Elegia di madonna Fiammetta (Laterza, 1939)/Capitolo Quinto
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CAPITOLO V
Nel quale la Fiammetta dimostra come alli suoi orecchi pervenne Panfilo aver presa moglie, mostrando appresso quanto del suo non tornare disperata e dolorosa vivesse.
Lievi sono state infino a qui le mie lagrime, o pietose donne, e i miei sospiri piacevoli a rispetto di quelli, i quali la dolente penna, piú pigra a scrivere che il cuore a sentire, s’apparecchia di dimostrarvi. E certo, se bene si considera, le pene infitto a qui trapassate, piú di lasciva giovane che di tormentata quasi si possono dire; ma le seguenti vi parranno d’un’altra mano. Adunque, fermate gli animi, né vi spaventino le mie promesse, che, le cose passate parendovi gravi, voi non vogliate ancora vedere le seguenti gravissime; e in veritá io non vi conforto tanto a questo affanno, perché voi piú di me divegniate pietose, quanto perché piú la nequizia di colui per cui ciò m’avviene conoscendo, divegniate piú caute in non commettervi ad ogni giovane. E cosí forse ad un’ora a voi m’obbligherò ragionando, e disobbligherò consigliando, ovvero per le cose a me avvenute ammonendo e avvisando.
Dico adunque, donne, che con cosí varie immaginazioni, quali poco avanti avete potute comprendere nel mio dire, io stava continuo, quando di piú d’uno mese essendo il tempo trapassato promesso a me cosí dall’amato giovane un di novelle pervennero. Io andata a visitare con animo pio sacre religiose, e forse per fare per me porgere a Dio pietose orazioni, che o rendendomi Panfilo o cacciandolmi della mente mi ritornasse il perduto conforto, avvenne che, sedendo io con le giá dette donne, assai discrete e piacevoli nel loro ragionare, e a me molto per parentado e per antica amistá congiunte, quivi venne un mercatante, né altramente che Ulisse1 e Diomedes a Deidamia e alle suore, cominciò diverse gioie e belle, quali a cosí fatte donne si conveniano, a mostrare.
Egli, sí come io alla sua favella compresi, ed esso medesimo da una di quelle dimandatone confessò, era della terra di Panfilo mio. Ma poi che egli mostrate molte delle sue cose, e di quelle da esse alcune per lo convenuto pregio prese, e l’altre rendutegli, entrati in nuovi motti e lieti, e esse ed esso, mentre che egli il pagamento aspettava, una di loro d’etá giovane e di forma bellissima, e chiara di sangue e di costumi, quella medesima ch’avanti dimandato l’avea onde fosse, il dimandò se egli Panfilo suo compatriotta conosciuto avesse giammai. Oh, quanto cotale dimanda diè per lo mio disio!
Certo io ne fui contentissima, e gli orecchi alla risposta levai. Il mercatante senza indugio rispose:
— E chi è quegli che meglio di me il conosca? —
A cui segui la giovane quasi infignendosi di sapere che di lui fosse:
— E che è egli ora di lui? —
— Oh, — disse il mercatante — egli è assai che il padre, non essendogli rimaso altro figliuolo, il richiamò a casa sua. —
Il quale ancora la giovine dimandò:
— Quanto ha che tu di lui sapesti novelle? —
— Certo, — disse egli — non poi che da lui mi partii, che ancora non credo che siano quindici giorni compiuti. —
Continuò la donna:
— E allora che era di lui? —
Alla quale esso rispose:
— Molto bene; e dicovi che il di medesimo che io mi partii, vidi con grandissima festa entrare di nuovo in casa sua una bellissima giovane, la quale, secondo che io intesi, era a lui novellamente sposata. —
Io, mentre che il mercatante queste cose diceva, ancora che con amarissimo dolore l’ascoltassi, fiso nel viso la dimandante giovane riguardava, meravigliandomi quale cagione potesse essere che costei inducesse a dimandare cosí strette particolaritá di colui, cui io appena credeva che altra donna il conoscesse che io, e vidi che prima a’ suoi orecchi non venne Panfilo avere moglie sposata, che, gli occhi bassati, tutta nel viso si tinse, e la pronta parola le morí in bocca, e per quello che io presumessi, essa con fatica grandissima le lagrime giá agli occhi venute ritenne. Ma io prima, ciò udendo, da uno gravissimo dolore presa, subito, ciò vedendo, fui da un altro non minore assalita, e appena mi ritenni che io con gravissima villania la turbazione di colei non riprendessi, invidiosa che da lei sí aperti segnali d’amore verso Panfilo si mostrassero, dubitando, non meno che essa, cosí, come io, non avesse legittima cagione di dolersi delle udite parole. Ma pure mi tenni, e con noiosa fatica, alla quale non credo che simigliarne si truovi, il turbato cuore sotto non cambiato viso servai, di piangere piú disiosa che di piú ascoltare.
Ma la giovane, forse con quella medesima forza che io, ritenendo dentro il dolore, come se stata non fosse quella che s’era davanti turbata, fattasi far fede di quelle parole, quanto piú domandava piú trovava la cosa contraria al suo disio e al mio. Onde, dato al mercatante commiato che ’l domandava, e ricoperta con infinte risa la sua tristizia, con ragionamenti diversi insieme quivi per piú lungo spazio ch’io non averei voluto ci rimanemmo.
Venuti meno i nostri ragionamenti, ciascuna si diparti, e io con anima piena d’angosciosa ira, non altramente fremendo che il lione libico poscia che nelle sue insidie scuopre i cacciatori, ora nel viso accesa e ora pallida divenendo, quando con lento passo e quando con piú veloce che la donnesca onestá non richiede, tornai alla mia casa. E poi che licito mi fu di potere di me fare a mio senno, entrata nella mia camera, amaramente cominciai a piangere, e quando per lungo spazio le molte lagrime parte della gran doglia ebbero gata, essendomi alquanto piú libero il parlare, con voce assai debole incominciai:
«Ora, o misera Fiammetta, sai perché il tuo Panfilo non ritorna; ora sai la cagione della sua dimora tanto da te disiata; ora hai quello che tu andavi cercando di trovare. Che, misera, chiedi piú? che piú addimandi? Bastiti questo; Panfilo non è piú tuo. Gitta via ornai i disiderii di riaverlo, abbandona la mal ritenuta speranza, poni giú il fervente amore, lascia i pensieri matti; credi omai agli agurii e alla tua divinante anima, e comincia a conoscere gl’inganni de’ giovani. Tu se’ a quello punto venuta, lá dove l’altre sogliono venire che troppo si fidano».
E con queste parole mi raccesi nell’ira, e rinforzai il pianto; e da capo con parole troppo piú fiere ricominciai cosí a parlare:
«O iddii ove siete? Ove ora mirano gli occhi vostri? Ov’è ora la vostra ira? Perché sopra lo schernitore della vostra potenza non cade? O spergiurato Giove, che fanno le folgori tue? Ove ora le adoperi? Chi piú empiamente l’ha meritate? Come non scendono esse sopra il pessimo giovane, acciò che gli altri per innanzi di spergiurarti abbiano temenza? O luminoso Febo, dove sono ora le tue saette, male inerite di ferire il Fitone, a rispetto di colui che falsamente te a’ suoi inganni chiamò testimonio? Privalo della luce de’raggi tuoi, e non meno gli torna nemico che tu fosti al misero Edippo2. O voi altri qualunque dii e dèe, e tu Amore, la cui potenza ha schernita il falso amante, come ora non mostrate le vostre forze e la dovuta ira? Come non convertite voi il cielo e la terra contra il novello sposo, sí che egli nel mondo per esemplo d’ingannatore e d’annullatore della vostra potenza non rimanga a piú schernirvi? Molto minori falli mossero giá l’ira vostra a vendetta men giusta. Dunque ora perché tardate? Voi non potreste appena tanto incrudelire verso di lui, che egli debitamente punito fosse.
«Oimè misera! Perché non è egli possibile che voi l’effetto de’ suoi inganni cosí sentiate come io, acciò che cosí in voi come in me s’accendesse l’ardore della punizione? O iddii, rivolgete in lui alcuni di quelli pericoli, o tutti, de’ quali io giá dubitai; uccidetelo di qualunque generazione di morte piú vi piace, acciò che io ad un’ora tutta e l’ultima doglia senta, che mai debba sentire per lui, e voi e me vendichiate ad un’ora. Non consentite che io sola per li peccati di lui pianga la pena, ed egli, voi e me avendo beffati, lieto si goda con la nuova sposa, e cosí per contrario tagli la vostra spada».
Poi, non meno accesa d’ira, ma con pianto piú fiero rivolgendo a Panfilo le parole, mi ricorda che io cominciai:
«O Panfilo, ora la cagione della tua dimora conosco, ora i tuoi inganni mi sono palesi, ora veggo che ti ritiene, e qual pietá. Tu ora celebri i santi imenei, e io, dal tuo parlare e da te e da me medesima ingannata, mi consumo piangendo, e con le mie lagrime apro la via alla mia morte, la quale con titolo della tua crudeltá, debitamente segnerá la sua dolente venuta; e gli anni, i quali io cotanto disiderai d’allungare, si mozzeranno, essendone tu cagione. O scellerato giovane e pronto ne’ miei affanni! Or con che cuore hai tu presa la nuova sposa? Con intendimento d’ingannare lei, come tu hai me fatto? Con quali occhi la riguardasti tu? Con quelli con li quali miseramente me credula troppo pigliasti? Qual fede le promettesti tu? Quella che tu avevi a me promessa? Or come potevi tu? Non ti ricordi tu, che piú che una volta la cosa obbligata non si può obbligare? Quali iddii giurasti? Gli spergiurati da te? Oimè misera! che io non so quale avverso piacere l’animo t’accecò, sentendoti mio, che tu d’altrui divenissi. Oimè! per qual colpa meritai io d’esserti cosí poco a cura? Dove è fuggito di noi cosí tosto il lieve amore? Oimè! che la trista fortuna cosí miseramente costrigne i dolenti! Tu ora la promessa fede e a me dalla tua destra data, e li spergiurati iddii per li quali tu con sommo disio giurasti di ritornare, e le tue lusinghevoli parole delle quali molto eri fornito, e le tue lagrime con le quali non solamente il tuo viso bagnasti, ma ancora il mio, tutte insieme raccolte hai gittato a’ venti, e me schernendo, lieto vivi con la nuova donna.
«Oimè! or chi averebbe mai potuto credere che falsitá fosse nelle tue parole nascosa, e che le tue lagrime fossero con arte mandate fuori? Certo non io: anzi cosí come fedelmente parlava, cosí con fede le parole e le lagrime riceveva. E se forse in contrario dicessi, e le lagrime vere, e i saramenti e la fede prestati con puro cuore, concedasi; ma quale scusa darai tu al non averli servati cosí puramente come promessi? Dirai tu la piacevolezza della nuova donna ne è stata cagione? Certo debole fia, e manifesta dimostrazione di mobile animo. E oltre a tutto questo, sará egli per ciò satisfatto a me? Certo no. O malvagissimo giovane! Non t’era egli manifesto l’ardente amore che io ti portava e porto ancora contro a mia voglia? Certo sí era; dunque molto meno d’ingegno ti bisognava ad ingannarmi. Ma tu, acciò che piú sottile ti mostrassi poi ne’ tuoi parlari ogni arte volesti usare; ma tu non pensavi quanto poco di gloria ti seguita ad ingannare una giovane, la quale di te si fidava. La mia semplicitá meritò maggior fede che la tua non era. Ma che? Io ciò credetti non meno agl’iddii da te giurati, che a te, li quali io priego che facciano che questa sia la piú somma parte della tua fama, cioè avere ingannata una giovane che piú che sé t’amava.
«Deh, Panfilo, dimmi ora: avea io commesso alcuna cosa per la quale io meritassi da te d’essere con cotanto ingegno tradita? Certo niuno altro fallo feci verso di te giammai se non che poco saviamente di te innamorai, e oltre al dovere ti portai fede e t’amai; ma questo peccato almeno da te non meritava ricevere cotale penitenza. Veramente una iniquitá in me conosco, per la quale l’ira degl’iddii, faccendola, giustamente impetrai; e questa fu di ricevere te, scellerato giovane e senza alcuna pietá, nel letto mio, e avere sostenuto che il tuo lato al mio s’accostasse; avvegna che di questo, come essi medesimi videro, non io, ma tu se’ colpevole, il quale col tuo ardito ingegno, me presa nella tacita notte secura dormendo, come colui che altre volte eri uso d’ingannare, prima nelle braccia m’avesti e quasi la mia pudicizia violata, che io fossi dal sonno interamente sviluppata. E che doveva io fare, questo veggendo? Doveva io gridare, e col mio grido a me infamia perpetua, e a te, il quale io piú che me medesima amava, morte cercare? Io opposi le forze mie, come Iddio sa, quanto io potei; le quali, alle tue non potendo resistere, vinte, possedesti la tua rapina. Oimè! orami fosse il dí precedente a quella notte stato l’ultimo, nel quale io sarei potuta morire onesta!
«Oh, quante doglie e come acerbe m’assaliranno oggimai! E tu con la menata giovane stando, per piú piacerle, i tuoi antichi amori racconterai, e me misera farai in molte cose colpevole, e la mia bellezza avvilendo e i miei costumi, la quale e li quali da te con somma laude solevano sopra tutti quelli e quelle dell’altre donne essere esaltati, sommamente le sue loderai; e quelle cose, le quali io pietosamente verso di te da molto amore sospinta operai, da focosa libidine dirai nate.
«Ma ricòrdati, tra le cose che non vere racconterai, di narrare i tuoi veri inganni, per li quali me piangevole e misera potrai dire aver lasciata, e con essi i ricevuti onori, acciò che bene facci la tua ingratitudine manifesta all’ascoltante. Né t’esca di mente di raccontare quanti e quali giovani giá d’avere il mio amore tentassero, e i diversi modi, e le inghirlandate porte da’ loro amori, e le notturne risse e le diurne prodezze per quelli operate; né mai dal tuo ingannevole amore mi poterono piegare. E tu per una giovane appena da te ancora conosciuta, subito mi cambiasti; la quale, se come me non fia semplice, i tuoi baci prenderá sempre sospetti e guarderassi da’ tuoi inganni, da’ quali io guardare non mi seppi. La quale io priego che tale con teco sia, quale con Atreo fu la sua, o le figliuole di Danao3 con li nuovi sposi, o Clitennestra con Agamennone, o almeno quale io, operandolo la tua nequizia, col mio marito, non degno di queste ingiurie, sono dimorata; e te a tale miseria perduca, che come io ora per la pietá di me medesima piango, cosí mi sforzi di spandere lagrime per te: e questo, se dagl’iddíi verso i miseri con pietá nulla si mira, priego che tosto sia».
Come che io fossi molto da queste dolenti ramaricazioni offesa, e sovente sopra esse, tornassi, e non solamente quello dí ma molti altri seguenti, nondimeno mi pungeva d’altra parte non poco la turbazione veduta della giovane sopradetta, la quale alcuna volta m’indusse a cosí con grieve doglia pensare; io, sí come molte volte era usata, diceva con meco stessa:
«Deh, perché, o Panfilo, mi dolgo io del tuo essere lontano, e che tu di nuova giovane sii divenuto, con ciò sia cosa che, essendo tu qui presente, non mio ma d’altrui dimoravi? O pessimo giovane, in quante parti era il tuo amore diviso, o atto a potersi dividere? Io posso presumere che come questa giovane con meco insieme, alle quali hai ora aggiunta la terza, t’eravamo donne, che tu a questo modo n’avevi molte, dove io sola mi credeva essere; e cosí avveniva che, credendo le mie medesime cose trattare, occupava l’altrui. E chi può sapere, se questo giá si seppe per alcuna la quale piú della grazia degl’iddii di me degna, pregando per le ricevute ingiurie, per li miei mali impetrò che io cosí sia, come io sono, d’angoscie piena? Ma qualunque ella è, s’alcuna è, perdonimi, che ignorantemente peccai, e la mia ignoranza merita il perdono. Ma tu con quale arte queste cose fingevi? Con quale coscienza l’adoperavi? Da quale amore o da quale tenerezza eri a ciò tirato? Io ho piú volte inteso non potersi amare piú che una persona in un medesimo tempo, ma questa regola mostra che in te non avesse luogo: tu n’amavi molte ovvero facevi vista d’amare.
