Il Corbaccio (1828)
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OPERE
VOLGARI
DI
GIOVANNI BOCCACCIO
CORRETTE SU I TESTI A PENNA
EDIZIONE PRIMA
VOL. V.
FIRENZE
PER IL MAGHERI
MDCCCXXVIII.
Col benigno Sovrano rescritto del dì 9 Giugno 1826, fu conceduta ad Ignazio Moutier la privativa per anni otto della stampa delle Opere volgari di Giovanni Boccaccio.
COMINCIA IL LIBRO
CHIAMATO
CORBACCIO
COMPOSTO
PER L’ELOQUENTE
MESSER GIOVANNI
BOCCACCI
DA CERTALDO, POETA
ILLUSTRE.
Qualunque persona, tacendo, i beneficii ricevuti nasconde, senza aver di ciò cagion convenevole, secondo il mio giudicio, assai manifestamente dimostra sè essere ingrato e mal conoscente di quegli. O cosa iniqua e a Dio dispiacevole e gravissima a’ discreti uomini, il cui malvagio fuoco il fonte secca della pietà! del quale, acciocchè niuno mi possa meritamente riprendere, intendo di dimostrare nell’umile trattato seguente una spezial grazia, non per mio merito, ma per sola benignità di colei, che impetrandola da colui che volle quello ch’ella medesima, nuovamente mi fu conceduta. La qual cosa faccendo, non solamente parte del mio dover pagherò, ma senza niuno dubbio potrò a molti lettori di quella fare utilità. E perciò, acciocchè questo ne segua, divotamente priego colui, dal quale e quello di che io debbo dire, e ogni altro bene procedette e procede, e di tutti, come per effetto si vede, è larghissimo donatore, che alla presente opera della sua luce sì fattamente illumini il mio intelletto, e la mano scrivente regga, che per me quello si scriva che onore e gloria sia del suo santissimo nome, e utilità e consolazione dell’anime di coloro li quali per avventura ciò leggeranno, e altro no.
Non è ancora molto tempo passato, che ritrovandomi solo nella mia camera, la quale è veramente sola testimonia delle mie lagrime, de’ sospiri e de’ rammarichii, siccome assai volte davanti avea fatto, m’avvenne ch’io fortissimamente sopra gli accidenti del carnale amore cominciai a pensare: e molte cose già passate volgendo, e ogni atto e ogni parola pensando meco medesimo, giudicai che senza alcuna mia colpa io fossi fieramente trattato male da colei, la quale io mattamente per mia singulare donna eletta avea, e la quale io assai più che la propria vita amava, e oltre ad ogni altra onorava e reveriva. E in ciò parendomi oltraggio e ingiuria, senza averla meritata, ricevere, da sdegno sospinto, dopo molti sospiri e rammarichii amaramente cominciai, non a lagrimare solamente, ma a piagnere. E in tanto d’afflizione trascorsi, ora della mia bestialità dolendomi, ora della crudeltà trascurata di colei, che uno dolore sopra un altro col pensiero aggiugnendo, estimai che molto meno dovesse essere grave la morte che cotal vita, e quella con sommo desiderio cominciai a chiamare: e dopo molto averla chiamata, conoscendo io che essa, più che altra cosa crudele, più fugge chi più la desidera, meco immaginai di costrignerla a trarmi del mondo. E già del modo avendo diliberato, mi sopravvenne un sudore freddo, e una compassion di me stesso, con una paura mescolata di non passare di malvagia vita a piggiore se io questo facessi, che fu di tanta forza, che quasi del tutto ruppe e spezzò quello proponimento che io davanti reputava fortissimo: perchè ritornatomi alle lagrime e al primiero rammarichio tanto in esse multiplicai, che ’l desiderio della morte, dalla paura di quella cacciato, ritornò un’altra volta: ma tolto via come la prima, e le lagrime ritornate, a me in così fatta battaglia dimorante, credo da celeste lume mandato, sopravvenne un pensiero, il quale così nella afflitta mente meco cominciò assai pietosamente a ragionare. Deh stolto, che è quello a che il poco conoscimento della ragione, anzi più tosto il discacciamento di quella, ti conduce? Or se’ tu sì abbagliato che tu non t’avvegghi che, mentre tu estimi altrui in te crudelmente adoperare, tu solo se’ colui che verso te incrudelisci? Quella donna, che tu, senza guardar come, incatenata la tua libertà, e nelle sue mani rimessa, t’è, siccome tu di’, di gravi pensieri cagione: tu se’ ingannato; tu, non ella ti se’ della tua noia cagione: mostrami dov’ella venisse ad isforzarti che tu l’amassi: mostrami con quali armi, con quali giurisdizioni, con qual forza ella t’abbia qui a piagnere e a dolerti menato, o ti ci tenga: tu nol mi potrai mostrare, perciocch’egli non è. Vorrai forse dire: ella conoscendo ch’io l’amo, dovrebbe amar me, il che non faccendo, m’è di questa noia cagione, e con questo mi ci mena, e con questo mi ci tiene? Questa non è ragione ch’abbia alcun valore: forse che non le piaci tu: come vuo’ tu che alcuno ami quello che non gli piace? dunque se tu ti se’ messo ad amar persona a cui tu non piaci, non è, se mal te ne viene, colpa della persona amata, anzi è tua, che sapesti male eleggere: dunque se per non essere amato ti duoli, te ne se’ tu stesso cagione. E perchè apponi tu ad alcuno quello che tu medesimo t’hai fatto e ti fai? E certo per lo averti tu stesso offeso meriteresti tu appo giusto giudice ogni grave penitenzia: ma perciocch’ella non è quella che al tuo conforto bisogna, anzi sarebbe uno aggiugnere di pena sopra pena, non è ora da andar cercando questa giustizia: ma veggiamo, se tu in te stesso incrudelisci, quel che tu avrai fatto. Ciò che l’uomo fa, o per piacere a sè stesso, o per piacere ad altrui, o per piacere a sè e ad altrui il fa, o per lo suo contrario. Ma veggiamo se quello a che la tua bestialità ti reca è tuo piacere o dispiacere. Che egli non sia tuo piacere assai manifestamente appare, perciocchè s’e’ ti piacesse tu non te ne rammaricheresti, nè ne piangeresti come tu fai. Resta dunque a vedere se questo tuo dispiacere è piacere o dispiacere d’altrui. Nè d’altrui è ora da cercare, se non di quella donna per cui tu a ciò ti conduci, la quale senza dubbio o ella t’ama, o ella t’ha in odio, o egli non è nè l’uno nè l’altro. Se ella t’ama, senza niuno dubbio la tua afflizione l’è noiosa e dispiacevole: or non sai tu, che per far noia e dispiacere ad altrui non s’acquista nè si mantiene amore, anzi odio e nimistà? Non pare che tu abbi tanto caro l’amore di questa donna quanto tu vuogli mostrare, se tu con tanta animosità fai quello che le dispiace, e disideri di far peggio. Se ella t’ha in odio, se tu non se’ del tutto fuori di te, assai apertamente conoscer dei, niuna cosa poter fare che più le piaccia, che lo impiccarti per la gola il più tosto che tu puoi. E non vedi tu tutto ’l giorno le persone che hanno alcuno in odio, per diradicarlo e levarlo di terra mettere le lor cose e la propria vita in avventura, contra le leggi umane e divine adoperando? e tanto di letizia, e di piacer prendono, quanto di tristizia e di miseria sentono in cui hanno in odio. Tu dunque piangendo, attristandoti rammaricandoti sommo piacere fai a questa tua nimica. E chi sono quelli, se non i bestiali, che a’ loro nimici di piacere si dilettino? Se ella nè t’ama nè t’ha in odio, nè di te poco nè molto cura, a che sono utili queste lagrime, questi sospiri, questi dolori così cocenti? Tanto t’è per lei prendergli, quanto se per una delle tue travi della camera li prendessi. Perchè dunque t’affliggi? perchè la morte desideri? la quale ella medesima tua nimica, secondochè tu estimi, non cercò di darti? E’ non mostra che tu abbi ancora sentito quanto di dolcezza nella vita sia, quando così leggiermente di torti di quella appetisci: nè ben considerato quanto più d’amaritudine sia negli eterni guai, che in quegli del tuo folle amore, li quali tanti e tali ti vengono, quanti e quali tu stesso te li procacci: ed etti possibile, volendo essere uomo, di cacciargli, il che degli eterni non avverrebbe. Leva adunque via, anzi discaccia del tutto questo tuo appetito, nè volere ad un’ora te privare di quello che non acquistasti, ed eterno supplicio guadagnare, e a chi ti vuol male sommamente piacere: siati cara la vita, e quella, quanto puoi il più, t’ingegna di prolungare. Chi sa se tu ancora, vivendo, potrai veder cosa di costei, di cui tu tanto gravato ti tieni, che sommamente ti farà lieto? niuno: ma certissimo può essere a tutti, che ogni speranza di vendetta, od altra letizia di cosa che qua rimanga, fugge nel morire a ciascuno. Vivi adunque; e come costei contro a te, malvagiamente operando, s’ingegna di darti dolente vita a cagione di disiderar la morte, così tu, vivendo, trista la fa’ della tua vita.
Maravigliosa cosa è quella della divina consolazione nelle menti de’ mortali: questo pensiere, siccom’io arbitro, dal piissimo padre de’ lumi mandato, quasi dagli occhi della mente ogni oscurità levatami, in tanto la vista di quelli aguzzati rendè chiara, che a me stesso manifestamente scoprendosi il mio errore, non solamente riguardandolo me ne vergognai, ma da compunzione debita mosso ne lagrimai, e me medesimo biasimai forte, e da meno ch’io non arbitrava mi reputai: ma rasciutte dal viso le misere e le pietose lagrime, e confortatomi a dovere la solitaria dimoranza lasciare, la quale per certo offende molto ciascuno il quale della mente è men che sano, della mia camera con faccia assai, secondo la malvagia disposizione trapassata, serena uscii, e cercando, trovai compagnia assai utile alle mie passioni, con la quale ritrovandomi, e in dilettevole parte ricolti, secondo la nostra antica usanza, primieramente cominciammo a ragionare con ordine assai discreto delle volubili operazioni della fortuna, della sciocchezza di coloro i quali quella con tutto il desiderio abbracciano, e della pazzia d’essi medesimi, i quali, siccome in cosa stabile, le loro speranze messe fermano; e di quinci alle perpetue cose della natura venimmo, e al maraviglioso ordine e laudevole di quelle, tanto meno da tutti con ammirazion riguardate, quanto più tra noi, senza considerarle, le veggiamo usitate: e da queste passammo alle divine, delle quali appena le particelle estreme si possono da’ più sublimi ingegni comprendere, tanto d’eccellenza trapassano gl’intelletti de’ mortali: e intorno a così alti e così eccelsi e così nobili ragionamenti il rimanente di quel dì consumammo, da’ quali la sopravvegnente notte ci costrinse a rimanere a quella volta: e quasi da divino cibo pasciuto, levatomi, e ogni mia passata noia avendo cacciata, e quasi dimenticata, consolato alla mia usitata camera mi ridussi: e poichè l’usitato cibo assai sobriamente ebbi preso, non potendo la dolcezza de’ passati ragionamenti dimenticare, grandissima parte di quella notte, non senza incomparabil piacere, tutti meco ripetendoli trapassai: e dopo lungo andare, vincendo la naturale opportunità il mio piacere, soavemente m’addormentai: e con tanta più forza si mise ne’ miei sentimenti il sonno, quanto più gli avea il dolce pensier trapassato di tempo tolto. Perchè essendo io in altissimo sonno legato, non parendo alla mia nimica fortuna che le bastassero le ingiurie fattemi nel mio vegghiare, ancora dormendo s’ingegnò di noiarmi: davanti alla virtù fantastica, la quale il sonno non lega, diverse forme paratemi, avvenne che a me subitamente parve entrare in uno dilettevole e bel sentiero, tanto agli occhi miei e a ciascun altro mio senso piacevole, quanto fosse alcun’altra cosa stata davanti da me veduta. Il luogo dove questo si fosse non mi parea conoscere, nè di conoscerlo mi parea curare, posciachè dilettevole il sentia. Ed è il vero che quanto più avanti per esso andava, tanto più parea che di piacer mi porgesse: perchè da quello sì fermo una speranza, la quale mi parea che se io al fine del sentiero pervenissi, letizia inestimabile e mai da me non sentita mi si apparecchiava. Onde pareva che in me s’accendesse un disio si fervente di pervenire a quello, che non solamente i miei piedi si moveano a correre per pervenirvi, ma mi parea che mi fossero da non usitata natura prestate velocissime ali, con le quali mentre a me parea più rattamente volare, mi parve il cammino cambiar qualità: e dove erbe verdi e varii fiori nell’entrata m’erano paruti vedere, ora sassi, ortiche, e triboli, e cardi, e simili cose mi parea trovare; senza che, indietro volgendomi, seguir mi vidi a una nebbia sì folta e sì oscura, quanto niuna se ne vedesse giammai: la quale subitamente intorniatomi, non solamente il mio volare impedio, ma quasi d’ogni speranza del promesso bene all’entrare del cammino mi fece cadere. E così quivi immobile e sospeso trovandomi, mi parve per lungo spazio dimorare, avanti che io pure, attorno guardandomi, potessi conoscere dov’io mi fossi: ma pure dopo lungo spazio assottigliatasi la nebbia, comechè ’l cielo per la sopravvenuta notte oscurato fosse, conobbi me dal mio volato essere stato lasciato in una solitudine diserta aspra e fiera, piena di salvatiche piante, di pruni e di bronchi, senza sentieri o via alcuna, e intorniata da montagne asprissime e sì alte, che con la loro sommità pareva toccassono il cielo: nè per guardare con gli occhi corporali, nè per estimazione della mente in guisa alcuna mi pareva dover comprendere nè conoscere da qual parte io mi fossi in quella entrato; nè ancora, che più mi spaventava, poteva discernere dond’io di quindi potessi uscire, e in più dimestichi luoghi tornarmi: e oltre a questo, mi parea per tutto, dove che io mi volgessi, sentire mugghii, urli e strida di diversi e ferocissimi animali de’ quali la qualità del luogo mi dava assai certa speranza e testimonianza che per tutto ne dovesse essere. Laonde e dolore e paura parimente mi vennero nell’animo. Il dolore agli occhi miei recava continue lacrime, e sospiri e rammarichii alla bocca; la paura m’impediva di prender partito verso qual di quelle montagne io dovessi prendere il cammino per partirmi di quella valle, ciascuna parte mostrandomi piena di più forti nimici della mia vita; laond’io arrestato nella guisa che mostrato è, e da ogni consiglio e aiuto abbandonato, quasi niun’altra cosa che la morte o da fame o da crudel bestia aspettando, fra gli aspri sterpi e le rigide piante piangendo mi parea dimorare, niun’altra cosa faccendo che tacitamente o dolermi dell’entrata, senza prevedere dov’io pervenir mi dovessi, o chiamare il soccorso di Dio. E mentre che io in cotal guisa, e già quasi da ogni speranza abbandonato, tutto delle mie lagrime molle mi stava, ed ecco di verso quella parte, dalla quale nella misera valle il sole si levava, venire verso me con lento passo un uomo senza alcuna compagnia, il quale, per quello, ch’io poi più dappresso discernessi, era di statura grande, e di pelle e di pelo bruno, benchè in parte bianco divenuto fosse per gli anni, de’ quali forse sessanta o più dimostrava d’avere, asciutto e nerboruto, e di non molto piacevole aspetto: e il suo vestimento era lunghissimo e largo, e di colore vermiglio, e comechè assai più vivo mi paresse, non ostante che tenebroso fosse il luogo là dov’io era, che quello che qua tingono i nostri maestri: il quale, come detto è, con lenti passi approssimandosi a me, in parte mi porse paura, e in parte mi recò speranza: paura mi porse, perciocchè io cominciai a temere non quello luogo a lui fosse per propria possessione assegnato, e recandosi ad ingiuria di vedervi alcuno altro, le fiere del luogo, siccome a lui familiari, a vendicar la sua ingiuria sopra me incitasse, e da queste mi facesse dilacerare; speranza d’alcuna salute mi recò, in quanto più faccendosi a me vicino, pieno di mansuetudine mel parea vedere, e più e più riguardandolo, estimando d’altra volta, non quivi, ma in altra parte averlo veduto, diceva meco: questi per avventura, siccome uomo uso in queste contrade, mi mostrerà dove sia di questo luogo l’uscita; e ancora, se in lui fia spirito di pietà alcuno, infino a quello benignamente mi menerà. E mentre ch’io in così fatto pensier dimorava, esso, senza ancora dire alcuna cosa, tanto mi s’era avvicinato, ch’io, ottimamente la sua effigie raccolta, chi egli fosse e dove veduto l’avessi mi ricordai: nè d’altro con la mia memoria disputava che del suo nome, immaginando, se io per quello misericordia e aiuto chiedendoli il nominassi, quasi una più stretta familiarità per quello dimostrando, con maggiore e più forte affezione a’ miei bisogni il dovesse muovere. Ma mentrechè io quello che cercando andava ritrovar non poteva, esso me con voce assai soave per lo mio proprio nome chiamandomi, disse: qual malvagia fortuna, qual malvagio destino t’ha nel presente diserto condotto? dove è il tuo avvedimento fuggito, dove la tua discrezione? Se tu hai sentimento, quanto solevi, non discerni tu che questo è luogo di corporal morte, e perdimento d’anima, che è molto peggio Come ci se’ tu venuto; qual trascuranza t’ha qui guidato? Io costui udendo, e parendomi ne’ suoi sembianti assai di me pietoso, prima ch’io potessi alla risposta aver la voce, dirottamente, di me increscendomi, cominciai a piangere: ma poichè alquanto sfogata fu la nuova passione per le lagrime, raccolte alquanto le forze dell’animo in uno, con rotta voce, e non senza vergogna, risposi: siccome io penso, il falso piacere delle caduche cose, il quale più savio ch’io non sono già transviò molte volte, e forse a non minor pericolo condusse, qui, prima che io m’accorgessi dov’io m’andassi, m’ebbe menato, là dove in amaritudine incomportabile, e senza speranza alcuna, dappoichè io mi ci vidi, che è sempre stato di notte, dimorato sono. Ma poichè la divina grazia, siccome credo, e non per mio merito mi t’ha innanzi parato, io ti priego, se colui se’ il quale già molte volte in altra parte veder mi parve, che tu per quello amore che alla comune patria dei, e appresso per quello Dio per lo quale ogni cosa si dee, e se in te è alcuna umanità, che di me t’incresca; e se sai, m’insegni com’io del luogo di tanta paura pieno partirmi possa: dalla quale già sì vinto mi sento, che appena conosco s’io o vivo o morto mi sono. Parvemi allora, nel viso guardandolo, che egli alquanto delle mie parole ridesse con seco stesso, e poi dicesse: veramente mi fa il qui vederti, e le tue parole assai manifesto, se altrimenti nol conoscessi, te del vero sentimento essere uscito, e conoscere se vivo ti sii o morto: il quale se da te non avessi cacciato, ricordandoti quali occhi fossero quelli e di cui, la cui luce, secondo il vostro parlare, t’aperse il cammino che qui t’ha condotto, e fecetelo parer così bello, e conoscendo quanto fossero a me, tu non avresti avuto ardire di pregarmi per la tua salute; ma veggendomi, ti saresti ingegnato di fuggire, per tema di non perderne alquanta che ancora t’è rimasa: e se io fossi colui che io già fui, per certo non aiuto ti presterrei ma confusione e danno, siccome a colui che ottimamente l’hai meritato. Ma perciocchè io, poichè dalla vostra mortal vita sbandito fui, ho la mia ira in carità trasmutata, non sarà alla tua domanda negato il mio aiuto. Alle cui parole stando io attento quanto poteva, quando io udii: poichè dalla vostra mortal vita fui sbandito, riconoscendo non costui essere quello ch’io estimava, ma la sua ombra, così uno repente freddo mi corse per l’ossa, e tutti i peli mi si cominciarono ad arricciare, e perduta la voce, mi parve, se io avessi potuto, volere lui fuggire: ma siccome sovente avviene a chi sogna, che li pare ne’ maggiori bisogni per niuna condizione del mondo potersi muovere, così a me sognante parve avvenisse, e parvemi che le gambe mi fossero del tutto tolte e divenire immobile. E di tanto potere fu questa nuova paura, ch’io non so pensare qual cosa fosse quella che sì forte facesse il mio sonno ch’egli allora non si rompesse: e per questa tema, senza alcuna cosa rispondere o dire, stare mi parve: la qual cosa veggendo lo spirito, esso ridendo mi disse: non dubitare, parla sicuramente meco, e della mia compagnia prendi fidanza: chè per certo io non sono venuto per nuocerti, ma per trarti di questo luogo, se fede intera presterai alle mie parole. Il che udendo io, e tornandomi nella memoria quello che negli uomini possono gli spiriti, mi rendero la sicurtà partita, e verso lui alzando il viso, il pregai umilemente che di trarmene s’avacciasse prima che altro pericolo ne sopravvenisse: ed egli allora disse: io non aspetto altro a dover far quello che domandi, che tempo: perciocchè tu dei sapere, che quantunque l’entrare di questo luogo sia apertissimo a chi vuole entrarci con lascivia e con mattezza, egli non è così agevole il riuscirne, ma è faticoso, e conviensi fare e con senno e con fortezza, le quali aver non si possono senza l’aiuto di colui che l’aiutò, col voler del quale egli era