligurum principe D. Joane Galeaz Duce Mediolani.»
3.ª Cinquanta novelle intitolate il Novellino...., in fine Venetiis per Baptistam de Fortis die viii Iunii mcccclxxxiiii.
Questa edizione dell’84, prima di Venezia, non l’ho veduta.
4.ª La quarta edizione è di Venezia 1492, io l’ho veduta, l’ho avuta dalla Biblioteca Nazionale di Firenze, l’ho tenuta per tre mesi, e l’ho copiata. È un libro in folio, a due colonne, bei caratteri tondi, carte 72, ed ogni novella ha la sua figura. Nella prima carta è scritto questo titolo: Novellino de Masuc— cio Salernitano. La dedica del Tuppo non c’è. Nella seconda carta è la Tavola o Repertorio degli argomenti, come nella edizione milanese dell’83, e sono riprodotti in ultimo gli stessi errori di stampa.
Nella terza carta dove comincia il Prologo è una grande incisione in legno che occupa tutta la pagina, rappresentante la Duchessa seduta fra quattro damigelle, e innanzi da lei Masuccio che inginocchiato le presenta il libro: dietro Masuccio stanno cavalieri e cortigiani. Nel fondo del quadro è un giardino terminato da un muro merlato, e pare il giardino del palazzo della Duchesca che era presso le mura della città: nel giardino è un animale che parrebbe un caprio: a piedi della Duchessa è un cagnolino, innanzi al quadro un grosso mastino. Nel fregio superiore a questo quadro è Amore che suona il violino, ed ha intorno varii libri di musica. Nel fregio inferiore è lo scudo d’Aragona in mezzo: a destra un caprone che ha sul dorso un amorino alato con un cesto in capo, ed è tirato da un fanciullo che porta una palma, e seguito da due altri fanciulli dei quali uno suona la sampogna l’altro porta la cornucopia: a sinistra un montone con un altro amorino sul dorso portante un altro canestro, un fanciullo con palma lo tira, un altro fanciullo che suona il violino, ed uno con cornucopia in una mano e con un cesto in ispalla lo seguono. Questa incisione mi pare che abbia molto pregio per arte.
Dopo il prologo, che ha una figura anch’esso, seguono le novelle. In fine del libro è scritto così: «Finisce il Novellino di Masuccio Salernitano. Impresso in Venezia per Johani et Gregorio de Gregorii fratelli; in lano della humana recuperatione millesimo cccclxxxxii ad dì xxi de Luglio. Tenente la inclita Veneta republica Agostino Barbarigo Duce Serenissimo.»
5.ª Il Novellino.... in fine: Impresso in Venezia per Bartolomeo de Zannis da Portese nel M. ccccciii a di xxiv de fevraro — In folio, con figure in legno.
6.ª — Venezia 1510, in folio.
7.ª — Venezia officina Gregoriana a dì xxjj de Novembre 1522. in folio.
Riprodotta dalla medesima officina Gregoriana a dì jjx Zugno 15xxv. in quarto.
In queste due edizioni 6.ª e 7.ª il testo fu corretto da L. Paolo Rossello, e il libro dedicato a Girolamo Soranzo.
8.ª — Venezia — Marchio Sessa 1531.
Riprodotta dal medesimo Sessa nel 1535, in ottavo.
Questa riproduzione del 1535 si conserva nella Biblioteca Nazionale di Firenze, ed è in carattere corsivo: io l’ho veduta.
9.ª — con somma diligentia nuovamente rivisto e corretto. Venezia Marchio Sessa 1539, in ottavo.
Riprodotto dal medesimo Sessa nel 1541, in ottavo.
Questa edizione del Sessa ebbe nuove correzioni da Sebastiano Corrado, che la dedicò a Gio: Battista Boiardo Conte di Scandiano.
10.ª Le cinquanta novelle di Massuccio Salernitano intitolate il Novellino nuovamente con somma diligentia reviste corrette e stampate. Una gatta con suoi gattini, e un sorcio in bocca. Sotto M. S. (Marchio Sessa) Più sotto queste parole Dissimilium infida societas. Senza anno nè luogo: pare fatta nel principio del Seicento, ma di nascosto. È scorrettissima, e verso la fine è monca degli esordii e delle conclusioni. È stata fatta su l’edizione precedente, ha la dedica del Corrado, ed è detta l’edizione della gatta.
