Elegia di madonna Fiammetta (Laterza, 1939)/Capitolo Quarto
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CAPITOLO IV
Nel quale questa donna dimostra quali pensieri e che vita fosse la sua, essendo il termine venuto, e Panfilo suo non veniva.
Cosí, o pietose donne, sollecita, come udito avete, non solamente al molto disiderato e con fatica aspettato termine pervenni, ma ancora di molti dí il passai; e meco medesima incerta se ancora il dovessi biasimare, o no, allentata alquanto la speranza, lasciai in parte i lieti pensieri, ne’ quali forse troppo allargandomi era rientrata, e nuove cose ancora non istatevi, mi si cominciarono a volgere per lo capo. E fermando la mente a volere, s’io potessi, conoscere qual fosse o essere potesse la cagione della sua piú lunga dimora che la impromessa, cominciai a pensare, e innanzi all’altre cose in iscusa di lui tanti modi truovo, quanti esso medesimo, se presente fosse, potrebbe trovare, e forse piú. Io dicea alcuna volta:
«O Fiammetta, deh, credi tu il tuo Panfilo dimorare senza tornare a te, se non perché egli non puote? Gli affari inopinati opprimono sovente altrui, né è possibile cosí preciso termine dare alle cose future come altri crede. Or chi dubita ancora che la presente pietá non istringa piú assai che la lontana? Io son ben certa che egli me sommamente ama, e ora pensa alla mia amara vita, e di quella ha compassione, e da amore sospinto, piú volte n’è voluto venire; ma forse il vecchio padre con lagrime e con prieghi ha alquanto il termine prolungato, e opponendosi a’ suoi voleri, l’ha ritenuto; egli verrá quando potrá».
Da cosí fatti ragionamenti e scuse mi sospignevano sovente i pensieri ad immaginare piú gravi cose. Io alcuna volta dicea:
«Chi sa se egli, volonteroso piú che il dovere di rivedermi e pervenire al posto termine, posposta ogni pietá di padre, e lasciato ogni altro affare, si mosse, e forse, senza aspettare la pace del turbato mare, credendo a’ marinari bugiardi e arrischievoli per voglia di guadagnare, sopra alcun legno si mise, il quale venuto in ira a’ venti e all’onde, in quelle è forse perito? Niuna altra cagione tolse Leandro ad Ero. Or chi puote ancora sapere se esso, da fortuna sospinto ad alcuno inabitato scoglio, quivi la morte fuggendo dell’acqua, quella della fame o delle rapaci bestie ha acquistata? O in su quelli come Achemenide1, forse per dimenticanza lasciato, aspetta chi qua nel rechi? Chi non sa ancora che il mare è pieno d’insidie? Forse esso da mimiche mani preso, o da pirate, è nell’altrui prigioni con ferri stretto e ritenuto. Tutte queste cose essere possono, e molte volte giá le vedemmo avvenire».
Dall’altra parte poi mi si parava nella mente non essere per terra piú sicuro il suo cammino, e in quello similmente mille accidenti possibili a ritenerlo vedea. Io, subitamente correndo con l’animo pure alle piggiori cose, estimando a lui piú giusta scusa trovare, quanto piú grave la cosa poneva, alcuna volta pensava:
«Ecco il sole, piú che l’usato caldo, dissolve le nevi negli alti monti, onde i fiumi furiosi e con onde torbide corrono de’ quali egli non pochi ha a passare. Or se egli in alcuno, volonteroso di trapassare, s’è messo, e in quello caduto e col cavallo insieme tirato e ravvolto ha renduto lo spirito, come può egli venire? Li fiumi non apparano ora di nuovo a fare queste ingiurie a’ camminanti, né a tranghiottire gli uomini. Ma se pur da questo è campato, forse negli agguati de’ ladroni è incappato e rubato, e ritenuto è da loro: o forse nel cammino infermato in alcuna parte ora dimora, e ricuperata la sanitá, senza fallo qui ne verrá».
Oimè! che qualora cotali immaginazioni mi teneano, un freddo sudore m’occupava tutta, e sí di ciò divenia paurosa, che sovente in prieghi a Dio che ciò cessasse rivolgea il pensiero, né piú né meno, come se egli davanti agli occhi in quello pericolo mi fosse presente. E alcuna volta mi ricorda che io piansi, quasi come con ferma fede in alcuno de’ pensati mali il vedessi. Ma poi fra me diceva:
«Oimè! che cose sono queste, che i miseri pensieri mi porgono davanti? Cessi Iddio che alcuna di queste sia: innanzi dimori quanto gli piace, o non torni, che, per contentarmi, a caso si metta che alcuna di queste cose avvenga, le quali ora veramente m’ingannano. Però che, posto che possibili siano, impossibili sono ad essere occulte, e molto credibile è la morte di cotale giovane non potere essere nascosa, e massimamente a me, la quale, sollecita, continuamente di lui fo domandare con investigazioni non poco sottili. E chi dubita ancora che, se le cose male da me pensate alcuna ne fosse vera, che la fama, velocissima rapportatrice de’ mali, giá qui non l’avesse condotta? Alla quale la fortuna in ciò ora poco mia amica, avrebbe data apertissima via per farmi tristissima. Certo io credo piuttosto che egli in gravissimo affanno, come io sono se egli non viene, ora a forza ritenuto dimori, e tosto verrá, o della dimora in mia consolazione, scusandosi, scriverá la cagione».
