Critica della ragion pura (1949)/Dottrina trascendentale degli elementi/Logica trascendentale/Analitica trascendentale/Libro I/Capitolo II/Sezione II

Analitica trascendentale - Libro I - Capitolo II - Sezione II

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SEZIONE SECONDA

Deduzione trascendentale dei concetti puri dell’intelletto.


§ 15.

Della possibilità di una unificazione in generale1.

Il molteplice delle rappresentazioni può esser dato in una intuizione, che è puramente sensibile, ossia che non è altro che recettività; e la forma di questa intuizione può trovarsi a priori nella nostra facoltà rappresentativa, senza tuttavia esser altro che la maniera, in cui il soggetto è modificato. Ma l’unificazione (coniunctio) di un molteplice in generale non può mai venire in noi dai sensi, e nello stesso tempo nemmeno perciò essere contenuta nella [p. 136 modifica]semplice forme dell’intuizione sensibile; perchè essa è un atto della spontaneità dell’attività rappresentativa; e poichè questa occorre chiamarla intelletto per distinguerla dalla sensibilità, così ogni unificazione, — ne abbiamo noi o no coscienza, e sia unificazione del molteplice dell’intuizione, o di molteplici concetti, e nel primo caso, intuizione del sensibile o del non sensibile, — è un’operazione dell’intelletto, che possiamo designare colla denominazione generale di sintesi, anche per far in tal modo rilevare, che noi non possiamo rappresentarci nulla ridotto a unità nell’oggetto, senza averlo prima ridotto già noi ad unità, e che tra tutte le rappresentazioni l’unificazione è la sola, che non è data dagli oggetti, ma può essere prodotta solo dal soggetto, essendo un atto della sua spontanea attività. Qui facilmente si scorge che questo atto deve essere originariamente unico e valevole ugualmente per ogni unificazione, e che la divisione (analisi), che sembra essere il suo opposto, lo presuppone tuttavia sempre; giacchè, se l’intelletto nulla ha prima unificato, non può nulla dividere, poichè soltanto per opera di esso è possibile che all’attività rappresentativa sia stato dato qualcosa come unificato.

Ma il concetto della unificazione implica, oltre al concetto del molteplice e della sintesi di esso, anche quello dell’unità di esso. Unificazione è la rappresentazione dell’unità sintetica del molteplice2. La rappresentazione di questa unità dunque non può sorgere dall’unificazione, ma essa piuttosto, intervenendo nella rappresentazione del molteplice, rende quindi primieramente possibile il concetto della unificazione. Questa unità, che precede a priori tutti i concetti di unificazione, non è punto la categoria della unità (§ 10): giacchè tutte le categorie si fondano su fun[p. 137 modifica]zioni logiche dei giudizi, ma in questi già è pensata l’unione, e perciò l’unità dei concetti dati. La categoria dunque presuppone già l’unificazione. Dobbiamo dunque cercare ancora più in alto l’unità (come qualitativa, § 12), cercarla in ciò che contiene il principio stesso dell’unità di diversi concetti nei giudizi, e perciò della possibilità dell’intelletto, perfino nel suo uso logico.


§ 16.

Dell’unità sintetica originaria dell’appercezione.

L’Io penso deve poter accompagnare tutte le mie rappresentazioni; chè altrimenti bisognerebbe in me immaginare qualcosa, che non potrebbe essere per nulla pensato, il che poi significa appunto che la rappresentazione o sarebbe impossibile, o almeno per me, non sarebbe. Quella rappresentazione, che può esser data prima di ogni pensiero, dicesi intuizione. Ogni molteplice dunque della intuizione ha una relazione necessaria con l’Io penso, nello stesso soggetto, in cui questo molteplice s’incontra. Ma questa rappresentazione è un atto della spontaneità, cioè non può esser considerata come appartenente alla sensibilità. Io la chiamo appercezione pura, per distinguerla dalla empirica, o anche appercezione originaria, poichè è appunto quella autocoscienza che, in quanto produce la rappresentazione Io penso, — che deve poter accompagnare tutte le altre, ed è in ogni coscienza una e identica, — non può più essere accompagnata da nessun’altra. L’unità di essa la chiamo pure unità trascendentale della autocoscienza, per indicare la possibilità della conoscenza a priori, che ne deriva. Giacchè le molteplici rappresentazioni, che sono date in una certa intuizione, non sarebbero tutte insieme mie rappresentzioni, se tutte insieme non appartenessero ad una autocoscienza; cioè, in quanto mie rappresentazioni (sebbene io non sia consape[p. 138 modifica]vole di esse, come tali), debbono necessariamente sottostare alla condizione in cui soltanto esse possono coesistere in una comune autocoscienza, poichè altrimenti non mi apparterrebbero in comune. Da questa originaria unificazione possono seguire molte conseguenze.

E cioè: questa identità come nell’appercezione del molteplice, dato nell’intuizione, contiene una sintesi delle rappresentazioni, ed è possibile solo per la coscienza di questa sintesi. Infatti la coscienza empirica, che accompagna diverse rappresentazioni, è in sè dispersa e senza relazione con l’identità del soggetto. Questa relazione dunque non ha luogo ancora per ciò che io accompagno colla coscienza ciascuna delle rappresentazioni, ma perchè le compongo tutte l’una con l’altra, e sono consapevole della loro sintesi. Solo perciò, in quanto posso legare in una coscienza una molteplicità di rappresentazioni date, è possibile che io mi rappresenti l’identità della coscienza in queste rappresentazioni stesse; cioè, l’unità analitica della appercezione è possibile solo a patto che si presupponga una unità sintetica3. Il pensiero: queste rappresentazioni date nell’intuizione mi appartengon tutte, — suona lo stesso che: io le unisco in una autocoscienza, o almeno posso unirvele; e, sebbene esso non sia ancora la coscienza della sintesi delle rappresentazioni, ne presuppone tuttavia la possibilità; cioè, io chiamo quelle rappresentazioni tutte mie rappresentazioni, solo perchè io posso comprendere [p. 139 modifica]la loro molteplicità in una coscienza; altrimenti io dovrei avere un Me stesso variopinto, diverso, al pari delle rappresentazioni delle quali ho coscienza. L’unità sintetica del molteplice delle intuizioni, in quanto data a priori, è dunque la base della identità dell’appercezione stessa, che precede a priori ogni mio pensiero determinato. Ma l’unificazione non è dunque negli oggetti, e non può esser considerata come qualcosa di attinto da essi per via di percezione, e per tal modo assunto primieramente nell’intelletto; ma è soltanto una funzione dell’intelletto, il quale non è altro che la facoltà di unificare a priori e di sottoporre all’unità della percezione il molteplice delle rappresentazioni date; ed è questo il principio supremo di tutta la conoscenza umana.