11.ª Il Novellino di Masuccio Salernitano in toscana favella ridotto, all’orrevole Aristarco Scannabue della Frusta Letteraria autore dedicato. In Ginevra (Lucca) 1765, vol. 2. in 8. Precede una lettera dedicatoria, anzi minchionatoria di uno che si sottoscrive Ferondo Frustalasino, all’orrevole baccalare Aristarco Scannabue, e reca la data dall’altro mondo il giorno senza la luna dell’anno 8928. E questo Ferondo dovette essere qualcuno che frustato dal Baretti si volle svelenire con questa lettera. Alla quale segue una breve notizia di Masuccio e delle edizioni fatte del Novellino.
E questo è l’ultimo storpio fatto al Novellino, corretto dal Rosello, rivisto e ricorretto dal Corrado, in toscana favella ridotto da questo anonimo, forse lucchese. Io mi propongo di restituirlo all’antica lezione per quanto m’è possibile.
Voi dunque vedete che uno dei primi libri stampati in Napoli quando vi fu introdotta la stampa, fu il Novellino: il quale nel Quattrocento ebbe quattro edizioni, nel Cinquecento cinque edizioni e tre riproduzioni sino al 1541, cioè sino alla compilazione del primo Indice dei libri proibiti dalla Chiesa; una sola volta fu stampato forse nel Seicento, ma di nascosto e però con scorrezioni e mutilazioni; un’altra volta nel secolo passato e in Lucca, e al tempo delle riforme di Leopoldo I di Toscana. E tutto che stampato in undici edizioni e tre riproduzioni, cioè stampato quattordici volte, il Novellino è un libro assai raro, non letto quasi da nessuno, noto soltanto pel titolo ai bibliofili.
VII.
Ma io voglio dire tutta la verità al lettore, perchè mi sono innammorato di Masuccio, e l’ho studiato, e lo ristampo. Immaginate un povero giovane esposito, che non ha nome, non ha parenti, non ha patria, non sa come è nato, si vede da tutti sprezzato, e pure egli sente in petto d’essere qualcosa, e nei lineamenti del volto porta scolpito qualcosa. Se questo giovane a un tratto trova suo padre e la sua famiglia che è nobile e gloriosa, che sentimento avrà egli? Così io leggendo la storia della Letteratura Italiana udivo dire che i soli Toscani seppero parlare e scrivere nella lingua nostra, che ad essi soli Domineddio aveva dato questo privilegio, e tutti gli altri italiani o mutoli come i pesci, o parlavano orridi dialetti, e scrivere soltanto in latino. Noi altri napoletani avevamo la prima cronaca scritta in volgare da Matteo Spinello; e ci dicevano: che ne volete fare di una scrittura in laida loquela? Oh, diceva poco fa il tedesco Bernhardi, la Cronaca dello Spinelli è un’impostura del secolo XVI, probabilmente del Costanzo; e molti hanno ripetuto, impostura20. Ma possibile, dicevo io, che il Regno de’ Normanni e di Federico 2. che fu il regno più potente in Europa e quando tutte le città di Toscana non erano altro che bicocche; possibile che il regno di Carlo I d’Angiò, di Roberto, di Ladislao, di Alfonso I d’Aragona, che pur le storie ci dicono essere stato tanto forte e glorioso, non abbia avuto arti, scienze, lettere, scrittori che sono tanta parte della gloria e della potenza di un popolo? Non può essere. E mi diedi a cercare i monumenti d’ogni sorte che rimangono del regno: e ricercando trovo Masuccio, e ne ho quell’allegrezza che si ha a trovare un parente che si riconosce un valentuomo. Ecco qui una pruova che non siamo protonobilissimi, ma un cencino di nobiltà l’abbiamo anche noi; parlare italiano e scrivere con garbo, e farci intendere da tutti, e piacere a tutti, sapevamo anche noi.