quivi venuto. Allora mi parve che io dicessi: poichè tempo n’è prestato di ragionare, nè sì subita può essere la nostra partita, se grave non ti fosse, volentieri d’alcune cose ti domanderei. A che esso benignamente rispose: sicuramente ciò che ti piace domanda, infino a tanto ch’io verrò a te domandare d’alcune cose, e alcune dirtene intorno a quelle. Io allora con voce assai esperta dissi: due cose con pari desiderio mi stimolano, ciascuna ch’io prima di lei domandi, e perciò in somma domanderò d’amendue, e priegoti che ti piaccia di dirmi che luogo questo sia, e se a te per abitazione è stato dato, o se per sè stesso alcuno che c’entri ne può mai uscire, e appresso mi facci chiaro chi colui sia, col piacer del quale qui venisti ad atarmi. Alle quali parole esso rispose: questo luogo è da varii variamente chiamato, e ciascuno il chiama bene: alcuni il chiamano il Laberinto d’Amore, altri la Valle incantata, e assai il Porcile di Venere, e molti la Valle de’ sospiri e della miseria, e oltre a questi, chi in uno modo e chi in un altro il chiamano, come meglio a ciascun pare. Nè a me per abitazione è dato, perciocchè da potere più in così fatta prigione entrare la morte mi tolse, alla quale tu corri. È il vero che men dura stanza che questa non ho, ma di meno pericolo: e dei sapere, che chi per lo suo poco senno ci cade, mai, se lume celestiale non nel trae, uscir non ci può; e allora, com’io già ti dissi, con senno e con fortezza. Al quale io allora dissi: deh, se colui che può i tuoi più caldi disii ponga in pace, avanti che altro da te si proceda, soddisfammi a una cosa. Tu di’ che hai per abitazione luogo più duro che questo, ma meno pericoloso, ed io già, per le tue parole medesime, e per la mia ricordanza, conosco che tu al nostro mondo non vivi: quale luogo adunque possiedi tu? se’ tu in quella prigione eterna nella quale senza speranza di redenzione e s’entra e si dimora? o se’ in parte, che quando che sia speranza vera ti prometta salute? Se tu se’ nella prigione eterna, senza dubbio più dura dimora credo che vi sia che qui non è; ma come può ella essere con meno periglio? e se tu se’ in parte che ti prometta ancora riposo, come può ell’essere più dura che questa non è? Io sono, rispose lo spirito, in parte che mi promette senza fallo salute: e in tanto è di minore periglio che questa, chè quivi non si può peccare, perchè a peggio temer si possa di pervenire, il che continuamente qui si fa: e tanto molti in ciò perseverano faccendo, che essi caggiono in quello carcere cieco nel quale mai il divino lume con grazia o con misericordia si vede, ma con irrevocabile e severa giustizia, continuo, con grave danno di chi, sentendo, il conosce, si vede acceso. Ma senza dubbio la mia stanza, com’io già dissi, ha troppo di più durezza che questa, in tanto che, se lieta speranza, che certa di miglior vita vi si porta, non aiutasse e me e gli altri che vi sono a sostener pazientemente la gravezza di quella, quasi si poria dire che gli spiriti, li quali sono immortali, ne morrebbono. E acciocchè tu parte ne intenda, sappi che questo mio vestimento, il quale t’ha, poscia che ’l vedesti, fatto maravigliare, perciocchè mai per avventura simile, quando io era tra voi, nol mi vedesti, e che solamente vi pare che a coloro che ad alcuno onore sono elevati più che ad alcuni si convenga d’usare, non è panno manualmente tessuto, anzi è un fuoco dalla divina arte composto si fieramente cocente, che ’l vostro è come ghiaccio, a rispetto di questo, freddissimo: e mugnemi sì e con tanta forza ogni umore da dosso, che a niuno carbone o a niuna pietra divenuta calcina mai nelle vostre fornaci non fu così dal fuoco vostro munto: perchè alla mia sete tutti i vostri fiumi insieme adunati, e giù per la mia gola volgendosi, sarebbono un piccol sorso: e di ciò due cose mi sono cagione. L’una è lo insaziabile ardore ch’io ebbi de’ danari mentre io vissi, e l’altra è la sconvenevole pazienza con la quale io comportai le scellerate e disoneste maniere di colei, della qual tu vorresti d’aver veduta esser digiuno: e questo basti al presente d’aver ragionato della durezza del luogo della mia dimora, alla quale veramente quella noia che qui si sostiene, se non intanto che questa è dannosa e quella è fruttuosa, non è da comparare. Ma da soddisfare è alla tua seconda domanda, acciocchè tu a’ tuoi impauriti spiriti interamente restituisca le forze loro: e perciò sappi, che colui, colla cui licenzia io son qui venuto, anzi a dir meglio per lo cui comandamento, è quello infinito bene che di tutte le cose fu creatore, e per lo quale e al quale tutte le cose vivono, e al quale è del nostro bene e del nostro riposo e della nostra salute troppo maggior sollecitudine che a voi stessi. Dico, che com’io queste parole dallo spirito udii, conoscendo il mio pericolo e la benignità del mandatore, io mi sentii venire nello animo una umiltà grandissima, la quale e l’altezza e la potenzia del mio Signore, la sua eterna stabilità e i suoi continui beneficii in me conoscer mi fece; e appresso la mia viltà, la mia fragilità, e la mia ingratitudine, e le infinite offese già fatte verso colui che ora nel mio bisogno, come sempre avea fatto, senza avere riguardo al mio malvagio operare, mi si mostrava pietoso e liberale. Della quale conoscenza una contrizione sì grande e pentimento mi venne delle non ben fatte cose, che non solamente mi parve che gli occhi di vere lagrime e assai si bagnassero, ma che il cuore, non altrimenti che faccia la neve al sole, in acqua si risolvesse: perchè sì per questo, e sì ancora perchè poverissimo di grazie a rendere a tanti e sì alti effetti mi sentiva, per lungo spazio mi tacqui, parendomi bene che lo spirito la cagion conoscesse: ma poichè così alquanto stato fui, ricominciai a parlare. O ben avventurato spirito, assai bene cognosco e discerno, la mia medesima coscienza ricercando, quello essere vero che tu ragioni, ciò Dio più caro avere che noi medesimi non abbiamo, li quali con le nostre malvage opere continuamente ci andiamo sommergendo, dov’elli con la sua caritativa pietà sempre ne va sollevando, e le sue eterne bellezze mostrando, e a quelle come benignissimo padre ne va chiamando: ma tuttavia, siccome colui che ancora la divina bontà, a guisa che le esterne operazioni fanno, vo misurando, maraviglia mi porge, sentendomi io averlo offeso molto, come esso ora ad aiutarmi si mosse. A cui lo spirito disse: veramente tu parli come uomo che ancora non mostra conosca il costume della divina bontà, che è perfettissima, ed estimi così nelle sue opere esercitarsi come voi, che mortali e mobili e imperfetti sete, fate; nelle menti de’ quali niuno riposo si truova, infino a tanto che gran vendetta non si vede d’ogni piccola offesa ricevuta. Ma perciocchè la contrizione delle commesse colpe, la quale mi par conoscere in te venuta, ti dimostra docile e attento dovere essere a’ futuri ammaestramenti, mi piace una sola delle cagioni per la quale la divina bontà si mosse a dover me mandare ad aiutarti ne’ tuoi affanni. Egli è il vero, che per quello ch’io sentissi nell’ora che questa commession mi fu fatta, non da umana voce ma da angelica, la quale non si dee credere che menta giammai, che tu sempre, qual che stata si sia la tua vita, hai speziale reverenzia e devozione in colei nel cui ventre si raccolse la nostra salute, e che è viva fontana di misericordia, e madre di grazia e di pietade, e in lei, siccome in termine fisso, avesti sempre ferma speranza: la qual cosa essendo a’ suoi divini occhi manifesta, e veggendoti in questa valle oltre al modo usato smarrito e impedito, intanto che tu eri a te medesimo uscito di mente, siccome essa benignissima fa sovente nelle bisogne de’ suoi divoti, che senza priego aspettare da sè medesima si muove a sovvenire dell’opportuno aiuto al bisogno, veggendo il pericolo al qual tu eri, senza tua domanda aspettare, per te al figliuolo domandò grazia, e impetrò la salute tua, alla quale per suo messo mi fu comandato che io venissi, ed io il feci: nè prima da te mi partirò, che in luogo libero ed espedito t’arò riposto, dove a te piaccia di seguitarmi. Al quale io dopo il suo tacere dissi: assai bene m’hai soddisfatto alle mie domande: e nel vero, come che vendetta da Dio è un di nuovo rifarti bello per più piacerli, pur di te compassion mi viene, e disidero sommamente d’alleggiar quella, se mai con alcuna mia opera il potessi; e d’altra parte in me medesimo mi rallegro, sentendo che tu non al ruinare allo inferno, ma a salire al glorioso regno sii dopo la tua penitenza disposto. La benignità e la clemenza di colui, il quale t’ha in questa vicenda mandato, non m’è ora nuova: ella in molti altri pericoli già me l’ha fatta conoscere, quantunque io di tanti beneficii ingrato stato sia, poco nelle sue laude adoperandomi: ma io divotamente lui priego, che può quello che vuole, che come dalla perpetua morte più volte m’ha tolto, così e i miei passi dirizzi alla vita perpetua, e quelli conservi, tanto che io, suo fedelissimo servidore essendo, pervenga. Ma per lui ti priego, che ancora a una cosa rispondendomi mi soddisfaccia. In questa misera valle, la qual tu variamente nomini senza appropriarlene alcuno, abitac’egli alcuna persona, se quelli non fosser già li quali per avventura amor della sua corte avendo sbanditi qui li mandasse, e in esilio, come a me pare essere stato da lui mandato; o posseggonla pur solamente le bestie, le quali io ho udite tutta notte dintorno mugghiare? A cui elli sorridendo rispose: assai bene conosco che ancora il raggio della vera luce non è pervenuto al tuo intelletto, e che tu quella cosa la quale è infima miseria, come molti stolti fanno, estimi somma felicità, credendo che nel vostro concupiscibile e carnale amore sia alcuna parte di bene; e perciò apri l’orecchie a quello che io ora ti dirò.
Questa misera valle è quella corte che tu chiami d’amore, e quelle bestie che udite hai, e odi mugghiare, sono i miseri de’ quali tu se’ uno, dal fallace amore inretiti; le boci de’ quali, in quanto di così fatto amore favellano, niuno altro suono hanno nell’orecchie de’ discreti e ben disposti uomini, che quello che mostra che venga alle tue; e però dianzi la chiamai laberinto, perchè così in essa gli uomini, come in quello già faceano, senza saper mai riuscire s’avviluppano. Maravigliomi di te che ne domandi, con ciò sia cosa ch’io sappia, che tu non una volta ma molte già dimorato ci sii, quantunque forse non con quella gravezza che ora ci dimori. Io quasi di mia colpa compunto, riconoscendo la verità tocca da lui, quasi in me ritornato, risposi: veramente ci son’io altre volte assai stato, ma con più lieta fortuna, secondo il parere delle corporali menti; e di quinci più per l’altrui grazia, che per lo mio senno, in diversi modi or mi ricordo essere uscito, ma sì m’avea il dolor sostenuto e la paura di me tratto, che così, come mai stato non ci fossi, d’esserci stato mi ricordava: e assai bene ora conosco, senza più aperta dimostrazione, che faccia gli uomini divenir fiere, e che voglia dir la salvatichezza del luogo, e gli atri nomi da te mostratimi della valle, e il non vedere in essa nè via nè sentiero. Omai adunque, disse lo spirito, poichè le tenebre alquanto ti si cominciano a partire dallo intelletto, e già cessa la paura nella quale io ti trovai, infino che il lume apparisca che la via da uscirci ti manifesti, d’alcuna cosa teco mi piace di ragionare: e se la natura del luogo il patisse, io direi in servigio di te, che stanco ti veggio, che noi a seder ci ponessimo, ma perchè qui far non si può ragioniamo in piede. Io so, e se d’altra parte non sapessi sì mel fecero poco avanti chiaro le tue parole, e ancora il luogo nel quale io t’ho trovato mel manifesta, che tu se’ fieramente nelle branche d’amore inviluppato; nè m’è più celato che questo sia che di ciò t’è cagione, e tu il dei nel mio ragionare aver compreso, se di ciò ti ricorda che io dianzi dissi di colei, la qual tu vorresti d’aver veduta essere digiuno. Ma avanti che io più oltre vada ti dico, che io non voglio, che tu da me prenda alcuna vergogna, perch’ella già, più che ’l convenevole, mi fosse cara, ma così sicuramente e con aperto viso di ciò con meco ragiona, come se sempre fossi stato di lei strano: e per merito della compassione la quale io porto a’ tuoi mali, ti priego, che come tu ne’ suoi lacci incappasti mi manifesti. Al quale io, cacciato via ogni rossore, risposi: il priego tuo mi strigne a dirti quello ch’io mai, fuori che a un fidato compagno, non dissi, e a lei sola per alcuna mia lettera fe’ palese: nè di ciò, dove pure la tua libertà non me ne assicurasse, da te mi dovrei più che da un altro vergognare, nè tu turbartene; perciocchè come tu dalla nostra vita ti dipartisti, secondo che l’ecclesiastiche leggi ne mostrano, quella ch’era stata tua donna non fu più tua donna, ma divenne liberamente sua; perchè in niuno atto potresti con ragione dire che io mi fossi ingegnato di dovere alcuna tua cosa occupare. Ma lasciando ora questa disputazione, che luogo non ci ha, stare, e venendo a quello aprirti che tu domandi, dico, che per la mia disavventura, non sono molti mesi passati, avvenne, che io con uno, al quale tu fosti già vicino e parente, di cui esprimere il nome or non bisogna, in ragionare di varie cose entrai; e mentre che noi così ragionando andavamo, accadde, come talvolta avviene che l’uomo d’un ragionamento salta in un altro, che noi il primo lasciato, in sul ragionare delle belle donne venimmo; e prima avendo molte cose dette delle antiche, quale in magnanimità, quale in castità, quale in corporal fortezza lodando, condiscendemmo alle moderne: fra le quali il numero trovandone piccolissimo da commendare, pure esso, che in questa parte il ragionar prese, alcune ne nominò della nostra città, e tra l’altre nominò quella che già fu tua, la quale io nel vero non conosceva: così non l’avessi io mai conosciuta poi: e di lei, non so da che affezione mosso, cominciò a dire mirabili cose; affermando che in magnificenzia mai non era stata alcuna sua pari, e oltre al naturale delle femmine, lei s’ingegnava di mostrare essere uno Alessandro; e alcune delle sue liberalità raccontando, le quali, per non consumare il tempo in novelle, non curo di raccontare. Appresso lei di così e di tanto buon senno naturale disse esser dotata, quanto altra donna per avventura conosciuta giammai; e oltre a ciò, eloquentissima forse non meno che stato fosse qualunque ornato e pratico retorico fu ancora; e oltre a ciò, che sommamente mi piacque, siccome a colui che a quelle parole dava intera fede, la disse esser piacevole e graziosa, e di tutti quelli costumi piena che in gran gentildonna si possano lodare e commendare. Le quali cose narrando questo cotale, confesso che io meco tacitamente dicea: o felice colui, al quale la fortuna è tanto benigna ch’ella d’una così fatta donna gli conceda l’amore! E già quasi meco avendo diliberato di voler tentare se colui potessi essere che degno di quello divenissi, del nome di lei colui domandai e della sua gentilezza, e del luogo dov’ella a casa dimorasse, il quale quello non è dove tu la lasciasti, ed esso ogni cosa pienamente mi fe palese. Perchè poi da lui dipartitomi, del tutto disposi di volerla vedere; e se così perseverasse meco a ciò che io di lei estimava, mettere ogni mia sollecitudine in far ch’ella divenisse mia donna, come io suo servidore diverrei: e sanza dare alla bisogna alcuno indugio, in quella parte prestamente n’andai dove a quell’ora la credetti poter trovare o vedere; e sì mi fu in ciò la fortuna favorevole, la qual mai se non in cosa che dannosa mi dovesse riuscire non mi fu piacevole, che al mio avviso ottimamente rispose l’effetto. E dirotti maravigliosa cosa, che non avendo io alcuno indizio di lei che solamente il color nero del vestimento, guardando tra molte che quivi n’erano in quello medesimo abito che ella, là dove io prima la vidi, come il suo viso corse agli occhi miei, subitamente avvisai lei dovere esser quella che io andava cercando. E perciocch’io portai sempre opinione e porto, che amor discoperto o sia pieno di mille noie, o non possa ad alcuno desiderato effetto pervenire, avendo meco disposto del tutto di non cominciar questo con persona in guisa niuna a comunicare, se con colui non fosse, al quale, poscia ch’io amico divenni ogni mio segreto fu palese, non ardiva a domandar se ciò fosse che mi pareva: ma ancora la fortuna, che in poche cose intorno a questo mio desiderio mi dovea giovare, come nella prima cosa m’era stata favorevole, così mi fu in questa seconda; che di dietro a me sentii alcuna donna che colle sue compagne di lei favellava, dicendo: deh guarda, come alla cotal donna stanno bene le bende bianche e’ panni neri: la quale per avventura alcuna delle compagne che non la conoscea, con tanto piacer di me che alle loro parole teneva gli orecchi, che dir nol potrei, la dimandò: quale è dessa di quelle molte che colà sono? a cui la domandata donna rispose: la terza che siede in su quella panca è colei di cui io vi parlo: dalla qual risposta io compresi ottimamente avere avvisato, e da quella ora avanti l’ho conosciuta. Io non mentirò, come io vidi la sua statura; e poi appresso alquanto al suo andare riguardai, e un poco gli atti esteriori ebbi considerati, io presumetti, ma falsamente, non solamente che colui al quale avea udito di lei parlare dovesse avere detto il vero, ma che troppo più ch’egli detto non avea ne dovesse esser di bene: e così, da falsa opinion vinto, subito mi sentii, come se dall’udite cose e dalla vista di lei si movesse, corrermi al cuore un fuoco, non altrimenti che faccia su per le cose unte la fiamma, e sì fieramente riscaldarmi, che chi allora m’avesse riguardato nel viso, n’avrebbe veduto manifesto segnale: e come che i segni venuti nel viso per lo nuovo fuoco, che come prima le parti superficiali andò leccando così poi nelle intrinsiche trapassato più vivo divenne, nè se ne partissono, mai, se non dentro, crescer le sentii. In questa guisa adunque che raccontato ho di lei, che mal per me fu veduta, preso fui, dandomi il suo aspetto pieno di falsità, non senza artificial maestria, speranza di futura mercede. Lo spirito, il quale queste cose, secondo il mio parere, non senza diletto ascoltate avea, già me sentendo tacere, così mi cominciò a parlare: assai bene m’hai dimostrato il come, e la cagione del tuo esserti prima allacciato, e come tu medesimo ti vestisti la catena alla gola che ancor ti strigne. Ma non ti sia grave ancora manifestarmi se mai questo tuo amore le palesasti, e come, che mi parve dianzi udir di sì; e il dirmi appresso se da lei avesti alcuna speranza che più t’accendesse, che il tuo medesimo desiderio primieramente avesse fatto: al quale io risposi: perciocchè io manifestamente conosco se celar tel volessi io nol potrei, sì mi pare che tu il vero senta de’ fatti miei, donde che tu te l’abbi, niuna cosa te ne nasconderò. Egli è il vero, che avendo io data piena fede, come già dissi, alle parole udite di colui che lei tanto valorosa m’avea mostrata, io presi ardir di scriverle, mosso da cotale intenzione. Se costei è da quello che costui mi ragiona, aprendole io onestamente per una lettera il mio amore, l’una delle due cose ragionevolemente mi dee seguire: o ella l’avrà caro per usarlo in quello ch’io possa, e a ciò mi risponderà, o ella l’avrà caro, ma non volendolo usare, discretamente me dalla mia speranza rimoverà. Perchè l’uno de’ due fini aspettando, quantunque l’uno più che l’altro desiderassi, per una mia lettera piena di quelle parole che più onestamente intorno a così fatta materia dir si possono, il mio ardente desiderio le feci sentire. A questa lettera seguitò per risposta una sua piccola letteretta, nella quale, quantunque ella con aperte parole niuna cosa al mio amor rispondesse, pure con parole assai zoticamente composte, e che rimate parevano non erano rimate, siccome quelle che l’un piè avevano lunghissimo e l’altro corto, mostrava di disiderar di sapere chi io fossi. E dirotti più, ch’ella in quella s’ingegnò di mostrare d’avere alcun sentimento d’una opinione filosofica, quantunque falsa sia, cioè che un’anima d’un uomo in un altro trapassi: il che alle prediche, non in libro nè in scuola son certo ch’apprese: e in quella me a uno valente uomo assomigliando, mostrò di volere, lusingando, contentare; affermando appresso sommamente piacerle chi senno e prodezza e cortesia avesse