Critica della ragion pura (1949)/Dottrina trascendentale degli elementi/Estetica trascendentale/Del tempo

Estetica trascendentale - Del tempo

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Estetica trascendentale - Dello spazio Logica trascendentale
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SEZIONE SECONDA

Del tempo.


§ 4.

Esposizione metafisica del concetto del tempo.

1. Il tempo non è un concetto empirico, ricavato da una esperienza. La simultaneità o la successione non cadrebbe neppure nella percezione, se non vi fosse a priori a fondamento la rappresentazione del tempo. Solo se presupponiamo il tempo, è possibile rappresentarsi che qualcosa sia nello stesso tempo (simultaneamente), o in tempi diversi (successivamente).

2. Il tempo è una rappresentazione necessaria, che sta a base di tutte le intuizioni. Non si può, rispetto ai fenomeni in generale, sopprimere il tempo, quantunque sia del tutto possibile toglier via dal tempo tutti i fenomeni. Il tempo dunque è dato a priori. Soltanto in esso è possibile la realtà dei fenomeni. Questi possono sparir tutti, ma il tempo stesso (come condizione universale della loro possibilità) non può esser soppresso.

[p. 76 modifica]3. Su questa necessità a priori si fonda anche la possibilità di principii apodittici dei rapporti di tempo, o assiomi del tempo in generale. Esso ha una sola dimensione; diversi tempi non sono insieme, ma successivi (come diversi spazi non sono successivi, ma insieme). Questi principii non possono esser desunti dall’esperienza, perchè questa non potrebbe darci nè universalità rigorosa, nè certezza apodittica. Potremmo dire soltanto: così ci dice la percezione comune, ma non: così deve essere. Questi principii valgono come leggi per le quali è possibili l’esperienza in generale, e ci istruiscono prima, non per mezzo di essa.

4. Il tempo non è un concetto discorsivo o, come si dice universale, ma una forma pura dell’intuizione sensibile. I diversi tempi non sono se non parti appunto dello stesso tempo. Ma la rappresentazione, che non può esser data se non per un solo oggetto, si chiama intuizione. Inoltre, la proposizione, che tempi diversi non possono essere insieme, non si può dedurre da un concetto generale. Questa proposizione è sintetica, e non può essere dedotta solo da concetti. È dunque immediatamente contenuta nell’intuizione e rappresentazione del tempo.

5. L’infinità del tempo non significa se non che tutte le quantità determinate di tempo sono possibili solo come limitazioni di un tempo unico, che stia a loro fondamento. Quindi la rappresentazione originaria tempo dev’essere data senza limitazioni. Ma quando le parti stesse e ogni grandezza di un oggetto non si possono rappresentare determinate se non con una limitazione, allora la rappresentazione totale non può esser data mediante concetti (perchè essi non contengono se non rappresentazioni parziali), ma a fondamento di esse dev’esserci un’intuizione immediata.


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§ 5.1

Esposizione trascendentale del concetto del tempo.

Posso per ciò rinviare al n. 32, dove io, per essere breve, ho detto che cosa sia propriamente trascendentale, dopo l’articolo della esposizione metafisica. Qui soggiungo ancora, che il concetto del cangiamento, e con esso il concetto del movimento (come cangiamento di luogo), è possibile solo nella rappresentazione di tempo; che, se questa rappresentazione non fosse intuizione (interna) a priori, nessun concetto, quale che sia, potrebbe rendere intelligibile la possibilità d’un cangiamento, cioè dell’unione in uno e medesimo oggetto di predicati opposti contradditori (per es., l’essere e il non essere appunto della stessa cosa nello stesso luogo). Solo nel tempo, ossia una dopo l’altra, possono incontrarsi insieme in una cosa due determinazioni opposte contradittorie. Il nostro concetto del tempo ci spiega dunque la possibilità di tante conoscenze sintetiche a priori, quante ce ne propone la teoria generale del moto, che non ne è poco feconda.


§ 6.