Ora, questo principio della unità necessaria dell’appercezione, è in verità esso stesso una proposizione identica e perciò analitica; tuttavia chiarisce per necessaria una sintesi del molteplice dato in una intuizione; sintesi, senza la quale non sarebbe possibile pensare quella entità universale della autocoscienza. Dall’Io infatti, come semplice rappresentazione, non è dato nessun molteplice; questo può essere dato solo nell’intuizione, che è altra cosa, e può esser pensato solo mediante l’unificazione in una coscienza. Un intelletto, nel quale ogni molteplicità fosse data immediatamente dall’autocoscienza, intuirebbe; ma il nostro intelletto può solamente pensare, e deve cercare nei sensi l’intuizione. Io sono dunque consapevole dell’identico me stesso rispetto al molteplice delle rappresentazioni datemi in una intuizione, poichè chiamo tutte insieme mie le rappresentazioni che ne formano una. Il che è come dire, che io son consapevole di una loro necessaria sintesi a priori, la quale significa appunto l’unità sintetica originaria della appercezione, nella quale stanno tutte le rappresentazioni che mi son date, ma nella quale altresì è necessario che esse sieno state portate in virtù di una sintesi.


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§ 17.

Il principio dell’unità sintetica dell’appercezione è il principio supremo di ogni uso dell’intelletto.

Secondo l’Estetica trascendentale, il principio supremo della possibilità di ogni intuizione in rapporto alla sensibilità era: ogni molteplice di essa sottostà alle condizioni formali dello spazio e del tempo. Il principio supremo della possibilità stessa in rapporto all’intelletto è: che ogni molteplice dell’intuizione sottostà alle condizioni della unità sintetica originaria della appercezione4. Tutte le molteplici rappresentazioni della intuizione sono soggette al primo, in quanto esse ci son date; al secondo, in quanto debbono poter essere unificate in una coscienza; perchè senza di ciò niente può esser pensato e conosciuto, perchè le rappresentazioni date non avrebbero comune l’atto appercettivo Io penso, e non sarebbero perciò mai unificate in una autocoscienza.

L’intelletto è, per parlare in generale, la facoltà delle conoscenze. Queste consistono nel rapporto determinato di date rappresentazioni con un oggetto. Ma l’oggetto è ciò, nel cui concetto il molteplice di una data intuizione è unificato. Se non che ogni unificazione delle rappresentazioni richiede l’unità della coscienza nella sintesi di esse. Dunque, l’unità della coscienza è ciò, che solo costituisce il rapporto delle rappresentazioni con un oggetto, e quindi la loro validità oggettiva, ossia ciò che le fa conoscenze e su cui perciò riposa la possibilità dell’intelletto.

[p. 141 modifica]Così, la prima conoscenza pura dell’intelletto sulla quale è fondato tutto il resto del suo uso, e che è insieme affatto indipendente da tutte le condizioni dell’intuizione sensibile, è ora il principio della unità sintetica, originaria della appercezione. La semplice forma, adunque, dell’intuizione sensibile esterna, lo spazio, non è ancora punto conoscenza; non fa se non presentare il molteplice dell’intuizione a priori per una possibile conoscenza. Ma per poter conoscere una cosa qualsiasi nello spazio, per es. una linea, io debbo tracciarla, cioè eseguire sinteticamente una determinata unificazione del molteplice dato, per modo che l’unità di questa operazione sia a un tempo l’unità della coscienza (nel concetto di linea); e così primamente vien conosciuto un oggetto (uno spazio determinato). L’unità sintetica della coscienza è dunque una condizione oggettiva di ogni conoscenza, della quale non soltanto io stesso ho bisogno per conoscere un oggetto, ma alla quale deve sottostare ogni intuizione per divenire oggetto per me, poichè in altro modo, e senza questa sintesi, il molteplice non si unificherebbe in una coscienza.

L’ultima proposizione, come s’è detto, è essa stessa analitica, sebbene per vero faccia dell’unità sintetica la condizione di ogni pensiero; giacchè altro non dice se non che: tutte le mie rappresentazioni in una qualsiasi intuizione data debbono sottostare a quella condizione, per cui soltanto io posso attribuirle all’identico Me stesso, come mie rappresentazioni, e perciò posso comprenderle come unite insieme sinteticamente, in un’appercezione sintetica, nell’espressione generale: Io penso.

Ma questo principio non è valido per ogni possibile intelletto in generale, bensì solo per quello, dalla cui appercezione pura, nella rappresentazione «Io sono», nulla ancora è dato di molteplice. Quell’intelletto, invece, dalla cui autocoscienza fosse dato insieme il molteplice dell’intuizione, un intelletto, per la cui rappresentazione già esistessero insieme gli oggetti della rappresentazione stessa, non avrebbe bisogno di quel particolare atto di sintesi del [p. 142 modifica]molteplice nell’unità della coscienza, del quale ha bisogno l’intelletto umano, che pensa semplicemente, e non intuisce. Ma è inevitabile il primo principio per l’intelletto umano, di guisa che esso non può farsi nemmeno la più piccola idea di un altro possibile intelletto, che o intuisse da sè senz’altro, o possedesse una intuizione sensibile, ma di diversa natura di quella, che è a fondamento dello spazio e del tempo.


§ 18.

Che cosa sia l’unità oggettiva della autocoscienza.

L’unità trascendentale dell’appercezione è quella, per la quale tutto il molteplice dato in una intuizione è unificato in un concetto dell’oggetto. Perciò essa si chiama oggettiva, e dev’esser distinta dall’unità soggettiva della coscienza, che è una determinazione del senso interno, onde quel molteplice dell’intuizione è dato empiricamente per una tale unificazione. Se io possa empiricamente esser consapevole del molteplice, come simultaneo o come successivo, dipende da circostanze o da condizioni empiriche; quindi l’unità empirica della coscienza per mezzo dell’associazione delle rappresentazioni stesse, riguarda un fenomeno, ed è al tutto accidentale. Al contrario, la ofrma pura dell’intuizione nel tempo, semplicemente come intuizione in generale, che contiene una molteplicità data, sottostà alla unità originaria della coscienza esclusivamente per il rapporto necessario del molteplice dell’intuizione all’unico «Io penso»; perciò per la sintesi pura dell’intelletto, che a priori sta a base dell’empirica. Soltanto quell’unità è oggettivamente valida; l’unità empirica, invece, dell’appercezione, che qui noi non esaminiamo, e che solo sotto condizioni date deriva in concreto dalla prima, ha un valore soltanto soggettivo. Uno collega la rappresentazione d’una certa parola con una certa cosa, [p. 143 modifica]un altro con un’altra; e l’unità della coscienza in ciò che è empirico, e rispetto a ciò che è dato, non è necessariamente e universalmente valida.


§ 19.

La forma logica di tutti i giudizi consiste nell’unità oggettiva dell’appercezione dei concetti in essi contneuti.