«Deh, desti tu a tutte, o almeno a questa una, che male ha saputo celare quello che tu hai bene celato, quella fede, quelle promessioni, quelle lagrime che a me donasti? Se ciò facesti, tu puoi, sí come a niuna obbligato, dimorarti sicuro, perciò che quello che a molti indistintamente si dona, non pare che ad alcuno sia donato. Deh, come può egli essere, che chi di tante piglia i cuori non sia il suo alcuna volta preso? Narciso4, amato da molte, essendo a tutte durissimo, ultimamente fu preso dalla sua forma; Atalanta5, velocissima nel suo corso, rigida superava i suoi amanti, infino che Ipomenes con maestrevole inganno, come ella medesima volle, la vinse. Ma perché vo io per gli esempli antichi? Io medesima, non potuta mai da alcuno essere presa, fui presa da te. Tu adunque come tra le molte non hai trovato chi t’abbia preso? La qual cosa io non credo, anzi sicura sono che preso fosti; e se fosti, chi che colei si fosse che con tanta forza ti prese, come a lei non torni? Se tu non vuogli a me tornare, torna a costei che celare non ha saputo il vostro amore: se la fortuna vuogli che a me sia contraria, che forse secondo la tua oppinione l’ho meritato, non nocciano all’altre li miei peccati. Torna almeno ad esse, e serva loro la promessa fede forse prima che a me; non volere, per far noia a me, offenderne tante quante io credo che in isperanza qua n’abbi lasciate, né possa costá una sola piú che qua molte. Cotesta è oramai tua, né può, volendo, non essere: dunque, lei sicuramente lasciando, vieni, acciò che quelle, che non tue si possono fare, per tue con la tua presenza le conservi».
Dopo questi molti parlari e vani, però che né l’orecchie degl’iddíi toccavano né quelle del giovane ingrato, avveniva alcuna volta che io subitamente mutava consiglio, dicendo:
«O misera, perché disideri tu che Panfilo qui torni? Credi tu con maggiore pazienza sostenere vicino quello che gravissimo t’è lontano? Tu disideri il tuo danno. E cosí come ora in forse dimori che egli t’ami o no, cosí, lui tornando, potresti divenire certa che non per te, ma per altrui fosse tornato. Stinsi, e innanzi, essendo lontano, te tenga del suo amore in forse, che, venendo vicino, del non amarti ti faccia certa. Sii almeno contenta che sola non dimori in cotali pene, e quello conforto piglia che i miseri sogliono fare nelle miserie accompagnati».
Egli mi sarebbe duro il potere, o donne, mostrare con quanta focosa ira, con quante lagrime, con quanta strettezza di cuore, io quasi ogni di cotali pensieri e ragionamenti solessi fare; ma però che ogni dura cosa in processo di tempo si pur matura e ammollisce, avvenne che, avendo io piú giorni cotale vita tenuta, né potendo piú oltre nel dolore procedere che proceduta mi fossi, esso alquanto si cominciò a cessare. E tanto quanto egli della mente disoccupava, cotanto, fervente amore e tiepida speranza ne raccendevano, e cosí a poco a poco con esso il dolore dimorandovi, me fecero di voglia cambiare, e il primo disiderio di riavere il mio Panfilo ritornò. E quantunque in ciò mi fosse alcuna speranza di mai dover riaverlo contraria, tanto ne divenne maggiore il disio; e cosí come le fiamme da’ venti agitate crescono in maggiore vampa, cosí amore, per li contrarii pensieri stati, tutte le sue forze contra di loro adoperate, si fece maggiore. Laonde delle cose dette subito pentimento mi venne.
Io, riguardando a quello a che m’avea l’ira condotto a dire, quasi come se udita m’avesse, mi vergognai, e lei forte biasimai, la quale ne’ primi assalti con tanto fervore piglia gli animi, che alcuna veritá a loro essere palese non lascia. Ma nondimeno quanto piú viene grave, tanto piú in processo di tempo diventa fredda, e lascia chiaro conoscere quello che seco male ha fatto adoperare; e riavuta la debita mente, cosí incominciai a dire:
«O stoltissima giovane, di che cosí ti turbi? Perché senza certa cagione in ira t’accendi? Posto che vero sia ciò che il mercatante disse, il che è forse non vero, cioè che egli abbia moglie sposata, è questo cosí gran fatto o cosa nuova, o che tu non dovessi sperare? Egli è di necessitá che i giovani in cosí fatte cose compiacciano a’ padri. Se il padre ha voluto questo, con che colore il potea esso negare? E credere déi che né tutti coloro che moglie prendono e che l’hanno, l’amano, come fanno dell’altre donne: la soperchia copia che le mogli fanno di sé a’ loro mariti, è cagione di tostano rincrescimento, quando pure nel principio sommamente piacesse, e tu non sai quanto costei si piaccia. Forse che sforzato Panfilo la prese, e amando ancora te piú di lei, gli è noia d’essere con essa; e se ella gli pur piace, tu puoi sperare che ella gli rincrescerá tosto. E certo della sua fede e de’ suoi giuramenti tu non ti puoi con ragione biasimare, però che egli a te tornando nella tua camera l’uno e l’altro adempie.
«Priega adunque Iddio che Amore, il quale piú che saramento o promessa fede puote, il costringa a tornarci. E oltre a questo, perché per la turbazione della giovane di lui prendi sospetto? Non sai tu quanti giovani te amano invano, i quali, sappiendo te essere di Panfilo, senza dubbio si turberebbero? Cosí déi credere possibile lui essere amato da molte, alle quali pare duro di lui udire quello che a te dolse, benché per diverse ragioni a ciascuna ne incresca.»
E in cotale modo me medesima dimentendo, quasi in su la prima speranza tornando, dove molte bestemmie mandate aveva, con orazioni supplico in contrario.
Questa speranza in cotal guisa tornata, non avea però forza di rallegrarmi, anzi con tutta essa con turbazione continua e nell’animo e nell’aspetto era veduta, e io medesima non sapeva che farmi. Le prime sollecitudini erano fuggite; io avea nel primo impeto della mia ira gittate via le pietre, le quali de’ giorni stati erano memorevoli testimonie, e aveva arse le lettere da lui ricevute, e molte altre cose guastate. Il rimirare il cielo piú non mi gradiva, sí come a colei che incerta era della tornata allora, sí come certa me ne pareva essere avanti. La volontá del favoleggiare se n’era ita, e il tempo, che molto aveva le notti abbreviate, nol concedea, le quali sovente, o tutte o gran parte di loro, io passava senza dormire, continuamente o piangendo o pensando passandole; e qualora pure avveniva che io dormissi, diversamente era da’ sogni occupata, alcuna lieti vegnenti, e alcuna tristissimi. Le feste e i templi m’erano noievoli, né mai se non di rado, quasi non potendo altro fare, li visitava. E il mio viso, pallido ritornato, faceva tutta malinconosa la casa mia, e da varii variamente di me parlare: e cosí, aspettando, e quasi che non sappiendo, malinconica e trista mi stava.
Li miei dubbiosi pensieri il piú mi traevano tutto il giorno incerta di dolermi o di rallegrarmi; ma vegnendo la notte, attissimo tempo alli miei mali, trovandomi nella mia camera sola, avendo prima e pianto e molte cose con meco dette, quasi mossa da consiglio migliore, le mie orazioni a Venere rivolgea, dicendo:
«O del cielo speziale bellezza, o pietosissima dea, o santa Venere, la cui effigie nel principio de’ miei affanni in questa camera fu manifesta, porgi conforto alli miei dolori, e per quello venerabile e intrinseco amore che tu portasti ad Adone, mitiga i miei mali. Vedi quanto per te io tribulo; vedi quante volte per te la terribile immagine della morte sia giá stata innanzi agli occhi miei; vedi, se tanto male ha la mia pura fede meritato, quanto io sostegno. Io, lasciva giovane, non conoscendo li tuoi dardi, al primo tuo piacere senza disdire mi ti feci suggetta. Tu sai quanto per te mi fu promesso di bene, e certo io non niego che parte giá non n’avessi; ma, se questi affanni che tu mi dái, di quel bene parte s’intendono, perisca il cielo e la terra ad un’otta, e rifacciansi col mondo che seguirá le leggi nuove a queste simili. Se egli è pur male, come a me il pare sentire, venga, o graziosa dea, il bene promesso, acciò che la santa bocca non si possa dire come gli uomini avere apparato a mentire.
«Manda il tuo figliuolo con le sue saette e con le tue fiaccole al mio Panfilo, lá dove egli ora da me dimora lontano, e lui se forse per non vedermi nel mio amore è raffreddato, o di quello d’alcun’altra è fatto caldo, rinfiammilo per tal maniera che, ardendo come io ardo, niuna cagione il ritenga che egli non torni, acciò che io, riprendendo conforto, sotto questa gravezza non muoia. O bellissima dea, vengano le mie parole a’ tuoi orecchi, e se lui riscaldar non vuoi, trai a me di cuore i dardi tuoi acciò che io, cosí come egli, possa senza tante angoscie passare li giorni miei».
In questi cosí fatti prieghi, ancora che vani gli vedessi poi riuscire, pure allora quasi esauditi credendomi, alquanto con isperanza alleviava il mio tormento, e nuovi mormorii ricominciando, diceva:
«O Panfilo, dove se’ tu ora? Deh, che fai tu ora? Hatti la tacita notte senza sonno e con tante lagrime quante me, o forse nelle braccia ti tiene della giovane male per me udita? O pure senza alcuno ricordo di me soavissimamente dormi? Deh, come può questo essere che Amore due amanti con disuguali leggi governi, ciascuno ferventemente amando, come io fo, e forse come tu fai? Io non so, ma se cosí è, che quelli pensieri te che me occupino, quali prigioni o quali catene ti tengono, che quelle rompendo a me non torni? Certo io non so chi mi si potesse tenere di venire a te, se la mia forma sola, la quale senza dubbio d’impedimento e di vergogna in piú luoghi mi sarebbe cagione, non mi tenesse. Qualunque affari, qualunque altre cagioni costá trovasti, giá deono essere finite; e il tuo padre, giá di te dée essere sazio, il quale, come gl’iddíi sanno, io priego sovente per la sua morte, fermamente credendo lui cagione della tua dimora; e se cosí non è, almeno del tôrmiti pur fu. Ma io non dubito che, della morte pregando, non gli si prolunghi la vita, tanto mi sono gl’iddii contrarii e male esaudevoli in ogni cosa. Deh, vinca il tuo amore, se cotale è quale essere solea, le sue forze, e vienne. Non pensi tu, me sola gran parte delle notti giacere, nelle quali tu fida compagnia mi faresti, se tu ci fossi, come giá facesti? Oimè! quante il passato verno lunghissime senza te fredda nel grandissimo letto, sola n’ho trapassate! Deh, ricòrdati de’ varii diletti da noi molte volte in varie cose presi, de’ quali ricordandoti tu, sono certa niuna altra donna mai mi ti potrá tôrre. E quasi questa credenza piú che altra mi rende secura che falsa sia l’udita novella della nuova sposa, la quale, ancora che vera fosse, non spero mi ti potesse tôrre, se non un tempo. Dunque ritorna; e se i graziosi diletti non hanno forza di qua tirarti, tiritici il volere da morte turpissima liberare colei che sopra tutte le cose t’ama. Oimè! che se tu ora tornassi, appena ch’io creda che tu mi riconoscessi, sií m’ha trasformata l’angoscia. Ma certo, ciò che infinite lagrime m’hanno tolto, brieve letizia, veggendo il tuo bel viso, mi renderebbe, e senza fallo tornerei quella Fiammetta che giá fui.
«Deh, vieni, vieni, che ’l cor ti chiama: non lasciar perire la mia giovinezza presta a’ tuoi piaceri. Oimè! ch’io non so con che freno io temperassi la mia letizia, se tu tornassi, in modo che a tutti manifesta non fosse; perché io, e meritamente, dubito che ’l nostro amore, lungamente e con grandissimo senno e sofferenza celato, non si scoprisse a ciascuno. Ma ora pur venissi tu a vedere, se cosí ne’ prosperi casi come negli avversi l’ingegnose bugie avessero luogo! Oimè! or fossi tu giá venuto, e se meglio non potesse essere, sapesselo chi volesse, ché a tutto mi crederei dare riparo».
E questo detto, quasi come se egli le mie parole avesse intese, subito mi levava e correva alla finestra, me nell’estimazione ingannando d’udire quello che io udito non avea, cioè che egli la nostra porta toccasse, come era usato. Oh quante volte, se i solleciti amanti avessero saputo questo, forse sarei stata potuta ingannare, se alcuno malizioso sé Panfilo avesse finto a cotali punti! Ma poi che la finestra aperta aveva, e riguardata la porta, gli occhi del conosciuto inganno mi faceano piú certa; e cotale la vana letizia in me con turbazione súbita si volgeva, quale, poi che il forte albero rotto da’ potenti venti con le vele ravviluppate in mare a forza da quelli è trasportato, la tempestosa onda cuopre senza contrasto il legno periclitante. E nel modo usato alle lagrime ritornando, miseramente piango, e sforzandomi poi di dare alla mente riposo, con gli occhi chiusi allettando gli umidi sonni, tra me medesima in cotal guisa gli chiamo:
«O Sonno, piacevolissima quiete di tutte le cose, e degli animi vera pace, il quale ogni cura fugge come nemico, vieni a me, e le mie sollecitudini alquanto col tuo operare caccia del petto mio. O tu, che i corpi ne’ duri affanni gravati diletti, e ripari le nuove fatiche, come non vieni? Deh, tu dái ora a ciascun altro riposo: donalo a me, piú che altra di ciò bisognosa. Fuggi degli occhi alle liete giovani, le quali ora tenendo i loro amanti in braccio nelle palestre di Venere esercitandosi, te rifiutano e odiano, ed entra negli occhi miei, che sola e abbandonata, e vinta dalle lagrime e da’ sospiri dimoro. O domatore de’ mali e parte migliore dell’umana vita, consolami di te, e lo stare a me lontano riserba quando Panfilo co’ suoi piacevoli ragionari diletterá le mie avide orecchie di lui udire. O languido fratello della dura morte6, il quale le false cose alle vere rimescoli, entra negli occhi tristi! Tu giá i cento d’Argo7 volenti vegghiare occupasti; deh, occupa ora i miei due che ti disiderano! O porto di vita, o di luce riposo, e della notte compagno, il quale parimente vieni grazioso agli eccelsi re e agli umili servi, entra nel tristo petto, e piacevole alquanto le mie forze ricrea. O dolcissimo Sonno, il quale l’umana generazione pavida della morte costringi ad apparare le sue lunghe dimore, occupa me con le forze tue e da me caccia gl’insani movimenti, ne’ quali l’animo se medesimo senza pro fatica».