Corollari di questi concetti.

a) Il tempo non è qualcosa che sussista per se stesso, o aderisca alle cose, come determinazione oggettiva, e che perciò resti, anche astrazion fatta da tutte le condizioni soggettive della intuizione di quelle: perchè nel primo caso sarebbe qualcosa che senza un soggetto reale sarebbe tuttavia reale. Per quanto riguarda il secondo caso, come de[p. 78 modifica]terminazione o ordine inerente alle cose stesse, non potrebbe precedere gli oggetti come loro condizione, ed esser conosciuto e intuito a priori per mezzo di proposizioni sintetiche. Ciò che invece ha luogo, se il tempo non è altro che la condizione soggettiva, per cui tutte le intuizioni possono accadere in noi. Giacchè allora questa forma delle intuizioni interne può essere rappresentata a priori, cioè prima degli oggetti.

b) Il tempo non è altro che la forma del senso interno, cioè dell’intuizione di noi stessi e del nostro stato interno. Infatti, il tempo non può essere una determinazione di fenomeni esterni: non appartiene nè alla figura, nè al luogo, ecc.; determina, al contrario, il rapporto delle rappresentazioni nel nostro stato interno. E appunto perchè questa intuizione interna non ha nessuna figura, noi cerchiamo di supplire a questo difetto con analogie, e rappresentiamo la serie temporale con una linea che si prolunghi all’infinito, nella quale il molteplice forma una serie avente una sola dimensione; e dalle proprietà di questa linea derivano tutte quelle del tempo, fuorchè questa sola: che le parti della linea sono simultanee, laddove le parti del tempo sempre successive. Da ciò risulta che la rappresentazione del tempo stesso è una intuizione, poichè tutti i suoi rapporti possono essere espressi per mezzo di una intuizione esterna.

c) Il tempo è la condizione formale a priori di tutti i fenomeni in generale. Lo spazio, essendo la forma pura di tutte le intuizioni esterne, è limitato (come condizione a priori) ai soli fenomeni esterni. Invece, poichè tutte le rappresentazioni — abbiano o no oggetti esterni — pure in se stesse, quali modificazioni dello spirito, appartengono allo stato interno; e poichè questo stato interno rientra sotto la condizione formale dell’intuizione interna, e però del tempo; così il tempo è condizione a priori di ogni fenomeno in generale; condizione, invero, immediata dei fenomeni interni (dell’anima nostra), e però mediatamente anche degli esterni. Se posso dire a priori: tutti i fenomeni [p. 79 modifica]esterni sono determinati a priori nello spazio e secondo relazioni spaziali; posso anche, movendo dal principio del senso interno, dire universalmente: tutti i fenomeni in generale, cioè tutti gli oggetti dei sensi, sono nel tempo, e stanno fra di loro necessariamente in rapporti di tempo.

Se noi facciamo astrazione dalla nostra maniera di intuire internamente noi stessi e di cogliere mediante codesta intuizione anche le intuizioni esterne nella facoltà rappresentativa, e consideriamo quindi gli oggetti come qualcosa per sè stante, il tempo non è più nulla. Esso ha validità oggettiva soltanto rispetto ai fenomeni, poichè fenomeni sono le cose che noi apprendiamo come oggetti del nostro senso; ma non è più oggettivo, se si astrae dalla sensibilità della nostra intuizione, e perciò dal modo di rappresentare che ci è proprio, e si parla di cose in generale. Il tempo è dunque unicamente condizione soggettiva della nostra (umana) intuizione (che è sensibile, cioè in quanto noi veniamo modificati da oggetti), e non è nulla in se stesso, fuori del soggetto. Ciò non ostante, rispetto a tutti i fenomeni, quindi a che a tutte le cose, che ci si possono presentare nell’esperienza, esso è necessariamente oggettivo. Non possiamo dire: tutte le cose sono nel tempo, perchè, nel concetto delle cose in generale, si fa astrazione da ogni specie di intuizione delle medesime, laddove questa è la condizione speciale per cui il tempo entra nella rappresentazione degli oggetti. Ma, aggiungendo a quel concetto la condizione, e dicendo: «tutte le cose, in quanto fenomeni (oggetti dell’intuizione sensibile), sono nel tempo», il principio acquista la sua oggettiva legittimità e universalità a priori.