Io non ho mai potuto appagarmi della definizione, che i logici dànno del giudizio in generale; esso è, secondo loro, la rappresentazione di un rapporto fra due concetti. Ora, senza stare qui a contrastare con essi intorno a quel che c’è di difettoso in questa definizione (che in ogni caso non si applica se non ai giudizi categorici, ma non agli ipotetici e disgiuntivi, in quanto questi ultimi non contengono una relazione di concetti, ma addirittura di giudizi); e tralasciando delle noiose conseguenze derivate da questa svista della logica5, noto soltanto che qui non è determinato in che consista questo rapporto.

Ma se io investigo più profondamente il rapporto delle conoscenze date in ciascun giudizio, e distinguo questo rapporto, come appartenente all’intelletto, dal rapporto secondo leggi della immaginazione riproduttiva (il quale ha un valore solamente soggettivo), trovo che il giudizio non è altro che la maniera di ridurre conoscenze date alla unità oggettiva dell’appercezione. E la particella relativa «è» [p. 144 modifica]mira appunto a distinguere l’unità oggettiva delle rappresentazioni date, dall’unità soggettiva. Essa infatti designa la loro relazione con l’appercezione originaria e la loro unità necessaria, anche quando il giudizio stesso sia empirico, e perciò accidentale, come ad es.: i corpi sono pesanti. Con ciò non voglio dire già, che queste rappresentazioni nell’intuizione empirica siano necessariamente subordinate l’una all’altra; ma che esse sono l’una all’altra subordinate mercè l’unità necessaria dell’appercezione nella sintesi delle intuizioni, e cioè secondo principii della determinazione oggettiva di tutte le rappresentaizoni, in quanto se ne può aver conoscenza; i quali principii sono derivati tutti da quello dell’unità trascendentale dell’appercezione. Solamente così da questo rapporto nasce un giudizio, ossia un rapporto valido oggettivamente, e che si distringue appunto dal rapporto delle rappresentazioni medesime, in cui c’è solamente un valore soggettivo, per es., secondo le leggi della associazione. Secondo queste, io potrei dire soltanto: «ogni volta che porto un corpo, sento una impressione di peso»; ma non: «esso, il corpo, è pesante»; che val quanto dire che le due rappresentazioni sono unite nell’oggetto, indipendentemente cioè dallo stato del soggetto, e non stanno insieme semplicemente nella percezione (per quanto spesso essa possa essere ripetuta).


§ 20.

Tutte le intuizioni sensibili sottostanno alle categorie, come condizioni in cui soltanto il molteplice di quelle può raccogliersi in una coscienza.

Il molteplice dato in una intuizione sensibile è necessariamente subordinato all’unità sintetica originaria dell’appercezione, poichè solo per essa è possibile l’unità dell’intuizione (§ 17). Quell’operazione dell’intelletto, per [p. 145 modifica]cui il molteplice di rappresentazioni date (sieno intuizioni o concetti) è ricondotto ad una appercezione in generale, è al funzione logica dei giudizi (§ 19). Così ogni molteplicità, in quanto è data in una intuizione empirica, è determinata da una delle funzioni logiche del giudicare, onde essa cioè vien portata a una coscienza in generale. Ma le categorie non sono altor che proprio queste funzioni di giudicare, in quanto il molteplice di una data intuizione (§ 13) è determinato rispetto ad esse. Il molteplice dunque di una data intuizione è sottoposto necessariamente alle categorie.


§ 21.

Annotazione.

Una molteplicità contenuta in una intuizione, che io chiamo mia, viene, per la sintesi dell’intelletto rappresentata come subordinata alla unità necessaria della autocoscienza, il che avviene mediante la categoria6. Questa dunque indica che la coscienza empirica di un molteplice dato in una intuizione, è sottoposta così ad una autocoscienza pura a priori, come una intuizione empirica è sottoposta a una intuizione sensibile pura, che ha luogo ugualmente a priori. — Nella proposizione precedente v’è dunque l’inizio di una deduzione dei concetti puri dell’intelletto; nella quale, poichè le categorie sorgono solo nell’intelletto, indipendentemente dalla sensibilità, io debbo astrarre ancora dal modo, in cui il molteplice può esser dato a una intuizione empirica, guardar solo all’unità, che per opera dell’intelletto, mediante la categoria, inter[p. 146 modifica]viene in quella molteplicità della intuizione. In sèguito (§ 26) sarà mostrato, dal modo in cui l’intuizione empirica è data dalla sensibilità, che l’unità di essa non è altra da quella, che la categoria assegna (secondo il precedente § 20) al molteplice di una data intuizione in generale; e, poichè così sarà chiarita la sua validità a priori rispetto agli oggetti tutti dei nostri sensi, sarà subito completamente raggiunto lo scopo della deduzione.

Se non che da un punto io non avrei potuto astrarre nella dimostrazione precedente, ed è questo: che il molteplice, per l’intuizione, dev’essere pur dato prima della sintesi dell’intelletto e indipendentemente da essa; ma in qual modo, resta qui indetermianto. Se volessi infatti immaginare un intelletto, che esso stesso intuisse (qualcosa come un intelletto divino, che non si rappresenterebbe oggetti dati, ma per la cui rappresentazione gli oggetti sarebbero immediatamente dati o prodotti), le categorie, rispetto a una conoscenza siffatta, non avrebbero punto significato. Esse sono regole soltanto per un intelletto, di cui tutto il potere consista nel pensare, cioè nell’atto di ricondurre all’unità dell’appercezione la sintesi del molteplice, datogli per altra via nell’intuizione; per un intelletto, il quale perciò nulla conosce da sè, ma soltanto unifichi e ordini la materia del conoscere, l’intuizione, che dev’essergli data dall’oggetto. Ma della peculiarità del nostro intelletto, di giungere all’unità a priori della appercezione, solamente per mezzo delle categorie e precisamente solo secondo il modo e il numero di esse, si può così poco addurre una ragione, come del perchè abbiamo proprio queste e non altre funzioni del giudicare, o del perchè tempo e spazio siano le sole forme della nostra intuizione possibile.


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§ 22.

La categoria non ha altro uso alla conoscenza delle cose che di esser applicata agli oggetti dell’esperienza.