in sè, e con queste antica gentilezza congiunta. Per la quale lettera, anzi per lo stile del dettato della lettera, assai leggiermente compresi, o colui che di lei assai cose dette m’avea esser di gran lunga del natural senno di lei e della ornata eloquenzia ingannato, o averne voluto me ingannare. Ma non potè perciò, non che spegnere, ma pure un poco il concetto fuoco diminuire, e avvisai, che ciò che scritto m’avea, niun’altra cosa volesse dire per ancora, se non darmi ardire a più avanti scrivere, e speranza di più particular risposta che quella, e ammaestramento e regola in quelle cose fare che per quella poteva comprendere che le piacessono. Delle quali, come ch’io fornito non mi sentissi, perciocchè nè senno nè prodezza nè gentilezza c’era, alla cortesia, quantunque il buono animo ci fosse, non ci avea di che farla; nondimeno, secondo la mia possibilità, a dover fare ogni cosa, per la quale io la sua grazia meritassi, mi disposi del tutto; e del piacer preso da me per la lettera ricevuta, per un’altra lettera, com’io seppi il meglio, la feci certa: nè poi sentii nè per sua lettera nè per ambasciata quello che io di ciò che scritto l’avea le paresse. Allora lo spirito disse: se più avanti in questo amore non è stato, che cagione ti induceva il dì trapassato, con tante lagrime con tanto dolore sì ferventemente per questo a disiderar di morire? Al quale io risposi: forse che il tacere sarebbe più onesto, ma non potendolti negare, poi ne domandi, tel pur dirò. Due cose erano quelle che quasi ad estrema disposizione m’aveano condotto: l’una fu il ravvedermi, che là dov’io alcun sentimento aver credeva, quasi una bestia senza intelletto m’avvidi ch’io era; e certo questo non è da turbarsene poco, avendo riguardo che io la maggior parte della mia vita abbi spesa in dovere qualche cosa sapere, e poi, quando il bisogno viene, trovarmi non saper nulla: l’altra fu il modo tenuto da lei in far palese ad altrui che io di lei fossi innamorato; e in questo più volte crudele e pessima femmina la chiamai. Nella prima cosa mi trovai io in più modi stoltamente avere adoperato, e massimamente in creder troppo di leggieri così alte cose d’una femmina, come colui raccontava, senza altro vederne: e appresso per quelle, senza vedere nè dove nè come, ne’ lacciuoli d’amore incapestrarmi, e nelle mani d’una femmina dar legata la mia libertà, e sottoposta la mia ragione; e l’anima , che con questa accompagnata solea esser donna, senza, esser divenuta vilissima serva : delle quali cose nè tu nè altri dirà che da dolersi non sia infino alla morte. Nella seconda essa ha, secondo che mi pare, in assai cose fallato, e assai chiaramente mostro colui mentir per la gola che sì ampiamente delle sue esimie virtù meco parlando distese: perciocchè, secondo che a me pare aver compreso, uno, il quale non perchè e’ sia, ma perchè li pare essere, i suoi vicini chiamano il secondo Ansalone, è da lei amato, al quale essa, per più farlisi cara, ha le mie lettere palesate, e con lui insieme a guisa d’un beccone schernito: senza che colui, di me faccendo una favola, già con alcuno per lo modo che più gli è piaciuto n’ha parlato: senza che esso, come io son qui, per più largo spazio aver di favellare, fu colui che la risposta alla mia lettera, della quale davanti ti dissi, mi fece fare; e oltre a questo, secondoFonte/commento: ed. 1723 che i miei occhi medesimi m’hanno fatto vedere, m’ha ella, sogghignando, a più altre mostrato, come io avviso, dicendo: vedi tu quello scioccone? egli è ’l mio vago: vedi se io mi posso tener beata! E certo quanto quelle donne, alle quali ella m’ha mostrato, sieno state e sieno oneste, io e altri il sappiamo: perchè ella, siccome comprender se ne dee, come il suo amante tra gli uomini, così ella tra le femmine di me favoleggia. Ahi disonesta cosa e sconvenevole, che uomo, lasciamo star gentile, che non mi tengo, ma sempremai co’ valenti uomini usato e cresciuto, e delle cose del mondo, avvegnachè non pienamenteFonte/commento: ed. 1723, ma assai convenevolmente informato, sia da una femmina, a guisa d’un matto ora col muso ora col dito all’altre femmine mostrato! Io dirò il vero, questo m’indusse a tanta indignazione d’animo che io fui alcuna volta assai vicino ad usar parole che poco onor di lei sarebbono state: ma pure alcuna scintilletta di ragione dimostrandomi che molto maggiore vergogna a me ciò faccendo acquisterei che a lei, da tale impresa non poco ma molto turbato mi ritenne, e a quella ira e disordinato appetito di che tu mi domandi m’indusse. Lo spirito allora nella vista mostrando d’avere assai bene le mie parole raccolte, e l’intenzione di quelle, seco non so che dicendo, alquanto, avanti che alcuna cosa che io intendessi dicesse, soprastette pensoso; poi a me rivolto, con voce assai mansueta cominciò a parlare, dicendo: e come tu t’innamorasti e di cui, e ’l perchè e la cagione della tua disperazione, assai bene mi credo dalle tue parole aver compreso: ora voglio io che grave non ti sia, se alquanto in servigio della tua medesima salute, e forse dell’altrui, io teco mi distendo a ragionare, primieramente da te cominciando, perchè del tuo errore fosti tu stesso principio; e da questo verremo a dire di colei, della quale tu, mal conoscendola, follemente t’innamorasti; e ultimamente, se tempo ne fia prestato, alcuna cosa diremo sopra le cagioni che te a tanto cruccio recarono, che quasi te a te stesso feceno uscir di mente. E cominciando da quello che promesso abbiamo, dico, che assai cagioni giustamente possono me a ogni altro muovere a doverti riprendere; ma acciocchè tutte non si vadano ricercando, per fare il ragionamento minore, due solamente m’aggrada toccarne: l’una è la tua età, la seconda sono gli tuoi studi: delle quali ciascuna per sè, e amendue insieme ti dovevano render cauto e guardingo dagli amorosi lacciuoli. E primieramente la tua età, per la quale, se le tempie già bianche e la canuta barba non m’ingannano, tu dovresti avere li costumi del mondo, fuor delle fasce già sono degli anni quaranta, e già venticinque, cominciatili a conoscere. E se la lunga esperienza delle fatiche d’amore nella tua giovanezza tanto non t’avea gastigato che bastasse, la tiepidezza degli anni, già alla vecchiezza appressandoti, almeno ti dovea aprire gli occhi, e farti conoscer là dove questa matta passione seguitando ti dovea far cadere, e oltre a ciò mostrarti quante e quali fosser le tue forze a rilevarti. La qual cosa se con estimazione avessi riguardata, conosciuto avresti, che dalle femmine nelle amorose battaglie gli uomini giovani, non quelli che verso la vecchiezza calano, sono richiesti; e avresti veduto le vane lusinghe, sommamente dalle femmine disiderate, ne’ giovani non che ne’ tuoi pari star male. Come si conviene o si confà a te oggimai maturo il carolare, il cantare, il giostrare e l’armeggiare, cose di niuno peso, ma sommamente da lor gradite? Tu medesimo non solamente dirai che a te sconvenevoli sieno, ma con ragioni inespugnabili biasimerai i giovani che le fanno. Come è alla tua età convenevole l’andar di notte, il contraffarti, il nasconderti a ciascheduna ora che ad una femmina è piacere; e non solamente in quella parte che forse meno disdicevole da te sarebbe eletta, ma in quelle che essa medesima, forse per gloriarsi d’avere uno uomo maturo, a guisa d’un semplice garzone, disonesta e sconvenevole eleggerà? Come è alla tua età convenevole, se bisogno il richiedesse, del quale molto sovente son pieni gli accidenti d’amore, di pigliare l’arme, e la tua salute o forse quella della tua donna difendere? Certo io credo, senza più cose andar ricordando, che a tutte parimente risponderesti, che male: e quando ciò non ti paresse, a me e a ciascun altro, il quale con più discreto occhio guardasse, che tu impedito per avventura far non puoi, parrebbe pure che così fosse. Male è adunque la tua etade omai agl’innamoramenti dicevole, alla quale, non il seguisse le passioni o lasciarsi a loro sopravvegnenti vincere sta bene, ma il vincer quelle, e con opere virtuose che la tua fama ampliassero, e con aperta fronte e lieta dare di sè ottimo esemplo a’ più giovani s’appartiene. Ma alla seconda parte è da venire, la quale ne’ giovani, non che ne’ vecchi, fa amore disdicevole, se io non m’inganno, cioè i tuoi studi. Tu, se io già bene intesi mentre vivea, e ora così essere il vero apertamente conosco, mai alcuna manuale arte non imparasti, e sempre l’essere mercatante avesti in odio; di che più volte ti se’ con altrui e teco medesimo gloriato, avendo riguardo al tuo ingegno, poco atto a quelle cose nelle quali assai invecchiano d’anni, e di senno ciascun giorno diventano più giovani: della qual cosa il primo argomento è, che a loro par più che a tutti gli altri sapere, come alquanto sono loro bene disposti i guadagni, secondo gli avvisi fatti, o pure per avventura, come suole le più volte avvenire: laddove essi, del tutto ignoranti, niuna cosa più oltre sanno, che quanti passi ha dal fondaco o dalla bottega alla lor casa, e par loro che ogni uomo che di ciò gli volesse sgannare aver vinto e confuso, quando dicono: di’ che mi venga ad ingannare: o dicono: all’uscio miFonte/commento: ed. 1723 si pare, quasi in niun’altra cosa stia il sapere se non o in ingannare o in guadagnare. Gli studi adunque alla sacra filosofia pertinenti infino dalla tua puerizia più assai che il tuo padre non avrebbe voluto ti piacquero, e massimamente in quella parte che a poesia appartiene, nella quale per avventura tu hai con più fervore d’animo che con altezza d’ingegno seguita. Questa non meno ma tra l’altre scienze ti dovea parimente mostrare che è amore, e che cosa le femmine sono, e chi tu medesimo sii, e che a te s’appartiene. Vedere adunque dovevi, amore essere una passione accecatrice dell’animo, disviatrice dell’ingegno, ingrossatrice anzi privatrice della memoria, dissipatrice delle terrene facultà, guastatrice delle forze del corpo, nemica della giovanezza e della vecchiezza; morte genitrice de’ vizii e abitatrice de’ vacui petti; cosa senza ragione e senza ordine e senza stabilità alcuna; vizio delle menti non sane e sommergitrice della umana libertà. O quante e quali cose sono queste da dovere non che i savi ma gli stolti spaventare? Vien teco medesimo rivolgendo l’antiche storie e le cose moderne, e guarda di quanti mali, di quanti incendii, di quante morti, di quanti disfacimenti, di quante ruine ed esterminazioni questa dannevole passione è stata cagione. È una gente di voi miseri mortali, tra i quali tu medesimo avendo il conoscimento gittato via, il chiamate Iddio, e quasi come a sommo aiutatore ne’ bisogni li fate sacrificio delle vostre menti e divotissime orazioni li porgete; la qual cosa, quante volte tu hai già fatto o farai, tante ti ricordo, se da te uscito forse del diritto sentimento nol vedi, che tu a Dio e a’ tuoi studii e a te medesimo fai ingiuria: e se le dette cose esser vere la tua filosofia non ti mostrasse, nè a memoria ti ritornasse la sperienza, la quale di gran parte di quelle in te medesima veduta hai, le dipinture degli antichi tel mostreranno, le quali lui per le mura, giovane ignudo con ali, e con occhi velati e arciere, non senza grandissima cagione, e significazione de’ suoi effetti tutto ’l dì vi dimostrano. Dovevanti, oltre a questo, li tuoi studii mostrare, e mostrarono, se tu l’avessi voluto vedere, che cose femmine sono, delle quali grandissima parte si chiamano e fanno chiamare donne; e pochissime se ne truovano.
La femmina è animale imperfetto, passionato da mille passioni spiacevoli, e abominevoli pure a ricordarsene non che a ragionarne: il che se gli uomini riguardassono come dovessono, non altrimenti andrebbono a loro, nè con altro diletto o appetito, che all’altre naturali e inevitabili opportune cose vadano; il luogo delle quali, posto già il superfluo peso, come con istudioso passo fuggono, così loro fuggirebbono, quello avendo fatto perchè la deficiente umana prole si ristora, siccome ancora in ciò tutti gli altri animali molto meglio che gli uomini fanno. Niuno altro animale è meno netto di lei: non il porco, qualora è più nel loto, aggiugne alla bruttezza di lei; e se forse alcuno questo negasse, riguardinsi i parti loro, ricerchinsi i luoghi segreti, dove esse, vergognandosene, nascondono gli orribili strumenti li quali a tor via i loro superflui umori adoperano. Ma lasciamo stare quel che a questa parte appartiene, la quale esse ottimamente sappiendo, nel segreto loro hanno per bestia ciascuno uomo che l’ama, che le desidera, o che le segue, e in sì fatta guisa ancor lo sanno nascondere, che da assai stolti, che solamente le crosti di fuori riguardano, non è conosciuta nè creduta: senza che di quelli sono, che bene sappiendolo, ardiscono di dire ch’ella è lor pace, e che questo e quello farebbono e fanno: li quali per certo non sono da essere annoverati tra gli uomini. E vegnamo all’altre loro cose, o ad alcuna di quelle, perciocchè volere dir tutto non ne basterebbe l’anno, il quale è tosto per entrar nuovo. Esse, di malizia abbondanti, la qual mai non supplì, anzi sempre accrebbe difetto, considerata la loro bassa e intima condizione, con quella ogni sollecitudine pongono a farsi maggiori: e primieramente alla libertà degli uomini tendono lacciuoli, sè, oltre a quello che la natura ha loro di bellezza o d’apparenza prestato, con mille unguenti e colori dipignendo, e or con solfo e quando con acque lavorate e spessissimamente co’ raggi del sole i capelli neri dalla cotenna prodotti simiglianti a fila d’oro fanno le più divenire: e quelli ora in treccia di dietro alle reni, ora sparti su per li omeri, ora alla testa ravvolti; secondo che più vaghe parer credono, compongono; e quinci con balli, e talor con canti, non sempre, ma talor mostrandosi, i cattivelli che attorno vanno, avendo nell’esca nascosto l’amo, prendono senza lasciare. E da questo quella e quell’altra, e infinite di costui e di colui e di molti divengono mogli, e di troppa maggior quantità amiche. E parendo loro essere salite un’altro grado, quantunque conoscano sè essere nate a esser serve, incontanente prendono speranza e aguzzano i desiderii alla signoria; e faccendosi umili obbedienti e blande, le corone le cinture i drappi ad oro, i vaii i molti vestimenti e gli altri ornamenti varii, de’ quali tutto dì si veggono splendenti, dai miseri mariti impetrano, il quale non s’accorge tutte quelle essere armi a combattere la sua signoria, e vincerla. Le quali poichè le loro persone e le loro camere, non altramenti che le reine abbiano, veggiono ornate, e i miseri mariti allacciati, subitamente dall’essere serve divenute compagne, con ogni studio la loro signoria s’ingegnano d’occupare; e volendo singulare esperienza prendere se donne sono nelle case, in sul far male arditamente si mettono, argomentando, che se quello è a lei sofferto che non sarebbe sofferto alla serva, chiaramente può conoscere sè donna e signoreggiante. E primieramente alle fogge nuove, alle leggiadrie non usate, anzi lascivie, e alle disdicevoli pompe si danno, e a niuna pare esser bella nè ragguardevole, se non tanto quanto ella ne’ modi nelle smancerie e ne’ portamenti somigliano le piuviche meretrici, le quali tanti nuovi abiti nè disonesti possono nella città arrecare, che loro tolti non sieno da quelle che gli stolti mariti credono esser pudiche: li quali avendo male i loro danari spesi, acciocchè gittati non paiano, queste cose nelle dette maniere lasciano usare, senza guardare in che segno debba ferir quello strale. Come esse da questo fiere nelle case divengano, i miseri il sanno che ’l pruovano: esse, siccome rapide e fameliche lupe, venute ad occupare i patrimonii i beni e le ricchezze de’ mariti, or qua or là discorrendo, in continui romori co’ servi, colle fanti, co’ fattori, co’ fratelli e figliuoli de’ mariti medesimi stanno, mostrando sè tenere riguardatrici di quelli, dove esse dissipatrici desiderano d’essere: senza che, acciocchè tenere paiano di coloro di cui esse hanno poca cura, mai ne’ lor letti non si dorme, tutta la notte in letigi trapassa e in quistioni, dicendo ciascuna al suo: ben veggio come tu m’ami: ben sarei cieca se io non m’accorgessi che altri t’è all’animo più che io. Credi tu ch’i’ sia abbagliata e ch’io non sappia a cui tu vai dietro, a cui tu vuogli bene, e a cui tu tutto ’l dì favelli? Ben so bene: io ho migliori spie che tu non credi. Misera me, che è cotanto tempo ch’io ci venni, eppure una volta ancora non mi dicesti, quando a letto mi vengo: Amor mio, ben sia venuta. Ma alla croce di Dio, io farò di quelle a te che tu fai a me. Or sono io così sparuta? non sono io così bella come la cotale? Ma sai che ti dico? chi due bocche bacia, l’una convien che gli puta. Fatti in costà: se Dio m’aiuti, tu non mi toccherai: va’ dietro a quelle di che tu se’ degno, che certo tu non eri degno d’aver me; e fai ben ritratto di quel che tu se’. Ma a fare a far sia. Pensa che tu non mi ricogliesti del fango; e Dio il sa, chenti e quali erano quelli che se l’avrebbon tenuto in grazia d’avermi presa senza dote, e sarei stata donna e madonna d’ogni lor cosa: e a te diedi cotante centinaia di fiorini d’oro, nè mai pur d’un bicchier d’acqua non ci pote’ esser donna, senza mille rimbrotti de’ frateti e de’ fanti tuoi. Basterebbe se io fossi la fante loro. E fu bene la mia disavventura ch’io mai ti vidi: che fiaccar possa la coscia chi prima ne fece parola. E con queste, e con molte simili e più altre assai più cocenti, senza niuna ligittima o giusta cagione avere, tutta la notte tormentano i cattivelli: de’ quali infiniti sono che cacciano chi ’l padre, chi il figliuolo, chi da’ fratelli si divide, e quali nè la madre nè ’l padre a casa si voglion vedere, e lascia il campo solo alla vincitrice donna. Le quali poichè espedita la possessione veggono, tutta la sollecitudine alle ruffiane e agli amanti si volge. E sieti manifesto, che colei che in questa moltitudine più casta e più onesta ti pare, vorrebbe avanti solo un occhio avere, che esser contenta solo d’un uomo; e se forse due o tre ne bastassero, saria qualche cosa, e forse saria tollerabile, se questi due o tre avanzassero i mariti, o fossero almen loro pari. La loro lussuria è focosa e insaziabile, e per questo non patisce nè numero nè elezione: il fante, il lavoratore, il mugnaio, e ancora il nero etiopo, ciascuno è buono sol che possa. E son certo, che sarebbono di quelle che ardirebbero a negare questo, se l’uomo non sapesse già molte, non essendo i mariti presenti, o quelli lasciati nel letto dormendo, esserne ne’ lupanari pubblici andate con vestimenti mutati, e di quelli ultimamente essersi partite stanche, ma non sazie. E che cosa è egli ch’elle non ardiscano per potere a questo bestiale loro appetito soddisfare? Esse si mostrano timide e paurose, e comandandolo il marito, quantunque la cagion fosse onesta, non sarebbono in niuno luogo alto, chè dicono che vien meno loro il cerebro; non entrerebbono in mare, chè dicono che lo stomaco nol patisce; non andrebbono di notte, che dicono che temono gli spiriti l’anime e le fantasime. Se sentono un topo andar per la casa, e che ’l vento muova una finestra, o che una piccola pietra caggia tutte si riscuotono, e fugge loro il sangue e la forza, come se a un mortal pericolo soprastessono; ma esse prestano fortissimi animi a quelle cose le quale esse vogliono disonestamente adoperare. Quante già su per le sommità delleFonte/commento: ed. 1723 case de’ palagi e delle torri andate sono e vanno, da’ loro amanti chiamate o aspettate? quante già presumettero, e presumono tutto ’l giorno, o davanti agli occhi de’ mariti sotto le ceste o nelle arche gli amanti nascondere? quante nel letto medesimo co’ mariti farli tacitamente intrare? quante sole, e di notte e per mezzo gli armati, e ancora per mare, e per li cimiteri delle chiese se ne trovano continuo dietro andare a chi me’ lavora? e, che maggior vituperio è, veggenti i mariti, ne sono assai, che presumono fare i lor piaceri? O quanti parti in quelle che più temono, o che più delli loro falli arrossano, innanzi al tempo periscono! Per questo la misera savina, più che gli altri alberi, si truova sempre pelata, quantunque esse a ciò abbiano argomenti infiniti. Quanti parti per questo, mal lor grado venuti a bene, nelle braccia della fortuna si gittano! Riguardinsi gli spedali. Quanti ancora, prima che essi il maternale latte abbiano preso, se n’uccidono! Quanti a’ boschi, quanti