Le nostre osservazioni dimostrano quindi la realtà empirica del tempo, cioè la sua validità obbiettiva rispetto a tutti gli oggetti, che possano mai esser dati ai nostri sensi. E poichè la nostra intuizione è sempre sensibile, così non può esserci dato mai nell’esperienza un oggetto che non sia soggetto alla condizione del tempo. D’altra parte, noi contestiamo al tempo ogni pretesa a realtà [p. 80 modifica]assoluta, nel senso che, anche indipendentemente dalla forma della nostra intuizione sensibile, inerisca assolutamente alle cose come loro condizione o qualità. Tali proprietà, spettanti alle cose in sè, non potranno mai esserci date mediante i sensi. In ciò dunque consiste l’idealità trascendentale del tempo, secondo la quale esso non è niente, ove si prescinda dalle condizioni soggettive dell’intuizione sensibile, e non può esser considerato nè come sussistente nè come inerente agli oggetti in se stessi (senza rapporto alla nostra intuizione). Tuttavia questa idealità, al pari di quella dello spazio, non può essere paragonata ai dati surrettizi delle sensazioni, poichè lì il fenomeno stesso, cui tali predicati ineriscono, si suppone sempre che abbia quella realtà oggettiva, che qui vien del tutto a mancare; salvo che essa è soltanto empirica, cioè riguarda l’oggetto stesso come semplice fenomeno: di che è da rivedere sopra la nota alla sezione precedente.


§ 7.

Chiarimento.

Contro questa teoria, che ammette la realtà empirica del tempo, ma ne contesta la realtà assoluta e trascendentale, ho ricevuto, da parte di uomini intelligenti, una obbiezione talmente concorde, da farmi argomentare che si dovrebbe naturalmente presentare ad ogni lettore, a cui queste questioni non siano familiari. Essa dunque suona: i cangiamenti esistono realmente (lo prova l’interno mutarsi delle nostre proprie rappresentazioni, quand’anche si volesse negare tutti i fenomeni esterni unitamente ai loro cangiamenti). Ora i cangiamenti delle rappresentazioni non sono possibili se non nel tempo; dunque il tempo è qualcosa di reale. La risposta non presenta nessuna difficoltà. Accetto tutto l’argomento. Il tempo, non v’ha dubbio, è qualcosa di reale, cioè la forma reale dell’intuizione [p. 81 modifica]interna. Ha dunque realtà soggettiva rispetto all’esperienza interna, cioè: io ho realmente la rappresentazione del tempo e delle mie determinazioni in esso. Esso è dunque da considerare reale non come oggetto, ma come modo di rappresentazione di me stesso come oggetto. Ma, se io stesso o un altro ente mi potesse percepire senza questa condizione della sensibilità, quelle stesse determinazioni appunto, che noi ora ci raffiguriamo come cangiamenti, darebbero una conoscenza, nella quale la rappresentazione del tempo e con essa quella del cangiamento, non avrebbe più luogo. Resta dunque la sua realtà empirica come condizione di tutte le nostre esperienze. Solo la realtà assoluta, dopo ciò che abbiamo detto, non può essergli riconosciuta. Esso non è se non la forma delle nostre intuizioni interne3. Se si toglie da esso la condizione speciale della nostra sensibilità, sparisce anche il concetto di tempo, ed essa non appartiene agli oggetti stessi, ma semplicemente al soggetto che li intuisce.

Ma la causa, per cui tale obbiezione è fatta così concordemente, e da coloro che pur non trovano nulla da obbiettare contro la dottrina della idealità dello spazio, è questa. La realtà assoluta dello spazio essi non speravano di poterla dimostrare apoditticamente, poichè contro di essi sta l’idealismo, secondo il quale la realtà degli oggetti esterni non è suscettibile di prova rigorosa: laddove quella dell’oggetto del nostro senso interno (di me stesso e del mio stato) è chiara immediatamente per coscienza. Quelli potrebbero essere semplice apparenza; ma questo, a giudizio loro, è innegabilmente qualcosa di reale. Ma essi non han riflettuto che ambedue gli oggetti, senza che la loro realtà come rappresentazione possa esser contestata, non appartengono tuttavia se non al fenomeno, che ha sempre [p. 82 modifica]due lati: uno, se si considera l’oggetto in se stesso (astrazion fatta dal modo di intuirlo, ma la cui natura resta perciò sempre problematica); l’altro, se si guarda alla forma dell’intuizione di questo oggetto; che non va cercata nell’oggetto in se stesso, ma nel soggetto al quale l’oggetto appare, e che, nondimeno, conviene realmente e necessariamente all’apparenza4 dell’oggetto.