Pensare un oggetto e conoscere un oggetto non è dunque la stessa cosa. La conoscenza comprende due punti: in primo luogo, un concetto per cui in generale un oggetto è pensato (la categoria), e, in secondo luogo, l’intuizione, ond’esso è dato; giacchè, se al concetto non potesse esser data una intuizione corrispondente, essa per la forma sarebbe un pensiero ma senza alcun oggetto, e per mezzo di esso non sarebbe punto possibile una conoscenza di una qualsiasi cosa; poichè, per quanto io ne saprei, non vi sarebbe, nè potrebbe esservi alcunchè, a cui poter applicare il mio pensiero. Ora, ogni nostra possibile intuizione è sensibile (Estetica); il pensiero dunque di un oggetto in generale può in noi diventare conoscenza solo mediante un concetto puro dell’intelletto, in quanto questo concetto è messo in relazione con oggetti dei sensi. L’intuizione sensibile o è intuizione pura (spazio e tempo), o intuizione empirica di ciò che vien rappresentato, per mezzo della sensazione, immediatamente come reale nello spazio e nel tempo. Per la determinazione della prima noi possiamo ottenere conoscenze a priori di oggetti (nella matematica), ma solo rispetto alla forma di essi come fenomeni; se poi ci possano essere cose che si debbano intuire in questa forma, è ciò che rimane tuttavia indeciso. Per conseguenza, tutti i concetti matematici non sono per sè conoscenze, se non in quanto si presuppone che ci siano cose, che si possono rappresentare solo conformemente alla forma di quella pura intuizione sensibile. Ma le cose nello spazio e nel tempo sono date solo in quanto percezioni (rappresentazioni accompagnate da sensazione), e perciò per rappresentazione empirica. Quindi i concetti puri dell’intelletto, anche se applicati ad intuizioni a priori (come nella [p. 148 modifica]matematica), creano conoscenze solo in quanto queste — e però anche per mezzo di esse i concetti dell’intelletto — possono essere applicate a intuizioni empiriche. Di guisa che le categorie mediante l’intuizione non ci dànno ancora nessuna conoscenza delle cose, se non soltanto per la loro possibile applicazione a un’intuizione empirica, esse cioè servono solo alla possibilità della conoscenza empirica. Ma questa si chiama esperienza. Dunque le categorie non hanno alcun uso alla conoscenza delle cose, se non in quanto queste sono prese come oggetti di esperienza possibile.


§ 23.

Tale proposizione è della più grande importanza; perchè determina i limiti dell’uso dei concetti puri dell’intelletto rispetto agli oggetti, a quel modo che l’Estetica trascendentale ha determinato quelli dell’uso della forma pura della nostra intuizione sensibile. Spazio e tempo valgono come condizioni della possibilità che ci sien dati degli oggetti non altrimenti che quali oggetti dei sensi, e perciò solo dell’esperienza. Fuori di questi limiti, essi non rappresentano nulla; perocchè sono soltanto nei sensi e fuori di essi non hanno nessuna realtà. I concetti puri dell’intelletto son liberi da questa limitazione, e si estendono ad oggetti dell’intuizioni in generale, sia essa simile alla nostra o no, pur che sia sensibile e non intellettuale. Ma questa più vasta estensione dei concetti non ci giova a nulla di là della nostra intuizione sensibile. Perchè allora essi sono concetti vuoti di oggetti, dei quali, per mezzo loro, non abbiamo assolutamente il modo di giudicare, per non dir altro, se mai sieno possibili o no; semplici forme del pensiero senza realtà obbiettiva, poichè noi non disponiamo di un’intuizione, a cui possa essere applicata quell’unità sintetica dell’appercezione che soltanto esse contengono, e con cui esse possono determinare un oggetto. [p. 149 modifica]Soltanto la nostra intuizione sensibile ed empirica può dar loro senso e significato.

Se si prende dunque come dato un oggetto di una intuizione non sensibile, lo si può liberamente rappresentare per mezzo di tutti i predicati, che stanno già nella supposizione, che ad esso non convenga nulla di appartenente all’intuizione sensibile: che dunque non sia esteso nello spazio, che la sua durata non sia un tempo, che in esso non s’incontri mutazione alcuna (conseguenza delle determinazioni nel tempo), e così via. Se non che, non c’è una speciale conoscenza quando io indico semplicemente come l’intuizione dell’oggetto non è, senza poter dire che cosa vi sia contenuto; giacchè allora io non ho nessuna possibilità di un oggetto rispondente al mio concetto intellettuale puro, poichè non posso avere un’intuizione che gli corrisponda, ma posso dir soltanto che la nostra intuizione non val nulla per esso. Ma quel che è più è, che a un che di simile non potrebbe applicarsi mai una categoria, per es., il concetto di sostanza, cioè di qualche cosa che può esistere come soggetto, e non mai come semplice predicato; poichè io ignoro affatto se possa mai esistere una cosa qualsiasi che corrisponda a tale determinazione di pensiero, finchè una intuizione sensibile non mi porga l’occasione di applicarvela. Ma di ciò meglio in sèguito.


§ 24.

Dell’applicazione delle categorie agli oggetti dei sensi in generale.

I concetti puri dell’intelletto si riferiscono mediante il semplice intelletto ad oggetti dell’intuizione in generale, sia essa la nostra o un’altra qualsiasi, purchè sensibile; ma appunto perciò essi sono semplici forme del pensiero, con cui ancora non è conosciuto nessun oggetto [p. 150 modifica]determinato. La sintesi o unificazione del molteplice in esso si riferisce semplicemente alla unità dell’appercezione, ed è perciò il fondamento della possibilità della conoscenza a priori, in quanto questa si fonda sull’intelletto; ed è perciò non solo trascendentale, ma anche semplicemente intellettuale pura. Poichè peraltro in noi c’è a priori una certa forma a base dell’intuizione sensibile, la quale riposa sulla recettività del potere rappresentativo (sensibilità), l’intelletto, come spontaneità può determinare il senso interno mediante il molteplice di rappresentazioni date, secondo l’unità sintetica della appercezione, e così pensare a priori l’unità sintetica della appercezione del molteplice dell’intuizione sensibile, come la condizione a cui debbono necessariamente sottostare tutti gli oggetti della nostra (umana) intuizione; onde le categorie, in quanto semplici forme del pensiero, acquistano realtà oggettiva, cioè applicazione ad oggetti che ci possono esser dati nell’intuizione, ma solo come fenomeno; perchè soltanto di essi noi siamo capaci di avere un’intuizione a priori.

Questa sintesi del molteplice dell’intuizione sensibile, che è possibile a priori e necessaria, può esser chiamata figurata (synthesis speciosa), per distinguerla da quella che sarebbe pensata rispetto al molteplice di una intuizione in generale nella semplice categoria, e che si chiama unificazione dell’intelletto (synthesis intellectualis); ambedue sono trascendentali, non solo perchè esse stesse procedono a priori, ma altresì perchè fondano a priori la possibilità di altra conoscenza.