Come adunque io ebbi il Novellino, e ne sentii il pregio, e ne vidi lo strazio fatto nelle ultime edizioni, desiderai vedere il vecchio Masuccio nel suo secolo, vedere il libro in una delle quattro edizioni del Quattrocento; ed avuta la bella edizione di Venezia del 1492 l’ho ricopiata tutta di mia mano dalla prima a l’ultima parola, e ho fatto come il numismatico che con lo spazzolino toglie via dalla moneta antica non la ruggine, ma quel tanto di terra che gli basta per leggerla. Oh, si stampa forse il Decamerone con quella stessissima ortografia che è nel testo Mannelli? Certo che no. Così ricopiando e ripensando ogni parola ogni concetto del libro, conoscendo il dialetto, i luoghi, e le usanze, e un po’ la storia nostra, ho potuto leggere chiaro, e con ragionevole punteggiatura far leggere anche chiaro chi vorrà, chè anche questa bella edizione, come le antecedenti, ha i suoi errori di stampa, e abbreviazioni, e trasformazioni di parole. Avendo poi veduta in Roma la seconda edizione, Milano 1483, sovra essa ho corretti molti luoghi, ma ancora alcuni rimangono oscuri, per errori corsi nella prima edizione, e che non si possono più emendare. Nè alcuno si dovrà maravigliare o credere trascuraggine, se troverà le stesse parole scritte ora in un modo ora in un altro, perchè io l’ho fatto a posta, le ho fatte rimanere come sono, anche per mostrare come l’ortografia era incerta a quel tempo.
Di tutte le persone nominate da Masuccio ho cercato notizie nelle storie e nelle memorie che ci rimangono di quel tempo, e le ho allogate al loro posto, e così ho rifatto un poco del suo mondo intorno a lui. Una cosa non ho potuto spiegare. Nelle edizioni del 1483 e 1492, e credo forse anche nella prima, alcune novelle sono dedicate ad alcune persone, e nelle edizioni posteriori ad alcune altre.
Novella 4. ant. ed. Al magnifico misser Antonello de Petruciis, regio unico e fido secretario — ed. post. Al magnifico messer Fabiano Rosello gentiluomo de Bari reale unico e fido secretario.
Nov. 8. ed. ant. Al nobile e virtuoso Francisco Scales regio secretario — ed. post. Al nobile e virtuoso Francesco Gisolerio regio secretario.
Nov. 9. ed. ant. Al magnifico misser Dragonetto Bonifazio — ed. post. Al magnifico messer Cornelio Cavalerino gentiluomo d’Arezzo.
Nov. 10. ed. ant. Al nobile e generoso Francesco Arcella — ed. post. Al nobile e generoso messer Francesco Lavagnuolo.
Nov. 19. ed. ant. Al virtuoso e magnifico misser Bernardo de Rogieri — ed. post. Al virtuoso e magnifico messer Sestilio Aurelio Aliprando reale armigero.
Nov. 23. ed. ant. Al magnifico Marino Brancazo — ed. post. Al magnifico messer Anastasio Rosello Aretino cavaliere e barone reale.
Nov. 26. ed. ant. A la magnifica Francischella de Morisco — ed. post. Alla magnifica madonna Fioretta Alipranda.
Nov. 34. ed. ant. Al magnifico barone de Prignano — ed. post. Al magnifico messer Fabiano Rosello regio secretario.
Nov. 35. ed. ant. A lo egregio misser Francesco Bandini, nobile fiorentino — ed. post. Allo egregio e formosissimo mio messer Francesco Tomacello.
Nov. 37. ed. ant. Al formosissimo mio Ariete — ed. post. Al formosissimo mio messer Francesco Tomacello.