Tempo e spazio sono pertanto due fonti del conoscere, dalle quali possono essere attinte a priori varie conoscenze sintetiche, come segnatamente ce ne dà uno splendido esempio la matematica pura, rispetto alla conoscenza dello spazio e de’ suoi rapporti. Essi cioè sono, tutti due, forme pure di tutte le intuizioni sensibili; e così rendono possibili proposizioni sintetiche a priori. Ma queste fonti a priori della conoscenza, si determinano da sè i loro confini (che sono semplicemente condizioni della sensibilità), pel fatto che si riferiscono agli oggetti, solo in quanto questi son considerati come fenomeni, ma non rappresentano cose in sè. Solo quelli sono il campo della loro validità, fuori del quale, ove se n’esca, non c’è più uso oggettivo di essi. Questa realtà dello spazio e del tempo, del resto, ci lascia intatta la sicurezza della conoscenza sperimentale; perchè noi siamo ugualmente certi, o che queste forme appartengano alle cose in sè, o solo alla nostra intuizione di queste cose in un modo necessario. Al contrario, coloro che affermano la realtà assoluta dello spazio e del tempo, la considerino come sussistente o soltanto come inerente, vengono di necessità a contraddire ai principii dell’esperienza. Giacchè, se si risolvono per la prima ipotesi (ch’è comunemente il partito dei fisici matematici), devono ammettere due non-enti5 (spazio e tempo) come eterni ed infiniti, aventi una realtà per sè; che (pure non essendo niente di reale) esistono solo per contenere in sè tutto il reale. Se prendono il secondo partito (che è quello di alcuni fisici me[p. 83 modifica]tafisici), e spazio e tempo valgono per loro come rapporti dei fenomeni (giustapposizione o successione), astratti dall’esperienza, benchè confusamente rappresentanti per tale astrazione: essi debbono negare alle teorie a priori della matematica rispetto alle cose reali (per es. nello spazio) la loro validità o almeno la certezza apodittica, poichè la certezza matematica non è punto a posteriori, e i concetti a priori di spazio e di tempo, secondo questa opinione, vengono ad essere solo creature dell’immaginazione; la fonte della quale in realtà va cercata nell’esperienza, dai cui rapporti astratti l’immaginazione ha composto qualcosa, che contiene ciò che in essa v’è di generale, ma che non può esistere senza le limitazioni che la natura ha con essi congiunte. I primi ci fanno il guadagno di rendersi libero il terreno dei fenomeni per le affermazioni matematiche. Al contrario, si smarriscono per causa di queste stesse condizioni, quando l’intelletto vuol andare al di là di cotesto terreno. I secondi in confronto ci guadagnano di più, cioè non capitano loro incontro le rappresentazioni di spazio e di tempo se vogliono giudicare degli oggetti non come fenomeni, ma solo in rapporto coll’intelletto; ma essi non possono nè giustificare (poichè loro manca una intuizione a priori, vera ed oggettivamente valida) la possibilità di conoscenze sperimentali in un accordo necessario con quelle affermazioni. Nella nostra teoria la vera natura di quelle due forme originarie del senso toglie di mezzo entrambe le difficoltà.

Infine, che l’estetica trascendentale non possa contenere più di questi due elementi, spazio e tempo, è chiaro dal fatto che tutti gli altri concetti appartenenti alla sensibilità — anche quello del movimento, che implica l’uno e l’altro, — suppongono qualcosa di empirico. Questo infatti presuppone la percezione di qualcosa mobile. Ma nello spazio, considerato in sè stesso, non c’è mobile; perciò il mobile dev’essere qualcosa che nello spazio si ha solo per mezzo dell’esperienza; e perciò un dato empirico. [p. 84 modifica]Parimenti, l’estetica trascendentale non può contare fra i suoi dati a priori il concetto del cangiamento; perchè non il tempo stesso cangia, ma qualcosa che è nel tempo. A ciò dunque occorre la percezione di un qualunque esistente, e la successione delle sue determinazioni; quindi l’esperienza.


§ 8.

Osservazioni generali sull’estetica trascendentale.

I. Sarà necessario prima di tutto spiegare, più chiaramente che ci sia possibile, quale sia il nostro pensiero sulla natura fondamentale della conoscenza sensibile in generale, per evitare intorno ad esso ogni equivoco6.