alle fiere se ne concedono, e agli uccelli! Tanti, e in sì fatte maniere ne periscono, che bene ogni cosa considerata, il minor peccato in loro è l’avere l’appetito della lussuria seguito. Ed è questo esecrabile sesso femmineo oltre ad ogni altra comparazione sospettoso e iracondo. Niuna cosa si potrà con vicino con parente o con amico trattare, che, se ad esse non è palese, che esse subitamente non suspichino contro a loro adoperarsi, e in loro detrimento trattarsi: benchè di ciò gli uomini non si debbono molto maravigliare, perciocchè natural cosa è di quelle cose che altri sempre opera in altrui, di quelle da altrui sempre temere; e per questo sogliono i ladroni saper ben riporre le cose loro. Tutti i pensieri delle femmine, tutto lo studio, tutte l’opere a niuna altra cosa tirano, se non a rubare a signoreggiare e ad ingannare gli uomini: perchè leggiermente credono, sopra loro d’ogni cosa che non sanno simili trattati tenersi. Da questo gli astrolagi, li negromanti, le femmine maliose, le indovine sono da loro usitate, chiamate avute care, e in tutte le loro opportunità (di niente servendo se non di favole) di quello de’ mariti cattivelli sono abbondevolmente sovvenute e sustentate, anzi arricchite: e se da queste pienamente saper non possono la loro intezione, ferocissime e con parole altiere e velenose s’ingegnano di certificarsi da’ loro mariti, a’ quali, quantunque il ver dicano, radissime volte credono, ma siccome animale a ciò inchinevole subitamente in sì fervente ira discorrono, che le tigre i leoni i serpenti hanno più d’umanità adirati che non hanno le femmine: le quali, chente che la cagione si sia per la quale accese in ira si sono, subitamente a’ veleni al fuoco e al ferro corrono. Quivi non amico, non parente, non fratello, non padre, non marito, non alcuno de’ suoi amanti è risparmiato; e più sarebbe allora caro a ciascuna tutto il mondo, il cielo, Iddio, e ciò ch’è di sopra e di sotto universalmente in un’ora poter confondere guastare e tornare in nulla, che ad animo riposato potere cento bagascioni al suo piacere adoperare. Se ’l tempo mel concedesse l’andar narrando quanti mali e come scellerati le loro ire abbiano già fatti, non dubito che tu non dicessi, essere il maggior miracolo che mai veduto o udito fosse che esse sieno sostenute da Dio. E oltre a ciò, è questa empia generazione avarissima: e acciocchè noi lasciamo stare l’imbolare continuo che a’ mariti fanno, e le ruberie a’ lor pupilli figliuoli, e le storsioni a quelli amanti che troppo non piacciono, che sono evidentissime e consuete cose, riguardisi a quanta viltà si sottomettono per ampliare un poco le dote loro. Niuno vecchio bavoso, a cui colino gli occhi, e triemino le mani e ’l capo, sarà, cui elle rifiutino per marito, solamente che ricco il sentano, certissime infra poco tempo di rimaner vedove, e che costui nel nido non dee loro soddisfare: nè si vergognano le membra i capelli e ’l viso con cotanto studio fatti belli, le corone le ghirlande leggiadre, i velluti i drappi ad oro, e tanti ornamenti tanti vezzi tante ciance tanta morbidezza sottomettere, porgere e lasciar trattare alle mani paraletiche, alla bocca sdentata e bavosa e fetida, ch’è molto peggio, di colui cui elle credono poter rubare. Al quale se la già mancante natura concede figliuoli, sì n’ha, se non, non può perciò morire senza erede; altri vengono che fanno il ventre gonfiare: e se pure invetriato l’ha le natura fatto, i parti sottoposti gli danno figliuoli, acciocchè vedova alle spese del pupillo possa più lungamente deliziosa vita menare. Sole le indovine, le lisciatrici, le mediche, e i frugatori che loro piacciono, le fanno non cortesi, ma prodighe: in questi niuno riguardo, niuno risparmio, nè avarizia alcuna in lor si trova giammai. Mobili tutte e senza alcuna stabilità sono: in una ora vogliono e disvogliono una medesima cosa ben mille volte, salvo se di quelle che a lussuria appartengono non fossono, perciocchè quelle sempre le vogliono. Sono generalmente tutte presuntuose, e a sè medesime fanno credere che ogni cosa lor si convenga, ogni cosa stia lor bene, d’ogni onore d’ogni grandezza sien degne, e che senza loro niuna cosa gli uomini vagliano nè viver possano: e sono ritrose e inobbedienti. Niuna cosa è più grave a comportare che una femmina ricca, niuna più spiacevole che a vedere irritrosire una povera: le cose loro imposte tanto fanno, quanto elle credono per quelle o ornamenti o abbracciamenti guadagnare: da questo innanzi, sempre una redazione in servitudine l’essere obbedienti si credono, e per questo, se non quanto loro dall’animo viene, niuna cosa imposta farebbon mai. E oltre a ciò (che così in loro dimora come le macchie nell’ermellino) non favellatrici, ma seccatrici sono. I miseri studianti patiscono i freddi i digiuni e le vigilie, e dopo molti anni si truovano poche cose avere apparate: queste che pure una mattina, che tanto ch’una messa si dica, stieno alla chiesa, sanno come si volge il fermamento, quante stelle sieno in cielo e come grandi, qual sia il corso del sole e de’ pianeti, come il tuono, il baleno, l’arco, la grandine, e l’altre cose nello aere si creino, e come il mare c’intorni, e come la terra produca i frutti: sanno ciò che si fa in India o in Ispagna; come sieno fatte le abitazioni degli Etiopi, e dove nasca il Nilo, e se ’l cristallo s’ingenera sotto tramontana di ghiaccio o d’altra cosa; con cui dormì la vicina sua; di cui quell’altra è gravida, e di che mese dee partorire; e quanti amadori ha quell’altra, e chi le mandò l’anello e chi la cintura; e quante uova faccia l’anno la gallina della vicina sua; e quante fusa logori a filare una dodicina di lino; e in brieve ciò che fecero mai i Troiani e Greci o Romani, di tutto pienamente tornano informate; e quelle colla fante, colla fornaia, colla lavandaia berlingano senza ristare, se altri non truovano che dia loro orecchie, forte turbandosi se alcuna loro riprovata ne fosse. È il vero, che da questa loro così subita sapienza, e divinamente in loro spirata, ne nasce una ottima dottrina nelle figliuole: a tutte insegnano rubare i mariti, come si debbiano ricevere le lettere dagli amanti, come ad esse rispondere, in che guisa metterlisi in casa, che maniere debbano tenere ad infignersi d’esser malate, acciocchè libero loro dal marito rimanga il letto, e molti altri mali. Folle è chi crede che niuna madre si diletti d’aver miglior figliuola di sè, o più pudica. E non nuoce che bisogna che per una bugia, per uno spergiuro, per una retà, per mille sospiri infinti, per cento milia false lagrime elle vadano a lor vicine, che quando mestier lor fanno le prestino loro. Sallo Iddio ch’io per me non seppi mai tanto pensare, ch’io sapessi conoscere o discernere dove elle le si tengano, che sì pronte e sì preste ad ogni lor volontà l’abbiano come hanno. Bene è il vero, ch’esse sono arrendevoli a lasciarsi provare il lor difetto, e spezialmente quello che altri con gli occhi suoi medesimi vede, e non hanno presto il non fu così: tu menti per la gola: tu hai le traveggole: tu hai le cervella date a rimpedulare: bei meno: tu non sai ove tu ti se’: se’ tu in buon senno? tu farnetichi a santà, e anfani a secco, e cotali altre lor parolette appuntate. E se esse diranno d’avere un asino veduto volare, dopo molti argomenti in contrario, converrà che si conceda del tutto, se non, le inimicizie mortali, le insidie e gli odii saranno di presente in campo. E sono di tanta audacia, che chi punto il lor senno avvilisce incontanente dicono: le Sibille non furono savie? quasi ciascheduna di loro debbia essere l’undecima. Mirabile cosa che in tante migliaia d’anni, quante trascorse sono poichè l’ mondo fu fatto, intra tanta moltitudine quanta è stata quella del femmineo sesso, esserne diece solamente trovate savie: e a ciascuna femmina pare essere una di quelle, o degna tra quelle d’essere annoverata. E tra l’altre lor vanità, quando molto sopra gli uomini si vogliono levare, dicono che tutte le buone cose son femmine, le stelle, le pianete, le Muse, le virtù, le ricchezze: alle quali, se non che disonesto sarebbe, null’altro si vorrebbe rispondere, se non, egli è così vero che tutte son femmine, ma non pisciano. E oltre a questo, assai sovente molto meno consideratamente si gloriano, dicendo che colei nel cui ventre si racchiuse l’unica e general salute di tutto l’universo, vergine innanzi il parto, e che dopo il parto rimase vergine, con alquante altre, non molte però, della cui virtù spezial menzione e solennità fa la chiesa di Dio, che furono così femmine come loro; e per questo immaginano dovere essere riguardate, argomentando niuna cosa contra loro potersi dire della loro viltà, che contro a quella che santissima cosa fu non si dica: e quasi vogliono che lo scudo della loro difensione nelle braccia di quella rimanga, che in niuna cosa la somigliano, se non in una. Ma questo non è da dover consentire, perciocchè quella unica sposa dello Spirito Santo fu una cosa tanto pura, tanto virtuosa tanto monda e piena di grazia, e del tutto sì da ogni corporale e spezial bruttura remota, che a rispetto dell’altre, quasi non dell’elementar composizione, ma d’una essenzia quinta fu formata a dovere essere abitacolo e ostello del figliuolo d’Iddio, il quale volendo per la nostra salute incarnare, per non venire ad abitare nel porcile delle femmine moderne ab eterno se la preparò, siccome degna camera a tanto e cotale re. E se altro da questa vil turba essere stata separata non la mostrasse, li suoi costumi, tutti dalli loro spartiti, la mostrerebbono: e similmente la sua bellezza, la quale non artificiata, non dipinta nè colorata fu; ed è tanta, che fa nel beato regno agli angioli e a’ beati spiriti, se dir si può, aggiugnere gloria e maraviglioso diletto. La quale mentre quaggiù fu nelle membra mortali, mai da alcuno non fu riguardata, che il contrario non operasse di quello che le vane femmine dipignendosi s’ingegnano di far maggiore; perciocchè dove questa di costoro il concupiscevole appetito a disonesto desiderio commuove e desta, così quella della reina del cielo ogni villano pensiero ogni disonesta volontà di coloro cacciava che la miravano, e d’un fuoco e caritatevole ardore di bene e virtuosamente adoperare sì maravigliosamente gli accendea, che laudando divotamente colui che creata l’avea, a mettere in opera il bene acceso desiderio si disponeano: e di questo in lei non vanagloria non superbia venia, ma in tanto la sua umiltà ne crescea, che per avventura ebbe tanta forza, che la incommutabile disposizione di Dio avacciò a mandare in terra il suo figliuolo del quale ella fu madre. L’altre poche che a questa reverendissima e veramente donna s’ingegnarono con tutta lor forza di somigliare non solamente le mondane pompe non seguirono, ma le fuggirono con sommo studio; nè si dipinsero per più belle apparere nel cospetto degli uomini strani, ma le bellezze loro dalla natura prestate si disprezzarono, le celestiali aspettando. In luogo d’ira e di superbia ebbero mansuetudine e umiltà, e la rabbiosa furia della carnale concupiscenza con l’astinenza mirabile domarono e vinsero, prestando maravigliosa pazienza alle temporali avversità e a’ martirii: delle quali cose, servata l’anima loro immaculata, meritarono di divenir compagne a colei nell’eterna gloria, la quale s’erano ingegnate nella mortal vita di somigliare. E se onestamente si potesse accusar la natura, maestra delle cose, io direi che essa fieramente in così fatte donne peccato avesse, sottoponendo e nascondendo così grandi animi, così virili e costanti sotto così vili membra e sotto così vil sesso come è il femmineo; perchè bene ragguardando chi quelle furono e chi queste sono, che nel numero di quelle si vogliono mescolare e in quelle essere annoverate e reverite, assai bene si vedrà mal confarsi l’una con l’altra, anzi essere del tutto l’una contraria dall’altra. Tacciasi adunque questa generazione prava e adultera, nè voglia il suo petto degli altrui meriti adornare; chè per certo le simili a quelle, che dette abbiamo, sono più rade che le fenici: delle quali veramente se alcuna esce di schiera tanto di più onore è degna che alcuno uomo, quanto alla sua vittoria il miracolo è maggiore. Ma io non credo che in fatica d’onorarne alcuna per li suoi meriti, a’ nostri bisavoli, non che a noi, bisognasse d’entrare, e prima spero si ritroveranno de’ cigni neri e de’ corbi bianchi, che a’ nostri successori di onorarne alcuna bisogni entrare in fatica: perciocchè l’orme di coloro che la reina degli angioli seguitarono sono ricoperte, e le nostre femmine digradando hanno il cammino smarrito, nè vorrebbero già che fosse loro insegnato; e se pure alcuno, predicando, se ne affatica, così alle sue parole gli orecchi chiudono, come l’aspido al suono dell’incantatore.
Ora io non t’ho detto quanto questa perversa moltitudine sia golosa ritrosa e ambiziosa, invidiosa accidiosa iracunda e delira, nè quanto ella nel farsi servire sia imperiosa noiosa vezzosa stomacosa e importuna, e altre cose assai, le quali molto più e più spiacevoli che le narrate se ne potrebbero contare, nè intendo al presente di dirleti, chè troppo sarebbe lunga la storia; ma per quello che detto t’ho, dei tu assai ben comprendere chente esse universalmente sieno, e in quanto cieca prigione caggia e dolorosa chi sotto l’imperio loro cade per qual che si sia la cagione. Pare essere a me molto certo, che se mai ad alcune perverrà all’orecchie la verità della loro malizia e de’ loro difetti da me dimostrati, che esse incontanente non a riconoscersi nè a vergognarsi d’essere da altrui conosciute, e ad ogni forza e ingegno di divenir migliori, come dovrebbono, rifuggiranno, ma come usate sono, pure al peggio n’andranno correndo e diranno, me queste cose dire non come veritiero, ma come uomo al quale, perciocchè altra spezie piacque, esse dispiacquono. Ma volesse Iddio che non altramente che quello abominevol peccato mi piacque esse mi fossero piaciute giammai, perciocchè io avrei assai tempo acquistato di quello che io dietro ad esse perdei, e nel mondo là dove io sono assai minor tormento sofferrei che quello ch’io sostengo. Ma vegnamo ad altro. Dovevanti ancora gli studii tuoi dimostrare chi tu medesimo sii, quando il natural conoscimento non te l’avesse mostrato, e ricordarti e dichiararti che tu se’ uomo fatto alla immagine e alla similitudine d’Iddio, animale perfetto, nato a signoreggiare e non ad essere signoreggiato. La qual cosa nel nostro primo padre ottimamente dimostrò colui, il quale poco davanti l’avea creato, mettendogli tutti gli altri animali dinanzi e facendogli nomare,e alla sua signoria sopponendoli; il simigliante appresso facendo di quella una e sola femmina ch’era al mondo, la cui gola e la cui disubbidienzia e le cui persuasioni furono di tutte le nostre miserie cagione e origine. Il quale ordine l’antichità ottimamente ancor serva al mondo presente ne’ papati, negli imperii, ne’ reami e ne’ principati, nelle provincie ne’ popoli, e generalmente in tutti i maestrati e sacerdozii, e nelle altre maggioranze divine come umane, gli uomini solamente e non le femmine preponendo, e in loro commettendo il governo degli altri e di quelle. La qual cosa come possente e quanto valido argomento sia a dimostrare quanto la nobiltà dell’uomo ecceda quella della femmina e d’ogni altro animale, assai leggiermente a chi ha sentimento puote apparere, e non solamente da questo si può o dee pigliare che solamente ad alcuni eccellenti uomini così ampio privilegio di nobiltà sia conceduto, anche s’intenderà essere ancora de’ più menomi, per rispetto alle femmine e agli altri animali; perchè ottimamente si comprenderà il più vile e ’l più minimo uomo del mondo, il quale del bene dello intelletto privato non sia, prevalere a quella femmina, in quanto femmina che temporalmente è tenuta più che niun’altra eccellente. Nobilissima cosa adunque è l’uomo, il quale dal suo creatore fu creato poco minore che gli angioli. E se il minore uomo è da tanto, da quanto dovrà esser colui la cui virtù ha fatto ch’egli dagli altri ad alcuna eccellenzia sia elevato? da quanto dovrà esser colui, il quale i sacri studii la filosofia ha dalla meccanica turba separato? del numero de’ quali tu per tuo studio e per tuo ingegno, aiutandoti la grazia d’Iddio, la quale a niuno che se ne faccia degno, domandandola, è negata, se’ uscito, e tra’ maggiori divenuto degno di mescolarti: come non ti conosci tu? come così t’avvilisci? come t’hai tu così poco caro, che tu ad una femmina iniqua, insensatamente di lei credendo quello che mai non le piacque, ti vada a sottomettere? Io non me ne posso in tuo servigio racconsolare; e quanto più vi penso, più ne divengo turbato. A te s’appartiene, e so che tu ’l conosci, più d’usare i solitari luoghi, che le moltitudini ne’ templi e negli altri pubblici luoghi raccolte visitare, e quivi stando, operando e versificando esercitar l’ingegno, e sforzarti di divenir migliore, e d’ampliare a tuo podere, più con cose fatte che con parole, la fama tua; chè appresso quella salute ed eterno riposo, il qual ciascuno che dirittamente desidera dee volere, è il fine della tua lunga sollecitudine. Mentre che tu sarai ne’ boschi e ne’ remoti luoghi, le Ninfe castalide, alle quali queste malvage femmine si vogliono assomigliare, non t’abbandoneranno giammai, la bellezza delle quali, siccome io ho inteso, è celestiale: dalle quali così belle tu non se’ schifato nè schernito, ma è loro a grado il potere stare andare e usar teco; e come tu medesimo sai, che molto meglio le conosci che io non fo, elle non ti metteranno in disputare o discutere quanta cenere vi voglia a cuocere una matassa d’accia, e se il lino viterbese è più sottile che ’l romagnuolo, nè che troppo abbia il forno la fornaia scaldato, e la fante lasciato meno il pane lievitare, o che da provveder sia donde vegnano delle granate onde la casa si spazzi: non ti diranno quel ch’abbia fatto la notte passata monna cotale e monna altrettale; nè quanti paternostri ell’abbia detti al predicare, nè s’egli è il meglio alla cotale roba mutar le gale o lasciarle stare: non ti domanderanno danari nè per liscio nè per bossoli nè per unguenti. Esse con angelica voce ti narreranno le cose dal principio del mondo state infino a questo giorno, e sopra l’erba e sopra i fiori e le dilettevoli ombre teco sedendo, allato a quel fonte le cui ultime onde non si videro giammai, ti mostreranno le cagioni de’ variamenti de’ tempi, e delle fatiche del sole e di quelle della luna, e qual nascosa virtù le piante nutrichi, e insieme faccia li bruti animali amichevoli, e donde piovano l’anime negli uomini, e l’essere la divina bontà eterna e infinita, e per quali scale ad essa si salga, e per quali balzi si traripi alle parti contrarie; e teco, poichè versi d’Omero di Virgilio e degli altri antichi valorosi avranno cantati, i tuoi medesimi, se tu vorrai, canteranno. La lor bellezza non ti inciterà al disonesto fuoco, anzi il caccerà via, e i lor costumi ti fieno inreprobabil dottrina alle virtuose opere. A che dunque, potendo così fatta compagnia avere quando tu la vogli, e quanto tu la vogli, vai cercando sotto i mantelli delle vedove, anzi de’ diavoli, dove leggiermente potresti trovar cosa che ti putirebbe? Ahi quanto giustamente farebbono quelle eloquentissime donne, se dal loro bellissimo coro te, siccome non degno, cacciassono, quante volte tu dietro alle femmine l’appetito dirizzi, quante volte fetido e maculato da esse partendoti, tra loro, che purissime sono, ti vai a rimescolare, non vergognandoti della tua bestialità! E certo, se tu non te ne rimani, e’ mi pare avvedere che t’avverrà, e meritamente. Esse hanno bene il loro sdegno, così come queste altre che donne si chiamano, non essendo: e chente e quale vergogna questo ti sia, dove questo avvenga, tu medesimo e pensare e conoscere il puoi. Ma perciocchè assai detto aver mi pare intorno a quello che a le apparteneva di considerare, quando follemente il collo sotto lo incomportabile giogo di colei sottomettesti, alla quale una gran salmista pare essere, acciocchè tu non creda dall’altre lei divariare, oltre a quello ch’io ti promisi, ciò che tu non potevi ben per te medesimo vedere intendo di dimostrarti, particolarmente chi sia colei, e chenti i suoi costumi di cui tu follemente divenuto servidore ora ti duoli, e vedrai dove e nelle cui mani il tuo peccato e la tua troppa subita credenza t’aveano condotto.