Se non che la sintesi figurata, se si riferisce semplicemente alla unità sintetica originaria dell’appercezione, cioè a questa unità trascendentale che è pensata nelle categorie, deve, per distinguersi dalla unificazione puramente intellettuale, chiamarsi sintesi trascendentale dell’immaginazione. Immaginazione è la facoltà di rappresentare un oggetto, anche senza la sua presenza, nell’intuizione. Ora, poichè ogni nostra intuizione è sensi[p. 151 modifica]bile, così l’immaginazione, per via della condizione subbiettiva, per cui soltanto può dare dai concetti dell’intelletto una intuizione corrispondente, appartiene alla sensibilità; pure, in quanto la sua sintesi è una funzione della spontaneità (determinante e non, come il senso, semplicemente determinabile, che può perciò determinare a priori il senso della sua forma, in conformità della unità dell’appercezione), l’immaginazione è pertanto la facoltà di determinare a priori la sensibilità; e la sua sintesi delle intuizioni, conforme alle categorie, dev’essere sintesi trascendentale dell’immaginazione; che è un effetto dell’intelletto sulla sensibilità e la prima applicazione (base insieme di tutte le altre) di esso ad oggetti dell’intuizione a noi possibile. Essa è da distinguere come sintesi figurata dall’intellettuale, che è senza immaginazione e solo per mezzo dell’intelletto. Ora, in quanto l’immaginazione è soltanto spontanietà, io la chiamo anche talvolta immaginazione produttiva, e la distinguo così dalla riproduttiva, la cui sintesi è sottoposta unicamente a leggi empiriche, a quelle cioè dell’associazione; e che quindi non conferisce punto alla spiegazione della possibilità della conoscenza a priori, nè rientra perciò nella filosofia trascendentale, ma nella psicologia.

...

È questo ora il luogo di spiegare il paradosso, da cui ciascuno sarà stato colpito nella esposizione della forma del senso interno (§ 6): che cioè questo rappresenti alla coscienza noi stessi, non già come noi siamo in noi stessi, ma soltanto come appariamo a noi; poichè noi ci intuiamo soltanto come siamo interiormente modificati; il che sembra esser contraddittorio, dovendo noi condurci passivamente verso noi stessi; e quindi si è soliti nei sistemi di psicologia identificare piuttosto il senso interno e la facoltà dell’appercezione (che noi teniamo con ogni cura distinti).

[p. 152 modifica]Ciò che determina il senso interno è l’intelletto e il suo potere originario di unificare il molteplice dell’intuizione, cioè di sottoporlo ad una appercezione (come a ciò su cui riposa la sua possibilità). Ora, poichè l’intelletto stesso in noi uomini non è una facoltà di intuizioni, e queste non può accogliere in sè, anche se date nella sensibilità, per collegare quasi il molteplice di una sua propria intuizione; così la sua sintesi, se esso è considerato solo per se stesso, non è evidentemente altro che l’unità dell’atto, del quale egli, come di un atto, è cosciente anche senza sensibilità, ma per il quale è capace di determinare da sè interiormente la sensibilità, rispetto al molteplice, che gli può essere dato secondo la forma dell’intuizione di essa sensibilità. Esso dunque, sotto il nome di sintesi trascendentale dell’immaginazione, esercita sul soggetto passivo quella azione di cui esso è la facoltà e da cui a buon diritto dicevamo che il senso interno è modificato. L’appercezione e la sua unità sintetica son tanto poco una sola cosa col senso interno, che quella piuttosto, come fonte di ogni unificazione, si rivolge al molteplice delle intuizioni in generale, sotto il nome di categorie, anteriormente ad ogni intuizione sensibile degli oggetti in generale; e al contrario il senso interno contiene la semplice forma della intuizione, ma senza unificazione in essa del molteplice, e perciò non contiene alcuna determinata intuizione, che è possibile soltanto mediante la coscienza della sua determinazione per l’atto trascendentale dell’immaginazione (influsso sintetico dell’intelletto sul senso interno), che io ho chiamato sintesi figurata.

Questo noi riscontriamo sempre in noi stessi. Noi non possiamo pensare una linea, senza tracciarla nel pensiero, nè pensare un circolo, senza descriverlo, nè rappresentarci le tre dimensioni dello spazio, senza condurre dallo stesso punto tre linee verticalmente l’una all’altra; e neanche pensare il tempo, senza che, tirando una linea retta (che sarà la rappresentazione esterna figurata del tempo), badiamo all’atto della sintesi del molteplice, onde [p. 153 modifica]successivamente determiniamo il senso interno, e quindi alla successione di questa determinazione in esso. Il moto, come operazione del soggetto (non come determinazione dell’oggetto)7, e perciò sintesi del molteplice nello spazio — se astragghiamo da questo e consideriamo soltanto quell’operazione, per cui determiniamo il senso interno secondo la sua forma — genera anche primieramente il concetto di successione. L’intelletto dunque non trova nel senso interno una siffatta unificazione del molteplice già pronta, ma la produce, in quanto esso lo modifica. Ma in che modo l’Io che pensa differisce dall’Io che intuisce se stesso (in quanto posso rappresentarmi ancora un’altra maniera di intuire, almeno come possibile), pur formando con questo tutt’uno con lo stesso soggetto; in che modo perciò io possa dire: io, come intelligenza e soggetto pensante, conosco me stesso come oggetto pensato — in quanto io sono anche dato a me nell’intuizione, solo come gli altri fenomeni, cioè non come io sono innanzi all’intelletto, ma come apparisco a me — è un problema che non presenta in sè nè maggiori, nè minori difficoltà, che non ne presenti il come io possa essere a me stesso un oggetto in generale, e un oggetto di intuizione e di percezioni interne. Ma che tuttavia debba veramente essere così, se si prende lo spazio per una semplice forme pura dei fenomeni dei sensi esterni, può esser chiaramente dimostrato da questo: che noi non ci possiamo rappresentare il tempo, che pure non è per nulla oggetto di intuizione esterna, altrimenti che sotto l’immagine simbolica di una linea intanto che la tracciamo; che senza questa maniera di presentarcelo non potremmo conoscere l’unità della sua [p. 154 modifica]dimensione; come anche che noi, per determinare la durata o anche la posizione nel tempo di tutte le percezioni interne, dobbiamo continuamente ricorrere a ciò che le cose esterne ci presentano di mutevole, e dobbiamo perciò ordinare le determinazioni del senso interno nel tempo, in quanto fenomeni, allo stesso modo che nello spazio ordiniamo quelle dei sensi esterni; quindi, se per questi ammettiamo che con essi noi conosciamo gli oggetti solo in quanto siamo modificati dal di fuori, anche per il senso interno dobbiamo ammettere, che con esso intuiamo noi stessi soltanto come veniamo interiormente modificati da noi stessi: ossia, per ciò che riguarda l’intuizione interna, noi conosciamo il nostro proprio soggetto solo come fenomeno, ma non già per quel che esso è in se stesso8.


§ 25.