Noi dunque abbiamo voluto dire, che ogni nostra intuizione non è se non la rappresentazione di un fenomeno; che le cose, che noi intuiamo, non sono in se stesse quello per cui noi le intuiamo, nè i loro rapporti sono cosifatti come ci appariscono, e che se sopprimessimo il nostro soggetto, o anche solo la natura subbiettiva dei sensi in generale, tutta la natura, tutti i rapporti degli oggetti, nello spazio e nel tempo, anzi lo spazio stesso e il tempo sparirebbero, e come fenomeni non possono esistere in sè, ma soltanto in noi. Quel che ci possa essere negli oggetti in sè e separati dalla recettività dei nostri sensi ci rimane interamente ignoto. Noi non conosciamo se non il nostro modo di percepirli, che ci è peculiare, e che non è nè anche necessario che appartenga ad ogni essere, sebbene appartenga a tutti gli uomini. Noi abbiamo da fare solamente con esso. Spazio e tempo sono le forme pure di esso; la sensazione, in generale, la materia. Quelli possiamo conoscere solo a priori, ossia prima di ogni reale percezione, e perciò li chiamiamo intuizione pura: questa invece è nella nostra conoscenza ciò che fa che si dica conoscenza a poste[p. 85 modifica]riori, cioè intuizione empirica. Quelli appartengono assolutamente alla nostra sensibilità, qualunque sia la specie delle nostre sensazioni; queste possono essere molto diverse. Anche se portassimo questa nostra intuizione al più alto grado della chiarezza, non ci accosteremmo perciò di più alla natura degli oggetti in sè. Giacchè in ogni caso noi non potremmo conoscere compiutamente se non il nostro modo di intuizione, cioè la nostra sensibilità, e questa sempre nelle condizioni originarie inerenti al soggetto, di spazio e tempo; ma che cosa possano essere gli oggetti, in se stessi, per illuminata che sia la conoscenza dei loro fenomeni, che soltanto ce n’è data, non ci sarebbe mai noto.

L’idea quindi che tutta la nostra sensibilità non sia altro che una rappresentazione confusa delle cose, la quale contenga unicamente ciò che appartiene ad esse in se stesse, ma soltanto in un ammasso di note e di rappresentazioni parziali, che noi non distinguiamo con la coscienza, è una falsificazione del concetto di sensibilità e di fenomeno, che ne rende tutta la dottrina inutile e vana. La differenza tra rappresentazione chiara ed oscura è semplicemente logica, e non concerne il contenuto. Senza dubbio, il concetto del diritto, di cui si serve il buon senso, contiene appunto quello che da esso può sviluppare la più sottile speculazione, salvo che nell’uso comune e pratico non si ha coscienza di queste molteplici rappresentazioni contenute in questo pensiero. Ma non per ciò si può dire che il concetto comune sia sensibile, e contenga un semplice fenomeno, perocchè il diritto non può esser punto un fenomeno7, ma il suo concetto sta nell’intelletto, e rappresenta una natura (morale) delle azioni, appartenente ad esse, in se stesse. Al contrario, la rappresentazione di un corpo non contiene nulla, nell’intuizione, che possa appartenere a un oggetto in se stesso, ma semplicemente il fenomeno di qualche cosa, e il modo onde noi ne siamo modificati, e [p. 86 modifica]questa recettività della nostra capacità conoscitiva si chiama sensibilità, e rimane quindi toto coelo distinta dalla conoscenza dell’oggetto in se stesso, per quanto quello (il fenomeno) possa scrutare in fondo.

La filosofia di Leibniz e di Wolff dunque ha assegnato a tutte le sue ricerche sulla natura e sull’origine delle nostre conoscenze un punto di vista affatto erroneo, in quanto considerava come puramente logica la differenza fra senso e intelletto, laddove essa invece è manifestamente trascendentale, e non riguarda semplicemente la forma della chiarezza o non chiarezza, ma l’origine e il contenuto di essi; così che noi mediante il primo non già che semplicemente conosciamo oscuramente la natura delle cose in sè, ma non la conosciamo punto; e, appena prescindiamo dalla nostra natura soggettiva, non si trova più, nè può trovarsi, l’oggetto rappresentato con le proprietà, che gli attribuiva l’intuizione sensibile, poichè appunto questa natura soggettiva determina la forma di esso come fenomeno.