Egli, piú pietoso che alcuno altro iddio a cui io porga prieghi, avvegna che indugio ponga alla grazia chiesta da’ prieghi miei, pure dopo lungo spazio, quasi piú a servirmi costretto che volonteroso, pigro viene, e senza dire alcuna cosa, non avvedendomene io, sottentra al lasso capo, il quale di lui bisognoso, quello volonteroso pigliando, tutto in lui si ravvolge.
Non viene, posto che il sonno venga, però in me la disiata pace, anzi, in luogo de’ pensieri e delle lagrime, mille visioni piene d’infinite paure mi spaventano. Io non credo che niuna furia rimanga nella cittá di Dite, che in diversi modi e terribili giá piú volte mostrata non mi si sia, diversi mali minacciando, e spesso col loro orribile aspetto li miei sonni rotti, di che io quasi, per non vederle, mi sono contentata. E poche sono brievemente state quelle notti, dopo la male udita novella della menata sposa, che rallegrata m’abbiano dormendo, come davanti mostrandomi lietamente il mio Panfilo assai sovente solean fare: il che senza modo mi doleva, e ancora duole. Di tutte queste cose, delle lagrime e del dolore dico, ma non della cagione, s’avvide il caro marito; e considerando il vivo colore del mio viso in pallidezza essere cambiato, e gli occhi piacevoli e lucenti veggendo di purpureo cerchio intorniati e quasi della mia fronte fuggiti, molte volte giá si maravigliò perché fosse; ma pure vedendo me e il cibo e il riposo avere perduto, alcuna volta mi dimandò che fosse di ciò la cagione. Io gli rispondea lo stomaco averne colpa, il quale, non sappiendo io per quale cagione guastatomisi, a quella deforme magrezza m’avea condotta. Oimè! che egli intera fede dando alle mie parole, il mi credeva, e infinite medicine giá mi fece apparecchiare, le quali io per contentarlo usava, non per utile che di quelle aspettassi. E quale alleviamento di corpo puote le passioni dell’anima alleviare? Niuno credo: forse che quelle dell’animo via levate potrebbero il corpo alleviare. La medicina utile al mio male non era piú che una, la quale troppo era lontana a potermi giovare.
Poi che l’ingannato marito vedea le molte medicine poco giovare, anzi niente, di me piú tenero che il dovere, da me in molte nuove e diverse maniere la malinconia s’ingegnava di cacciare via, e la perduta allegrezza restituire, ma invano le molte cose adoperava. Egli alcuna volta mi mosse cotali parole:
— Donna, come tu sai, poco di lá dal piacevole monte Falerno in mezzo dell’antiche Cume e di Pozzuolo sono le dilettevoli Baie sopra li marini liti, del sito delle quali piú bello né piú piacevole ne cuopre alcuno il cielo. Egli di monti bellissimi tutti d’alberi varii e di viti coperti è circundato, fra le valli de’ quali niuna bestia è a cacciare abile, che in quelle non sia; né a quelli lontana la grandissima pianura dimora, utile alle varie caccie de’ predanti uccelli e sollazzevole; quivi vicine l’isole Pittaguse e Nisida di conigli abbondante, e la sepoltura del gran Miseno8, dante via a’ regni di Plutone; quivi gli oracoli della Cumana Sibilla9, il lago d’Averno, e ’l Teatro, luogo comune degli antichi giuochi, e le Piscine, e monte Barbaro, vane fatiche dello iniquo Nerone: le quali cose antichissime e nuove, a’ moderni animi sono non picciola cagione di diporto ad andarle mirando. E oltre a tutte queste, vi sono bagni sanissimi ad ogni cosa e infiniti, e il cielo quivi mitissimo, in questi tempi ci dá di visitarle materia. Quivi non mai senza festa e somma allegrezza con donne nobili e cavalieri si dimora. E però tu, non sana dello stomaco, e nella mente, per quel che io discerna, di molesta malinconia affannata, con meco per l’una sanitá e per l’altra voglio che venghi; né fia fermamente senza utile il nostro andare. —
Io allora, queste parole udendo, quasi dubbiosa non nel mezzo della nostra dimora tornasse il caro amante, e cosí nol vedessi, lungamente penai a rispondere; ma poi, vedendo il suo piacere, immaginando che, vegnendo egli, esso dove che io fossi verrebbe, risposi me al suo volere apparecchiata, e cosí v’andammo.
Oh, quanto contraria medicina operava il mio marito alle mie doglie! Quivi, posto che i languori corporali molto si curino, rade volte o non mai vi s’andò con mente sana, che con sana mente se ne tornasse, nonché l’inferme sanitá v’acquistassero. E in veritá di ciò non è maraviglia, che o il sito vicino alle marine onde, luogo natale di Venere, che il dia, o il tempo nel quale egli piú s’usa, cioè nella primavera, si come a quelle cose piú atto, che il faccia, non so: ma per quello che giá molte volte a me paruto ne sia, quivi eziandio le piú oneste donne, posposta alquanto la donnesca vergogna, piú licenza in qualunque cosa mi pareva si convenisse, che in altra parte; né io sola di cotale oppinione sono, ma quasi tutti quelli che giá vi sono costumati. Quivi la maggior parte del tempo ozioso trapassa, e qualora piú è messo in esercizio, si è in amorosi ragionamenti, o le donne per sé, o mescolate co’ giovani; quivi non s’usano vivande se non dilicate, e vini per antichitá nobilissimi, possenti non che ad eccitare la dormente Venere, ma risuscitare la morta in ciascuno uomo; e quanto ancora in ciò la virtú de’ bagni diversi adoperi, quegli il può sapere che l’ha provato; quivi i marini liti e i graziosi giardini e ciascun’altra parte sempre di varie feste, di nuovi giuochi, di bellissime danze, d’infiniti strumenti, d’amorose canzoni, cosí da giovani come da donne fatti, suonate e cantate risuonano. Tengasi adunque chi può quivi, tra tante cose, contra Cupido, il quale quivi, per quello che io creda, sí come in luogo principalissimo de’ suoi regni, aiutato da tante cose, con poca fatica usa le forze sue.
In cosí fatto luogo, o pietosissime donne, mi solea il mio marito menare a guarire dell’amorosa febbre; nel quale, poi pervenimmo, non usò Amore vêr me altro modo che vêr l’altre facesse; anzi l’anima che presa piú pigliare non si potea, alquanto, certo assai poco, rattiepidita, e per lo lungo dimorare lontano a me che Panfilo fatto aveva, e per molte lagrime e dolori sostenuti, raccese in sí gran fiamma, che mai tale non mi ve la pareva avere avuta. E ciò non solamente dalle predette cagioni procedeva, ma il ricordarmi quivi molte volte essere stata da Panfilo accompagnata, amore e dolore, vedendomivi senza esso, senza dubbio nessuno mi cresceva. Io non vedea né monte né valle alcuna, che io da molti e da lui accompagnata, quando le reti portando, e quando i cani menando, ponendo insidie alle selvatiche bestie, e pigliandone, non conoscessi per testimonio e delle mie e delle sue allegrezze essere stata. Niuno lito, né scoglio, né isoletta ancora si vedea, che io non dicessi: «Qui fui io con Panfilo, e cosí mi disse, e cosí quivi facemmo». Similmente niun’altra cosa vedere vi potea, che prima non mi fosse cagione di ricordarmi con piú efficacia di lui, e poi di piú fervente disio di rivederlo o quivi o in altra parte, e ritornare in ieri.
Come al caro marito aggradiva, cosí quivi varii diletti a prendere si cominciarono. Noi alcuna volta, levati prima che il giorno chiaro apparisse, saliti sopra i portanti cavalli, quando con cani e quando con uccelli e quando con amenduni, ne’ vicini paesi di ciascuna caccia copiosi, ora per l’ombrose selve e ora per gli aperti campi, solleciti n’andavamo; e quivi varie caccie vedendo, ancora che esse molto rallegrassero ciascuno altro, in me sola alquanto minuivano il mio dolore. E come alcuno bello volo o notabile corso vedeva, cosí mi ricorreva alla bocca: «O Panfilo, ora fossi tu qui a vedere, come giá fosti!». Oimè! che infino a quel punto alquanto avendo con meno noia sostenuto il riguardare e l’operare, per tale ricordarmi quasi vinta nel nascoso dolore, ogni cosa lasciava stare. Oh, quante volte e’ mi ricorda che in tale accidente giá l’arco mi cadde e le saette di mano, nel quale, né in reti distendere o in lasciare cani, niuna che Diana seguisse fu piú di me ammaestrata giammai. E non una volta, ma molte, nel piú spesso uccellare qualunque uccello si fu a ciò convenevole, quasi essendo io a me medesima uscita di mente, non lasciandolo io, si levò volando dalle mie mani; di che io, giá in ciò studiosissima, quasi niente curava. Ma poi che ciascuna valle e ogni monte, e li spaziosi piani erano da noi ricercati, di preda carichi i miei compagni e io a casa ne tornavamo, la quale lieta per molte feste e varie trovavamo le piú volte.
Noi alcuna volta sotto gli altissimi scogli sopra il mare estendentisi e facienti ombra graziosissima, sulle arene poste le mense con compagnia di donne e di giovani grandissima mangiavamo. Né prima eravamo da quelle levate, che sonantisi diversi strumenti, i giovani varie danze incominciavano, nelle quali me medesima, quasi sforzata, alcuna volta convenne pigliare; ma in esse, sí per l’animo non a quelle conforme, e sí per lo corpo debole, per piccolo spazio durava; per che indietro trattami, sopra gli stesi tappeti con alcune altre mi ponea a sedere. Quivi ad un’ora i suoni ascoltando entranti con dolci note nell’animo mio, e a Panfilo pensando, discorde, festa con noia comprendo; perciò che i piacevoli suoni ascoltando, in me ogni tramortito spiritello d’amore fanno risuscitare, e nella mente tornare i lieti tempi, ne’ quali io al suono di quelli variamente con arte non picciola, in presenza del mio Panfilo laudevolmente soleva operare, ma quivi Panfilo non vedendo, volentieri, con tristi sospiri, pianti l’averei dolentissima, se convenevole mi fasse paruto. E oltre a ciò, questo medesimo le varie canzoni quivi da molte cantate mi solevano fare; delle quali se forse alcuna n’era conforme alli miei mali, l’ascoltava intentissima, di saperla disiderando, acciò che poi fra me ridicendola, con piú ordinato parlare e piú coperto mi sapessi e potessi in pubblico alcuna volta dolere, e massimamente di quella parte de’ danni miei che in essa si contenesse.
Ma poi che le danze in molti giri volte e reiterate hanno le giovani donne rendute stanche, tutte postesi con noi a sedere, piú volte avvenne che i giovani vaghi, di sé d’intorno a noi accumulati, quasi facevano una corona, la quale mai né quivi né altrove avvenne che io vedessi, che ricordandomi del primo giorno, nel quale Panfilo a tutti dimorando di dietro, mi prese, che io invano non levassi piú volte gli occhi fra loro rimirando, quasi tuttavia sperando in simile modo Panfilo rivedere. Tra questi adunque mirando, vedea alcuna volta alcuni con occhi intentissimi mirare il suo disio, e io in quegli atti sagacissima per addietro con occhio perplesso ogni cosa mirava, e conosceva chi amava e chi scherniva; e talora l’uno laudava e talora l’altro, e in me diceva talvolta che il mio migliore sarebbe stato se cosí io come quelle facevano avessi fatto, servando l’anima libera come quelle gabbando servavano; poi dannando cotal pensiero, piú essendo contenta, se essere si può contenta di male avere, se non d’avere fedelmente amato. Ritorno adunque e gli occhi e ’l pensiero agli atti vaghi de’ giovani amanti, e quasi alcuna consolazione prendendo di quelli, li quali ferventemente amare discerno piú con meco stessa di ciò li commendo, e quelli lungamente con intero animo avendo mirati, cosí fra me medesima tacita incomincio:
«O felici voi a’ quali, come a me, non è tolta la vista di voi stessi! Oimè! che cosí come voi fate, soleva io per addietro fare. Lunga sia la vostra felicitá, acciò che io sola di miseria possa esemplo rimanere a’ mondani. Almeno, se Amore, faccendoni mal contenta della cosa amata da me, sará cagione che li miei giorni si raccorcino, me ne seguirá che io, come Dido, con dolorosa fama diventerò eterna».
E questo detto, tacendo torno a riguardare quello che diversi diversamente adoperino. Oh quanti giá in simili luoghi ne vidi, li quali dopo avere mirato, e non avendo la loro donna veduta, reputando meno che bello il festeggiare, malinconosi si partivano! De’ quali alcuno, avvegna che debole, riso, nel mezzo de’ miei mali trovava luogo, veggendomi compagnia ne’ dolori, e conoscendo per li miei mali stessi li guai altrui.
Adunque, carissime donne, cosí disposta, quale le mie parole dimostrano, m’aveano li dilicati bagni, le faticose caccie e li marini liti d’ogni festa ripieni: per che dimostrando il mio pallido viso, li sospiri continui e il cibo parimente col sonno perduti, allo ingannato marito e alli medici la mia infermitá non curabile, quasi della mia vita disperandosi, alla cittá lasciata ne tornavamo; nella quale la qualitá del tempo molte e diverse feste apprestate, con quelle, cagioni di varie angoscie m’apparecchiava. Egli avvenne, non una volta ma molte, che dovendo novelle spose andare a’ loro mariti, primieramente io, o per parentado stretto, o per amistá, o per vicinanza fui invitata alle nuove nozze, alle quali andare piú volte mi costrinse il mio marito, credendosi in cotale guisa la manifesta mia malinconia alleggiare. Adunque in questi cosí fatti giorni li lasciati ornamenti mi convenia ripigliare, e i negletti capelli, d’oro per addietro da ognuno giudicati, allora quasi a cenere simili divenuti, come io poteva in ordine rimetteva. E ricordandomi con piú piena memoria, a cui essi oltre ad ogni altra bellezza soleano piacere, con nuova malinconia riturbava il turbato animo; e alcuna volta avendo io me medesima obliata, mi ricorda che non altramente che da infimo sonno rivocata dalle mie serve, ricogliendo il caduto pettine, ritornai al dimenticato uficio. Quindi volendomi, sí come usanza è delle giovani donne, consigliare col mio specchio de’ presi ornamenti, vedendomi in esso orribile quale io era, avendo nella mente la forma perduta, quasi non quella la mia che nello specchio vedeva, ma d’alcuna infernal furia pensando, intorno volgendomi, dubitava. Ma pure, poi che ornata era, non dissimile alla qualitá dell’animo con l’altre andava alle liete feste, liete dico per l’altre, ché, come colui sa a cui niuna cosa è nascosa, nulla ne fu mai, dopo la partita del mio Panfilo, che a me non fosse di tristizia cagione.
Pervenute adunque alli luoghi diputati alle nozze, ancora che diversi e in diversi tempi fossero, non altramente che in una sola maniera mi videro, cioè con viso infinto, qual io poteva, ad allegrezza, e con l’animo al tutto disposto a dolersi, prendendo cosí dalle liete cose come dalle triste che gli avveniano, cagione alla sua doglia. Ma poi che quivi dall’altre con molto onore ricevute eravamo, l’occhio disideroso non di vedere ornamenti, de’ quali li luoghi tutti risplendevano, ma se stesso col pensiero ingannando se forse quivi Panfilo vedesse, come piú volte giá in simile luogo veduto aveva, intorno solea girare; e non vedendolo, come fatta piú certa di ciò di che io prima era certissima, quasi vinta, con l’altre mi poneva a sedere, rifiutando gli offerti onori, non vedendovi io colui per lo quale essere mi soleano cari. E poi che la nuova sposa era giunta, e la pompa grandissima delle mense celebrata si toglieva via, come le varie danze, ora alla voce d’alcuno cantante guidate e ora al suono di diversi strumenti menate, erano cominciate, risonando ogni parte della sposaresca casa di festa, io, acciò che non isdegnosa, ma urbana paressi, data alcuna volta in quelle, mi riponeva a sedere entrando in nuovi pensieri.