La prima notizia di questa femmina, di cui noi parliamo, la quale molto più dirittamente drago potrei chiamare, mi diedono le nozze sue; perciocchè essendo io per morte abbandonato da colei che prima a me era venuta, e di cui io molto meno mi potea scontentare che di questa, non so se per lo mio peccato o per celesti forze che ’l si facesse, avvenne, che essendo e volere e piacere de’ miei amici e parenti, a costei, mal da me conosciuta, fui ricongiunto: la qual già d’altro marito essendo stata moglie, e assai bene già l’arte dello ingannare avendo appresa, non partendosi dal loro universal costume, in guisa d’una mansueta e semplice colomba entrò nelle case mie; e acciocchè io ogni particolarità raccontando non vada, ella non vide prima tempo all’occulte insidie, e forse lungamente serbate, poter discoprire, ch’ella di colomba subitamente divenne serpente: di che io m’avvidi la mia mansuetudine, troppo rimessamente usata, essere d’ogni mio male certissima cagione. Io dirò il vero, io tentai alquanto di voler por freno a questo indomito animale; ma perduta era ogni fatica, già tanto s’era il mal radicato, che più tosto sostenere che medicar si potea. Perchè avveggendomi che ogni cosa che intorno a ciò io facea non era altro che aggiugnere legne al fuoco, o olio gittare sopra le fiamme, piegai le spalle, nella fortuna e in Dio me e le mie cose rimettendo. Costei adunque con romori e con minacce e con battere alcuna volta la mia famiglia, corsa la casa mia per sua, e in quella fiera tiranna divenuta, quantunque assai leggier dote recata v’avesse, come io non pienamente a sua guisa alcuna cosa fatta o non fatta avessi; soprabbondante nel parlare e magnifica dimostrantesi, come se io stato fossi da Capalle, ed ella della casa di Soave, così la nobiltà e la magnificenzia de’ suoi m’incominciò a rimproverare, quasi come se a me non fosse noto chi essi furono o sieno pure ora al presente; bench’io sia certissimo che essa niuna cosa ne sa, altro ch’essa, come vana, credo che spesso vada gli scudi che per le chiese sono appiccati annoverando, e dalla vecchiezza di quelli e dalla quantità argomenta sè essere nobile, poi tanti cavalieri sono suti tra’ suoi passati, e ancor più. Ma se per dieci cattivi della sua schiatta, più avventurata in crescere in numero d’uomini che in valore o in onore alcuno, fosse stato un solo scudo appiccato, e spiccato uno di quelli per la cui cavalleria appiccati vi furono, a’ quali ella così bene e così convenientemente stette come al porco la sella, non dubito punto, che dove degli scudi dei cattivi centinaia apparirebbono, niuno se ne vedrebbe de’ cavalieri. Estimano i bestiali, tra’ quali ella è maggior bestia che uno leofante, che ne’ vestimenti foderati di vaio, e nella spada, e negli sproni dorati, le quali cose ogni piccolo artefice ogni povero lavoratore leggiermente potrebbe avere, e un pezzo di panno e uno scudicciuolo da fare alla sua fine nella chiesa appiccare, consista la cavalleria, la quale veramente consiste in quelli che oggi cavalieri si chiamano, e non in altro: ma quanto essi sieno dal vero lontani, colui il sa che quelle cose che a loro appartengono, e per le quali ella fu creata, alle quali tutte essi sono più nimici che il diavolo delle croci, il conosce. Adunque con questa stolta maggioranza e arroganza incominciando, sperando io sempre (quantunque io avessi per lo meno male, siccome vile, giù l’armi poste), che essa alcuna volta riconoscer si dovesse, e della presa tirannia rimuoversi, pervenne a tanto, che senza pro conobbi, che dov’io pace e tranquillità mi credea avere in casa recate, conoscendo che guerra fuoco e mala ventura recata v’avea, cominciai a desiderare ch’ella ardesse; e ciascun luogo della nostra città, qual che si fosse più di litigi e di quistioni pieno, m’incominciò a parer più quieto e più riposato che la mia casa: e così veggendo venir la notte, che al tornare mi vi costrignea, mi contristava come se uno noioso prigioniere e possente, e a dovere ad una prigione rincrescevole e oscura m’avesse costretto. Costei adunque donna divenuta del tutto e di me e delle mie cose, non secondo che la natura avrebbe voluto al mio stato avendo rispetto, ma come il suo appetito disordinato richiedeva, prima nel modo del vivere e nella quantità suo ordine pose, e il simigliante fece ne’ suoi vestimenti, non quelli ch’io le facea, ma quelli che le piacevano faccendosi: e da qualunque d’alcuna mia possessione avea il governo, essa conveniva che la ragion rivedesse, e i frutti prendesse e distribuisse secondo il parer suo; e in somma in inguria recandosi, perchè io così tosto come ella avrebbe voluto d’alcuna quantità di danari ch’io avea mia tesoriera e guardiana non la feci, mille volte essere uomo senza fede, e massimamente verso di lei, mi rimproverò, infino a tanto che a quello pervenne ch’ella desiderava, sè d’altra parte di lealtà sopra Fabrizio, e a qualunque altro leale uomo stato, commendando. E a non volere ogni cosa distinguere e narrare, in cose infinite mi si pose al contrario, nè mai in tal battaglia, se non vincitore, pose giù l’arme; ed io misero, e male in ciò avveduto, credendomi sofferendo diminuir l’angoscia e l’affanno, più tiepido che l’usato divenuto seguiva il suo volere: la qual tiepidezza il vestimento che vermiglio mi vedi, come già dissi, ora con mia gravissima pena riscalda: ma più davanti è da procedere. In cotal maniera adunque essa donna ed io servidor divenuto, con più ardita fronte, non veggendosi alcuna resistenza, cominciò a mostrare e a mettere in opera l’alte virtù che il tuo amico tante di lei con cotanta solennità ti raccontò. Ma non avendole egli bene per le mani, come ebbi io, mi piace con più ordine di contarleti. E acciocchè io dalla sua principale cominci, affermo per lo dolce mondo che io aspetto, e se elli tosto mi sia conceduto, che nella nostra città nè fu nè è o sarà donna, o femmina che vogliamo dire, chè diremo meglio, in cui tanto di vanità fusse, che quella di colei di cui parliamo di grandissima lunga non l’avanzasse. Per la qual cosa costei estimando che l’aver ben le gole gonfiate e vermiglie, e grosse e sospinte in fuori le natiche, avendo forse udito che queste sommamente piacciono in Alessandria, e perciò fossono grandissima parte di bellezza in una donna, in niuna cosa studiava tanto, quanto in fare che queste due cose in lei fossono vedute pienamente: nel quale studio queste cose pervenieno alle spese di me, che talor digiunava per risparmiare. Primieramente se grossi capponi si trovavano, de’ quali ella molti con gran diligenza faceva nutricare, conveniva che innanzi cotti le venissono, e le pappardelle col formaggio parmigiano similmente: le quali non in iscodella, ma in un catino, a guisa del porco, così bramosamente mangiava, come se pure allora per lungo digiuno fosse della torre della fame uscita. Le vitelle di latte, le starne, i fagiani, i tordi grassi, le tortole, le suppe lombarde, le lasagne maritate, le frittellette sambucate, i migliacci bianchi, i bramangeri, de’ quali ella faceva non altre corpacciate che facciano di fichi o di ciriege o di poponi i villani quando ad essi s’avvengono, non curo di dirti. Le gelatine la carne e ogni altra cosa acetosa o agra, perchè si dice che rasciugano, erano sue nemiche mortali. Son certo, che s’io ti dicessi come ch’era solenne bevitrice e investigatrice del buon vin cotto, della vernaccia da Corniglia, del greco o di qualunque altro vino morbido e accostante, tu nol mi crederesti, perchè impossibile ti parrebbe a credere di Cinciglione. Ma se tu avessi un poco le sue gote vedute quando io viveva, e alquanto berlingare l’avessi udita, forse mi daresti leggiermente fede, tanto senza le mie parole pure per quelle di lei te ne parrebbe aver compreso. E pienamente di divenire paffuta e naticuta le venne fatto. Non so io se ella, per li molti digiuni fatti per la salute mia, se l’ha smenomate dopo la mia morte: così te l’avess’ella in sul viso, e io ti dovessi far carta di ciò che tu vedessi, com’io nol credo. A questa parola, dich’io, che con tutto il dolore e la compunzione ch’io sentia delle mie colpe dinanzi agli occhi postemi dalle vere parole dello spirito, io non potei le risa tenere; ma egli, senza aspetto mutare, seguitò. Nè era la mia cara donna, anzi tua, anzi del diavolo, contenta d’aver carne assai solamente, ma le volea lucenti e chiare, come se una giovinetta di pregio fosse, alla quale, essendo per maritarsi, convenisse con la bellezza supplire la poca dota: la qual cosa acciocchè avvenisse, appresso la cura del ben mangiare e del ben bere e del vestire, sommamente a distillare, a fare unzioni, e trovar sangue di diversi animali, ed erbe e simili cose, s’intendeva: e senza che la casa mia era piena di fornelli, e di lembacchi, e di pentolini, e d’ampolle, e d’alberelli e di bossoli: io non avea in Firenze speziale alcuno vicino nè in contado alcuno ortolano che infaccendato non fosse, quale a fare ariento solimato, a purgar verderame, a far mille lavature, e quale ad andare cavando e cercando radici salvatiche ed erbe mai più non udite ricordare se non a lei: e senza che insino a’ fornaciai a cuocere guscia d’uova, gromma di vino marzacotto, e altre mille cose nuove n’erano impacciati. Delle quali confezioni essa ungendosi e dipignendosi, come sè a vendere dovesse andare, spesse volte avvenne che, non guardandomene io, e baciandola, tutte le labbra m’invischiai; e meglio col naso quella biuta, che con gli occhi sentendo, non che quello che nello stomaco era di cibo preso, ma appena gli spiriti ritenea nel petto. Or s’io li dicessi di quante maniere ranni il suo auricome capo si lavava e di quante ceneri fatto, e alcuno più fresco e alcuno meno, tu ti maraviglieresti, e viepiù se io ti disegnassi quante e quali solennità si servavano nell’andare alla stufa, e come spesso: dalle quali io credea lei lavata dover tornare, ed ella più unta ne venia che non v’era ita. Erano sommo suo desiderio e recreazione grandissima certe femminette, delle quali per la nostra città sono assai, che fanno gli scorticatoi alle femmine, e pelando le ciglia e le fronti, e col vetro sottigliando le gote, e del collo assottigliando la buccia, e certi peluzzi levandone, nè era mai che due o tre non se ne fossono con lei a stretto consiglio trovate, come chè altri trattati spesse volte tenessono, siccome quelle che oltre a quella loro arte, sotto titolo della quale baldanzose l’altrui case vicitassero; e le donne sono ottime sensali a fare che messer mazza rientri in valle bruna, donde dopo molte lagrime era stato cacciato fuori. Egli non si verrebbe a capo in otto dì di raccontare tutte le cose ch’ella a così fatto fine adoperava, tanta gloria di quella sua artificiata bellezza, anzi spiacevolezza pigliava. A conservazion della quale troppa maggiore industria s’adoperava; perciocchè il sole, l’aere, il dì, la notte, il sereno il nuvolo, se molto non venieno a suo modo, fieramente l’offendeano: la polvere, il vento, il fummo avea ella in odio a spada tratta, e quando i lavamenti erano finiti, se per sciagura le si ponea una mosca in sul viso, questo era sì grande scandalezzo, e si grande turbazione, che a rispetto fu a’ cristiani perdere Acri un diletto: e dirottene una pazzia forse mai più non udita. Egli avvenne fra l’altre volte ch’una mosca in sul viso invetriato le si pose, avendo ella una nuova maniera di liscio adoperata, la quale essa, fieramente turbata, più volte s’ingegnò di ferir con mano: ma quella presta si levava, come tu sai ch’elle fanno, e ritornava: perchè non potendo ferirla, tutta accesa d’ira, presa una granata, e per tutta la casa or qua or là discorrendo per ucciderla l’andò seguitando: e portò ferma opinione, che se alla fine uccisa non l’avesse, o quella, o un’altra la quale avesse creduto esser quella, ella sarebbe di stizza e di veleno scoppiata. Che pensi ch’avesse fatto se alle mani le fosse venuto uno degli scudi di quelli suoi antichi cavalieri, e una di quelle spade dorate? Per certo ella si sarebbe messa con lei alla schermaglia: e che più? Questo avveniva il dì che si poteva con meno noia sostenere: ma se per forte disavventura una zenzara si fosse per la casa udita, che che ora si fosse stata di notte, convenia che ’l fante e la fante, e tutta l’altra famiglia si levasse, e co’ lumi in mano si metteano all’inchiesta della malvagia e perfida zenzara, turbatrice del riposo e del buono e del pacifico stato della lisciata donna: e avanti che a dormir si tornassono, convenia che morta o presa la presentassono davanti a colei, che lei diceva in suo dispetto andar sufolando, e appostando di guastare il suo bel viso amoroso. Che più? sopra tutte l’altre cose, a cui caluto non ne fosse, era da ridere, che averla veduta quando s’acconciava la testa, con quanta arte, con quanta diligenza, con quanta cautela ciò si facesse: in quello per certo pendevano le leggi e i profeti. Essa primieramente negli anni più giovani, quantunque più vicini a quaranta che a trenta fossono, posto che ella, forse non così buona abbachiera, li dicesse ventotto fatti, lasciamo star l’aprile e ’l maggio, ma il dicembre e il gennaio, di sei maniere d’erbette verdi, o d’altrettante di fiori, donde ch’ella se li avesse, apparecchiare, e di quelle certe sue ghirlanduzze composte, levata per tempissimo, e fatta la fante levare, poichè molto s’era il viso e la gola e ’l collo con diverse lavature strebbiata, e quelli vestimenti messi che più all’animo l’erano, a sedere postasi in alcuna parte della nostra camera, primieramente si mettea davanti un grande specchio, e talor due, acciocchè bene in quelli potesse di sè ogni parte vedere, e conoscere qual di loro men che vera la sua forma mostrasse: e quivi dall’una delle parti si faceva la fante stare, e dall’altra avea forse sei ampolluzze, e vetro sottile, e orochicco, e così fatte bazzicature. E poichè diligentemente fatta s’avea pettinare, ravvoltisi i capelli al capo, sopr’essi non so che viluppo di seta, il quale essa chiamava trecce, si poneva; e quelle con una reticella di seta sottilissima fermate, fattosi l’acconce ghirlande e i fiori porgere, quelle primieramente in capo postesi, andando per tutto i fiori compartendo, così il capo se ne dipignea, come talvolta d’occhi la coda del pavone avea veduta dipinta, nè niuno ne fermava, che prima allo specchio non ne chiedesse consiglio. Ma poichè l’età venne, troppo parendosi, e i capelli, che bianchi cominciarono a divenire, quantunque molti tutto ’l dì se ne facesse cavare, richiedeano i veli, come l’erba e i fiori soleva prendere, così di quelli il grembo e il petto di spilletti s’empieva, e con l’aiuto della fante si cominciava a velare: alla quale, credo, con mille rimbrotti ogni volta dicea: questo velo fu poco ingiallato, e quest’altro pende troppo da questa parte: manda quest’altro più giù, fa’ stare più tirato quello che mi cuopre la fronte: lieva quello spilletto che m’hai sotto l’orecchie posto, e ponlo più in là un poco, e fa’ più stretta piega a quello che andar mi dee sotto ’l mento: togli quel vetro, e levami quel peluzzo che ho nella gota di sotto all’occhio manco. Delle quali cose, e di molte altre che ella le comandava, se una sola meno che a suo modo n’avesse fatta, cento volte, cacciandola, la bestemmiava, dicendo: va’ via, tu non se’ da altro che da lavare scodelle: va’, chiamami monna cotale: la qual venuta, tutta in ordine si rimetteva. E dopo tutto questo, le dita con la lingua bagnatesi, a guisa che fa la gatta, or qua or là si lisciava, or questo capello or quello nel suo luogo tornando; e di quinci forse cinquanta volte or dinanzi, e or da lato nello specchio si guardava, e quasi molto a sè stessa piacesse, a pena da quello si sapea spiccare: e nondimeno si faceva alla sua buona donna riguardare, e con cautela l’esaminava se bene stesse, se niuna cosa mancasse, non altrimenti che se la sua fama o la sua vita da quel dipendesse. E poichè molte volte avea udito ogni cosa star bene, alle compagne, che l’aspettavano, andava davanti, anche di ciò con loro riprendendo consiglio. Ben so che alcuno dir potrebbe, questa non esser cosa nuova, non che a lei, ma nell’altre donne; e certo io non la dico per nuova, ma per viziosa e spiacevole e cattiva, e per mostrare ch’ella non è separata da’ costumi dell’altre, e perchè più pronta fede sia data a quello che resultava di questi modi, quando tel dirò, che sarà tosto. Chi della cagione di questo suo abbellirsi con tanta sollecitudine domandata l’avesse, prestamente, siccome colei che più ch’altra femmina era di malizia piena, rispondea, che per più piacermi il facea; aggiugnendo che con tutto questo non poteva ella tanto fare, ch’ella mi piacesse sì ch’io lei non lasciassi per ire dietro alle fanti e alle zambracche e alle vili e alle cattive femmine. Ma di ciò mentia ella ben per la gola, chè nè io andava dietro alle zambracche, e a lei era assai poca cura di dovermi piacere: anzi, siccom’io molte volte m’accorsi, a qualunque giovane, o qualunque altro che punto d’aspetto avesse piacevole, che dinanzi alla casa passasse, o dov’ella fosse, non altrimenti il falcone tratto di cappello si rifà tutto e sopra sè torna, che faceva ella, sommamente desiderosa d’esser guardata; e così si turbava in sè medesima se altro passato fosse che non l’avesse guatata, come se una grave ingiuria avesse ricevuta. E se alcuno per avventura, avendola riguardata, la sua bellezza commendata avesse, e da lei fosse stato udito, questa era sì gran festa e sì grande allegrezza, che niun’altra mai a questa ne fu simigliante: nè le avrebbe quel cotale alcuna cosa addomandata ch’essa non l’avesse, potendo, fatta più che volentieri e tosto: e così per contrario colui che biasimata l’avesse l’avrebbe volentieri con le proprie mani ucciso. Canzoni suoni e mattinate e simili cose, più che altra, volentieri ascoltava, e sommamente avea astio di qualunque fosse colei, alla quale o per amor della quale fossero state cantate o fatte, siccome quella che di tutte avrebbe voluto il titolo, parendole di quello e d’ogni altra cosa molto più che alcun’altra esser degna. E acciocchè io ora di questa materia più non dica, dico, che questi sono gli ornati e laudevoli costumi, e il gran senno e la maravigliosa eloquenzia che di costei il tuo amico, male consapevole del fatto, ti ragionava: questa era la gran costanzia la somma fortezza dell’animo di costei: questo era il grande studio e la sollecitudine continua la quale ell’avea alle cose oneste, come aver debbono quelle donne le quali gentili sono, come ella vuole esser tenuta, e per la quale meritamente tra le valorose antiche, di loro parlando, dee esser ricordata. Della sua magnificenzia, nella quale ad Alessandro ti fu assomigliata, non dopo molte parole udirai alquanto. Essa con questa sua vanità, e con questa esquisita leggiadria (se leggiadria chiamar si dee il vestirsi a guisa di giocolari, e ornarsi come quelle che ad infiniti hanno per alcuno spazio a piacere, sè concedendo per ogni prezzo), e con l’essere degli occhi cortese e più parlante che alla gravità donnesca non si richiedea, molti amanti s’avea acquistati; de’ quali non avvenne come di chi corre al palio, il quale ha l’uno de’ molti, anzi de’ molti pervennero molti al termine disiato, sì come essa procacciava. Alla cui focosa lussuria, non che io bastassi solo, o uno amante o due oltre a me, ma molti ad attutarne una sola favilluzza non erano sufficienti: della qual parlato non t’ho, nè intendo distesamente parlare, perciocchè contraria medicina sarebbe alla infermità la quale io son venuto a curare, conoscendo io che tanto quanto coloro che l’amistà delle femmine desiderano più focose le sentono più di speranza prendono, e per conseguente più di nutrimento aggiungono al loro amore. Sommariamente adunque, di questa parte toccandoti, ti dico, che, come che io già ne sospicciassi, ora ne sono certissimo, che tal cavaliere è per lo mondo, per lo passato più animoso che avventurato, del quale essa innamoratasi, assai volte già seppe come pesava; e senza al suo o al mio onore avendo riguardo niuno, così la sua dimestichezza usava come il mio marital debito, non solamente il sè medesima concedendoli le bastava, ma essa, come l’amico tuo ti disse ch’era magnifica, per magnifica dimostrarsi, non del suo, ma del mio, una volta e altra, e poscia più, quando per un cavallo, quando per una roba, e talvolta fu, in grandissima necessità di lui, di buona quantità di danari il sovvenne sì, che, dove tesoriera aver mi credea, donatrice scialacquatrice e guastatrice avea. Nè ancora bastandole il mio dovuto amore, nè quello ch’essa a suo piacere scelto s’avea, ancora aggiunse a soddisfare i suoi focosi appetiti: tal vicino ebb’io, al quale io più d’amore portava che egli a me d’onore. E come che io, e ciascuno di questi, otta per vicenda acqua rifrigeratoria sopra le sue fiamme versassero, nondimeno con alcuno suo congiunto con più stretto parentado si ricongiunse; e di più altri, i quali ella provar volle come arme portassono, o sapessono nella chintana ferire, parendomene avere detto assai, giudico che sia da tacere. In queste così fatte cose porgendo a ciascuno mano, donando a ruffiane, spendendo in cose ghiotte e in lisci, usava la tua nuova donna la magnificenzia egregia dal tuo amico datati a divedere. Delle cui alte virtù splendide e singulari volendo, secondo il preso stile, avanti procedere, una via e due servigi farò: perciocchè mentre ti racconterò quello, ti mostrerò come intender si dee, e come ella intende ciò che nella lettera a te mandata da lei scrive che le piace, forse da te non tanto bene inteso. L’ordine richiedea a dovere della sua cortesia dire, la quale ella dalla magnificenzia distingue, perciocchè la magnificenzia intende che s’usi nelle cose donandole o gittandole via; la cortesia intende di sè medesima usarsi, quando liberamente di sì dice a chi la richiede d’amore: della qual cosa per certo ella è stata non cortese, ma cortesissima, pure che sia stato chi ardire abbia avuto di domandare: de’ quali assai sono suti, che, quantunque ella nell’aspetto sia paruta molto imperiosa, non si sono però peritati, e bene n’è loro avvenuto. Dico avendo avuto rispetto al loro appetito, al quale, per merito della richiesta prestamente è seguito l’effetto; e perciò meritamente dice piacerle la cortesia, siccome colei che mentre da dovere essere richiesta è stata, mai disdir nol seppe, così omai che in tempo viene che a lei converrà richiedere, niuno vorrebbe che ’l disdicesse. E veramente di te io mi maraviglio, come ti sia stato disdetto quello che più a niuno fu giammai: nè altro ne so vedere, se non ch’io estimo che Dio t’ami, quello negar facenduti che tu, essendone stato pregato, dovevi come l’inferno fuggire. E perciò se altra cortesia avessi, la sua lettera leggendo, intesa, abbi testè inteso di qual si parla. Savissima donna per certo è questa tua; e perciocchè ogni simile suo simile appetisce, dei tu avere assai per costante, le savie persone, come ella ti scrive, gradirle. Ma, come tu sai, diverse sono le cose per le quali gli uomini e ogni altra persona generalmente sono savi chiamati. Alcuni sono savi chiamati perciocchè ottimamente la scrittura d’Iddio intendono, e sannola altrui mostrare; altri, perciocchè intorno alle questioni civili ed ecclesiastiche, siccome molto in legge e in ducretali ammaestrati, sanno ottimamente consigli donare; altri, perciocchè nel governo della repubblica sono pratichi, e le cose nocive sanno schifare, e seguire l’utili, quando il bisogno viene; e alcuni sono savi tenuti, perciocchè sanno bene guidare i fondachi, le loro mercatanzie e arti, e i loro fatti di casa, e secondo i mutamenti de’ tempi sanno temporeggiare. De’ quali modi e d’altri assai che laudevoli contar si potrebbono, io non vorrei che tu intendessi lei esser savia, perciocch’ella non cura di divina scrittura nè di filosofica, nè di legge nè di statuto o di reggimento pubblico o privato, nè di così fatte cose; perciocchè, se così intendessi, non intenderesti bene