Da chi fu fatto questo mutamento, e quando? Se io avessi tutte le edizioni del Novellino vedrei subito il quando. È certo che cinque anni dopo la morte del Petrucci, nel 1492, la novella era dedicata ancora a lui: quindi non fu Masuccio che mutò i nomi, perchè forse ei non visse sino al 1492; e perchè se mutava quello del Petrucci decapitato come ribelle, perchè mutare anche il nome di Marino Brancaccio che fu fedele e favorito a tutti i re aragonesi? perchè non mutare i nomi degli altri baroni che furono uccisi? Masuccio sarebbe stato un vigliacco: eppure lo vediamo tanto generoso da dedicare l’ultima novella al ribelle Del Giudice. I nomi delle persone nelle edizioni antiche sono tutti ricordati nelle nostre storie, e conosciuti: degli altri non ho potuto avere alcuna notizia. Io sospetto che quel L. Paolo Rosello che corresse la sesta edizione 1510, e la settima 1522 Venezia, abbia fatto anche questo mutamento, e togliendo le novelle agli antichi, e al Petrucci, che forse ei non sapeva chi fosse, le volle intitolare, due a Fabiano Rosello, una ad Anastasio Rosello, ed altre a suoi amici. Nell’edizione del 1535, che è nella Nazionale di Firenze il mutamento è già fatto. Ho voluto chiarire questo punto, che avrebbe potuto offendere il carattere di Masuccio.
Il Novellino si può dire la sola scrittura in prosa italiana di una certa ampiezza ed importanza letteraria che apparisce nel Quattrocento. Io lo presento come un antico monumento di storia, di arte, di lingua; e non dico ai lettori di volergli il bene che gli voglio io che ci ho lavorato attorno, ma di leggerlo senza preoccupazioni di animo. Lo scomunicarono, ora bisogna ribenedirlo; lo fecero dimenticare, ora bisogna ricordarlo e non senza lode. E se nessuno finora si è scandalezzato che alcuni uomini anche timorati per amore dell’arte e della lingua abbiano studiato il Decamerone del Boccaccio, credo che nessuno si vorrà scandalezzare che io ristampo il Novellino; ma se alcuno vorrà pigliarne scandalo, non me ne importa nulla.
Il Novellino, il Codice Aragonese e l’Esopo del Tuppo debbono avere una certa importanza nella storia della Letteratura Italiana, perchè essi sono scritti non in dialetto, come scioccamente si disse da chi non li aveva neppure letti, ma in lingua comune italiana tinta alcun poco del nostro dialetto. Così le Relazioni degli Ambasciatori Veneti furono scritte nella lingua comune con una tinta veneziana; così le opere toscane di quel tempo hanno la tinta del dialetto toscano; e così se avessimo scritture milanesi sarebbero certamente della stessa lingua tinta del dialetto di Milano. Dunque non fu Lorenzo de Medici che un bel giorno disse: Lasciamo il latino e scriviamo il volgare, e Firenze lo ubbidì, e poi tutta Italia ubbidì a Firenze; ma in Napoli, in Venezia, in Milano, in Ferrara, in tutta Italia si usava scrivere ufficialmente in una lingua comune che da un luogo all’altro aveva pochissime varietà e tutti intendevano benissimo.
Ma basti fin qui. Leggete ora il Novellino e giudicate.
Note
- ↑ La più antica edizione dell’Indice è di Roma 1564 per Paolo Manuzio, in 4° piccolo. In questa edizione a la lettera M, pag.59, sotto la rubrica. Certorum auctorum libri prohibiti, si leggono indicati questi tre libri:
Marci Pagani liber, cuius titulus est, Triumpho angelico; et alter, qui dicitur: Sonetti diversi di Marco Pagano.
Massuoci Salernitani Novellae.
Merlini Angli liber obscurarum praedictionum. - ↑ Masuzo dice il popolo salernitano: Masuccio il napoletano.
- ↑ Jov. Fontani Carmina. pag. 339, ed. Basilea.
- ↑ Questa novella del Pulci, pubblicatal a prima volta dal Doni nel 1547 nella seconda parte delle sue Librerie, è stata ripubblicata nella Raccolta dei Classici Italiani fatta in Milano nel 1804.
- ↑ Torricella, per chi nol sapesse, è una terricciuola che sta presso la Punta della Campanella sul golfo di Salerno.
- ↑ Papa Calisto III fu Alfonso Borgia, maestro e guida del giovanetto Ferrante, e giunse al pontificato nel 1455, col favore di re Alfonso. Fu zio di Rodrigo Borgia, papa Alessandro VI, il quale preparò la rovina degli Aragonesi.