Egli mi ritornava a mente quanto solenne fosse stata quella festa, la quale a questa simile giá per me s’era fatta, nella quale io semplice e libera senza alcuna malinconia lieta mi vidi onorare, e quelli tempi con questi altri misurando in me medesima, e oltremodo veggendoli variati, con sommo disio, se il luogo conceduto l’avesse, provocata era a lagrimare. Correvami ancora nell’animo con pensiero prontissimo, veggendo li giovani parimente e le donne far festa, quant’io giá in simili luoghi, il mio Panfilo me mirando, con atti varii e maestrevoli a cotali cose, festeggiato avessi; e piú meco della cagione del far festa, che tolta m’era, che del non far festa medesimo mi doleva. Quindi orecchie porgendo a’ motti, alle canzoni e alli suoni, ricordandomi de’ preteriti, sospirava, e con infinto piacere, disiderando la fine di cotale festa, meco medesima mal contenta con fatica passava. Nondimeno, riguardando ogni cosa, essendo intorno alle riposanti donne la moltitudine de’ giovani a rimirarle sopravvenuti, manifestamente scorgea molti di quelli, o quasi tutti, in me rimirare alcuna volta, e quale una cosa del mio aspetto, e quale un’altra fra sé tacito ragionava, ma non sí, che de’ loro occulti parlari, o per immaginazione o per udita, non pervenissero gran parte alle mie orecchie. Alcuni l’uno verso l’altro dicevano:
— Deh, guarda quella giovane, alla cui bellezza nulla ne fu nella nostra cittá simigliante, e ora vedi quale ella è divenuta! Non miri tu come ella ne’sembianti pare sbigottita, quale che la cagione si sia? —
E detto questo, mirandomi con atto umilissimo quasi dalla compassione delli miei mali compunti, partendosi, me di me lasciavano piú che l’usato pietosa. Altri intra sé dimandavano: «Deh, è questa donna stata inferma?», e poi a se medesimi rispondevano: «Egli mostra di sí, sí è magra tornata e iscolorita; di che egli è gran peccato, pensando alla sua smarrita bellezza». Certi ve n’erano di piú profondo conoscimento, il che mi dolea, li quali dopo lungo parlare dicevano:
— La pallidezza di questa giovane dá segnali d’innamorato cuore. E quale infermitá mai alcuno assottiglia, come fa il troppo fervente amore? Veramente ella ama, e se cosí è, crudele è colui che a lei è di sí fatta noia cagione, per la quale essa cosí s’assottigli. —
Quando questo avvenne, dico che io non potei ritenere alcuno sospiro, vedendo di me molta piú pietá in altrui che in colui che ragionevolmente avere la dovria. E dopo li mandati sospiri, con voce tacita pregai per li coloro beni umilemente gl’iddii. E certo egli mi ricorda la mia onestá avere avute tra quelli che cosí ragionavano tante forze che alcuni mi scusavano, dicendo:
— Cessi Iddio che questo di questa donna si creda, cioè che amore la molesti; ella, piú che alcuna altra onesta, mai di ciò non mostrò sembiante alcuno, né mai ragionamento nessuno tra gli amanti si potè di suo amore ascoltare: e certo egli non è passione da potere lungamente occultare. —
«Oimè!» diceva io allora fra me medesima «quanto sono costoro lontani alla veritá, me innamorata non reputando, perciò che come pazza negli occhi e nelle bocche de’ giovani non metto li miei amori, come molte altre fanno!»
Quivi ancora mi si paravano molte volte davanti giovani nobili, e di forma belli, e d’aspetto piacevoli, li quali per addietro piú volte con atti e modi diversi tentati aveano gli occhi miei, ingegnandosi di trarre quelli a’ loro disii. Li quali poi che me cosí diforme un pezzo aveano mirata, forse contenti che io non gli avessi amati, si dipartivano dicendo: «Guasta è la bellezza di questa donna».
Perché nasconderò io a voi, o donne, quel che non solamente a me, ma generalmente a tutte dispiace d’udire? Io dico che, ancora che ’l mio Panfilo non fosse presente, per lo quale era a me sommamente cara la mia bellezza, con gravissima puntura di cuore, d’avere quella perduta ascoltava. Oltre a queste cose ancora mi ricordo io essermi alcuna volta in cosí fatte feste avvenuto che io in cerchio con donne d’amore ragionanti mi sono ritrovata lá dove con disiderio ascoltando quali gli altrui amori siano stati, agevolmente ho compreso niuno sí fervente né tanto occulto né con sí grievi affanni essere stato come il mio, avvegna che de’ piú felici e de’ meno onorevoli il numero ne sia grande. Adunque in cotal guisa una volta mirando, e un’altra ascoltando ciò che nelli luoghi ne’ quali stava s’adoperava, pensosa passava il discorrevole tempo.
Essendo adunque per alcuno spazio le donne, sedendosi, riposate, m’avvenne alcuna volta che, rilevatesi esse alle danze, avendo me piú volte a quelle invitata indarno, e dimorando esse e li giovani parimente in quelle, con cuore d’ogni altra intenzione vacuo, molto attente, quale forse da vaghezza di dimostrare sé in quelle essere maestra, e quale dalla focosa Venere a ciò sospinta, io quasi sola rimasa a sedere, con isdegnoso animo li nuovi atti e le qualitá di molte donne mirava. E certo d’alcune avvenne che io le biasimai, benché sommamente disiderassi, se essere fosse potuto, di fare io, se il mio Panfilo fosse stato presente; il quale tante volte quante a mente mi tornava o torna, tante di nuova malinconia m’era ed è cagione: il che, come Iddio sa, non merita il grande amore ch’io gli porto e ho portato.
Ma poi che quelle danze con gravissima noia di me alcuna volta per lungo spazio rimirate avea, essendomi divenute per altro pensiero tediose, quasi da altra sollecitudine mossa, del pubblico luogo levatami, volonterosa di sfogare il raccolto dolore, se fatto mi veniva acconciamente, in parte solitaria me n’andava; e quivi dando luogo alle volonterose lagrime, delle vanitá vedute alli miei folli occhi rendea guiderdone. Né quelle senza parole accese d’ira uscivano fuori, anzi, conoscendo io la misera mia fortuna, verso lei mi ricorda d’avere alcuna volta cosí parlato:
«O Fortuna10, spaventevole nemica di ciascuno felice, e de’ miseri singulare speranza, tu, permutatrice de’ regni e de’ mondani casi adducitrice, sollevi e avvalli con le tue mani, come il tuo indiscreto giudicio ti porge; e non contenta d’essere tutta d’alcuno, o in uno caso l’esalti, o in uno altro il deprimi, o dopo alla data felicitá aggiugni agli animi nuove cure, acciò che i mondani in continue necessitá dimorando, secondo il parere loro, te sempre prieghino, e la tua deitá orba adorino. Tu, cieca e sorda, li pianti de’ miseri rifiutando, con gli esaltati ti godi, li quali te ridente e lusingando abbracciando con tutte le forze, con inopinato avvenimento da tesi trovano prostrati, e allora miseramente te conoscono aver mutato viso. E di questi cotali io misera mi trovo, né so quale inimicizia o cosa da me commessa inverso te a ciò t’inducesse, o mi ci noccia. Oimè! chiunque nelle grandi cose si fida, e potente signoreggia negli alti luoghi, l’animo credulo dando alle cose liete, riguardi me, d’alta donna picciolissima serva tornata, e peggio, che disdegnata sono dal mio signore, e rifiutata. Tu non desti mai, o Fortuna, piú ammaestrevole esemplo di me de’ tuoi mutamenti, se con sana mente si riguarderá. Io da te, o Fortuna mutabile, nel mondo ricevuta fui in copiosa quantitá de’ tuoi beni, se la nobiltá e le ricchezze sono di quelli, sí come io credo; e oltre a ciò in quelle cresciuta fui, né mai ritraesti la mano. Queste cose certo continuamente magnanima possedei, e come mutabili le trattai, e oltre alla natura delle temine, liberalissimamente l’ho usate.
«Ma io, ancora nuova, te delle passioni dell’animo donatrice non sappiendo che tanta parte avessi ne’ regni d’Amore, come volesti, m’innamorai, e quello giovane amai, il quale tu sola, e altri no, parasti davanti agli occhi miei allora che io piú ad innamorare mi credea essere lontana. Il piacere del quale poi che nel cuore con legame indissolubile mi sentisti legato, non stabile,’piu volte hai cercato di farmene noia; e alcuna volta hai li vicini animi con vani e ingannevoli ingegni sommossi, e talvolta gli occhi, acciò che palesato nocesse il nostro amore. E piú volte, sí come tu volesti, sconcie parole dell’amato giovane alli miei orecchi pervennero, e alli suoi di me sono certa che facesti pervenire, possibili, essendo credute, a generare odio; ma esse non vennero mai al tuo intendimento seconde, ché, posto che tu, dèa, come ti piace guidi le cose esteriori, le virtú dell’anima non sono sottoposte alle tue forze: il nostro senno continuamente in ciò t’ha soperchiata. Ma che giova però a te opporsi? A te sono mille vie da nuocere a’ tuoi nemici, e quello che per diritto non puoi, conviene che per obliquo forniscili. Tu non potesti ne’ nostri animi generare nimicizia, e ’ngegnastiti di mettervi cosa equivalente, e oltre a ciò gravissima doglia e angoscia.
«I tuoi ingegni, per addietro rotti col nostro senno, si risarcirono per altra via, e inimica a lui parimente e a me, con li tuoi accidenti porgesti cagione di dividere da me l’amato giovane con lunga distanza. Oimè! quando avrei io potuto pensare che in luogo a questo tanto distante e da questo diviso da tanto mare, da tanti monti e valli e fiumi, dovesse nascere, te operante, la cagione de’ miei mali? Certo non mai, ma pure è cosí; ma con tutto questo, avvegna che egli sia lontano a me, e io a lui, non dubito che egli m’ami, sí come io lui, il quale io sopra tutte le cose amo. Ma che vale questo amore ad effetto piú che se fossimo nemici? Certo niuna cosa: dunque al tuo contrasto niente valse il senno nostro. Tu in siememente con lui ogni mio diletto, ogni mio bene e ogni mia gioia te ne portasti, e con questi le feste, li vestimenti, le bellezze e ’l vivere lieto, in luogo de’ quali pianti, tristizia e intollerabile angoscia lasciasti; ma certo che io non l’ami non m’hai tu potuto tôrre, né puoi. Deh, se io giovane ancora avea contro alla tua deitá commessa alcuna cosa, l’etá semplice mi dovea rendere scusata. Ma se tu pure di me volevi vendetta, perché non l’operavi tu nelle tue cose? Tu ingiusta hai messa la tua falce nell’altrui biade. Che hanno le cose d’amore a fare con teco? A me sono altissime case e belle, ampissimi campi e molte bestie, a me tesori conceduti dalla tua mano; perché in queste cose, o con fuoco o con acqua, o con rapina, o con morte non si distese la tua ira? Tu m’hai lasciate quelle cose che alla mia consolazione non possono valere, se non come a Mida la ricevuta grazia11 da Bacco alla fame, e haitene portato colui solo, il quale io piu che tutte l’altre cose avea caro.
«Ahi, maladette siano l’amorose saette, le quali ardirono di prendere vendetta di Febo12, e da te tanta ingiuria sostengono! Oimè! che se esse t’avessero mai punta, come elle pungono ora me, forse tu con piú diliberato consiglio offenderesti agli amanti. Ma, ecco, tu m’hai offesa, e a quello condotta che io ricca, nobile e possente, sono la piú misera parte della mia terra, e ciò vedi tu manifesto. Ogni uomo si rallegra e fa festa, e io sola piango; né questo ora solamente comincia, anzi è lungamente durato tanto, che la tua ira doveria essere mitigata. Ma tutto il ti perdòno, se tu solamente, di grazia, il mio Panfilo, come da me il dividesti, con meco il ricongiungi; e se forse ancora la tua ira pur dura, sfoghisi sopra il rimanente delle mie cose. Deh, increscati di me, o crudele! vedi che io sono divenuta tale che quasi come favola del popolo sono portata in bocca, dove con solenne fama la mia bellezza soleva essere narrata. Comincia ad essere pietosa verso di me, acciò che io, vaga di potermi di te lodare, con parole piacevoli onori la tua maestá, alla quale, se benigna mi torni nel dimandato dono, infino ad ora prometto, e qui sieno testimonii gl’iddíi, di porre la mia immagine ornata quando potrassi ad onore di te, in qualunque tempio piú ti fia caro, e quella, con versi soscritti che diranno: Questa è Fiammetta dalla Fortuna di miseria infima recata in somma allegrezza, si vedrá da tutti».
Oh quante piú altre cose ancora dissi piú volte, le quali lungo e tedioso sarebbe il raccontarle, ma tutte, brievemente, in amare lagrime terminavano, delle quali alcuna volta avvenne che io, dalle donne sentita, con varii conforti levatane, alle festevoli danze fui rimenata a mal mio grado.
Chi crederebbe possibile, o amorose donne, tanta tristizia nel petto capere d’una giovane che niuna cosa fosse, la quale non solamente non rallegrar la potesse, ma eziandio cagione di maggior doglia le fosse continuo? Certo egli pare incredibile a tutti, ma io misera, sí come colei che ’l pruovo, sento e conosco ciò essere vero. Egli avvenía spesse volte che essendo, sí come la stagione richiedeva, il tempo caldissimo, molte altre donne e io, acciò che piú agevolmente quello trapassassimo, sopra velocissima barca, armata di molti remi, solcando le marine onde, cantando e sonando, li rimoti scogli, e le caverne ne’ monti dalla natura medesima fatte, essendo esse e per ombra e per li venti recettissime, cercavamo. Oimè, che questi erano al corporale caldo sommissimi rimedii a me offerti, ma al fuoco dell’anima per tutto questo niuno alleggiamento era prestato, anzi piuttosto tolto; però che, cessati li calori esteriori, li quali senza dubbio alli dilicati corpi sono tediosi, incontanente piú ampio luogo si dava agli amorosi pensieri, li quali non solamente materia sostentante le fiamme di Venere sono, ma aumentante, se bene si mira.
Venute adunque ne’ luoghi da noi cercati, e presi per li nostri diletti ampissimi luoghi, secondo che il nostro appetito richiedeva, ora qua e ora lá, e ora questa brigata di donne e di giovani, e ora quell’altra, delle quali ogni picciolo scoglietto o lito, solo che d’alcuna ombra di monte da’ solari raggi difeso fosse, erano piene, veggendo andavamo. Oh quanto e quale è questo diletto grande alle sane menti! Quivi si vedevano in molte parti le mense candidissime poste e di cari ornamenti sí belle, che solo il riguardarle aveva forza di risvegliare l’appetito in qualunque piú fosse stato svogliato; e in altra parte, giá richiedendolo l’ora, si discernevano alcuni prendere lietamente li mattutini cibi, da’ quali e noi e quale altro passava, con allegra voce alle loro letizie eravamo convitati.