Noi distinguiamo sempre bene nei fenomeni ciò che essenzialmente appartiene alla loro intuizione, e vale per ogni senso umano in generale, da ciò che appartiene ad essa solo in modo accidentale; in quanto vale non in rapporto alla sensibilità in generale, ma per una particolare posizione od organizzazione di questo o di quel senso. E allora si dice che la prima conoscenza è quella che rappresenta l’oggetto in se stesso, la seconda invece quella che rappresenta solo il fenomeno. La distinzione è però soltanto empirica. Se ci si ferma ad essa (come comunemente accade) e non si considera da capo, come si dovrebbe, quella intuizione empirica come semplice fenomeno, in modo che non vi si trovi nulla che in qualche modo riguardi una cosa in se stessa, allora la nostra distinzione trascendentale va tutta perduta, e noi abbiamo quindi l’illusione di conoscere cose in sè, quantunque dappertutto (nel mondo sensibile), malgrado le più profonde investigazioni dei loro oggetti, non troviamo altro che fenomeni. [p. 87 modifica]Così noi chiameremo bensì l’arcobaleno semplice fenomeno della pioggia col sole, e questa pioggia cosa in sè; ciò che è anche esatto dal punto di vista fisico, in quanto intendiamo fisicamente l’ultimo concetto, come quello che nell’universale esperienza, in tutte le posizioni differenti verso i sensi, è tuttavia determinato nell’intuizione così e non altrimenti. Ma se prendiamo questo fatto empirico in generale e, senza curarci dell’accordo di esso con ogni senso umano, domandiamo se questo anche rappresenti un oggetto in se stesso (non le gocce di pioggia, perchè allora esse sono già come fenomeni oggetti empirici), la questione del rapporto della rappresentazione con l’oggetto è trascendentale, e non soltanto queste gocce sono semplici fenomeni, ma la loro stessa forma rotonda, e anzi lo spazio in cui cadono, ecc., non sono nulla in sè, bensì semplici modificazioni o fondamenti della nostra intuizione sensibile: ma l’oggetto trascendentale ci resta ignoto.

La seconda cosa importante della nostra Estetica trascendentale è, che essa non merita d’essere accolta semplicemente come un’ipotesi verosimile, ma è tanto sicura e indubitabile, quanto mai si può richiedere che sia una teoria che deve servire di organo. Per rendere pienamente evidente questa sua certezza, scegliamo qualche caso, in cui il suo valore può saltare quasi agli occhi, e per la cui maggior chiarezza può servire ciò che fu detto al § 3.

Supposto pertanto che spazio e tempo sieno in se stessi oggettivi, e condizioni della possibilità delle cose in sè, ne deriva prima di tutto, che da entrambi possono scaturire a priori in gran numero proposizioni apodittiche, sintetiche: in specie dallo spazio, al quale convien qui limitare il nostro esempio. Poichè le proposizioni della geometria sono conosciute sinteticamente a priori e con apodittica certezza, io domando: donde la geometria prende tali proposizioni, e su che si appoggia il nostro intelletto, per giungere a tali verità assolutamente necessarie e valevoli universalmente? Non c’è altra via che o da concetti, o da intuizioni: ma queste e quelli o son dati a priori, o a [p. 88 modifica]posteriori. Gli ultimi, cioè i concetti empirici, al pari di ciò su cui si fondano, ossia dell’intuizione empirica, non possono darci nessuna proposizione sintetica che non sia anche semplicemente empirica, cioè proposizione sperimentale, che quindi non può mai contenere nè quella necessità, nè quella universalità assoluta, che costituiscono il carattere di tutte le proposizioni della geometria. Ma, per quel che sarebbe il primo e unico mezzo, ossia per semplici concetti o per intuizioni a priori, di giungere a conoscenze di questo genere, è chiaro, che da semplici concetti non c’è modo assolutamente di ottenere nessuna conoscenza sintetica, ma solo analitica. Prendete la proposizione: due linee rette non possono chiudere uno spazio, e con esse non è possibile nessuna figura; e cercate di dedurla dai concetti di retta e dal numero due. O anche: con tre linee rette è possibile una figura; e provatevi a far altrettanto semplicemente da questi concetti. Ogni vostro sforzo è vano, e vi vedrete obbligati a ricorrere all’intuizione, come fa sempre la geomtria. Datevi dunque un oggetto nell’intuizione; di che specie è questa, intuizione pura a priori, o empirica? Se fosse empirica, non potrebbe mai uscirne una proposizione apodittica: perchè l’esperienza non può mai produrne di questa specie. Dovete dunque dare a priori il vostro oggetto nella intuizione, e su di esso fondare la vostra proposizione sintetica. Ora, se non fosse in voi una facoltà di intuire a priori; se questa soggettiva condizione per la forma non fosse a un temp la universale condizione a priori, a cui soltanto è possibile l’oggetto di questa intuizione stessa (esterna); se l’oggetto (il triangolo) fosse qualcosa in sè, senza rapporto col vostro soggetto, come potreste dire che ciò che è necessario nelle vostre condizioni soggettive per costruire un triangolo, debba necessariamente convenire anche al triangolo in se stesso? Giacchè ai vostri concetti (delle tre linee) non potreste aggiungere più nulla di nuovo (la figura), che dovesse trovarsi necessariamente nell’oggetto, poichè questo è dato [p. 89 modifica]prima della vostra conoscenza, e non in forza di essa. Se lo spazio dunque (e così pure il tempo) non fosse una semplice forma della vostra intuizione, contenente a priori le condizioni in cui soltanto le cose possono essere per voi oggetti esterni, che senza coteste condizioni soggettive in sè non sono niente; voi non potreste, nel modo più assoluto, affermar nulla sinteticamente intorno gli oggetti esterni. È dunque incontestabilmente certo, e non soltanto possibile o verosimile, che lo spazio e il tempo, come condizioni necessarie di ogni esperienza (esterna o interna), sono semplicemente condizioni soggettive di ogni nostra intuizione, in rapporto alla quale quindi tutti gli oggetti sono semplicemente fenomeni, e non cose date per sè in questo modo; di cui anche perciò, quanto alla forma, si può dir molto a priori, ma non mai il minimo che della cosa in sè, che può essere in fondo a questi fenomeni.