il senno di che ti scrive che si diletta. Egli c’è un’altra maniera di savia gente, la quale forse tu non udisti mai in iscuola tra la filosofica gente ricordare, la quale si chiama la Cianghellina. Siccome da Socrate, coloro che la sua dottrina seguirono furono chiamati socratici, e quelli che quella di Platone platonici, ha questo nome preso la nuova setta da una gran valente donna, la quale tu molte volte puoi avere udita ricordare, che fu chiamata madonna Cianghella, per la cui sentenzia, dopo lunga e seriosa disputazione, fu nel concilio delle donne discrete e per conclusione posto: che tutte quelle donne che hanno ardire e cuore, e sanno modo trovare d’essere tante volte e con tanti uomini con quanti il loro appetito concupiscibile richiedea, erano da esser chiamate savie, e tutte l’altre decime moccicose. Questo è adunque quel senno il quale le piace e aggrada, col quale ella con lunghe vigilie molti anni ha studiato, ed énne, oltre ad ogni Sibilla, savia divenuta e maestra: in tanto che tra lei e alcune sue consorte s’è assai volte disputato, chi più degnamente, poichè monna Cianghella più non vive, nè monna Diana ch’a lei succedette, debbia la cattedra tenere nella loro scuola. Questo è quel senno nel quale ella vorrebbe ciascuna donna o uomo esser savio o appararlo; e perciò sgannati, se male avessi inteso, e ch’ella sia savia credi sicuramente all’amico tuo. Parmi esser certo, che come nelle due già dette cose perversamente intendevi, così similemente della terza sii caduto in errore. Di’ ch’ella sempre sì è dilettata oltremodo di vedere gli uomini pieni di prodezza e di gagliardia; e credo che tu credevi ch’ella volesse, o desiderasse o le piacesse di vedere gli uomini pro’ e gagliardi con le lance ferrate giostrando, o nelle sanguinose battaglie tra mille pericoli mortali, o combattendo le città e le castella, o con le spade in mano insieme uccidersi: non è così: non è costei così crudele nè così perfida, come mostra che tu creda, ch’ella voglia bene agli uomini perchè s’uccidano. E che farebb’ella del sangue, che, morendo l’uomo, vermiglio si versa? La sua sete è del digesto, che i vivi e sani possono senza riaverlo prestare. Quella prodezza adunque che le piace, niuno la sa meglio di me. Ella non s’usa nelle piazze, nè ne’ campi, nè su per le mura, nè con corazze indosso, nè con bacinetti in testa, nè con alcuno offendevol ferro; ella s’usa nelle camere, ne’ nascosi luoghi, ne’ letti e negli altri simili luoghi acconci a ciò, dove senza corso di cavallo o suon di tromba di rame alle giostre si va a pien passo, e colui tiene ella che sia Lancelotto, o vuogli Tristano, Orlando, o Ulivieri di prodezza, la cui lancia per sei, o per otto, o per dieci aringhi la notte non si piega in guisa che poi non si dirizzi. Questi così fatti, se eglino avessono già il viso fatto come il saracin della piazza, ama ella sopra ogni altra cosa, e questi cotali sommamente commenda, e oltremodo le piacciono. Perchè, se gli anni non t’hanno tolta l’usata virtù, non ti dovevi per prodezza disperar di piacerle, come facesti, credendo tu ch’ella volesse che tu fossi l’Amaroldo d’Irlanda. Della sua gentilezza già in parte parlato ho, la quale ella dice che antica le piace: in che io t’accerto che, come che nelle precedenti cose assai bene è vero, secondo le dimostrazioni fatte, ella abbia il suo piacer dimostrato, in quello ella non sa che si dire, siccome colei che niuno sentimento ha di gentilezza, che cosa sia, nè donde proceda, nè chi dir si debba gentile, nè chi no; se non ch’ella ha in ciò voluto mostrare ch’ella sia gentile ella; e però, come gentile, ama e desidera le cose gentili: ed è tanta la sua vanagloria e pompa che ella fa di questa sua gentilezza, che in verità a quelli di Baviera, o a’ reali di Francia, o qualunque altri, se altri ne sono antichi, e le cui opere sieno state gloriose, sarebbe soperchio. Ma ben doveva, s’ella voleva mostrare che l’antica gentilezza le piaccia, sè antica gentil donna mostrare: de’ quali l’uno senza parole ella potrà oggimai tosto col viso mostrare, cioè che antica sia; o donna, o gentil, non cred’io ch’ella potesse mostrar mai. Scriveti che le piacciono i grandi favellatori, conciò sia cosa ch’ella di favellare ogni altra persona avanzi e trapassi; e dicoti che ’l suo cinguettare è tanto, che solo troppo più aiuterebbe alla luna sostenere le sue fatiche, che non facevano tutti insieme i bacini degli antichi. E lasciamo stare l’alte e grandi millanterie ch’ella fa quando berlinga con l’altre femmine, dicendo: quelli di casa mia, e gli antichi miei, e i miei consorti; chè le pare troppo bella cosa a dire, e tutta gongola quando si vede bene ascoltare, e odesi dire: monna cotale de’ cotali, e vedesi cerchio fare. Ma ella in brevissimo spazio di tempo ti dirà ciò che si fa in Francia e ordina il re d’Inghilterra; se i Ciciliani avranno buona ricolta, o no; se i Genovesi o i Viniziani recheranno spezieria di Levante, e quanta; se la reina Giovanna giacque la notte passata col re; quello che i Fiorentini dispongano dello stato della città: benchè questo le potrebbe essere assai agevole, se con alcuno de’ reggenti si stropicciasse, li quali non altrimenti che ’l paniere o il vaglio l’acqua, tengono i segreti de’ petti loro: e tante altre cose, oltre a queste, dirà, che maravigliosa cosa è a pensare donde tanta lena le venga. E per certo, se quello è vero che questi fisici dicono, che quello membro, il quale l’animal bruto, e l’uccello e ’l pesce più esercita, sia più piacevole al gusto, e più sano allo stomaco, niuno boccone deve mai essere più saporito nè migliore che la lingua di lei, la quale mai di ciarlare non ristà, mai non molla, mai non fina, dalle dalle dalle, dalla mattina insino alla sera, e la notte, io dico, dormendo, non sa ristare. E chi non la conoscesse, udendola della sua onestà della sua divozione della sua santità e di quelli di casa sua favellare, crederebbe per certo lei essere una santa e di legnaggio reale; e così in contrario, a chi la conoscesse, d’udirla la seconda volta, e talora la prima, è un farli venir voglia di recer l’anima. E il non consentirle le favole e le bugie sue, delle quali ella è più che altra femmina piena, niuna cosa sarebbe, se non un volersi con lei azzuffare, la qual cosa ella di leggieri farebbe, siccome colei alla qual pare di gagliardia avanzare Galeotto delle lontane Isole, o Febus. E già assai volte, millantandosi, ha detto, che se uomo stata fosse, l’arebbe dato il cuore d’avanzare di fortezza non che Marco bello, ma il bel Gherardino che combattè con l’orsa. Perchè mi vo io in più parole stendendo? Se io volessi ogni cosa contare, o pure le più notabili de’ suoi fatti, e’ non ci basterebbe il tempo: e se tu così hai l’ingegno acuto, come io credo, assai pur per le udite puoi comprendere quanti e quali sieno i suoi costumi, e in che le sue gran virtù e la magnificenzia e ’l senno e l’altre cose consistano, e che cose sieno quelle virtuose che le dilettano. Perchè, senza più dire di quelle, tornando a ragionare di quello che tu non puoi aver saputo, e di che per avventura teco stesso fai una grande stima, cioè dell’occulte parti ricoperte da’ vestimenti, le quali per tua buona ventura mai non ti si palesarono, così non si fossero elle mai a me palesate, voglio che l’ascoltarmi non ti rincresca. Ma io, prima che più avanti dica, ti voglio trarre d’un pensiero, il quale forse avuto hai, o avere potresti nell’animo, solvendoti una obiezione che far potresti. Tu forse hai teco medesimo detto, o potresti dire: che cose son quelle di che costui parla; chente il modo, chenti sono i vocaboli: o convengons’elle a niuno, non che a uomo onesto, e il quale ha li passi diritti verso l’eterna gloria? Alla quale opposizione, non volendo andare sofisticando, non è che una risposta, la qual son certo che in te medesimo consentirai, che sia non solamente buona, ma ottima. Dei dunque sapere, nè ogni infermità nè ogni infermo potere essere sempre dal discreto medico con odoriferi unguenti medicato, perciocchè assai sono e di quelli e di quelle che nol patiscono, e che richeggiono cose fetide, se a salute si vorranno conducere: e alcuna n’è, che con cotali argomenti e vocaboli e con dimostrazioni puzzolenti purgare e guarir si vogliono. Il mal concetto amore dell’uomo è una di quelle: perciocchè più una fetida parola nello intelletto sdegnoso adopera in una piccola ora, che mille piacevoli e oneste persuasioni, per l’orecchie versate nel sordo cuore, non faranno in gran tempo; e se niuno mai mártiro fu di questa nocenzia putrida e villana, tu se’ senza niuno dubbio desso. Perchè io, il quale, come altri ha voluto, qui venuto sono per la tua salute, non avendo il tempo molto lungo, ai più pronti rimedi sono ricorso e ricorro; e perciò ad addolcire il tuo disordinato appetito, alcuna cosa, come udito hai, parlar mi conviene, e ancor più largo; perciocchè queste parole così dette, sono i ronconi e le securi con le quali si tagliano i velenosi sterpi le spine e i pruni e gli sconvolti bronchi, che a non lasciarti la via da uscirci vedere davanti ti sono assiepati. Queste parole, così dette, sono i martelli i picconi i bolcioni, i quali gli alti monti, le dure rocche, gli strabocchevoli balzi convien che rompano, e la via ti facciano, per la quale da tanto male, da tanta ingiuria, da tanto soperchio, da tanto pericolo, e di luogo così mortale, come è questa valle, senza impedimento ti possi partire. Sostieni adunque pazientemente d’udirle, nè paia alla tua onestà grave, nè estimare quello essere colpa difetto o disonestà del medico, di che la tua pestilenziosa infermità è cagione. Immagina queste mie parole, così sucide e così stomacose a udire, essere quel beveraggio amaro, il quale per l’avere tu troppo assentito alle cose dilettevoli e piacevoli al tuo gusto, il discreto medico già nelle tue corporali infermità t’ha donato; e pensa, se per sanare i corruttibili corpi quelle amare cose non solamente si sostengono, ma vi si fa di volontà incontro l’infermo, quanta e quale amaritudine si dee per guarir l’anima, che è cosa eterna, sostenere. Io mi credo assai bene doverti avere soddisfatto a ciò che ti potesse aver messo in dubbio, e per lo futuro potrebbe, del modo o de’ vocaboli del mio parlare: e perciò tornando al proposito, e volendo di questa donna, nuova posseditrice dell’anima tua divenuta, partitamente parlare, alquanto di quelle dirò che a te non poterono essere note nè per veduta nè per immaginazione, perciocchè fuggito l’hai.
Primieramente mi piace di quella bellezza incominciare, la qual, tanto le sue arti valsono, che te non solamente, ma molti altri, che meno di te erano presi, abbagliò, e di sè mise in falsa opinione, cioè della freschezza della carne del viso suo: la quale essendo artificiata, e simile alle mattutine rose parendo, con teco molti altri naturale estimarono: la quale se a te e agli altri stolti, come a me, possibile fosse stato d’avere, quando la mattina del letto fosse uscita, veduta prima che posto s’avesse il fattibello, leggiermente il vostro errore avresti riconosciuto. Era costei, e oggi più che mai credo che sia, quando la mattina usciva del letto col viso verdegiallo, maltinto, d’un colore di fumo di pantano, e broccuta quali sogliono gli uccelli che mudano, grinza e crostuta e tutta cascante, in tanto contraria a quello che parea poichè avuto avea spazio di leccarsi, che appena che niuno il potesse credere, che veduto non l’avesse, come vid’io già mille volte. E chi non sa, che la mura affummicate, non che i visi delle femmine, ponendovi su la biacca, diventano bianche, e oltre a ciò colorite, secondo che al dipintore di quelle piacerà di porre sopra il bianco? e chi non sa, che per lo rimenare la pasta, che è cosa insensibile, non che le carni vive, gonfia, e dove mucida parea, diviene rilevata? Ella si stropicciava tanto, e tanto si dipigneva, e sì faceva la buccia, la quale per la quiete della notte era in giù caduta, rilevarsi, che a me, che veduta l’avea in prima, una strana maraviglia me ne facea: e se tu, come io il più delle mattine la vedea, veduta l’avessi con la cappellina fondata in capo, e col veluzzo d’intorno alla gola, così pantanosa nel viso come ora dissi, e col mantello foderato, covare il fuoco, in su le calcagna sedendosi, e colle occhiaia livide tossire, e sputar farfalloni, io non temo punto, che tutte le sue virtù, dal tuo amico udite, avessero tanto potuto farti di lei innamorare, che quelle vedendo, cento mila cotanti non t’avessero fatto disamorare. Quale ella dovesse essere, quando i Pisani col vermiglio all’asta cavalcano, con la testa lenzata e stretta, la doglia al capo apponendo, dove alla parte opposita era il male, pensalti tu. Sono molto certo, che, se veduta così fatta l’avessi, o la vedessi, che, dove di’ che, vedendola, al cuore dal suo viso le fiamme ti corsero, come fanno alle cose unte, che ti sarebbe paruto che ti fosse fatto incontro una soma di feccia o un monte di letame, per lo quale saresti, come per le spiacevoli cose si fa, fuggito, e ancor fuggiresti, e fuggirai, la mia verità immaginando: ma da procedere più avanti ci resta. Tu la vedesti grande e compressa: parmi esser certo, come io sono della beatitudine che per me s’aspetta, che riguardando il petto suo, tu estimasti quello dovere esser tale e così tirato qual vedi il viso, senza vedere i bariglioni cascanti, che le bianche bende nascondono; ma di gran lunga è di lungi la tua estimazione dalla verità: e come che molti ti potessero al mio dire vera tostimonianza rendere, siccome esperti, a me, che forse più lungamente, non potendo altro fare, esperienza n’ebbi, voglio, che tu senza testimonio il creda. In quello gonfiato, che tu sopra la cintura vedi, abbi per certo ch’egli non v’è stoppa, nè altro ripieno, che la carne sola di due bozzacchioni, che già forse, acerbi pomi, furono a toccare dilettevoli, e a vedere similmente: come che io mi creda che così sconvenevoli li recasse dal corpo della madre: ma lasciamo andar questo. Esse, qual che si sia la cagione, o l’esser troppo tirate d’altrui, o il soperchio peso di quelle che distese l’abbia, tanto oltre misura dal loro natural sito spiccate e dilungate sono, se cascare le lasciasse, che forse, anzi senza forse, infino al bellico le aggiugnerebbono, non altrimenti vote o vizze che sia una vescica sgonfiata: e certo, se di quelle, come de’ cappucci s’usa a Parigi, a Firenze s’usasse, ella per leggiadria sopra le spalle se le potrebbe gittare alla francesca. E che più, cotanto, o meno, alle gote, dalle bianche bende tirate, risponde la ventraia, la quale di larghi e spessi solchi vergata, come sono le torce, pare un sacco voto, non d’altra guisa pendente che al bue faccia quella buccia vota che li pende dal petto al mento: e per avventura non meno che gli altri panni, quella le conviene in alto levare, quando secondo l’opportunità naturale vuol scaricare la vescica, o, secondo la dilettevole, infornare il malaguida. Nuove cose e assai dalle passate strane richiede l’ordine del mio ragionamento: le quali quanto meno schiferai, anzi con quanta più diligenza nell’intelletto raccoglierai, tanto più di sanità recheranno alla tua infermità: come che nel vero io non sappia assai bene da qual parte io mi debbia cominciare a ragionare del golfo di Setalia nella valle d’Acheronte, riposto sotto gli oscuri boschi di quella, spesse volte rugginosi, e d’una gromma spiacevoli e spumosi, e d’animali di nuova qualità ripieni, ma pure il dirò. La bocca, per la quale nel porto s’entra, è tanta e tale, che quantunque il mio legnetto con assai grande albero navigasse, non fu giammai, qualunque ora l’acque furono minori, che io non avessi, senza sconciarmi di nulla, a un compagno, che con non minore albero di me navigato fosse, fatto luogo. Deh, che dico io? L’armata del re Roberto, qualora egli la face maggiore, tutta insieme concatenata, senza calar vela, o tirare in alto timone, a grandissimo agio vi potrebbe essere entrata: ed è mirabil cosa, che mai legno non v’entrò, che non vi perisse, e che vinto e stanco, fuori non ne fosse gittato, siccome in Cicilia la Scilla e la Cariddi si dice che fanno, che l’una tranghiottisce le navi, e l’altra le gitta fuori. Egli è certo quel golfo una voragine infernale, la quale allora si riempierebbe o sazierebbe, che il mare d’acqua, o il fuoco di legne. Io mi tacerò de’ fiumi sanguinei e crocei che di quella a vicenda discendono, di bianca muffa faldellati, talvolta non meno al naso che agli occhi dispiacevoli, perciocchè ad altro mi tira il preso stile. Che ti dirò adunque più avanti del borgo di mal pertugio, posto tra due rilevati monti, del quale alcuna volta, quando con tuoni grandissimi, e quando senza, non altrimenti che di mongibello, spira un fumo sulfureo sì fetido e sì spiacevole, che tutta la contrada attorno appuzzola? Io non so che dirmiti, se non che quando io vicino v’abitai, che vi stetti più che voluto non avrei, assai volte, da così fatto fiato offeso, mi credetti altra morte fare che di cristiano: nè altrimenti posso dire del lezzo caprino, il quale quando da caldo, e quando da fatica tutta la corporea massa incitata geme e spira; questo è tanto e tale, che con l’altre cose già dette raccolto, sì fanno il covacciolo sentir del leone, che nelle Chiane di mezza state con molta meno noia dimorerebbe ogni schifo, che vicino a quello: perchè se tu e gli altri che le gatte in sacco andate comperando, spesse volte rimanete ingannati, niuno maravigliar se ne dee. E per questa cagione sola, avendo tu il viso, come gli altri, più diritto alla apparenza che alla esistenza, forse meno se’ da riprendere, quantunque a te più si convenga, che a molti altri, più la verità che l’opinion delle cose seguire: la quale poichè veduta avessi, e dalla opinione non ti rimovessi, oltre ad ogni altra bestia, che umana forma porti, saresti da riprendere: e io, secondo che io mi credo, ancora che brieve abbia parlato, avendo rispetto al molto che si può dire, sì aperta t’ho la verità, che forse t’era nascosa, che se dal tuo error non ti rimovessi, oltre ad ogni altra bestia dovresti bestia esser tenuto. Io lascio cose assai a dire, per voler venire a quel dolore al quale ieri t’avea condotto la tua follia: e acciocchè io ti possa ben dimostrare come tu eri folle, aggiugnendo le cose vecchie con le nuove, alquanto di lontano mi piace di cominciare. Mostrato t’ho in assai cose quanta e quale sia stata la eccellenza dell’animo di costei, e i suoi costumi: e assai cose de’ molti suoi anni t’avrei dette, s’io t’avessi per sì smemorato, che nel suo viso non gli avessi compresi: nè t’ho nascose quelle parti, che la tua concupiscenza non meno tirava ad amarla, che facesse l’animo la falsa opinione presa dalle sue virtù. Ora della sua buona perseveranza e nella morte e dopo la morte mia mi piace di ragionarti, acciocchè ad un’ora io faccia pro a me e a te, in quanto io di ciò con alcuno che la conosca, ragionando, si sfogherà alquanto la sdegnosa fiamma nella mia mente accesa contra di lei per li modi suoi, e a te, perciocchè quanto più udirai di lei delle cose meritamente da biasimare, tanto più lei a vile avendo, t’appresserai alla tua guarigione. Questa perversa femmina ogni giorno più multiplicando nel far delle cose male a lei convenienti d’oprare e a me di sostenere, nè in ciò le mie riprensioni alcuna cosa vagliendo, non sappiendo al comportarle più pigliare alcuno utile consiglio, in sì fatto dolore e afflizione nel cuor nascosa mi misero, che il sangue intorno a quello, più che il convenevole da focoso cruccio riscaldato, impostemi: e come nascoso era il dolore, così essendo nascosa la infermità, non prima si parve, che il corrotto sangue, occupato subitamente il cuore, me quasi del mondo in uno stante rapì. Nè prima fu l’anima mia dal mortal corpo, nè dalle terrene tenebre sviluppata e sciolta e ridotta nell’aere puro, che io con più perspicace occhio, ch’io non solea, vidi e conobbi qual fosse l’animo di questa iniqua femmina: la quale senza dubbio simile allegrezza a quella che della mia morte prese non sentì, quasi d’una sua lunga battaglia le paresse avere acquistato gloriosa vittoria, posciachè io levato l’era stato dinanzi: la qual cosa essa poco appresso, siccome tu udirai, chiaramente dimostrò a chi riguardar vi volle. Ma tuttavia, siccome colei che ha di malizia ubbondanzia, prima avendo delle mie cose occultamente assai trasfugate, e di quelli danari che io alla sua guardia follemente avea commessi e che a’ miei figliuoli rimaner doveano, non avendo io davanti assai pienamente li miei fatti e l’ultima mia intenzione ordinata, nè avendo spazio di bene ordinarla per lo subito sopravvenuto caso, quella parte presane che le piacque, con altissimo romore fuori mandò le finte lagrime: il che meglio che altra femmina ella sa fare; e in molto pianto multiplicando, con la lingua cominciò a maladire lo sventurato caso della mia morte, e sè a chiamar misera abbandonata e sconsolata e dolente; dove col cuore maladiceva la vita che tanto m’era durata, e sè oltre ad ogni altra reputava avventurata. E veramente egli non sarebbe stato nè uomo nè donna alcuna che udita l’avesse, che non avesse creduto lei veramente nell’animo aver quello che le sue bugiarde parole sonavano: ma a me dee bastare assai, che colui quelle conosce insieme con gli altri fatti suoi, che a ciascuno, siccome giusto giudice, secondo i meriti rende guiderdoni. Mandati dunque ad esecuzione tutti gli ufici funerali, poichè ’l mio corpo, terra divenuto, fu alla terra renduto, la valente donna desiderosa di più scapestratamente la sua vecchiezza menare che non l’era paruto potere la giovanezza, sentendosi caldo di quello che suo essere non dovea, perciocchè nè di sua dota nè di patrimoniale eredità sostenersi avrebbe potuto di quello che a fare s’apparecchiava, nè nella mia casa rimaner volle, nè in quella de’ suoi nobili parenti e consorti tornare; ma con parole piene di compassione disse, sè volere in alcuna piccola casetta e vicina ad alcuna chiesa e di sante persone riducersi, acciocchè quivi, vedova e sola, in orazione e in usare la chiesa, il rimanente della sua età consumasse; e fu tanta la forza di questo suo infinito parlare, e sì maestrevolmente il seppe dire, che assai furono di quelle persone sì semplici, che così ebbono per fermo che dovesse addivenire come dicea, come hanno che morir debbano. Appropinquossi adunque quanto più potè alla chiesa de’ frati, nella quale tu prima la conoscesti, non già per dire orazioni, delle quali niuna credo che sappi, nè di saper curasse giammai, ma per poter meglio, senza avere troppi occhi addosso, e massimamente di persone alle quali del suo onore calesse, le sue libidinose volontà compiere: acciocchè, dove ogn’altro uomo le venisse meno, i frati, che santissimi e misericordiosi uomini sono e consolatori delle vedove, non le venissero meno. Quivi, secondo che tu puoi avere udito, con suo mantello nero in capo, e secondo ch’ella vuole che si creda, per onestà molto davanti agli occhi tirato, va faccendo baco baco a chi la scontra: ma pure, se bene v’hai posto mente, ora quello apre, ora il richiude, non sappiendosi ancora dell’usate vanità rimanere; e quasi ad ogni parola in giù si tira le bende dal mento, o caccia la mano fuori del mantello, parendogliele bellissima avere, e massimamente sopra ’l nero. Uscita adunque di casa, così coperta se n’entra nella chiesa; ma non vorrei che tu credessi per udire divino uficio o per adorare v’entrasse, ma per tirare l’aiuolo: perciocchè sappiend’ella, ch’è già lungo tempo, che quivi d’ogni parte della nostra terra concorrono giovani prodi e gagliardi e savi, come le piacciono, di quella ha fatto uno escato, come per pigliare i colombi fanno gli uccellatori; e perciocchè ciascuno non vede la serpe che sta sotto l’erba nascosa, spesso vi piglia de’ grossi: ma siccome colei che di variar cibi spesso si diletta, non dopo molto, sazia, a prendere nuova cacciagion si ritorna; e per avern’ella tuttavia due o tre presti, non si riman’ella