Ma poi che noi medesimi avevamo, sí come gli altri, mangiato con grandissima festa, e dopo le levate mense piú giri date in liete danze al modo usato, risalite sopra le barche, subitamente or qua e ora colá n’andavamo. E in alcuna parte cosa carissima agli occhi de’ giovani n’appariva, ciò erano vaghissime giovani in giubbe di zendado spogliate, e scalze e isbracciate nell’acqua andanti, dalle dure pietre levanti le marine conche; e a cotale uficio bassandosi, sovente le nascose delizie dell’uberifero petto mostravano. E in alcuna altra con piú ingegno, altri con reti, e quali con piú nuovi artifici, alli nascosi pesci si vedeano pescare. Che giova il faticarsi in voler dire ogni particolare diletto che quivi si prende? Egli non verrebbono meno giammai. Pensi seco chi ha intelletto, quanti e quali essi debbano essere, non andandovi, e se vi pur va, non vi si vede alcuno altro che giovane e lieto. Quivi gli animi aperti e liberi sono, e sono tante e tali le cagioni per le quali ciò avviene che appena alcuna cosa addimandata negare vi si puote. In questi cosí fatti luoghi confesso io, per non turbare le compagne, d’avere avuto viso coperto di falsa allegrezza, senza avere ritratto l’animo da’ suoi mali; la qual cosa quanto sia malagevole a fare, chi l’ha provato ne può testimonianza donare. E come potrei io nell’animo essere stata lieta ricordandomi giá e meco e senza me avere in simili diletti veduto il mio Panfilo, il quale io sentiva da me oltremodo essere lontano, e oltre a ciò senza speranza di rivederlo? Se a me non fosse stata altra noia che la sollecitudine dell’animo, la quale me continuamente teneva sospesa a molte cose, sí m’era ella grandissima, che è egli a pensare che il fervente disio di rivederlo avesse sí di me tolta la vera conoscenza, che, certamente sappiendo lui in quelle parti non essere, pur possibile che vi fosse argomentassi, e come se ciò fosse senza alcuna contradizione vero, procedea a riguardare se io il vedessi? Egli non vi rimaneva alcuna barca, delle quali quale in una parte volante e quale in un’altra, era cosí il seno di quel mare ripieno come il cielo di stelle qualora egli appare piú limpido e sereno, che io, prima a quella con gli occhi che con la persona, riguardando, non pervenissi. Io non sentiva alcuno suono di qualunque strumento, quantunque io sapessi lui se non in uno essere ammaestrato, che con gli orecchi levati non cercassi di sapere chi fosse il sonatore, sempre immaginando quello essere possibile d’essere colui il quale io cercava. Niuno lito, niuno scoglio, niuna grotta da me non cercata vi rimaneva, né ancora alcuna brigata. Certo io confesso che questa talora vana e talora infinta speranza mi toglieva molti sospiri, li quali, poi che da me era partita, quasi come se nella concavitá del mio cerebro raccolti si fossero, quelli che uscire doveano fuori, convertiti in amarissime lagrime per li miei dolenti occhi spiravano. E cosí le finte allegrezze in verissime angoscie si convertiano.
La nostra cittá, oltre a tutte l’altre italiche, di lietissime feste abbondevole, non solamente rallegra li suoi cittadini o con nozze o con bagni o con li marini liti, ma, copiosa di molti giuochi, sovente ora con uno ora con un altro letifica la sua gente. Ma tra l’altre cose nelle quali essa appare splendidissima, è nel sovente armeggiare. Suole adunque essere questa a noi consuetudine antica, che poi che i guazzosi tempi del verno sono trapassati e la primavera con li fiori e con la nuova erba ha al mondo rendute le sue perdute bellezze, essendo con questo li giovaneschi animi per la qualitá del tempo raccesi e piú che l’usato pronti a dimostrare li loro disii, di convocare li di piú solenni alle logge de’ cavalieri le nobili donne, le quali, ornate delle loro gioie piú care, quivi s’adunano. Né credo che piú nobile o ricca cosa fosse a riguardare le nuore di Priamo con l’altre frigie donne, qualora piú ornate davanti al suocero loro a festeggiare s’adunavano, che sono in piú luoghi della nostra cittá le nostre cittadine a vedere; le quali poi che alli teatri in grandissima quantitá ragunate si veggono, ciascuna quanto il suo potere si stende dimostrandosi bella, non dubito che qualunque forestiere intendente sopravvenisse, considerate le contenenze altiere, li costumi notabili, gli ornamenti piuttosto reali che convenevoli ad altre donne, non giudicasse noi non donne moderne, ma di quelle antiche magnifiche essere al mondo tornate: quella per alterezza, dicendo, Semiramis somigliare13; quell’altra, agli ornamenti guardando, Cleopatras14 si crederebbe; l’altra, considerata la sua vaghezza, sarebbe creduta Elena; e alcuna, gli atti suoi bene mirando, in niente si direbbe dissimigliare a Didone.
Perché andrò io somigliandole tutte? Ciascuna per se medesima pare una cosa piena di divina maestá, non che d’umana. E io misera, prima che il mio Panfilo perdessi, piú volte udii tra li giovani quistionare, a quale io fossi piú da essere assomigliata, o alla vergine Pulissena, o alla Ciprigna Venere15, dicenti alcuni di loro essere troppo assomigliarmi a dea, e altri rispondenti in contrario, essere poco il somigliarmi a femina umana. Quivi, tra cotanta e cosí nobile compagnia non lungamente si siede, né vi si tace, né mormora; ma stanti gli antichi uomini a riguardare, li chiari giovani, prese le donne per le dilicate mani, danzando, con altissime voci cantano i loro amori; e in cotal guisa con quante maniere di gioia si possono divisare, la calda parte del giorno trapassano. E poi che ’l sole ha cominciato a dare piú tiepidi li suoi raggi, si veggono quivi venire gli onorevoli principi del nostro Ausonico regno, in quell’abito che alla loro magnificenza si richiede; li quali, poi che alquanto hanno mirato e le bellezze delle donne e le loro danze, quasi con tutti li giovani cosí cavalieri come donzelli partendosi, dopo non lungo spazio in abito tutto al primo contrario con grandissima comitiva ritornano.
Quale lingua sí d’eloquenza splendida, o sí di vocaboli eccellenti facunda sarebbe quella che interamente potesse li nobili abiti e di varietá pieni interamente narrare? Non il greco Omero, non il latino Virgilio, li quali tanti riti di Greci, di Troiani e d’italici giá ne’ loro versi descrissero. Lievemente adunque, a comparazione del vero, m’ingegnerò di farne alcuna particella a quelle che non gli hanno veduti palese. E ciò non fia nella presente materia dimostrato invano; anzi si potrá per le savie comprendere la mia tristizia essere oltre a quella d’ogni altra donna preterita o presente continua, poi la dignitá di tante e si eccelse cose vedute non l’hanno potuta intrarompere con alcuno lieto mezzo. Dico, adunque, al proposito ritornando, che li nostri principi sopra cavalli tanto nel correre veloci, che non che gli altri animali, ma li venti medesimi, quantunque piú si crede festino, di dietro correndo si lascerieno, vengono, la cui giovanetta etá, la speziosa bellezza, e la virtú espettabile d’essi, graziosi li rende oltre modo a’ riguardanti. Essi di porpora o di drappi dalle indiane mani tessuti con lavori di colori varii e d’oro intermisti, e oltre a ciò soprapposti di perle, e di care pietre vestiti, e i cavalli coverti, appariscono; de’ quali i biondi crini penduli sopra li candidissimi omeri, da sottiletto cerchiello d’oro, o da ghirlandetta di fronda novella sono sopra la testa ristretti; quindi la sinistra un leggerissimo scudo, e la destra mano arma una lancia, e al suono delle tostáne trombe l’uno appresso l’altro, e seguiti da molti, tutti in cotale abito cominciano davanti alle donne il giuoco loro, colui lodando piú in esso, il quale con la lancia piú vicino alla terra con la sua punta, e meglio chiuso sotto lo scudo, senza muoversi sconciamente, dimora correndo sopra il cavallo.
A queste cosí fatte feste, e piacevoli giuochi, come io solea, ancora, misera, sono chiamata; il che senza grandissima noia di me non avviene, perciò che, queste cose mirando, mi torna a mente d’avere giá, intra li nostri piú antichi e per etá reverendi cavalieri, veduto sedere il mio Panfilo a riguardare, la cui sufficienza alla sua etá giovinetta impetrava sí fatto luogo. E alcuna volta fu che, stante egli non altramente che Daniello tra gli antichi sacerdoti ad esaminare la causa di Susanna, intra li predetti cavalieri togati, de’ quali per autoritá alcuno Scevola somigliava16, e alcuno altro per la sua gravezza si saria detto il censorino Catone, o l’Uticense17, e alcuni si nel viso appariano favorevoli, che appena altramente si crede che fosse il Magno Pompeo, e altri, piú robusti, fingono Scipione Africano18, o Cincinnato19, rimirando essi parimente il correre di tutti, e quasi delli loro piú giovani anni rimemorandosi, tutti fremendo, or questo or quell’altro commendavano, affermando Panfilo i detti loro, al quale io alcuna volta, ragionando esso con essi, quanti ne correvano udii agli antichi cosí giovani, come valorosi vecchi assomigliare.
Oh quanto m’era ciò caro ad udire, sí per colui che ’l diceva, e sí per quelli che ciò ascoltavano intenti, e sí per li miei cittadini, de’ quali era detto certo tanto, che ancora m’è caro il rammentarlo! Egli soleva delli nostri principi giovanetti, li quali nel li loro aspetti ottimamente li reali animi dimostravano, alcuno dire essere ad Arcadio Partenopeo20 simigliarne, del quale non si crede che altro piú ornato all’assedio di Tebe venisse che esso fu dalla madre mandato, essendo egli ancora fanciullo; l’altro appresso il piacevole Ascanio21 parere confessava, del quale Virgilio tanti versi, d’ottima testificanza del giovanetto descrisse; il terzo comparando a Deifebo22; il quarto per bellezza a Ganimede. Quindi alla piú matura turba che loro seguiva vegnendo, non meno piacevoli simiglianze donava. Quivi venente alcuno colorito nel viso con rossa barba e bionda chioma sopra gli omeri candidi ricadente, e non altramente che Ercule23 fare solesse, ristretta da verde fronda in ghirlanderá protratta assai sottile, vestito di drappi sottilissimi serici, non occupanti piú spazio che la grossezza del corpo, ornati di lavori varii fatti da maestra mano, con un mantello sopra la destra spalla con fibula d’oro ristretto, e con iscudo coperto il manco lato, portando nella destra un’asta lieve quale all’apparecchiato giuoco conviensi, ne’ suoi modi simile il diceva al grande Ettore24; appresso al quale traendosi un altro avanti in simile abito ornato, e con viso non meno ardito, avendo del mantello l’un lembo sopra la spalla gittatosi, con la sinistra maestrevolmente reggendo il cavallo, quasi un altro Achille25 il giudicava; seguendone alcuno altro, pallando la lancia, e postergato lo scudo, li biondi capelli avendo legati con sottile velo forse ricevuto dalla sua donna, Protesilao26 gli si udia chiamare; quindi seguendone un altro con leggiadro cappelletto sopra i capelli, bruno nel viso, e con barba prolissa, e nell’aspetto feroce, nomava Pirro27; e alcuno piú mansueto nel viso, biondissimo e pulito, e piú che altro ornatissimo, lui credere il troiano Paris, o Menelao28 dicea possibile. Egli non è di necessitá il piú in ciò prolungare la mia novella: egli nella lunghissima schiera mostrava Agamennone29, Aiace30, Ulisse, Diomedes, e qualunque altro greco, frigio o latino fu degno di lode. Né poneva a beneplacito cotali nomi, anzi con ragioni accettevoli fermando li suoi argomenti sopra le maniere de’ nominati, loro debitamente assomigliati mostrava: per che, non era l’udire cotali ragionamenti meno dilettevole, che il vedere coloro medesimi di cui si parlava.
Essendo adunque la lieta schiera due o tre volte, cavalcando con picciolo passo, dimostratasi a’ circustanti, cominciavano i loro aringhi; e diritti sopra le staffe, chiusi sotto gli scudi, con le punte delle lievi lance tuttavia egualmente portandole quasi rasente terra, velocissimi piú che aura alcuna, corrono i loro cavalli; e l’aere esultante per le voci del popolo circustante, per li molti sonagli, per li diversi strumenti, e per la percossa del riverberante mantello del cavallo e di sé, a meglio e piú vigoroso correre li rinfranca. E cosí tutti veggendoli, non una volta ma molte, degnamente ne’ cuori de’ riguardanti si rendono laudevoli. Oh, quante donne, quale il marito, quale l’amante, quale lo stretto parente veggendo tra questi, ne vidi giá piú fiate sommissimamente rallegrare! Certo assai, e non che esse, ma ancora le strane. Io sola, ancora che ’l mio marito vi vedessi o vi veggia, e con esso i miei parenti, dolente li riguardava, Panfilo non veggendovi, e lui essere lontano ricordandomi. Deh, or non è questa mirabile cosa, o donne, che ciò ch’io veggio mi sia materia di doglia, né mi possa rallegrare cosa alcuna? Deh, quale anima è in inferno con tanta pena, che, queste cose veggendo, non dovesse sentire allegrezza? Certo niuna, credo. Esse, pur prese dalla piacevolezza della cetera d’Orfeo31, obliarono per alquanto spazio le pene loro; ma io tra mille strumenti, tra infinite allegrezze, e in molte e varie maniere di feste, non posso la mia pena, non che dimenticare, ma solamente un poco alleviare.
E posto che io alcuna volta a queste feste o a simiglianti con infinto viso la celi, e dèa sosta a’ sospiri, la notte poi, o qualora soletta trovandomi prendo spazio, non perdona parte delle sue lagrime, anzi piú tante ne verso, quanti per avventura ho il giorno risparmiati sospiri. E inducendomi queste cose in piú pensieri, e massimamente in considerare la loro vanitá, piú possibile a nuocere che a giovare, sí come io manifestamente, provandolo, conosco, alcuna volta, finita la festa e da quella partitami, meritamente contra alle mondane apparenze crucciandomi, cosí dissi:
«Oh, felice colui32 il quale innocente dimora nella solitaria villa, usando l’aperto cielo! Il quale, solamente conoscendo di preparare maliziosi ingegni alle selvatiche fiere, e lacciuoli a’ semplici uccelli, da affanno nell’animo essere stimolato non puote, e se grave fatica per avventura nel corpo sostiene, incontanente sopra la fresca erba riposandosi la ristora, tramutando ora in questo lito del corrente rivo, e ora in quell’altra ombra dell’alto bosco li luoghi suoi, ne’ quali ode i queruli uccelli fremire con dolci canti, e i rami tremanti e mossi da lieve vento, quasi fermo tenenti alle loro note! Deh, cotale vita, o fortuna, avessi tu a me conceduta, alla quale le tue disiderate larghezze sono di sollecitudine assai dannosa! Deh, a che mi sono utili gli alti palagi, i ricchi letti e la molta famiglia, se l’animo da ansietá è occupata, errando per le contrade da lui non conosciute dietro a Panfilo, non concedendo a’ lassi membri quiete alcuna?