Al contrario, io ho coscienza di me stesso, nella sintesi trascendentale del molteplice delle rappresentazioni in generale, e perciò nell’unità sintetica originaria dell’appercezione, non come io apparisco a me, nè come io sono in me stesso, ma solo che sono. Questa rappresentazione è un pensare, non un intuire. Ora, poichè per la conoscenza di noi stessi, oltre all’operazione del pensiero, che riduca all’unità dell’appercezione il molteplice di ogni intuizione possibile, si richiede anche una determinata maniera di intuizione, onde questo molteplice venga dato; così la mia propria esistenza non è per vero fenomeno (e [p. 155 modifica]tanto meno semplice parvenza); ma la determinazione della mia esistenza9 può avvenire solo secondo la forma del senso interno, in quella speciale maniera in cui il molteplice, che io unifico, può essere dato nella intuizione interna; ed io non ho dunque pertanto una conoscenza di me quale sono, ma semplicemente quale apparisco a me stesso. La coscienza di se medesimo è dunque ben lungi dall’essere una conoscenza di se stesso, malgrado tutte le categorie che costituiscono il pensiero di un oggetto in generale mediante l’unificazione del molteplice in una appercezione. Come per la conoscenza di un oggetto diverso da me, oltre il pensiero di un oggetto in generale (nella categoria), io ho pure bisogno di una intuizione con cui determinare quel concetto generale; così, per la conoscenza di me stesso, oltre alla coscienza, ovvero oltre al pensare me stesso, io ho pur bisogno di una intuizione di un molteplice entro me, con cui io determini quel pensiero; ed io esisto come intelligenza che è consapevole soltanto della sua potenza unificatrice, ma che, per rispetto al molteplice che deve unificare, essendo sottoposta a una condizione limitativa che chiama senso interno, non può render intuibile quella unificazione se non secondo rapporti di tempo, i quali restano al tutto fuori dei concetti propri dell’intelletto; e può conoscersi quindi solo come apparisce a se stessa, in rapporto con una intuizione (che non [p. 156 modifica]può essere intellettuale e data dallo stesso intelletto), ma non come si conoscerebbe se la sua intuizione fosse intellettuale.


§ 26.

Deduzione trascendentale dell’uso empirico possibile in generale dei concetti puri dell’intelletto.

Nella Deduzione metafisica l’origine a priori delle categorie in generale è stata dimostrata mediante il loro perfetto accordo con le funzioni logiche del pensiero; ma nella Deduzione trascendentale è stata poi mostrata la possibilità di esse come conoscenze a priori di oggetti di una intuizione in generale. Ora si deve spiegare la possibilità di conoscere a priori per mezzo delle categorie gli oggetti che possono presentarsi soltanto ai nostri sensi; di conoscerli, non secondo la forma della loro intuizione, ma secondo le leggi della loro unificazione: si deve spiegare perciò la possibilità di prescrivere, per così dire, alla natura una legge, anzi di renderla possibile. Giacchè, senza questa capacità delle categorie, non risulterebbe mai chiaro, come tutto ciò che può soltanto presentarsi ai nostri sensi possa sottostare alle leggi che provengono solo a priori dall’intelletto.

Prima di tutto, noto che col nome di sintesi dell’apprensione intendo la composizione del molteplice di una intuizione empirica, per cui diviene possibile la percezione, cioè la coscienza empirica di essa (come fenomeno).

Noi abbiamo a priori forme così della intuizione sensibile esterna, come della interna nelle rappresentazioni di spazio e di tempo, e a queste deve sempre conformarsi la sintesi della apprensione del molteplice del fenomeno, poichè essa stessa può sorgere solo secondo questa forma. Ma spazio e tempo non sono rappresentati semplicemente come forme dell’intuizione sensibile, bensì come [p. 157 modifica]intuizioni essi stessi (che contengono un molteplice), e perciò con la determinazione dell’unità di questo molteplice che è in essi (vedi Estetica trascendentale)10. L’unità della sintesi del molteplice, fuori di noi o in noi, e perciò l’unificazione, alla quale deve conformarsi tutto ciò che può esser determinatamente rappresentato nel tempo e nello spazio, è dunque essa stessa data a priori, come condizione della sintesi di ogni apprensione, colle (non nelle) intuizioni suddette. Ma questa unità sintetica non può esser altro che quella dell’unificazione del molteplice d’una data intuizione in generale in una coscienza originaria, applicata, in conformità delle categorie, solo alla nostra intuizione sensibile. Perciò ogni sintesi, per la quale la stessa percezione è possibile, sottostà alle categorie; e poichè l’esperienza è conoscenza mediante percezioni unificate, le categorie sono anche condizioni della possibilità dell’esperienza, e valgono perciò a priori per tutti gli oggetti dell’esperienza.

...

Se io dunque, per esempio, dell’intuizione empirica di una casa ne fo una percezione mediante l’apprensione del molteplice di essa, ho a fondamento l’unità necessaria dello spazio e dell’intuizione sensibile esterna in generale, e ne disegno, per così dire, la forma secondo questa unità sintetica del molteplice nello spazio. Ma questa unità sin[p. 158 modifica]tetica appunto ha la sua sede nell’intelletto — se faccio astrazione dalla forma dello spazio; ed è la categoria della sintesi dell’omogeneo in una intuizione in generale, ossia della quantità, alla quale perciò quella sintesi dell’apprensione, cioè, la percezione, dev’essere assolutamente conforme11.

Se io (per un altro esempio) percepisco il congelarsi dell’acqua, apprendo due stati (liquido e solido) come tali che stanno tra loro in una relazione di tempo. Ma nel tempo, posto da me a base del fenomeno, come intuizione interna, mi rappresento l’unità sintetica necessaria del moltpelice, senza la quale quella relazione non potrebbe esser data determinatamente in una intuizione (rispetto alla successione). Ma questa unità sintetica, come condizione a priori, in cui unifico il molteplice di una intuizione in generale — astraendo dalla forma costante della mia intuizione interna, il tempo — è la categoria di causa, per la quale io, quando l’applico alla mia sensibilità, determino, rispetto alla relazione, tutto ciò che succede nel tempo. L’apprensione dunque di un tale avvenimento, e insieme l’avvenimento stesso, secondo la percezione possibile, sottostà al concetto di relazione di effetto e causa; e così in tutti gli altri casi.

...

Le categorie sono concetti che prescrivono leggi a priori ai fenomeni, e perciò alla natura come insieme di tutti i fenomeni (natura materialiter spectata); e, poichè esse non sono derivate dalla natura e non si regolano su di essa come loro modello (chè altrimenti sarebbero semplicemente empiriche), si domanda come sia da intendere, che la na[p. 159 modifica]tura debba regolarsi su di esse, cioè come mai esse possano determinare a priori l’unificazione del molteplice della natura, senza ricavarla da questa. Ecco la soluzione di questo enimma.