perciò d’uccellare: e se io di questo mento, o dico il vero, tu ’l sai, che parendoti bene mille occhi avere, senza sapertene guardare, nelle panie incappasti. Giunta adunque nella chiesa, e non senza cautela avendo riguardato per tutto, prestamente avendo raccolto con gli occhi chiunque v’è, incomincia , senza ristar mai, a faticare una dolente filza di paternostri, or dall’una mano nell’altra, e dall’altra nell’una trasmutandoli, senza mai dirne uno, siccome colei la quale ha faccenda soperchia pur di far motto a questa e a quell’altra, e di sufolare ora ad una ora ad un’altra nell’orecchie, e così d’ascoltarne ora una ora un’altra: come che questo molto grave le paia, cioè d’ascoltarne niuna, si bene le par sapere dire a lei: e in questo, senza altro far mai, tutto quel tempo che nella chiesa dimora consuma. Forse direbbe alcuno: quello che nella chiesa non si fa ella il supplisce nella sua casetta; la qual cosa non è punto vera: perciocchè chi si potesse di ciò essere ingannato, altramenti credendo che ’l fatto sta, io, siccome colui che s’ella alcuno ben facesse, o alcuna orazione o paternostro dicesse, il sentirei, non ne posso essere ingannato; perciocchè non altrimenti che la fresca acqua è sopra i caldi corpi soave, così a quelli la mia arsura sentirei rinfrescare. Ma che dico io? forse sono l’ingannato pure io: essa ne dice, forse ad altrui nome: già so io bene, che non è ancora lungo tempo passato, che del vostro mondo si partì uno che con tanta afflizione la trafisse, ch’ella stette de’ dì presso a otto ch’ella non volle bere uovo nè assaggiar pappardelle. Ma io così fidatamente ne favellava, perciocchè saper mi pareva, e so, che le sue orazioni e paternostri sono i romanzi franceschi e le canzoni latine; e quali ella legge di Lancelotto e di Ginevra e di Tristano e d’Isotta, e le loro prodezze e i loro amori, e le giostre e i torniamenti e le semblee. Ella tutta si stritola quando legge, Lancelotto o Tristano o alcuno altro con le loro donne nelle camere segretamente e soli raunarsi, siccome colei alla quale par vedere ciò che fanno, e che volentieri, come di loro immagina, così farebbe, avvegnachè ella faccia sì che di ciò corta voglia sostiene. Legge la canzone dello indovinello e quella di Florio e di Biancifiore e simili cose assai: e se ella forse a così fatta lezione non intende, a guisa d’una fanciulletta lasciva con certi animaletti che in casa tiene si trastulla, infino all’ora che venga più desiderato trastullo e che con lei si congiunga. E acciocchè tu alcuna cosa più che non sai sappi della sua vita presente, t’affermo io, che dopo la morte mia, oltre agli altri suoi divoti, ha ella per amante il secondo Ansalone, di cui poco avanti alcuna cosa ti dissi, assai malconveniente a’ suoi piaceri: il quale, come che per più legittime cagioni si dovesse da così fatta impresa ritrarre, mal conoscente di ciò che Dio gli ha fatto, pur vi s’è messo; ma non sarà senza vendetta l’offesa: perciocchè se nel mondo nel quale io dimoro non si mente, che nol credo, nè non mi pare, egli ha della moglie un tal figliuolo, e per suo il nutrica e allieva, che gli appartien meno che non fe’ Giuseppe a Cristo: il quale, cresciuto, ogni mia ingiuria, se ingiuria dir debbo, vendicherà contra di lui: nè è però esente, come egli si crede, dal volgar proverbio, il quale voi usate, dicendo: quale asino dà in parete, tale riceve: se egli gli altrui beni lavora, e’ viene d’altra parte chi lavora i suoi. A così buona vita adunque e così santa s’è ritrovata vicina de’ frati colei, che non mia donna, ma mio tormento fu mentre vissi. Colei così onesta, così laudevole, quale udisti, fu, prima che morte mi separasse da lei, e nella virtù e ne’ costumi si dilettò ed esercitò ch’io ti dissi: senza ch’ella è tale, qual io brievemente te la disegno; perchè veder puoi di cui il tuo poco senno il tuo poco conoscimento la tua poca discrezione abbagliato t’avea, e per cui messa l’anima tua la tua libertà o il tuo cuore nelle catene d’amore e in afflizione incomportabile, e qui ultimamente in questa valle diserta condotto, di che omai saziare non mi potrei di riprenderti. Ma da venire è all’ultima parte della nostra promessa, acciocchè più della tua impresa attristandoti, meriti più tosto il perdono e la tua salute. Tu, misero, te schernito reputi da costei: e a negare che tu schernito non fossi, nè io il farei, nè tu, perch’io il facessi, il crederesti: ma non era da così gravemente prenderlo come facesti, se così chi il faceva conosciuto avessi, come ora conoscer dei; e acciocchè tu conosca, lei in questa cosa non avere altrimenti operato che fare si soglia nell’altre, e che tu del tutto fuori della tua mente la cacci, mi piace di dirti come e quello che io della tua lettera sentii. Egli è vero che di qua spesso gente ne vien di là, la quale in parte quello che ci si fa racconta, ma nondimeno per alcuni accidenti n’è conceduto da Dio il venire di qua alcuna volta, e massimamente o per rammentare noi medesimi a coloro a’ quali dee di noi calere, o per simile caso come è questo per lo quale io sono a te venuto; e avvenne, che io quella notte ci venni, la quale seguente al dì che tu la prima lettera scrivesti a questa tua donna, avendo visitati più luoghi, tirato da una cotale caritatevole affezione, la quale non solamente gli amici ma ancora i nimici ci fa amare, colà entrai ove colei abita che ti prese; e ogni parte della casa cercando, e per tutto riguardando, avvenne che io della lettera, di che tu ti rammarichi, sentii novelle. Egli era già una pezza della notte passata, quando, entrato in quella camera nella quale ella dorme, e quella come l’altra casa riguardata tutta, essendo già per partirmi, vidi in essa una lampana accesa davanti alla figura di nostra donna, poco da lei, che la vi tiene, faticata; e verso il letto mirando dov’ella giaceva, non già sola, come io sperava, la vidi, ma in grandissima festa con quello amante di cui poco avanti dissi alcuna cosa: perchè ancora arrestato, volli vedere che volesse la loro festa significare; nè guari stetti, che alla richiesta di colui con cui era levatasi e acceso un torchietto, e quella lettera che tu mandata avevi tratta d’un forzierino, col lume in mano e con la lettera al letto si ritornò. Quivi il lume l’uno tenendo e l’altro la lettera leggendo, e a parte a parte guardandola, ti sentii nominare e con maravigliose risa schernire, e te or gocciolone, or mellone, ora ser mestola e talora cenato chiamando, sè quasi ad ogni parola abbracciavano e baciavano, e parole tra i baci mescolando, si dimandavano insieme, se tu, quando quella cosa scrivevi, eri desto, o se sognavi; e talvolta dicevano, parti che costui abbia l’arco lungo? Vedesti mai così nuovo granchio? Per certo questi l’ha cavalcata: egli è di vero uscito del sentimento e vuole esser tenuto savio: domine dagli il malanno: torni a sarchiare le cipolle e lasci stare le gentildonne. Che dirai? arestil mai creduto! Deh quante bastonate gli si vorrebbono far dare: anzi li si vorrebbe dare d’un ventre pecorino per le gote tanto, quanto il ventre o le gote bastassero. Ahi cattivello a te! Come t’erano quivi con le parole graffiati gli usatti, e come v’eri per meno che l’acqua versata dopo le tre! Le tue Muse da te amate e commendate tanto quivi erano chiamate pazzie, e ogni tua cosa matta e bestiale era tenuta, e oltre a questo v’era assai peggio che per te; Aristotile, Tullio, Virgilio e Tito Livio e molti altri uomini illustri (per quel ch’io creda, tuoi amici e domestici) erano, come fango, da loro e scherniti e annullati, e, peggio che montoni maremmani sprezzati e avviliti: e in contrario sè medesimo esaltando, con parole da fare per stomacaggine le pietre saltare del muro e fuggirsi, soli sè esser dicevano l’onore e la gloria di questo mondo; di che io assai chiaramente m’avvidi, che ’l cibo e ’l vino disordinatamente presi da loro, o il desiderio di compiacere l’uno all’altro, schernendoti, di sè medesimi, ne’ quali forse non furono giammai, gli avea tratti. Con queste parole e con simili e con molte altre schernevoli lunga pezza della notte passarono, e per aver più cagione di farti dire e scrivere, ed essi di poter di te ridere e schernirti, quivi tra loro ordinarono la risposta che ricevesti, alla quale tu, rispondendo, desti loro materia di ridere e di dire altrettanto o peggio della seconda, quanto della prima t’avessono detto: e se non fosse che ’l drudo novello temeo non il troppo scrivere si potesse convertire in altroFonte/commento: ed. 1723, forse della vanità di lei e della leggerezzaFonte/commento: ed. 1723 sospicando, non dubitar punto che tu non avessi avuta la seconda lettera e poi la terza, e forse saresti aggiunto alla quarta e alla quinta. Così adunque desti da ridere alla tua savia donna e valorosa, e al suo dissensato amante; e dove amore e grazia acquistare ti credevi, beffe e strazio di te acquistavi. La qual cosa veggendo e udendo io, non già per amor di te, che ancora assai bene non ti conosceva, ma perchè cosa così abominevole sostener non potea, assai mal contento, non per me, ma per lei, mi partii pieno di sdegno e di gravosa noia. Questo, secondo che le tue parole suonano, non sapesti tu da singular persona che ciò ti narrasse, ma da congetture prese da parole, da forse non troppa savia e nociva persona udite: eppure di quel poco che comprendesti in disperazione ne volevi venire. Or che avresti detto, quando la mente tua era ancora inferma del tutto, se così ordinatamente avessi la cosa udita? Sono certo, senza più pensarvi, ti saresti per la gola impiccato: ma vorrebbe il capestro essere stato forte sì che ben sostenuto t’avesse, acciocchè rottosi, tu non fossi caduto e scampato, siccome colui che quello e peggio molto bene meritato avevi. Ma se cotale avessi la mente avuta e l’intelletto sano come dovevi, avendo riguardo a quello ch’io detto t’ho, non miga per a quello che tu per li tuoi studii potevi sapere, ma a quello che per quelli ti sarebbe stato mostrato avendo voluto riguardare, riso te ne avresti, veggendo lei dalla general natura dell’altre femmine non deviare: il che forse testè teco medesimo il fai, e fai saviamente, se ’l fai. E quello che di questa parte ho detto, quello medesimo dico della seconda. Che se tu teco medesimo riguardare avessi voluto quanta sia la vanità delle femmine, di quello ti saresti ricordato che già molte volte hai detto, cioè che, gloriandosi elle sommamente d’esser tenute belle, e, per essere facciano ogni cosa, e tanto più loro esser paia quanto più si veggiono riguardare, più fede al numero de’ vagheggiatori dando che al loro medesimo specchio, compreso avresti, a lei non esser discaro, ma carissimo il tuo riguardare. E perciocchè esse di niuna cosa che a loro pompa appartenga contente sono se nascosa dimora, volonterosa che all’altre femmine apparisca, te a dito mostrava, per dare a vedere a quelle alle quali ti dimostrava sè ancora essere da tener bella e d’aver cara, poichè ancora trovava amadore, e massimamente te, che se’ da tutti un gran conoscitor di forme di femmine reputato; perchè lei mostrarti avresti veduto in onor di te, non in biasimo essere stato fatto da lei. Ben potrebbe alcun altro dire il contrario, cioè che ella per mostrarsi molto a Dio ritornata, e aver del tutto la vita biasimevole che piacer le soleva abbandonata, te a dito avesse mostrato, dicendo: vedete il nimico di Dio quanto s’oppone alla mia salute: vedete cui egli m’ha ora parato dinanzi per farmi tornare a quello di che io del tutto intendeva e intendo di più non seguire: o forse con quelle medesime parole con le quali avea al suo amante le tue lettere mostrate. E altri direbbono che nè l’uno nè l’altro; nè per l’una ragione nè per l’altra fatto l’avesse, ma solamente per voglia di berlingare e di cinguettare, di che ella è vaghissima, sì ben dire le pare, essendole venuta meno materia di dover dire di sè alcuna gran bugia, per avere onde dirla, te dimostrava. Ma qual che la cagion si fosse, ricorrer dovevi prestamente a quella infallibile verità, cioè niuna femmina esser savia, e perciò non poter saviamente adoperare; e se riprensione in ciò cadeva, sopra te doveva degnamente cadere, siccome colui che credevi, avendola alcuna volta guardata, o portandole alcuno amore, quello aver fatto di lei in sua vecchiezza, che nè la natura nè forse i gastigamenti aveano potuto nella sua giovanezza fare, cioè che ella savia fosse, o alcuna cosa saviamente operasse. Tu adunque non considerando nè a te nè a lei quello che dovevi, se cruccio grave n’avesti cagione te ne fosti. Ma lasciamo stare l’essere le femmine così fiere così vili così orribili così dispettose, come ricordato t’hanno le mie parole, e l’avere la tua lettera così fieramente palesata, e te per qualunque delle dette cagioni, o per qualunque altra voglia, avere a dito dimostrato alle femmine, e vegnamo al focoso amore che portavi a costei, e ragioniamo della tua demenzia in quello. Io voglio presupporre, che vero fosse ciò che l’amico tuo del valore di costei ti ragionò; il che se così credesti che fosse, mai non mi farai credere che in lei libidinoso amore avessi posto, siccome colui che avresti conosciuto quelle virtù essere contrarie a quello tuo vizioso desiderio; e per conseguente, essendo esse in lei, mai non dover venire fatto in quello atto cosa che tu avessi voluta: sicchè non quelle ad amarla ti tirarono, ma la sua forma per certo; e alcuna cosa veduta di lei ti mise in isperanza il tuo disonesto volere poter recare a fine. Ma furonti sì gli occhi corporali nella testa travolti, che tu non vedesti lei esser vecchia, e già stomachevole e noiosa a riguardare? e oltre a ciò, qual cechità d’animo sì quelli della mente t’avea adombrati, che, cessando la speranza del tuo folle desiderio in costei, con acerbo dolore ti facessono la morte desiderare? Qual miseria? qual tiepidezza? qual trascuraggine te a te così avea della memoria tratto, che, venendoti meno costei, tu estimassi che tutto l’altro mondo ti dovesse esser venuto meno, e per questo voler morire? Part’egli così essere da nulla? se’ tu così pusillanimo, così scaduto, così nelle fitte rimaso, così scoppiato di cerro o di grotta? o se’ così da ogni uomo del mondo discacciato, che tu costei per unico rifugio e per tuo singular bene eletta avessi, che se ti mancasse tu dovessi desiderar di morire? Qual piacere quale onore quale utile mai avesti da lei, o ti fu promesso (se non dalla tua sciocca e bestiale speranza) il quale poi ti fosse tolto da lei? E la tua speranza che cosa ti poteva da lei giustamente promettere? certo niuna, se non di metterti nelle braccia quelle membra cascanti e vizze e fetide, delle quali senza fallo, se saputo avessi il mercato il quale n’ha fatto e fa, come ora sai, sarebbe stato il desiderio minore. Forse speravi, potendole nelle braccia venire, e avendo di quella prodezza della quale ella cotanto si diletta, così essere salariato, come fu già il cavaliere di cui di sopra parlai? Tu eri ingannato, perciocchè quando quello era, ella spendeva de’ miei: oggi dei suoi parendolo spendere, uon dubito punto che tu non le trovassi troppo più stretta la mano che tu non t’avvisi. Egli è andata via quella magnificenzia, della quale forse tanto l’amico tuo la commendava. E se questo non isperavi, in quale altra cosa ti poteva ella molto valere? Potevati costei degli anni tuoi scemare? sì forse di quelli che sono a venire; perciocchè già ad altrui ne scemò: ma io non credo che tu questo avessi voluto; e giugnere non te ne poteva, perciocchè solamente a Dio s’appartien questo. Potevati costei delle cose assai, che tu non sai, insegnare? sì forse delle malvage, perciocchè già ad altrui ne insegnò: ma io non credo che tu quelle vadi cercando: dell’altre mostrare non ti potea, perciocchè niuna buona ne sa. Potevati costei, morendo tu, o vivendo, beatificare? sì forse, se quella è beatitudine, che essa col suo amante, te schernendo, diterminava; perciocchè già così n’ha assai beatificati: ma io non credo, poichè alquanto la luce t’è tornata dello intelletto, che tu quella beatitudine estimi, ma tormento: della vera nè hanne nè avrà mai, siccome colei che ad eterno supplicio, per li carnali diletti, già sè medesima ha condannata. Che dunque ti poteva costei fare? certo io nol conosco, nè credo ancora che tu il conoscessi, o potessi conoscere. Forse t’avrebbe potuto far de’ priori, che oggi cotanto da’ tuoi cittadini si desidera? ma io non so vedere il come, rammentandomi, che nel vostro campidolio non è da’ vostri senatori orecchia porte a’ rapaci lupi dell’alto legnaggio e del nobile, del quale ella è discesa. Ma ben potrestù dire, si potrebbe, se così fosse a grado a tutti coloro che hanno a far lo squittino, come ella fu a te, e avesselo voluto fare: ma questo mi pare che sarebbe impossibile: che appena che io creda, che, non che tanti, ma un altro se ne trovasse, che così ne potesse divenire abbagliato come tu divenisti. Deh misera la vita tua! Quanti sono i signori, li quali, se io per li loro titoli te li nominassi, in tuo danno te ne vanaglorieresti, dove in tuo pro non te ne se’ voluto rammemorare? Quanti i nobili e grandissimi uomini, alli quali, volendo tu, saresti carissimo, e per soperchio e poco laudevole sdegno, il quale è in te, a niuno t’accosti? e se pure ad alcuno, poco con lui puoi sostenere, se esso a fare a te quello che tu ad esso dovresti fare non si declina, cioè seguire i tuoi costumi, ed esserti arrendevole; ove tu con ogni sollecitudine dovresti i suoi seguire e andarli alla seconda: e a costei andando quanto tu più umilmente potevi, non parendoti così bene esser ricevuto come desideravi, non ti partivi come fatto avresti e faresti da quelli che esaltar ti possono, dove costei sempre ti deprimerebbe, ma chiamavi la morte che t’uccidesse: la qual più tosto chiamar dovevi, avendo riguardo a quello a che l’anima tua s’era dechinata: e a che utilità? e a cui sottomessa? ad una vecchia rantolosa vizza malsana, pasto omai da cani più che da uomini; più da guardare la cenere del focolare omai, che da apparire tra genti perchè guardata sia. Deh lasciamo stare quello che tu, per tuo studio, di grazia da Dio hai acquistato, e vegnamo a quello solo che dalla natura t’è stato conceduto; e questo veduto, se così se’ sdegnoso come ti mostri nell’altre cose, non d’essere stato schernito, come forse ti fai, tu ti piagnerai e lamentera’ ti, ma d’averti, a modo che un nibbio, lasciato adescare o pigliare alle busecchie. Hatti la natura tanta grazia fatta, che tu se’ uomo: dove colei è femmina, per cui sì miseramente piangevi. E quanto uomo più degna cosa sia che femmina, in parte l’hanno davanti le nostro parole dimostrato. Appresso, s’ella è di persona grande, e ne’ suoi membri bene proporzionata, e nel viso forse al tuo parere bella; e tu non se’ piccolo, e per tutto se’ così ben composto come sia ella. Nè difettuoso ti veggio in parte alcuna, nè ha il tuo viso tra gli uomini men di bellezza che abbia il suo tra le femmine, con tutto ch’ella studi il suo con mille lavature e con altrettanti unguenti, dove ora il tuo rade volte, o non mai, pur con l’acqua chiara ti lavi: anzi ti dirò più, ch’egli è molto più bello, quantunque tu poco te ne curi, e fai bene: perciocchè tale sollecitudine sommamente agli uomini si disdice. Una grazia l’ha fatta per insino a qui la sua natura più che a te, che, se non mi inganna il mio giudicio, quantunque tu abbi la barba molto fiorita, e di nere, candide sieno divenute le tempie tue; ed ella pur nel mondo stata molti più anni che tu non se’, quantunque forse non gli abbia cosi bene adoperati, non le ha mutate; perchè ragguagliando molto la prima cosa, nella quale tu se’ meglio di lei, con questa ultima, nella quale pare che essa sia meglio di te, essendo quella di mezzo del pari, dico, che così tosto dovrebbe ella essersi fatta incontro a te ad amarti, come tu ti facesti incontro a lei. S’ella nol fece, vuo’ tu perciò per la sua sconvenevolezza consumarti? Ella a buona ragione lui più da rammaricarsi che non hai tu, perciocchè della sua sconvenevolezza ella perde, dove tu ne guadagni, se ben porrai mente a ogni cosa. Ma tu rificchi pur gli occhi della mente a una cosa, della qual ti pare avere molto disavvantaggio da lei, e di che io niuna menzion feci, quando l’altre andai ragguagliando; e avvisi che quella sia la cagione per la quale tu schifato sii, cioè che a te pare, che ella gentildonna sia, dove a te non pare essere così; il che presumendo che così fosse, non perciò saresti lasciato, se guardi a chi è il secondo Ansalone, che è cotanto nella sua grazia, e se appieno di tutti gli altri guardando verrai. Ma in ciò mi pare che tu erri, e gravemente: primieramente in ciò che tu, lasciando il vero, seguiti l’opinione del popolazzo, il quale sempre più alle cose apparenti che alla verità di quelle dirizzano gli occhi. Ma non sai tu qual sia la vera gentilezza e quale la falsa? Non sai tu che cosa sia quella che faccia l’uomo gentile, e quale sia quella che gentile esser nol faccia? Certo sì ch’io so che tu ’l sai: nè niuno è si giovinetto nelle filosofiche scuole che non sappia, noi da un medesimo padre e da una madre tutti avere i corpi e l’anime tutte eguali, e da un medesimo creatore: nè niuna cosa fa l’uomo gentile, e l’altro villano, se non che avendo ciascuno parimente il libero arbitrio a quello operare che più gli piacesse, colui che la virtù seguitò fu detto gentile, e gli altri per contrario, seguendo i vizi, furono non gentili reputati: dunque da virtù venne prima gentilezza nel mondo. Vieni ora tu tra i suoi moderni, e ancora tra i suoi passati cercando, e vedrai quante di quelle cose, e in quanti tu ne troverai che facciano gli uomini gentili. L’avere avuto forze, che in loro vennono da principio da feconda prole, che è natural dono e non virtù; e con quelle aver rubato e usurpato e occupato quello de’ loro vicini meno possenti, che è vizio spiacevole a Dio e al mondo, gli fece già ricchi; e dalle ricchezze insuperbiti, ardirono di far quello che già soleano i nobili fare, cioè di prender cavalleria: nel quale atto ad un’ora sè medesimi e i vaii e gli altri militori ornamenti vituperarono. Qual gloriosa cosa, qual degna di fama, quale autorevole udistù mai dire che per la repubblica, oppure per la privata, alcuno di loro adoperasse giammai? certo non niuna: fu adunque il principio della gentilezza di costoro forza e rapina e superbia, assai buone radici di così laudevole pianta. Di quegli che ora vivono è la vita tale, che l’esser morto è molto meglio: ma pure se stato ve ne fosse alcun valoroso, che fa quello a costei? così bene te ne puoi gloriar tu come ella, e qualunque altro si fosse. La gentilezza non si può lasciare per eredità, se non come la virtù le scenzie la santità e così fatte cose; ciascun conviene che la si procacci e acquistila chi aver la vuole. Ma che che stato si sia negli altri, dirizza un poco gli occhi in colei di cui parliamo, che così gentil cosa ti pare, o chi ella sia al presente, o nel preterito stata sia, riguarda. S’io non errai vivendo seco, e se bene quello che di lei poco innanzi ragionai raccogliesti, ella ha tanto di vizio in sè, che ella ne brutterebbe la corona imperiale. Che gentilezza ti può dunque da lei esser gittata al volto, o rimproverata non gentilezza? In verità, se non che parrebbe che io lusingarti volessi, assai leggiermente e con ragioni vere ti mostrerei, te molto essere più gentile che ella non è, quantunque degli scudi de’ tuoi passati non si veggano per le chiese appiccati: ma così ti vo’ dire, che se punto di gentilezza nell’animo hai, o quella avessi che già ebbe il legnaggio del re Bando di Bervich, tutta l’avresti bruttata e guasta costei amando. Ora io potrei, oltre a quello che ho detto, ad assai più altre cose procedere, e con più lungo sermone e con parole più aspre, contro alla ignominia della malvagia femmina che ti prese e contro alla tua follia e alla colpa da te commessa; ma volendo che quelle che dette sono bastino, quelle che tu vogli dire aspetterò.