«Oh come è dilettevole, e quanto è grazioso con tranquillo e libero animo il premere le ripe de’ trascorrenti fiumi, e sopra i nudi cespiti menare li lievi sonni, li quali il fuggente rivo con mormorevoli suoni e dolci senza paura nutrica! Questi senza alcuna invidia sono conceduti al povero abitante le ville, molto piú da disiderare che quelli, li quali, allettati con piú lusinghe sovente o da pronte sollecitudini cittadine o da strepiti di tumultuante famiglia sono rotti. La costui fame, se forse alcuna volta lo stimola, li colti pomi nelle fedelissime selve raccolti la scacciano, e le nuove erbette di loro propria volontá fuori della terra uscite sopra li piccioli monti ancora gli ministrano saporosi cibi. Oh quanto gli è, a temperare la sete, dolce l’acqua della fonte presa e del rivo con concava mano. Oh infelice sollecitudine de’ mondani, a sostentamento de’ quali la natura richiede e apparecchia leggierissime cose! Noi nell’infinita moltitudine di cibi la sazietá del corpo crediamo compiere, non accorgendoci in quelli essere le cagioni nascose, per le quali gli ordinati umori spesse volte sono piuttosto corrotti che sostentati; e alli lavorati beveraggi apprestando l’oro e le cavate gemme, sovente in essi veggiamo gustare li veleni frigidissimi, e se non questi, almeno Venere pur si bee; e talvolta per quelli a sicurtá soverchia si viene, per la quale, o con parole o con fatti, misera vita o vituperevole morte s’acquista. E spesse volte avviene che, molti di quelli avendo bevuti, assai peggio che insensato corpo n’è renduto il bevitore. A costui li Satiri, li Fauni, le Driadi, le Naiadi, le Ninfe33 fanno semplice compagnia; costui non sa che si sia Venere né il suo biforme figliuolo34, e se pur la conosce, rozzissima sente la forma sua, e poco ama.
«Deh, or fosse stato piacere d’Iddio, che io similmente mai conosciuta l’avessi, e da semplice compagnia visitata, rozza mi fossi vivuta! Io sarei lontana da queste insanabili sollecitudini che io sostengo, e l’anima insieme con la mia fama santissime non curerebbono di vedere le mondane feste simili al vento che vola, né da quelle vedute avrebbero angoscie come io ho. A costui non l’alte torri, non l’armate case, non la molta famiglia, non i dilicati letti, non i risplendenti drappi, non i correnti cavalli, non centomilia altre cose involatrici della miglior parte della vita, sono cagione d’ardente cura. Questi, de’ malvagi uomini, non cercanti ne’ luoghi rimoti e oscuri li furti loro, vive senza paura; e, senza cercare nell’altissime case i dubbiosi riposi, l’aere e la luce dimanda, e alla sua vita è il cielo testimonio. Oh, quanto è oggi cotale vita male conosciuta, e da ciascuna cacciata come nemica, dove piuttosto dovrebbe essere, come carissima, cercata da tutti! Certo io arbitro che in cotale maniera vivesse la prima etá, la quale insieme gli uomini e gl’iddii produceva. Oimè! Niuna è piú libera né senza vizio o migliore che questa, la quale li primi usarono e che colui ancora oggi usa, il quale, abbandonate le cittá, abita nelle selve. Oh felice il mondo, se Giove mai non avesse cacciato Saturno, e ancora l’etá aurea durasse sotto caste leggi! Però che tutti alli primi simili viveremmo. Oimè! che chiunque è colui li primi riti servante, non è nella mente infiammato dal cieco furore della non sana Venere, come io sono; né è colui che sé dispose ad abitare ne’ colli de’ monti, suggetto ad alcuno regno: non al vento del popolo, non all’infido vulgo, non alla pestilenziosa invidia, né ancora al favore fragile di fortuna, al quale io troppo fidandomi, in mezzo l’acque per troppa sete perisco. Alle picciole cose si presta alta quiete, come che grandissimo fatto sia senza le grandi potere sostenere di vivere. Quegli che alle grandissime cose soprasta, o disidera soprastare, seguita li vani onori delle trascorrenti ricchezze; e certo le piú volte alli falsi uomini piacciono gli alti nomi, ma quegli è libero da paura e da speranza, né conosce il nero lividore dell’invidia divoratrice e mordente con dente iniquo, che abita le solitarie ville, né sente gli odii varii, né gli amori incurabili, né li peccati de’ popoli mescolati alle cittadi, né, come conscio di tutti gli strepiti ha dottanza, né gli è a cura il comporre fittizie parole, le quali lacci sono ad irretire gli uomini di pura fede: ma quell’altro, mentre sta eccelso, mai non è senza paura, e quello medesimo coltello, che arma il lato suo, teme.
«Oh quanto buona cosa è a niuno risistere, e sopra la terra giacendo, pigliare li cibi securo! Rade volte, o non mai, entrano li peccati grandissimi nelle picciole case. Alla prima etá niuna sollecitudine d’oro fu, né niuna sacrata pietra fu arbitra a dividere i campi alli primi popoli. Essi con ardita nave non secavano il mare; solamente ciascuno si conoscea li liti suoi, né li forti steccati, né li profondi fossi, né radissime mura con molte torri cignevano i lati delle cittá loro, né le crudeli armi erano acconce né trattate da’ cavalieri, né era alcuno edificio che con grave pietra rompesse le serrate porte; e se forse tra loro era alcuna picciola guerra, la mano ignuda combatteva, e li rozzi rami degli alberi e le pietre si convertivano in armi. Né ancora era la sottile e lieve asta di cornio armata di ferro nell’aguto spuntone, né la tagliente spada cigneva lato alcuno, né la comante cresta ornava i lucenti elmi; e quello che piú e meglio era a costoro, era Cupido non essere ancora nato, per la qual cosa li casti petti, poi da lui pennuto e per lo mondo volante stimolati, potevano vivere sicuri.
«Deh, or m’avesse Iddio donata a cotal mondo, la gente del quale, di poco contenta e di niente temente, sola salvatica libidine conosceva! E se niuno di cotanti beni quanti essi possedevano non me ne fosse seguito, altro che non aver cosí affannoso amore e cotanti sospiri sentito, come io sento, si sarei io da dire piú felice che quale io sono ne’ presenti secoli pieni di tante delizie, di tanti ornamenti e di cotante feste. Oimè! che l’empio furore del guadagnare, e la strabocchevole ira, e quelle menti, le quali la molesta libidine di sé accese, ruppono li primi patti cosí santi, cosí agevoli a sostenere, dati dalla natura alle sue genti. Venne la sete del signoreggiare, peccato pieno di sangue, e il minore diventò preda del maggiore, e le forze si diedero per leggi; venne Sardanapallo35, il quale Venere, ancora che dissoluta da Semiramis fosse fatta, primieramente la fe’ dilicata, dando a Cerere e a Bacco forme ancora da loro non conosciute; venne il battaglievole Marte, il quale trovò nuove arti e mille forme alla morte, e quinci le terre tutte si contaminarono di sangue, e il mare similmente ne diventò rosso. Allora senza dubbio li gravissimi peccati entrarono per tutte le case, e niuna grave scelleratezza in brieve fu senza esemplo: il fratello dal fratello, il padre dal figliuolo, il figliuolo dal padre furono uccisi; e il marito giacque per lo colpo della moglie; e l’empie madri hanno piú volte li loro medesimi parti morti. La rigidezza delle matrigne ne’ figliastri non dico, che è manifesta ciascuno giorno. Le ricchezze adunque, avarizia, superbia, invidia e lussuria, e ogni altro vizio parimente seco recarono; e con le predette cose ancora entrò nel mondo il duca e facitore di tutti li mali, e artefice de’ peccati, il dissoluto amore, per li cui assediamenti degli animi, infinite cittá cadute e arse ne fumano, e senza fine genti ne fanno sanguinose battaglie, e fecero; e li sommersi regni36 ancora priemono molti popoli. Oimè! tacciatisi tutti gli altri suoi pessimi effetti, e quelli li quali egli usa in me siano soli esempli de’ suoi mali e della sua crudeltá, la quale si agramente mi strigne, che a niuna altra cosa che a lei posso volgere la mente mia».
Queste cose cosí fra me ragionate, alcuna volta, pensando che le cose da me operate siano appo Iddio gravi molto, e le pene a tue senza comparazione noiose, hanno forza d’alleviare alquanto le mie angoscie, in quanto li molti maggiori mali giá per altrui operati, me quasi innocente fanno apparere, e le pene da altrui sostenute, benché io non creda da nessuno cosí gravi come da me, pur veggendomi non essere prima né sola, alquanto piú forte divengo a comportarle; alle quali io sovente priego Iddio che, o con morte o con la tornata di Panfilo, ponga fine.
A cosí fatta vita e a peggiore m’ha la fortuna lasciata consolazione cosí picciola, come udite; né intendiate consolazione che me di dolore privi, sí come l’altre suole: essa solamente alcuna volta gli occhi toglie dal lagrimare senza piú prestarmi de’ suoi beni. Seguitando adunque le mie fatiche, dico che, con ciò sia cosa che io per addietro tra l’altre giovani della mia cittá di bellezze ornatissima, quasi niuna festa solea, che alli divini templi si facesse, lasciare, né alcuna bella senza me ne reputavano li cittadini; le quali feste vegnendo, a quelle mi solevano sollecitare le serve mie, e ancora esse, l’antico ordine osservando, apparecchiati li nobili vestimenti, alcuna volta mi dicono:
— O donna, adornati; venuta è la solennitá di cotale tempio, la quale te sola aspetta per compimento. —
Oimè! che egli mi torna a mente che io alcuna volta a loro furiosa rivolta, non altramente che l’addentato cinghiaro alla turba de’ cani, a loro rispondeva turbata, e con voce d’ogni dolcezza vòta, giá dissi:
— Via, vilissima parte della nostra casa, fate lontani da me questi ornamenti: brieve roba basta a coprire gli sconsolati membri, né piú alcuno tempio né festa per voi a me si ricordi, se la mia grazia v’è cara.—
Oh, quante volte giá, come io udii, furono quelli da molti nobili visitati, li quali piú per vedermi, che per devozione alcuna venuti, non veggendomi, turbati si tornavano indietro, nulla, dicendo, senza me valere quella festa! Ma come che io cosí le rifiuti, pure alcuna volta, in compagnia delle mie nobili compagne, me le conviene costretta vedere, con le quali io semplicemente e di feriali vestimenti vestita vi vado, e quivi non i solenni luoghi, come giá feci, cerco, ma, rifiutando li giá voluti onori, umile, ne’ piú bassi luoghi tra le donne m’assetto; e quivi diverse cose, ora dall’una ora dall’altra ascoltando con doglia nascosa quanto io piú posso, passo quello tempo che io vi dimoro. Oimè! quante volte giá m’ho io udito dire assai d’appresso:
— Oh, quale maraviglia è questa! Questa donna, singulare ornamento della nostra cittá, cosí rimessa e umile è divenuta? Qual divino spirito l’ha spirata? Ove le nobili robe? Ove gli altieri portamenti? Ove le mirabili bellezze si sono fuggite? —
Alle quali parole, se licito mi fosse stato, avrei volentieri risposto:
«Tutte queste cose, con molte altre piú care, se ne portò Panfilo dipartendosi».
Quivi ancora dalle donne intorniata, e da diverse domande trafitta, a tutte con infinto viso mi conviene satisfare. L’una con cotali voci mi stimola:
— O Fiammetta, senza fine di te me e l’altre donne fai maravigliare, ignorando quale, sia stata sí súbita la cagione che le preziose robe hai lasciate e li cari ornamenti, e l’altre cose dicevoli alla tua giovane etade; tu, ancora fanciulla, in sí fatto abito andare non dovresti. Non pensi tu che, lasciandolo ora, per innanzi ripigliar nol potrai? Usa gli anni secondo la loro qualitá. Questo abito di tanta onestade da te preso non ti falla per innanzi. Vedi qui qualunque di noi, piú di te attempate, ornate con maestra mano, e d’artificiali drappi e onorevoli vestite, e cosí tu similemente dovresti essere ornata. —
A costei e a piú altre aspettanti le mie parole rendo io con umile voce cotale risposta:
— Donne, o per piacere a Dio o agli uomini si viene a questi templi. Se per piacere a Dio ci si viene, l’anima ornata di virtú basta, né forza fa, se il corpo di cilicio fosse vestito; se per piacere agli uomini ci si viene, con ciò sia cosa che la maggior parte, da falso parere adombrati, per le cose esteriori giudichino quelle dentro, confesso che gli ornamenti usati e da voi e da me per addietro, si riechieggiono. Ma io di ciò non ho cura, anzi, dolente delle passate vanitá, volonterosa d’ammendare nel cospetto d’iddio, mi rendo quanto posso dispetta agli occhi vostri. —
E quinci le lagrime dell’intrinseca veritá cacciate per forza fuori mi bagnano il mesto viso, e con tacita voce cosí con meco medesima dico:
«O Iddio, veditore de’ nostri cuori, le non vere parole dette da me non m’imputare in peccato. Come tu vedi, non volontá d’ingannare, ma necessitá di ricoprire le mie angoscie a quelle mi strigne, anzi piuttosto merito me ne rendi, considerando che ’l malvagio esemplo levando, alle tue creature il do buono: egli m’è grandissima pena il mentire, e con faticoso animo la sostengo, ma piú non posso».
Oh quante volte, o donne, ho io per questa iniquitá pietose lagrime ricevute, dicendo le circustanti donne me devotissima giovane di vanissima ritornata! Certo, io intesi piú volte di molte essere oppinione, me di tanta amicizia essere congiunta con Dominedio, che niuna grazia a lui da me dimandata, negata sarebbe; e piú volte ancora dalle sante persone per santa fui visitata, non conoscendo esse quel che nell’animo nascondea il tristo viso, e quanto li miei disiderii fossero lontani alle mie parole. O ingannevole mondo, quanto possono in te gl’infinti visi piú che li giusti animi, se l’opere sono occulte! Io, piú peccatrice che altra, dolente per li miei disonesti amori, però che quelli velo sotto oneste parole, sono reputata santa; ma conoscelo Iddio, che, se senza pericolo essere potesse, io con vera voce di me sgannerei ogni ingannata persona, né celerei la cagione che trista mi tiene: ma non si puote.
Come io ho a quella, che prima addimandata m’avea, risposto, l’altra dal mio lato, veggendo le mie lagrime rasciugare, dice:
— O Fiammetta, dov’è fuggita la vaga bellezza del viso tuo? Dove l’acceso colore? Quale è la cagione della tua pallidezza? Gli occhi tuoi, simili a due mattutine stelle, ora intorniati di purpureo giro, perché appena nella tua fronte si scernono? E gli aurei crini con maestrevole mano ornati per addietro, ora perché chiusi appena si veggono senza alcuno ordine? Dilloci, tu ne fai senza fine maravigliare. —
Da questa con poche parole sciogliendomi, dico:
— Manifesta cosa è l’umana bellezza essere fiore caduco, e da un giorno ad un altro venire meno, la quale se di sé dá fidanza ad alcuna, miseramente a lungo andare se ne truova prostrata. Quegli che la mi diede, con sordo passo sottomettendomi le cagioni da cacciarla, se l’ha ritolta, possibile a renderlami, quando gli pur piacesse. —
E questo detto, non potendo le lagrime ritenere, chiusa sotto il mio mantello, copiosamente le spando, e meco con cotali parole mi dolgo:
«O bellezza, dubbioso bene de’ mortali, dono di picciolo tempo, la quale piú tosto vieni e partiti, che non fanno ne’ dolci tempi della primavera i piacevoli prati risplendenti di molti fiori, e gli eccelsi arbori carichi di varie frondi, li quali, ornati dalla virtú d’Ariete37, dal caldo vapor della state sono guasti e tolti via; e se forse alcuni pure ne risparmia il caldo tempo, niuno dall’autunno è risparmiato; cosí e tu bellezza, le piú volte nel mezzo de’ migliori anni da molti accidenti offesa perisci, alla quale, se forse pure ti perdona la giovinezza, la matura etá a forza te resistente ne porta. O bellezza, tu se’ cosa fugace, non altramente che l’onde mai non tornanti alle sue fonti, e in te fragile bene niuno savio si dée confidare. Oimè! quanto giá t’amai, e quanto a me misera fosti cara, e con sollecitudine riguardata, ora, e meritamente, ti maledico. Tu prima cagione de’ miei danni, e prenditrice prima dell’animo del caro amante, lui non hai avuto forza di ritenere, né lui partito di rivocare. Se tu non fossi stata, io non sarei piaciuta agli occhi vaghi di Panfilo; e, non essendo piaciuta, egli non si sarebbe ingegnato di piacere alli miei; e non essendo egli piaciuto, sí come piacque, ora non avrei queste pene. Dunque tu sola cagione e origine se’ d’ogni mio male. Oh, beate quelle che senza te li rimproveri della rustichezza sostengono! Esse caste le sante leggi osservano, e senza stimoli possono vivere con l’anime libere dal crudele tiranno Amore; ma tu a noi cagione di continuo infestamento ricevere da chi ci vede, a forza ci conduci a rompere quello che piú caramente si dée guardare. O felice Spurinna38, e degno d’eterna fama, il quale, li tuoi effetti conoscendo, nel fiore della sua gioventude da sé con mano acerba ti discacciò, eleggendo piuttosto volere da’ savii per virtuosa opera essere amato, che dalle lascive giovani per la sua concupiscevole bellezza. Oimè! Cosí avessi fatto io! Tutti questi dolori, questi pensieri e queste lagrime sarebbono lontane, e la vita per addietro corrotta ancora ne’ termini primi laudevoli si sarebbe».