- ↑ Codice Aragonese, ossia Lettere regie, ordinamenti, ed altri atti governativi de’ Sovrani Aragonesi di Napoli, per cura di Francesco Trinchera. Napoli 1866-70.
- ↑ Vedi la dedica del Novellino che fa a Lei Francesco de Tuppo.
- ↑ Nel proemio della terza parte.
- ↑ Nella raccolta intitolata: Novelle di varii autori con note. Milano 1804. Società Tipografica dei classici italiani — sono due Novelle di Masuccio, precedute da una prefazione nella quale sono queste parole:
«Il Novellino di Masuccio Salernitano fu stampato la prima volta in fol. 1492 senza nome di luogo o di stampatore, e contiene cinquanta novelle, in cinque parti divise — Chi si fosse costui, e di qual condizione niente può dirsi di certo, ec.
Lo stile e la lingua di Masuccio non sono da imitarsi, e ognuno può vedere da sè quanto egli sia lontano dalla purità e leggiadria degli antichi novellieri....
«Il suo dialetto è presso che pretto napoletano (volesse Dio!) e lo stile intralciato e ravvolto in istrana guisa — Non è però che il Salernitano sì per le cose che racconta, come ancora pel modo di narrarle non si meriti alcuna lode, e non dimostri che se vissuto fosse in miglior secolo e in altro suolo avrebbe riportata scrivendo non ordinaria commendazione. Un pregio certamente non gli si può negare, attribuitogli a ragione dal Doni in una delle sue Librerie con le seguenti parole: Benedetto sia il Salernitano, che almeno non ha rubato pure una parola al Boccaccio, anzi ha fatto un libro il quale è tutto suo.» Tra le molte inesattezze anzi sciocchezze vi sono almeno le parole del Doni che possono valere per coloro che diranno Masuccio imitatore del Boccaccio. - ↑ Così fece anche il Bandello che ad esempio del nostro Masuccio, dedicò le sue novelle con lettere a molti principali uomini del suo tempo.
- ↑ Traggo le notizie dal Brunet e dal Gräesse. Trésor des livres rares et precieux. Dresda 1863.
- ↑ Masso di beltà da cui scaturisce fonte di continenza.
- ↑ Questa pudicizia detta inaudita ci fa pensare alla corruzione de’ tempi, in cui una donna pudica era cosa inaudita!
- ↑ Il periodo finirebbe più giù a la parola Medusa, perchè lì si compie il pensiero. I nostri vecchi scrivevano alla buona, come parlavano. Qui il pensiero dentro è un pezzo, fuori apparisce scucito nella sintassi e nell’ortografia.
- ↑ Tra le poesie dell’infelice Conte di Policastro, figliuolo di Antonello Petrucci, pubblicate da S. d’Aloe col processo de’ Baroni, v’è un Sonetto dedicato a Johan Marco, Cinico.
O tu che de le sette la migliore
Cinico segui, e fai vita beata,
Ricchezze e la gran roba hai disprezzata,
Vivi felice e non temi livore, ecc. - ↑ Dunque l’Auditore fece in pezzi l’originale del Novellino; ma il Tuppo che ne aveva serbata una copia lo fece stampare forse col favore e con la liberalità della Duchessa.
- ↑ Francesco de Tuppo, dottore in legge, ricordato dal Summonte lib. V, fu un ufficiale della segreteria del Re, e scrisse un’Esposizione delle Favole d’Esopo, ossia le favole d’Esopo da lui voltate in lingua materna come quella di Masuccio. Il libro fu da lui stesso stampato nel 1486, è raro, è bello anche per figure, e si conserva nella nostra Biblioteca Nazionale. Esso non è nè licenzioso nè messo all’Indice, dovrebb’essere ristampato, e così insieme col Novellino prendere un posto nella Letteratura Italiana.
- ↑ Dunque nella prima edizione erano corsi molti errori di stampa, corretti in questa, la quale però vale quanto la prima e forse più della prima, se si riguarda la lezione, perchè senza mutar nulla è rinettata degli errori.
- ↑ Camillo Minieri Riccio ha confutato il Bernhardi, e con molti documenti ha mostrato vera la Cronaca dello Spinelli.