Io aveva colla fronte bassa, siccome coloro che il loro fallo riconoscono, ascoltato il lungo e vero parlar dello spirito; e sentendo lui a quello aver fatto fine e tacere, lagrimando alquanto, il viso alzava, e dissi: ottimamente, benedetto spirito, dimostrato m’hai quello che alla mia età e a’ miei studii si convenia; e in spezialtà la viltà di costei, la quale il mio falso giudicio, per donna della mia mente, nobilissima cosa estimandola, eletta avea; e i suoi costumi e i suoi difetti e le maravigliose virtù sue, con molte altre cose, e con parlare ancora assai più dolce che ’l mio peccato non meritava, me riprendendo, m’hai dimostrato quanto gli uomini naturalmente di nobiltà le femmine eccedono, e chi io in particulare sia. Le quali cose ciascuna per sè e tutte insieme hanno sì in diritto rivolta la mia essenzia, e il mio animo permutato, che, senza niuno dubbio, di ciò che mi pareva davanti, ora mi pare il contrario: in tanto che, quantunque piissima sia colei li cui prieghi la tua venuta a me impetrarono, appena che io possa sperar giammai perdono o salute, quantunque ella la mi prometta, sì mi par grave e spiacevole il mio peccato: e perciò temo, che dove per la mia utilità venisti, quella in grandissimo danno non si converta, in quanto prima noiosa m’era la stanza, e gravi le catene che mi teneano; ma pure, non conoscendo il pericolo nel quale io era, nè ancora la mia viltà, quello con meno affanno portava che omai non potrò portare. Le mie lagrime multiplicheranno ogn’una in mille, e la paura diverrà in tanto maggiore che mi ucciderà, sì che, se male mi parea davanti stare, ora mi parrà star pessimamente. Lo spirito allora, nell’aspetto tutto pieno di compassione, riguardandomi, disse: non dubitare, sta’ sicuramente, e nel buono volere, nel quale al presente se’, sì persevera. La divina bontà è sì fatta e tale, che ogni gravissimo peccato, quantunque da perfida iniquità di cuore proceda, solo che buona e vera contrizione abbia il peccatore, tutto il toglie via e lava della mente del commettitore, e perdona liberalmente. Tu hai naturalmente peccato, e per ignoranza, che nel divino aspetto ha molto meno d’offesa che chi maliziosamente pecca: e ricordar ti dei quanti e quali e come enormi mali per malizia operati, egli abbia con l’onde del fonte della sua vera pietà lavati, e oltre a ciò beatificati coloro, che già, come nimici e rubelli del suo imperio, peccarono, perciocchè buona contrizione e ottima satisfazione fu in loro. E io, se non m’inganno, anzi se le tue lagrime non m’ingannano, te sì compunto veggio, che già perdono della offesa hai meritato; e certissimo sono, che desideroso se’ di satisfare in quello che per te si potrà dell’offesa commessa: alla qual cosa io ti conforto quanto più posso, acciocchè in quel baratro non cadessi donde niuno può poi rilevarsi. Al quale io allora dissi: Dio, che solo i cuori degli uomini vede e conosce, sa se io dolente sono e pentuto del male commesso, e se io così col cuore piango come con gli occhi: ma che per contrizione e per satisfazione tu in isperanza di salute mi metti, avendo io già l’una, carissimo mi sarebbe d’essere da te ammaestrato di ciò che a me s’appartenesse di fornir l’altra. Al quale esso rispose: a volere de’ falli commessi satisfare interamente, si conviene a quello che fatto hai operare il contrario; ma questo si vuole intendere sanamente. Ciò che tu hai amato, ti conviene avere in odio, e ciò che tu per l’altrui amore t’eri a voler fare disposto, a fare il contrario, sì che tu odio acquisti, ti conviene disporre: e odi come, acciocchè tu stesso, male intendendo le parole da me ben dette, non t’ingannassi. Tu hai amata costei perchè bella ti pareva, perchè dilettevole nelle cose libidinose l’aspettavi. Voglio che tu abbi in odio la sua bellezza in quanto di peccare ti fu cagione, o essere ti potesse nel futuro: voglio che tu abbi in odio ogni cosa che in lei in così fatto atto dilettevole la stimassi: la salute dell’anima sua voglio che tu ami e disideri; e dove per piacere agli occhi tuoi andavi desiderosamente dove veder la credevi, che tu similmente questo abbi in odio, e fugghitene: voglio che dell’offesa fattati da lei tu prenda vendetta, la quale ad una ora a te e a lei sarà salutifera. Se io ho il vero già molte volte inteso, ciascuno che in quello s’è dilettato di studiare, o si diletta, che tu sai ottimamente, eziandio mentendo, sa cui li piace tanto famoso e sì glorioso render negli orecchi degli uomini che, chiunque di quel cotale niuna cosa ascolta, lui e per virtù e per meriti sopra i cieli estimano tener la pianta de’ piedi: e così in contrario, quantunque virtuoso quantunque valoroso quantunque di bene sia uno che nella vostra ira caggia, con parole, che degne paiono di fede, nel profondo di ninferno il tuffate e nascondete: e perciò questa ingannatrice, come a glorificarla eri disposto, così ad avvilirla e a parvificarla ti disponi: il che agevolmente ti verrà fatto, perciocchè dirai il vero. E in quanto puoi fa’ che a lei nel tuo parlare lei medesima mostri, e similemente te la mostri ad altrui: perciocchè, dove l’averla glorificata tu avresti mentito per la gola, e fatto contro a quello che si dee, e tesi lacciuoli alle menti di molti, che come tu fosti sono creduli, e lei avresti in tanta superbia levata che le piante de’ piedi non le si sarebbono potute toccare; così, questo facendo, dirai il vero, e sgannerai altrui, e lei raumilierai: che forse ancora di salute le potrebbe esser cagione. Fa’ dunque, incomincia come più tosto puoi, e fa’ sì, che sì paia; e questa satisfazione, quanto a questo peccato, tanto ti sia assai. Al quale io allora risposi: per certo, che se tanto mi vorrà bene Iddio che di questo laberinto mi vegga fuori, secondo che ragioni, di satisfare m’ingegnerò; e niuno conforto più, niun sospignimento mi bisognerà a far chiaro l’animo mio di tanta offesa. E mentre nelle parole artificialmente dette sarà alcuna forza o virtù, a niuno mio successore lascerò a far delle ingiurie ricevute da me vendetta, solo che tanto tempo mi sia prestato ch’io possa o concordar le rime o distender le prose. La vendetta daddovero, la quale i più degli uomini giudicherebbono che fosse da far con ferri, questa lascerò io a fare al mio signore Dio, il quale mai niuna mal fatta cosa lasciò impunita. E nel vero, se tempo da troppo affrettata morte non m’è tolto, io la farò con tanto cruccio di lei, e con tanto vituperio della sua viltà ricredente della sua bestialità, mostrandole che tutti gli uomini non sono da dovere essere scherniti ad un modo, che ella vorrebbe così bene essere digiuna d’avermi mai veduto, come io abbia desiderato o disidero d’esser digiuno d’avere veduta lei. Ora io non so, se animo non si muta, la nostra città avrà un buon tempo poco che cantare altro che delle sue miserie o cattività, senza che io m’ingegnerò con più perpetuo verso testimonianza delle sue malvage e disoneste opere lasciare a’ futuri. E questo detto mi tacqui; ed esso altresì si taceva: perchè io ricominciai. Mentre quello a venire pena che tu aspetti, ti priego a un mio desiderio soddisfacci. Io non mi ricordo, che mai, mentre nel mortal mondo dimorasti, teco nè parentado nè dimestichezza nè amistà alcuna io avessi giammai, e parmi esser certo, che nella regione nella quale dimori, molti sieno che amici e parenti e miei dimestichi furono mentre vissero; perchè, se di quindi alla mia salute alcuno dovea venire, perchè più tosto a te che ad alcuno di quelli fu questa fatica imposta? Alla qual domanda lo spirito rispose: nel mondo dov’io sono nè amico nè parente nè dimestichezza vi si guarda in alcuno: ciascheduno, purchè per lui alcuno bene operar si possa, è prontissimo a farlo, e senza niuno dubbio. È il vero, che a questo servigio e ad ogni altro molti, anzi tutti quanti che di là ne sono, sarebbono stati più di me sufficienti; e sì parimente tutti di carità ardiamo, che ciascuno a ciò sarebbe stato prontissimo e volonteroso: ma pertanto a me toccò la volta, perchè la cosa dir che io ti dovea venire per la tua salute a riprendere in parte a me apparteneva, come di cosa stata mia: e assai manifestamente appariva, che di quella tu ti dovevi più da me vergognare che da alcun altro, siccome di colui al qual pareva che nelle sue cose alcuna ingiuria avessi fatta, meno che onestamente desiderandole: appresso a questo ciascun altro si sarebbe più vergognato di me di dirti quello delle mie cose che era da dirne che non sono io; nè era da tanta fede prestarli intorno a ciò quanta a me; senza che alcuno non avrebbe sì pienamente saputane ogni cosa raccontare siccome io, quantunque io n’abbia lasciate molte; e questa credo che fosse la cagione che me innanzi ad ogni altro eleggere facesse a dover venire a medicarti di quel male, al quale radissime medicine trovar si sogliono. A cui io allora dissi: qual che la cagione si fosse, quel credo che a te piace ch’io ne creda, e per questo sempre mi ti conosco obbligato: perchè io ti priego per quella pace che per te ardendo s’aspetta, con ciò sie cosa ch’io sia volonteroso di mostrarmi di tanto e di tal beneficio verso te grato, che se per me operare alcuna cosa si puote, che giovamento e alleviamento debba essere della pena la qual tu sofferi, che tu avanti che io da te mi parta la m’imponghi; sicuro, che quanto il mio potere si stenderà, senza fallo sarà fornita. A cui lo spirito disse: la malvagia femmina, che mia moglie fu, è tutta ad altra sollecitudine data, come puoi avere udito, che a ricordarsi di me: e a’ miei figliuoli ancora nol concede l’età, che piccoletti sono: parenti o altri non ho che di me mettano cura: non mettessono essi più in occupar quello de’ pupilli da me lasciati: e perciò alla tua liberal profferta imporrò che ti piaccia, quando di questo viluppo sarai fuori dislacciato, che con l’aiuto di Dio sarà tosto, che tu, a consolazione di me e ad alleggiamento della mia pena, alcuna elemosina facci, e facci dire alcuna messa nella quale per me si prieghi, e questo mi basterà. Ma s’io non erro, l’ora della tua diliberazione s’avvicina; e perciò dirizza gli occhi verso oriente, e riguarda alla nuova luce che par levarsi: la quale se ciò fosse che io avviso, qui non avrebbon luogo parole, anzi sarebbe da dipartirsi. Mentre lo spirito queste ultime parole dicea, a me, che ottimamente il suo desiderio ricolto avea, parve levar la testa verso levante, e parvemi veder surgere a poco a poco di sopra alle montagne un lume, non altrimenti che avanti la venuta del sole si lieva nell’oriente l’aurora: il quale, poichè in grandissima quantità il cielo ebbe imbiancato, subitamente divenne grandissimo, e senza più, verso di noi far sì che solamente coi raggi suoi, in quella guisa che noi talvolta veggiamo, tra due oscuri nuvoli trapassando il sole, in terra fare una lunga riga di luce, così, verso noi disceso, fece una via luminosa e chiara, non trapassante il luogo dove noi stavamo: la qual non prima sopra me venne, che io con molta maggiore amaritudine della mia coscienzia, che prima non avea fatto, il mio errore riconobbi: e poichè alquanto gustata l’ebbi, mi parve che non so che cosa grave e ponderosa molto d’addosso mi si levasse, e me, al quale prima immobile e impedito esser parea, senza saper di che, fe’ incontanente parere leggerissimo e spedito, e aver licenzia di potere andare. Per la qual cosa dir mi parve allo spirito: se tempo ti paresse d’andare, io te ne priego che di quinci ci dipartiamo, perciocchè a me son tornate le perdute forze e il buon volere, e parmi vedere la via espedita. A cui tutto lieto rispose lo spirito: ciò mi piace; muoviti, e andiamo tosto: ma guarda del sentiero luminoso che davanti ti vedi, e per lo quale io anderò, tu non uscissi punto, perciocchè se i bronchi de’ quali vedi il luogo pieno ti pigliassero, nuova fatica ti bisognerebbe a trartene, oltre a questa alla quale io venni. Sallo Iddio, se l’aiuto che hai avuto al presente impetreresti o nò. Al quale mi parea tutto lieto rispondere: andianne pur tosto per Dio, e questa cautela sicuramente al mio avvedimento commetti, che per certo se cento milia prieghi mi si facessono incontro in luogo delle beffe già ricevute, non mi potrebbono più nelle catene rimettere, delle quali la misericordia di colei, alla qual sempre mi conobbi obbligato, e ora più che mai, e la tua buona dottrina e liberalità appresso mi traggono. Mossesi adunque lo spirito: e per lo luminoso sentiero andando, verso le montagne altissime dirizzò i passi suoi: su per una delle quali sì alta, che parea che il cielo toccasse, messosi, me non senza grandissima fatica, sempre cose piacevoli ragionando, si trasse dietro; sopra le sommità delle quali poichè pervenuti fummo, quivi il cielo aperto e luminoso veder mi parve, e sentire l’aere dolce e soave e lieto, e veder le piante verdi, e i fiori per le campagne; le quali cose tutto il petto della passata noia afflitto riconfortarono, e ritornarono nella prima allegrezzaFonte/commento: ed. 1723. Laonde, siccome allo spirito piacque, io mi volsi indietro a riguardare il luogo donde tratto mi avea, e parvemi non valle, ma un cosa profonda infino in inferno, oscura e piena di notte con dolorosi rammarichii. E avendomi detto, me esser libero, e poter di me fare a mio senno, tanto fu la letizia ch’io sentii, che vogliendomeli a’ piedi gittare e grazie renderli di tanto e tal beneficio, esso e ’l mio sonno ad una ora si partiro.
Risvegliato adunque e tutto di sudor bagnato trovandomi, non altramenti che sieno gli uomini faticati, o che se col vero corpo la montagna salita avessi che nel sogno mi parve salire, maravigliatomi forte, sopra le vedute cose cominciai a pensare; e mentre meco ad una ad una ripetendo l’andava, ed esaminando se possibile fosse così essere il vero, come mi pareva avere udito, assai ne credetti verissime, come che poi quelle, che per me allora conoscere non potei, da altrui poi informatomene, essere non meno vere che l’altre trovai. Per la qual cosa non altramenti che spirato da Dio, a dovere con effetto della misera valle uscire mi disposi: e veggendo già il sole esser levato sopra la terra, levatomi, agli amici, co’ quali nelle mie afflizioni consolar mi solea, andatomene, ogni cosa veduta e udita per ordine raccontai: li quali ottimamente esponendomi ogni particella del sogno, nella mia disposizione medesima tutti concorrere gli trovai: perchè sì per li loro conforti, e sì per lo conoscimento che in parte m’era tornato migliore, al tutto, al dipartir dal nefario amore della scellerata femmina, mi disposi. Alla quale disposizione fu la divina grazia sì favorevole, che infra pochi dì la perduta libertà racquistai; e come io mi soleva così sono mio: grazie e lode n’abbia colui che fatto l’ha. E senza fallo, se tempo mi fia conceduto, io spero sì con parole gastigar colei, che, vilissima cosa essendo, altrui schernire co’ suoi amanti presume, che mai lettera non mostrerà che mandata le sia, che della mia e del mio nome con dolore e con vergogna non si ricordi: e voi vi rimanete con Dio.
Piccola mia operetta, venuto è il tuo fine, e da dare è omai riposo alla mano; e perciò ingegnera’ti d’essere utile a coloro, e massimamente a’ giovani, i quali con gli occhi chiusi, per li non sicuri luoghi, troppo di sè fidandosi, senza guida si mettono; e del beneficio da me ricevuto dalla genitrice della salute nostra sarai testimone. Ma sopra ogni cosa ti guarda di non venire alle mani delle malvage femmine, e massimamente di colei che ogni demonio di malvagità trapassa, e che della presente tua fatica è stata cagione; perciocchè tu saresti là mal ricevuta, ed ella è da pugnere con più acuto stimolo che tu non porti con teco: il quale, concedendolo colui che d’ogni grazia è donatore, tosto a pugnerla, non temendo, le si faccia incontro.
Fine