Quinci mi richiamano le donne, e biasimano le mie soperchi lagrime, dicendo:
— O Fiammetta, che maniera è questa? Dispériti tu della misericordia di Dio? Non credi tu lui pietoso a perdonarti le piú picciole offese senza tante lagrime? Questo che tu fai è piuttosto cercare morte che perdono. Lieva su, asciuga il viso tuo, e attendi al sacrificio porto al sommo Giove dalli nostri sacerdoti. —
A queste voci io, le lagrime restringendo, alzo la testa, la quale giá in giro non volgo come io soleva, fermamente sappiendo che quivi non è il mio Panfilo per mirarlo, né per vedere se da altrui, o da cui sono mirata, o quello che di me pare agli occhi de’ circustanti; anzi attenta a colui, che per la salute di tutti diede se medesimo, porgo pietosi prieghi per lo mio Panfilo, e per la sua tornata, con cotali parole tentandolo:
«O grandissimo rettore del sommo cielo e generale arbitro di tutto il mondo, poni oramai alle mie gravi fatiche modo, e fine alli miei affanni. Vedi niuno giorno a me essere sicuro; continuamente il fine dell’uno male è a me principio dell’altro. Io, che giá mi dissi felice, non conoscendo le mie miserie, prima ne’ vani affanni d’ornare la mia giovinezza, piú che ’l debito ornata dalla natura, te non sapevole offendendo, per penitenza all’indissolubile amore che ora mi stimola mi sottoponesti; quinci la mente non usa a cosí gravi affanni riempiesti per quello di nuove cure, e ultimamente colui, cui io piú che me amo, da me dividesti, onde infiniti pericoli sono cresciuti l’uno dopo l’altro alla mia vita. Deh, se li miseri sono da te uditi alcuna volta, porgi li tuoi pietosi orecchi alli miei prieghi, e senza guardare a’ molti falli da me verso te commessi, i pochi beni, se mai ne feci alcuno, benigno considera, e in merito di quelli le mie orazioni e preghiere esaudisci, le quali, cose a te assai leggiere, e a me grandissime, conterranno: io non ti cerco altro, se non che a me sia renduto il mio Panfilo. Oimè! quanto e come conosco bene questa preghiera nel cospetto di te giustissimo giudice essere ingiusta!
«Ma dalla tua giustizia medesima si dée muovere il meno male piuttosto volere che ’l maggiore. A te, a cui niente s’occulta, è manifesto a me per niuna maniera potere uscire della mente il grazioso amante né li preteriti accidenti, del quale e de’ quali la memoria a sí fatto partito mi reca con gravi dolori, che giá per fuggirli mille modi di morte ho dimandati, li quali tutti un poco di speranza, che di te m’è rimasa, m’ha levati di mano. Dunque, se minore male è il mio amante tenere, come io giá tenni, che insieme col corpo uccidere l’anima trista, sí come io credo, torni e rendamisi. Siati piú caro li peccatori vivere, e possibili a te conoscere, che morti, senza speranza di redenzione, e vogli innanzi parte che tutto perdere delle creature da te create.
«E se questo è grave ad essermi conceduto, concedamisi quella che d’ogni male è ultimo fine, prima che io costretta da maggiore doglia, da me con diterminato consiglio la prenda. Vengano le mie voci nel tuo cospetto, le quali se te toccare non possono, o qualunque altri iddíi tenenti le celestiali regioni, s’alcuno di voi vi si truova, il quale mai, quaggiú vivendo, quell’amorosa fiamma provasse la quale io pruovo, ricevetele, e per me le porgete a colui, il quale da me non le prende, sí che impetrandomi grazia, prima quaggiú lietamente, e poi nella fine de’ miei giorni costassú con voi io possa vivere, e innanzi tratto alli peccatori dimostrare convenevole l’uno peccatore all’altro perdonare, e dare aiuto».
Queste parole dette, odorosi incensi e degne offerte per farli abili a’ prieghi miei e alla salute di Panfilo, pongo sopra li loro altari; e, finite le sacre cerimonie, con l’altre donne partendomi, torno alla trista casa.
Note
- ↑ [p. 188 modifica][Ulisse etc.]. Qui è da sapere quello che pone Stazio nell’Achilleidos il quale scrive che da poi che Tetis ebbe partorito Achille, gittò sorti per vedere che fortuna dovea avere il detto Achille, per le quali conobbe che dovea essere morto nell’oste di Troia; e però quando venne il tempo che li Greci voleano andare a oste a Troia, essa sentendo che Achille era cercato, lo tolse da Chirone a cui l’avea dato perché l’ammaestrasse in fatto d’arme, e si lo portò nell’isola di Schiros e sí l’accomandò al padre di Deidamia e fello vestire in abito di femina acciò non si conoscesse che fosse maschio. E stando con questa Deidamia nel tempo ebbe a fare con essa e ingravidolla, della quale nacque Pirro. E sentendo li Greci che il detto Achille era nella detta isola e portava abito di femina e però non si conosceva, fûr mandati il detto Ulisse e Diomede che ’l cercassero, li quali andaro alla detta isola in forma di mercatanti, e dismontati delle navi andaro a visitare il re padre della detta Deidamia, ove portaro dilettissime gioie le quali mostraro alla detta Deidamia e alle sorelle, con le quali era Achille predetto. Ed esse prendendo gioie feminili, Achille inbracciò subito uno scuto e prese una spada in mano e cominciolla a brandire: li quali scudo e spada costoro aveano portato a studio di riconoscerlo. E cosí lo riconobbero e menaronlo via nell’oste a Troia ove fu morto.
- ↑ [p. 188 modifica][al misero Edippo]. Edippo, secondo pone Seneca e Stazio,
fu figlio di Laio re della cittá di Tebe, e di Giocasta sua
madre, la quale essendo gravida, il detto Laio ebbe responso
dalli dii che doveva partorire un figliuolo che lo dovea uccidere, e però comandò alla detta sua donna che come avea
partorito la creatura la dovesse far morire. Da poi partorí un
bellissimo figlio maschio lo quale vedendolo essa sí bello, nol
volle far morire, ma fello portare alli servi suoi che lo portassero in un bosco, e foraronli li piedi e con ritorte [p. 189 modifica]l’appiccarono a uno arbore; lo quale ritrovato da pastori fu nutricato da Polibo re di Foci, e venendo a etá virile, scontrandosi
sventuratamente nel detto re Laio suo padre, l’uccise, e come
piacque alla fortuna prese per moglie la detta Giocasta sua
madre, della quale prima che la riconoscesse ebbe quattro
figliuoli, due maschi e due femine: delli quali l’uno ebbe nome
Etiocle, l’altro Pollinice; delle femine l’una Ismene, l’altra
Antigone. Dopo li quali avuti figliuoli riconoscendo Edippo
come avea morto il detto suo padre e avea per moglie la
detta sua madre, considerata l’abominevole iniquitá in che
esso stava con la madre, e lo padre ch’avea morto, per disperazione s’accecò. Da poi li detti suoi figliuoli vennero a
divisione del regno tebano, s’uccisero insieme etc. Della qual
morte contra d’essi esclama Stazio nel libro XI dove dice:
Ite truces animae funestaque Tartara leto
Polluite, et cunctas Rrebi consumite poenas!
Vosque malis hominum, Stygiae, iam parcite, divae:
Omnibus in terris scelus hoc omnisque sub aevo
Viderit una dies, monstrumque infame futuris
Excidat, et soli memorent haec proelia reges.[Theb., XI, 574 579]
- ↑ [p. 189 modifica][le figliuole di Danao]. Danao ebbe cinquanta figliuole femine, ed ebbe un fratello il quale ebbe nome Egisto ch’ebbe cinquanta figliuoli maschi, li quali presero per loro spose le dette cinquanta loro consobrine; alle quali Danao comandò che ciascuna dovesse la prima notte ammazzare lo suo marito, e questo fe’ acciò che rimanesse senza erede per tutto lo reame [e lo reame] rimanesse a lui. E cosí fecero tutte eccetto una la quale ebbe nome Ipermestra che fu maritata col fratello minore ch’ebbe nome Lino, che non l’ammazzò. Sí che di cinquanta ne campò uno solo etc. Il detto Danao fu figliuolo di Belo.
- ↑ [p. 189 modifica][Narciso]: fu figlio d’una ninfa chiamata Liriope e il padre ebbe nome Cefiso, e volendo sapere che fortuna dovea [p. 190 modifica]avere il detto Narciso, dimandarono consiglio a uno indovino
che si chiamò Tiresia padre di Manto che edificò la cittá di
Mantova; ed esso rispose che il detto Narciso viverebbe lungo
tempo se esso non conoscesse se medesimo. Della qual cosa
fu fatto beffe; ma poi venne tempo nella sua iuventute che
una ninfa chiamata Eco s’innamorò di lui ed esso non di
lei, onde ella il biastimò che esso si potesse innamorare di
cosa che mai non potesse usare. E cosí fu che andando esso
a bere ad una fontana perché era cacciatore ed era stanco,
mirando nella fontana vide la sua figura bellissima, e innamorossi di se stesso, e non conoscendosi si consumò d’amore, e
cosí dagl’iddíi fu trasmutato in fiore, di cui dice Ovidio:
Credule, quid frustra simulacra fugacia captas?
Quod petis, est nusquam; quod amas, avertere, perdes.[Met., III, 432-433.]
- ↑ [p. 190 modifica][Atalanta]: fu figliuola di Ceneo re, la quale fu bellissima
e velocissima in correre, in tanto che avanzava ogni uomo,
e però avea fatta legge che qualunque corresse piú di lei la
dovesse aver per moglie, e se no gli dovesse essere tagliata la
testa. La qual cosa intervenne a molti, ma Ipomenes figliuolo
di Megareo vedendo la bellezza di costei, volle correre con
essa non ostante il pericolo. E però che esso era bellissimo
di corpo, essa quando il vide disposto a correre con lei, mossa
quasi a pietá averebbe voluto essere vinta da lui. Ma pur
essa ed esso corsero insieme, e vinse Ipomenes però che Venere li donò tre pomi d’oro e disseli: «Quando sarai alla
metá del corso butterai uno de’ detti pomi, lo quale essa vedendo si ristará per ricòrlo, e tu allora passerai dinanzi, e
cosí farai del secondo, e il terzo butterai quando sarai appresso al termine del corso acciò che giungi prima di lei».
E cosí fe’, e a questo modo vinse e fulli data per moglie; e
menandola a casa sua, arrivaro ad uno tempio consacrato alla
dea Cibele ch’è detta madre delli iddii, ed entrando nel detto
tempio per riposarsi, il giovine predetto, per poca continenzia, [p. 191 modifica]non avendo rispetto alla religione, ebbe a far con la detta
Atalanta. Per la qual cosa Cibele disdegnatasi, amendui li
trasmutò in lioni li quali tirano li suoi carri. E però dice
Ovidio questi versi:
Pro thalamis celebrant silvas; aliisque timendi
Dente premunt domito Cybeleia frena leones.[Met., X, 703-704.]
- ↑ [p. 191 modifica][fratello della dura morte]: cioè il Sonno del quale parla
Ovidio nel Metamorfoseos ove dice:
Somne, quies rerum, placidissime, Somne, deorum,
Pax animi, quem cura fugit, qui corpora duris
Fessa ministeriis mulces reparasque labori!
Somnia, quae veras aequent imitamine formas....[Met., XI, 623-626.]
- ↑ [p. 191 modifica][i cento d’Argo]. A dichiarazione di questo si deve sapere quel che pone Ovidio nel primo libro del Metamorfoseos, cioè che Inaco re d’Arcadia ebbe una sua figliuola bellissima che si chiamò Io della quale s’innamorò Giove; e avendo a far con essa coperto d’una nuvola, Giunone sua moglie vedendolo, per l’inganni che Giove le solea fare, sappiendo quel che era, cioè che Giove avesse a far con qualche sua amica: onde discese del cielo e andò ov’era la detta nuvola per vedere quel ch’era. Della qual cosa Giove avvedendosi, trasmutò la detta Io in una vacchetta, e Giunone vedendo quel che facea, lo domandò, e lui rispose che riguardava questa bella vacchetta la quale dicea essere generata dalla terra, ed essa Giunone, ciò udendo, la dimandò di grazia in dono perché conosceva bene che non era così come Giove dicea. La quale Giove le donò, ed essa la diè in guardia a un suo pastore lo quale ebbe nome Argo ch’ebbe cento occhi, acciò che la guardasse bene acciò che Giove non la potesse ritòrre, sí che quando dormissero cinquanta occhi, gli altri cinquanta [p. 192 modifica]vegliassero. Per la qual cosa Giove vinto dall’amore per la pena che vedea patire alla detta sua amorosa, andò a Mercurio iddio della musica che dovesse andare in forma di pastore al detto Argo, e sí sonasse tanto dolce che lo facesse addormentare con tutti gli occhi. E cosí fe’, e addormentato lo detto Argo, Mercurio gli tagliò la testa; onde Giunone ciò sentendo e vedendo il detto Argo così morto, il trasmutò in pavone, lo quale è uccello consacrato a Giunone, e però il pavone ha tanti occhi nella coda. E da poi la detta Giunone mise uno assillo alla detta vacca, e fecela andare fuggendo perfino in Egitto dove dopo molte fatiche Giove mosso a misericordia commutò con Giunone di non avere a fare mai piú con essa, e la fe’ nella prima forma ritornare, e la fe’ maritare a Nubi iddio d’Egitto, ed essa fu chiamata Isi iddea del Nilo fiume etc.
- ↑ [p. 192 modifica][Miseno]: fu trombetta di Ettore e figlio di Eolo, e da poi di Enea quando si partí da Troia per venire nelle parti d’Italia, lo quale affogò in mare per fortuna. Onde Enea da poi che l’ebbe fatto seppellire per comandamento della Sibilla Cumana, andando allo ’nferno lo trovò, e di lui parla Virgilio
nel sesto in questa forma [Aen., VI, 164-5]:
Misenum Aeoliden, quo non praestantior alter
Aere ciere viros Martemque accendere cantu.Alla quale Sibilla Enea quando venne in Italia andò per consiglio in che modo potesse andare allo ’nferno per andare al padre suo Anchise, dove essa il menò con gran fatica, sí come pone Virgilio nel sesto.