Non è per nulla più strano che le leggi dei fenomeni della natura debbano accordarsi con l’intelletto e la sua forma apriori, cioè colla sua facoltà di unificare il molteplice in generale, di quel che non sia che i fenomeni stessi abbiano ad accordarsi con la intuizione sensibile a priori. Giacchè le leggi esistono non nei fenomeni, ma solo relativamente al soggetto, al quale, in quanto ha un intelletto, i fenomeni ineriscono; così come i fenomeni non esistono in sè, ma solo relativamente a quel soggetto medesimo, in quanto esso è dotato di sensi. Alle cose in sè le loro leggi spetterebbero necessariamente anche all’infuori di un intelletto che le conosca. Ma i fenomeni sono solamente rappresentazioni di cose, le quali rimangono ignote per quel che possono essere in se stesse. E come semplici rappresentazioni, i fenomeni non possono sottostare ad altra legge di unificazione da quella, che loro prescrive la facoltà unificatrice. Ora, ciò che unifica il molteplice dell’intuizione sensibile, è l’immaginazione, la quale dipende dall’intelletto, per l’unità della sua sintesi intellettuale, e dalla sensibilità, per il molteplice dell’apprensione. Ma, poichè ogni percezione possibile dipende dalla sintesi dell’apprensione, e questa stessa sintesi empirica, a sua volta, dalla sintesi trascendentale, e quindi dalle categorie; così ogni percezione possibile, e però tutto quello che può sempre giungere alla coscienza empirica — cioè tutti i fenomeni della natura, in quanto alla loro unificazione — sottostanno alle categorie, dalle quali dipende la natura (considerata semplicemente come natura in generale), come da principio originario delle sue leggi necessarie (quale natura formaliter spectata). Ma nè anche la facoltà pura dell’intelletto arriva a prescrivere a priori ai fenomeni mediante le sole categorie più leggi di quell, sulle quali riposa una natura in generale, come regolarità dei fenomeni nello [p. 160 modifica]spazio e nel tempo. Le leggi particolari, poichè riguardano fenomeni empiricamente determinati, non possono quindi esser desunte esclusivamente dalle categorie, sebbene sottostieno tutte alle categorie. Deve intervenire l’esperienza per imparare a conoscer queste leggi in generale; ma intorno all’esperienza in generale e a quel che può esser conosciuto come suo oggetto, soltanto quelle leggi a priori danno lume.


§ 27.

Risultato di questa deduzione
dei concetti dell’intelletto.

Noi non possiamo pensare alcun oggetto, se non per le categorie; nè possiamo conoscere un oggetto pensato, se non per intuizioni che corrispondano a quei concetti. Ora, tutte le nostre intuizioni sono sensibili, e questa conoscenza in quanto l’oggetto suo è dato, è empirica. Ma la conoscenza empirica è esperienza. Dunque, non è possibile nessuna conoscenza a priori, se non unicamente di oggetti di esperienza possibile12.

Se non che questa conoscenza, che è limitata semplicemente ad oggetti dell’esperienza, non è perciò derivata tutta dall’esperienza; ma sì le intuizioni pure, sì i concetti puri dell’intelletto sono elementi della conoscenza, che si trovano in noi a priori. Ecco dunque due vie, per le quali si può pensare un accordo necessario dell’esperienza coi [p. 161 modifica]concetti de’ suoi oggetti: o l’esperienza rende possibili questi concetti, o questi rendono possibile l’esperienza. La prima non ha luogo rispetto alle categorie (e neppure rispetto alla intuizione sensibile pura); perchè esse sono concetti a priori, quindi indipendenti dall’esperienza (l’asserzione di una origine empirica, sarebbe una specia di generatio aequivoca). Dunque, rimane soltanto la seconda via (un sistema, per dir cosi, di epigenesi13 della ragion pura); cioè che le categorie, dal lato dell’intelletto, contengano il fondamento della possibilità di ogni esperienza in generale. Ma come rendano possibile l’esperienza, e quali principii ci diano della possibilità di essa nella loro applicazione ai fenomeni, ce l’insegnerà meglio il seguente capitolo intorno all’uso trascendentale del Giudizio14.

Se si volesse fra le due sole vie ricordate introdurre una via di mezzo, cioè che le categorie non siano nè primi principii a priori spontanei15 della nostra conoscenza, e neppure un prodotto dell’esperienza, ma disposizioni soggettive del pensare, piantate in noi col nascere, e così ordinate dal nostro Creatore che il loro uso s’accordi esattamente con le leggi della natura secondo le quali si svolge l’esperienza (una specie di sistema di preformazione della ragion pura); oltre che, in tale ipotesi, nessun può dire fino a che punto si potrebbe spingere la presupposizione di predeterminate disposizioni a futuri giudizi; contro cotesta via di mezzo ci sarebbe questo argomento perentorio: che in tal caso alle categorie mancherebbe la necessità, che è essenziale al loro concetto. Infatti il concetto, ad es., di causa, che esprime la necessità di un effetto [p. 162 modifica]supposta un condizione, sarebbe falso, qualora riposasse su una necessità soggettiva, arbitraria e innata in noi, di unire certe rappresentazioni empiriche secondo un tale regola di relazione. Io non potrei dire: l’effetto è collegato con la causa nell’oggetto (cioè, necessariamente); ma: io sono così fatto da non poter pensare questa rappresentazione se non così collegata; che è proprio ciò che più desidera lo scettico; giacchè allora tutta la nostra convinzione, fondata nel supposto valore oggettivo dei nostri giudizi, non è altro che una semplice illusione, e non mancherebbero di quelli, che di sè non confesserebbero questa necessità (che deve esser sentita): per lo meno non si potrebbero fare contestazioni a nessuno su ciò, che è fondato solo sulla maniera in cui ciascun soggetto è organizzato.


CONCETTO SOMMARIO DI QUESTA DEDUZIONE

Essa è l’esposizione dei concetti puri dell’intelletto (e perciò di tutta la conoscenza teoretica a priori), come principii della possibilità dell’esperienza, ma di questa come determinazione dei fenomeni nello spazio e nel tempo in generale; — e, infine, di questa determinazione in virtù del principio dell’unità sintetica originaria dell’appercezione, in quanto forma dell’intelletto in rapporto allo spazio e al tempo, forme originarie della sensibilità.

...

Sin qui ritenni necessaria la divisione in paragrafi, giacchè avevamo che fare con concetti elementari. Ora per altro che ci accingiamo a mostrarne l’uso, la trattazione potrà proseguire senza di essa, in un nesso continuato.