Certo li giá detti pensieri, ancora che fierissimi m’assalissero pure assai lievemente erano vinti, e la speranza, che per lo passato termine da me di fuggire si sforzava, con ogni mio potere ritenea, ponendole innanzi il lungo amore da me a lui e da lui a me portato, la data fede, i giurati iddíi, e le infinite lagrime; le quali cose io affermava essere impossibile che inganno coprissero. Ma io non poteva fare che essa cosí ritenuta non desse luogo alli lasciati pensieri, i quali con lento passo e tacitamente lei a poco a poco pignendo fuori del mio cuore, s’ingegnavano di tornare nel loro primo luogo, a mente riducendomi e li malvagi agurii, e l’altre cose; né quasi me n’avvidi prima che io, e la speranza quasi cacciata e loro potentissimi vi sentia. Ma tra gli altri che me piú forte gravava, niuna cosa in processo di piú giorni udendo della tornata di Panfilo, era gelosia. Questa piú che io non voleva mi spronava; questa ogni scusa che meco di lui faceva, quasi consapevole de’ suoi fatti, annullava; questa spesso ne’ ragionamenti per addietro da me dannati mi rimetteva dicendo;
«Deh, come se’ tu cosí stolta che pietá di padre, o altro qualunque stretto affare o dilettto, ora potesse Panfilo sopratenere, se cosí t’amasse come diceva? Non sai tu che Amore vince tutte le cose? Egli fermamente d’un’altra innamorato, t’avrá dimenticata, il cui piacere molto possente sí come nuovo lá ora il ritiene, come il tuo qua il teneva. Quelle donne, si come tu giá dicesti, per ogni cosa atte ad amare, ed egli altresí naturalmente a ciò disposto e degno per ciascuna cosa da essere amato, conformatesi al suo piacere ed egli al loro, di nuovo l’avranno innamorato. Non credi tu che l’altre donne abbiano occhi in capo, sí come tu, e conoscano in queste cose quanto tu conosci? Sí fanno bene. E a lui altresi non credi tu che ne possa piú che una piacere? Certo io credo che, se potesse te vedere, malagevole gli sarebbe alcuna altra amarne; ma egli non ti può ora vedere, né ti vide giá sono cotanti mesi passati. Tu dèi sapere che niuno mondano accidente è eterno; cosí come egli s’innamorò di te, e come tu gli piacesti, cosí è possibile che un’altra ne gli sia piaciuta, e che egli, avendo il tuo amore abbandonato, n’ami un’altra. Le cose nuove piacciono con piú forza che le molto vedute, e sempre quello che l’uomo non ha, si suole con maggiore affezione disiderare che quello che l’uomo possiede, e niuna cosa è tanto dilettevole, che per lungo uso non rincresca. E chi non amerá piú volentieri a casa sua una nuova donna, che una antica nell’altrui contrade? Egli altresí forse non t’amava con cosí fervente amore, come mostrava, e alle sue lagrime né a quelle d’alcuno altro non è da credere cosí caro pegno come è cotanto amore, quanto tu forse estimi che egli ti portasse.
«Eziandio gli uomini alcuna volta, non avendosi mai piú veduti che alcuno giorno, sono crucciosi e piangono spartendosi; e molte cose similmente si giurano e impromettono le quali altri ha fermo intendimento di fare; ma poi, nuovo caso sopravvenendo, fa quelli giuramenti uscire di mente. Le lagrime, e’ giuramenti e le promessioni de’ giovani non sono ora di nuovo arra di inganno futuro alle donne? Essi generalmente sanno prima fare queste cose che amare; la loro volontá vagabonda li tira a questo; niuno n’è che non volesse piuttosto ogni mese mutare dieci donne che essere dieci dí d’una. Essi continuamente credono e costumi nuovi e nuove forme trovare, e gloriansi d’avere avuto l’amore di molte. Dunque che speri? Perché vanamente ti lasci menare alla vana credenza? Tu non se’ in atto da poterlo da ciò ritrarre: rimanti d’amarlo, e dimostra che con quell’arte che egli ha te ingannata tu abbi ingannato lui.»
E dietro a queste con molte altre séguito a me dicendo, e in esse accendevami di fiera ira, la quale con tumorosissimo caldo sí m’infiammava l’animo, che quasi ad atti rabbiosissimi m’induceva. Né prima il concreato furore trapassava, che le lagrime, abbondevolissimamente per gli occhi uscissero, con le quali, molto alcuna volta duranti, esso del petto m’usciva, nel quale per conforto di me medesima dannando ciò che l’indovina anima mi diceva, quasi a forza la giá fuggita speranza con ragioni vanissime rivocava. E in cotal guisa, quasi ogni ripresa allegrezza lasciata, stetti sperando e disperando molto spesso piú giorni, sempre sollecita oltremodo a potere acconciamente sapere che di lui fosse che non veniva.
Note
- ↑ [p. 187 modifica][Achemenide]. Secondo pone Virgilio, Omero e Ovidio, fu uno de’ compagni d’Ulisse, il quale rimase in Cicilia appiè delli scogli del monte d’Etna, quando Ulisse arrivò per fortuna nel detto loco dopo la distruzione di Troia. E tanto stette ivi perfino che passò Enea quando venne in Italia per far Roma, e da lui fu tolto per misericordia in sulle navi non ostante fosse greco; e cosí scampò dalle mani di Polifemo gigante che avea voluto divorare Ulisse con tutti li suoi compagni.