- ↑ [p. 192 modifica][l’oracoli della Sibilla Cumana]. La Sibilla Cumana fu bellissima giovane della quale innamorò Febo dio della sapienza, al quale se avesse voluto consentire sarebbe stata divina. E pure esso Febo sollecitandola con prieghi che domandasse ciò che ella volesse che ’l farebbe, essa prese un pugno d’arena [p. 193 modifica]marina e domandò di grazia di potere vivere tanti anni quanti quelli granelli erano d’arena. La quale grazia Febo le fé’, ma essa poi si fe’ beffe di lui; e avrebbele conceduto che fosse vissuta sempre giovine, ma non lo domandò. Abitò costei alla cittá di Cuma e ivi era l’abitazione in forma d’una spelunca dove essa dava risposta delle cose future a chi v’andava a dimandare, e scrivevale nelle foglie e ponevate per ordine in sul limitare della porta della spelunca, e quando riserrava, le dette porte faceano vento e facea spargere le dette foglie sí che non si potea sapere sentenzia che esse dicessero. Visse anni, secondo che pone Ovidio:
... nam iam mihi saecula septem
Acta vides; superest, numeros ut pulveris aequem
Ter centum messes, ter centum musta videre.[Met., XIV, 144-146.]
- ↑ [p. 193 modifica][o Fortuna etc.]. Seneca nel principio della tragedia che comincia Trohas pone le parole d’Ecuba alla fortuna:
Quicumque regno fidit et magna potens
Dominatur aula nec leves metuit deos
Animumque rebus credulum laetis dedit
Me videat et te Troia... - ↑ [p. 193 modifica][se non come a Mida la ricevuta grazia]. Mida fu re nelle parti d’Africa, il quale avendo onorato molto in casa sua Silleno sacerdote di Bacco iddio del vino, arrivando a casa sua il detto dio Bacco e rendendogli il detto suo sacerdote e simile onore faccendo a lui, il detto dio Bacco volendolo rimunerare gli disse che esso Mida domandasse qual grazia esso volea ch’e’ gli la faria. Onde esso Mida come avarissimo e cupidissimo domandò che ciò che toccasse diventasse oro; e cosí fu fatta la grazia: per la qual cosa ciò che toccava diventava oro, sí che bisognava che misero morisse in tanta ricchezza. Onde conoscendo esso la sua cupiditá e domanda dannosa che avea fatta, ripregò il detto iddio Bacco che gli piacesse ritôrgli la grazia, [p. 194 modifica]ed esso esaudendolo gli comandò che se volea essere liberato andasse al fiume Pattolo e dentro vi si lavasse e allora sarebbe libero della detta sconcia grazia per lui domandata; e così fe’. Per la qual cosa il detto fiume ha sempre menato vena d’oro. E vergognandosi poi esso Mida e avendo in odio la gente, abitò nelle ville e nel li boschi, ove esso stando ed essendo pur poco savio, volle contendere con lo iddio Pan dio de’ pastori e maestro delli suoni, che esso Mida sonava meglio di lui; e furono alla pruova e fu giudicato che lo dio Pan sonava meglio di lui. Laonde Febo per correggere la sua pazzia gli fe’ l’orecchie dell’asino le quali tenne ascose lungo tempo, ma uno suo famiglio vedendogli tondere li capelli vide che avea l’orecchie dell’asino, e non potendolo ritenere per paura lo disse alla Terra ove subito nacquero cannuccie le quali traendo il vento e percotendosi insieme diceano: «lo re ha l’orecchie dell’asino». Onde dice Ovidio:
Creber harundinibus tremulis ibi surgere lucus
Coepit, et ut primum pieno maturuit anno
Prodidit agricolam: leni narri motus ab austro
Obruta verba refert, dominique coarguit aures.[Met., XI, 190-193].
- ↑ [p. 194 modifica][di prendere vendetta di Febo]. Febo come fu detto dinanzi fu iddio della sapienza e uccise Fitone il gran serpente il quale la terra produsse dopo il diluvio di Pirra e Deucalione. Vedendo un dí Cupido iddio dell’amore con l’arco in mano, si fe’ beffe di lui gloriandosi che esso Febo avea morto il detto serpente e dicendogli: «Perché porti tu l’arco e le saette le quali si convengono a noi?». A cui Cupido rispose: «Io ti farò provar la possanza dell’arco e delle saette mie». E mise mano all’arco e alle saette e prese una saetta d’oro la quale induce l’amore, e ferí il detto Febo. Onde Febo innamorò subito d’una giovinetta la quale ebbe nome Danne, figliuola di Peneo, ed essa il detto Cupido saettò e ferí con una saetta di piombo la quale ha questa virtú che caccia ogni amore; e però Febo l’amava con ardentissimo amore ed essa [p. 195 modifica]non lui per nullo modo, e pur perseguitandola ed ella pure fuggendo e non possendo un dí fuggirgli piú dinanzi e domandando e gridando l’aiuto del detto suo padre, esso suo padre la fe’ convertire in lauro: laonde Febo se ne fe’ ghirlanda per amore e ordinò che li poeti se ne dovessero incoronare e ancora gl’imperatori. Del quale parla Dante nel principio della terza cantica [ove] disse cosí invocando Febo:
O buon Appollo, all’ultimo lavoro
fammi del tuo valor si fatto vaso
come dimandi a dar l’amato alloro.
. . . . . . . . . . . . . .
Sí rade volte, padre, se ne coglie
per triunfar o Cesare o poeta
colpa e vergogna dell’umane voglie...E simile tocca Ovidio dicendo:
Arbor eris certe — dixit — mea. Semper habebunt
Te coma, te citharae, te nostrae, laure, pharetrae;
Tu ducibus Latiis aderis, cum laeta triumphum
Vox canet et visent longas Capitolia pompas.[Met., I, 558-561.]
- ↑ [p. 195 modifica][Semiramis simigliare]. Questa fu regina di Babillonia e fu alterissima e lussuriosissima sí che volle avere a fare col figliuolo, secondo pone Iustino nel libro primo.
- ↑ [p. 195 modifica][ Cleopatras ]. Questa fu figliuola di re Tolomeo re d’Egitto il quale fe’ decapitare Pompeo. Fu bellissima e lussuriosissima, con la quale ebbe a fare Cesare ed ebbene uno figliuolo chiamato Cesarione; poi fu moglie di Antonio nipote del detto Cesare e fratello di Ottaviano imperadore, e fu ornatissima donna la quale si uccise con l’aspide.
- ↑ [p. 195 modifica][alla Ciprigna Venere]. Ciprigna è detta cosí perché in Cipri fu molto sacrificata.
- ↑ [p. 196 modifica][Scevola somigliava]. Questo fu Romano compagno di Scipione Africano Maggiore e di Lelio vero amico del detto Scipione. Esso Scevola fu omo savissimo e governatore di grandi uficii di Roma, e fu chiamato Quinto Muzio secondo che pone Tullio in libro De amicitia, quando disse: «Quintus Mutius aghur Scevola» etc.
- ↑ [p. 196 modifica][il Censorino Catone o l’Uticense]. Due furono li Catoni, cioè Cato Censorino e l’altro Cato Uticense. Questo Uticense fu il piú diritto omo che mai fosse al tempo suo e per salvare la repubblica di Roma seguitò Pompeo, e dopo la morte di Pompeo rimase capitaneo dello esercito. Da poi sconfitto in Africa insieme con re Iuba, dimorando esso in Utica cittá, leggendo De immortalitate animi, uccise se medesimo. Il detto Cato Censorino fu valentissimo omo e
- ↑ [p. 196 modifica][Scipione Africano]: fu Romano e fu sopra tutti il piú valente omo che mai avesse Roma e le sue virtú sono innumerabili delle [quali] non si possono saziare li scrittori.
- ↑ [p. 196 modifica][ Cincinnato]: fu pur Romano valentissimo omo e robustissimo.
- ↑ [p. 196 modifica][Arcadio Partenopeo ]. Partenopeo fu figliuolo di Atalanta regina d’Arcadia e fu re essendo giovinetto. Fu bellissimo del corpo tanto che passò di bellezza nella sua etá ogni altro, e cosí similemente fu di grande animo, in tanto che quando Adrasto di Grecia andò ad oste alla cittá di Tebe per acquistarla a Etiocle figliuolo di Edippo del quale fu detto dinanzi, essendo il detto Partenopeo giovinetto di quattordici anni, fu uno delli sette re che andaro ad oste alla cittá di Tebe e lí fu morto.
- ↑ [p. 196 modifica][Ascanio]. Questo fu figliuolo di Enea e fu piacevolissimo e bellissimo.
- ↑ [p. 197 modifica][Deifebo]: fu figliuolo di re Priamo, il quale fu fortissimo in arme e peregrinò nell’Attica, e perciò dice Virgilio [Aen., VI, 500]:
Deiphebe armipotens genus alto a sanguine Teucri.
- ↑ [p. 197 modifica][Ercule]. Come fu detto, fu figliuolo di Giove e d’Almena, il quale fu il piú forte omo del mondo, e per segno di fortezza portava una ghirlandetta verde di quercia o d’oppio a dimostrare la sua grandezza.
- ↑ [p. 197 modifica][al grande Ettor]. Questo fu figliuolo di re Priamo, il quale fu fortissimo ed espertissimo in arme, e fu morto da Achille.
- ↑ [p. 197 modifica][Quasi un altro Achille]. Questo fu figliuolo di Pelleo figliuolo di Eaco re di Tessaglia il quale fu fortissimo e valorosissimo in arme e fu morto a Troia.
- ↑ [p. 197 modifica][Protesilao]. Questo fu re e come fu detto dinanzi s’innamorò di Laudomia, e quando andò ad oste a Troia esso fu il primo ucciso da Ettor perché prima discese delle navi loro. Onde disse Ovidio:
Troes, et Hectorea primus fataliter hasta,
Protesilae, cadis...[Met., XII, 67-68.]
- ↑ [p. 198 modifica][Pirro]: fu figliuolo di Achille e fu crudelissimo in arme e con fiero aspetto, il quale ammazzò re Priamo con gran crudeltá. Però dice Virgilio:
At non ille, satum quo te mentiris, Achilles
Talis in hoste fuit Priamo; sed iura fidemque
Supplicis erubuit, corpusque exsangue sepulchro
Reddidit Hectoreum, meque in mea regna remisit.[Aen., II, 540-543.]
- ↑ [p. 197 modifica][Menelao]: fu fratello di Agamennone re in Grecia e fu marito della detta Elena e fu figliuolo di Atreo.
- ↑ [p. 197 modifica][Agamennone]: fu fratello del detto Menelao e figliuolo del detto Atreo e fu ferissimo in arme e fu capitano di tutta l’oste greca contra di Troia perfino a tanto che la vinsero e guastaronla. Poi Clitennestra sua moglie l’ammazzò com’è detto dinanzi.
- ↑ [p. 198 modifica][Aiace]: fu figliuolo di Talamone figliuolo di Eaco com’è detto dinanzi e fratello di Pelleo padre di Achille, e fu figliuolo di Essiona sorella di re Priamo la quale tolse Talamone nella prima distruzione di Troia quando fu guasta per Ercule e per Giasone quando andavano a conquistare il vello d’oro. [Aiace] fu fortissimo e valorosissimo in arme il quale uccise se medesimo per disperazione non potendo avere l’arme di Achille.
- ↑ [p. 198 modifica][Orfeo]: fu di Tracia e fu figliuolo di Appollo il quale prese per moglie Euridice la quale morendo, esso pel grande amore che le portava andò allo ’nferno per averla con la sua cetera con la quale sonava molto bene. Essendo lí sonò tanto bene che la detta Euridice li fu conceduta con patto che non si dovesse mai voltare indietro; e voltandosi all’uscire della porta dello ’nferno, la riperdé e per questo non volle mai piú usare con femina. Laonde fu ammazzato dalle femine perché abbandonò il coito delle donne e badava alli giovani, come dice Ovidio:
Ille etiam Thracum populis fuit auctor, amorem
In teneros transferre mares, citraque iuventam
Aetatis breve ver et primos carpere fiores.[Met., X, 83-85.]
- ↑ [p. 198 modifica][O felice colui etc.]. Di questa beata vita attribuita alli villani lavoratori secondo pone qui l’autore, parla Virgilio nel [p. 199 modifica]libro secondo Georgicon ove loda per la piú beata vita che si possa menare in questo mondo se il villano ci stesse contento, ove dice:
O fortunatos nimium, sua si bona norint
Agricolas! quibus ipsa procul discordibus armis
Fundit humo facilem victum iustissima tellus.[vv. 457-459]
A dimostrare come la natura dell’omo si poria contentare di poco e non appetere cose superflue che sono la morte dell’omo, come che chiaro dimostra l’autore di questo, scrive Lucano in questa forma:
........ O prodiga rerum
Luxuries, numquam paro contenta paratis
Et quaesitorum terra pelagoque ciborum
Ambitiosa fames et lautae gloria mensae
Discite, quam parvo liceat producere vitam
Et quantum natura petat. Non erigit aegros
Nobilis ignoto diffusus consule Bacchus:
Non auro murrhaque bibunt, sed gurgite puro
Vita redit...[Bell. civ., IV, 373 sgg.]
- ↑ [p. 199 modifica][li satiri etc.]. Li Satiri secondo li poeti sono gl’iddii delle ville; li Fauni secondo li poeti sono gl’iddii delle selve; le Driadi secondo li poeti sono le dèe delli boschi; le Naiadi secondo li poeti sono le dèe delle fonti; le Ninfe secondo li poeti sono le dèe delli fiumi.
- ↑ [p. 199 modifica][al suo biforme figliuolo ]: cioè Cupido figliuolo di Venere, dio dell’amore, il quale si pone nudo e cieco.
- ↑ [p. 199 modifica][Sardanapallo]. Secondo pone Iustino istoriografo e abreviatore di Trogo Pompeo, fu il terzo re che signoreggiò la cittá di Babilonia dopo la morte di Semiramis regina la quale [p. 200 modifica]fu detta dinanzi che fe’ vita lascivissima; e regnando il detto Sardanapallo, trovando il vivere degli uomini cosí corrotto per leggi che avea fatte la detta Semiramis, esso come uomo di buona vita corresse il detto vituperoso vivere ponendo regula al mangiare e al bere cioè a Cerere e a Bacco che sono due cose cagioni grandissime di lussuria; e però disse Terenzio: «Sine Cerere et Bacho friget Venus».
- ↑ [p. 200 modifica][li sommersi regni]. Troia fu guasta per amore di Paris e di Elena, e però dice qui li sommersi regni.
- ↑ [p. 200 modifica][Ariete], Ariete è uno delli dodici segni del Zodiaco, nel quale segno entra il sole a mezzo marzo e sta fino a mezzo aprile.
- ↑ [p. 200 modifica][ Spurinna]. Secondo pone Valerio Massimo in rubrica De Verecundia, fu uno giovine ateniese (?) il quale fu tanto bellissimo del corpo che per natura non poria essere stato piú bello prodotto, della cui bellezza era quasi presa ogni femina che lo riguardava; la qual cosa conoscendo esso che era cagione di fare peccare molte donne, esso come pudico e casto volle levare la cagione la quale inclinava l’animo delle predette donne a peccare, e sí si guastò ogni sua bellezza del suo viso, tagliandosi il naso, guastandosi la bocca e ogni altra bellezza del viso per volere vivere casto e non volere mai avere a far con donna.