Note

  1. Sarebbe troppo incomodo alla lettura recare qui in nota, come abbiamo fatto per le altre varianti, il testo interno dei lunghi passi della 1ª edizione completamente rielaborati da K. in questi §§ 15-27. Si troverà nell’Appendice, I.
  2. Non è questo il luogo di vedere se le rappresentazioni stesse sieno identiche, e perciò se l’una possa essere pensata analiticamente mediante l’altra. La coscienza dell’una, in quanto si parla del molteplice, è sempre da distinguere dalla coscienza dell’altra, e qui si tratta soltanto della sintesi di questa (possibile) coscienza. (N. di K.)
  3. L’unità analitica della coscienza appartiene a tutti i concetti generali, come tali; per es., se io penso al rosso in generale, mi rappresento una quantità che (come nota) può essere in qualche cosa, e collegata con altre rappresentazioni; così solamente mediante una possibile unità sintetica precedentemente pensata m’è dato di rappresentarmene una analitica. Una rappresentazione, che dev’esser pensata come comune a diverse rappresentazioni, sarà considerata come appartenente a rappresentazioni tali che abbiano in sè, oltre di essa, anche alcunchè di diverso; e per conseguenza dev’esser pensata in unità sintetica con altre rappresentazioni (ancorchè solo possibili), prima che io possa concepire in essa l’unità della coscienza, che ne fa il conceptus communis. È dunque l’unità sintetica della appercezione il punto più alto, al quale si deve legare tutto l’uso dell’intelletto, tutta la logica stessa, e dopo di questa la filosofia trascendentale, anzi questa facoltà è lo stesso intelletto. (N. di K.)
  4. Lo spazio e il tempo e tutt ele loro parti sono intuizioni, perciò rappresentazioni particolari, col molteplice che contengono in sè (vedi Estetica trascendentale); non dunque semplici concetti, pei quali la stessa coscienza sia come contenuta in molte rappresentazioni, ma molte rappresentazioni come in una sola e nella loro coscienza, e formanti quindi un tutto e per conseguenza si ha l’unità della coscienza sintetica e tuttavia originaria. Questa loro particolarità è importante nella applicazione (v. § 25). (N. di K.)
  5. La interminabile teoria delle quattro figure del sillogismo concerne soltanto i sillogismi categorici; e, sebbene essa per vero altro non sia che un’arte di carpire, dissimulando le immediate conseguenze (consequentiae immediatae) sotto le premesse di un ragionamento puro, l’apparenza di più maniere di concludere, che non sieno nella prima figura; tuttavia non avrebbe dovuto, appunto per questo, avere nessuna speciale fortuna, se non le fosse riuscito di far prendere in esclusiva considerazione i giudizi categorici, come quelli, a cui tutti gli altri dovrebbero riferirsi: ciò che è falso, come si vede dal § 9. (N. di K.)
  6. L’argomento è fondato sulla unità che noi ci rappresentiamo dell’Intuizione, unità per la quale un oggetto è dato, e che racchiude sempre in sè una sintesi del molteplice dato in una intuizione, e contiene di già il rapporto di questo con l’unità dell’appercezione. (N. di K.)
  7. Il movimento di un oggetto nello spazio non appartiene ad una scienza pura, e perciò nemmeno alla geometria; poichè non si può conoscere a priori, ma solo per mezzo dell’esperienza che qualche cosa si muove. Ma il movimento come descrizione di uno spazio è un atto puro della sintesi successiva del molteplice nell’intuizione esterna in generale, mediante l’immaginazione produttiva, e non appartiene solo alla geometria, ma anche alla filosofia trascendentale (N. di K.)
  8. Io non vedo come si possa trovare tanta difficoltà in questo, che il senso interno venga modificato da noi stessi. Ogni atto di attenzione ce ne può fornire un esempio. L'intelletto in essa determina sempre il senso interno, conforme all’unificazione che esso pensa, per avere l’intuizione interna che corrisponde al molteplice nella sintesi dell’intelletto. Ognuno potrà percepire in se stesso quanto venga comunemente modificato in tal modo lo spirito. (N. di K.)
  9. L’«io penso» esprime l’atto di determinare la mia esistenza. L’esistenza dunque con ciò è già data; ma la maniera in cui io debba determinarla, cioè porre in me il molteplice ad essa appartenente, con ciò ancora non è data. Occore l’auto-intuizione, che ha per base una data forma a priori, cioè il tempo, che è sensibile e appartiene alla recettività del determinabile. Ora, se io non ho anche un’altra auto-intuizione, che dia quello che in me è determinante (rispetto al quale io non ho coscienza se non della sua spontaneità) e lo dia innanzi all’atto del determinare a quel modo che il tempo dà il determinabile, io non posso determinare la mia esistenza come essere spontaneo; ma io mi rappresento solo la spontaneità del mio pensiero, cioè del determinare, e la mia esistenza rimane sempre determinabile soltanto sensibilmente, cioè come l’esistenza di un fenomeno. Pure questa spontaneità fa che io mi dica intelligenza.
  10. Lo spazio, rappresentato come oggetto (come occorre realmente fare in geomtria), contiene più che la semplice forma dell’intuizione, e cioè la sintesi del molteplice dato, secondo la forma della sensibilità, in una rappresentazione intuitiva, per modo che la forma dell’intuizione dà solamente il molteplice, e l'intuizione formale l’unità della rappresentazione. Nell’Estetica io ho attribuito questa unità semplicemente alla sensibiità, solo allo scopo di rilevare che essa è prima di ogni concetto, sebbene presupponga una sintesi, la quale non appartiene ai sensi, ma dalla quale è reso possibile ogni concetto di spazio e di tempo. Poichè, infatti per essa (in quanto l’intelletto determina la sensiblità) il tempo e lo spazio vengono dati come intuizioni, l’unità di questa intuizione a priori appartiene allo spazio e al tempo, e non al concetto dell’intelletto (§ 24). (N. di K.)
  11. In questo modo si dimostra, che la sintesi dell’apprensione, che è empirica, dev’essere necessariamente conforme alla sintesi dell’appercezione, che è intellettuale e contenuta nella categoria affatto a priori. È una stessa ed unica spontaneità, che lì sotto il nome di immaginazione, qui di intelletto, porta l’unificazione del molteplice dell’intuizione (N. di K.)
  12. Affinchè non si urti in maniera precipitata nelle conseguenze pregiudizievoli ed inquietanti di questo principio, voglio ricordare che le categorie nel pensiero non sono vincolate dalle condizioni della nostra intuizione sensibile, ma hanno un campo illimitato; e solamente la conoscenza di ciò che pensiamo, la determinazione dell’oggetto, ha bisogno di una intuizione; laddove, la mancanza di questa, il pensiero dell’oggetto può del resto aver sempre le sue conseguenze vere ed utili nell’uso che il soggetto fa della ragione, e che non si può ancora qui trattare, poichè non sempre esso è indirizzato alla determinazione dell’oggetto, ma anche a quella del soggetto e del suo volere. (N. di K.)
  13. Cioè generazione dell’esperienza dalle categorie.
  14. Traduciamo con giudizio tanto Urtheilskraft quanto Urtheil, cioè tanto l’attività giudicatrice, quanto il prodotto di questa attività. Un’altra traduzione (facoltà o attività giudicatrice, potere di giudicare o simili) impaccerebbe spesso il discorso, e nuocerebbe alla chiarezza, per amore di troppa chiarezza. Solo distingueremo il diverso significato mettendo l’iniziale maiuscola al Giudizio come attività.
  15. Selbstgedachte, autopensati, ossia prodotti spontanemante dal pensiero.