II.8 A conferma di questa teoria dell’idealità così del senso esterno, come dell’interno, e perciò di tutti gli oggetti dei sensi in quanto semplici fenomeni, si può principalmente osservare, che tutto ciò che nella nostra conoscenza appartiene all’intuizione (esclusi, dunque, il piacere e il dolore e il volere, che non sono punto conoscenze) non contiene altro che semplici rapporti: luogo di una intuizione (estensione), cangiamento di luogo (movimento), e leggi secondo le quali questo cangiamento è determinato (forze motrici). Ma che cosa ci sia nel luogo, o che cosa operi nelle cose stesse, oltre il cangiamento di luogo, non può esserci dato per questo mezzo. Ora con semplici rapporti non si conosce una cosa in sè; è dunque da ritenere che, dal momento che mediante il senso esterno non possono esserci date se non semplici rappresentazioni di rapporti, anch’esso nella sua rappresentazione non possa contenere altro che il rapporto di un oggetto col soggetto, e non l’interno dell’oggetto in se stesso. Altrettanto si dica [p. 90 modifica]dell’intuizione interna. Non soltanto le rappresentazioni del senso esterno costituiscono la materia propria, onde noi arricchiamo il nostro spirito, ma il tempo, in cui collochiamo queste rappresentazioni, che precede nella esperienza alla coscienza di queste e, come condizione formale, sta a fondamento del modo in cui noi le poniamo nello spirito, contiene già i rapporti della successione, della simultaneità e di ciò che è simultaneo con la successione (il permanente). Ora ciò che come rappresentazione può precedere ad ogni atto di pensar checchessia è l’intuizione; e se non contiene altro che rapporti, la forma dell’intuizione, la quale, non rappresentando nulla se non in quanto qualcosa è posto nello spirito, non può dunque esser altro che la maniera colla quale lo spirito viene modificato dalla propria attività, o meglio dall’attività della sua rappresentazione, cioè da se stesso; insomma, un senso interno, quanto alla sua forma. Tutto ciò che è rappresentato per mezzo d’un senso, è perciò stesso sempre fenomeno; e un senso interno, dunque, o non dovrebbe punto essere ammesso, o il soggetto, che è oggetto di esso, non potrebbe esser rappresentato per esso se non come fenomeno, non come esso giudicherebbe di se stesso, se la sua intuizione fosse semplicemente spontanieità, cioè intellettuale. Qui tutta la difficoltà consiste in questo: come un soggetto possa intuire internamente se stesso; ma questa difficoltà è comune a tutte le teorie. La coscienza di se stesso (appercezione) è la semplice rappresentazione dell’Io; e, se tutto il molteplice nel soggetto ci fosse dato da essa spontaneamente, l’intuizione interna sarebbe intellettuale. Nell’uomo, questa coscienza richiede una percezione interna del molteplice datoci già nel soggetto; e la maniera, con la quale questo vario è dato nello spirito senza spontaneità, deve chiamarsi, in grazia di questa differenza, sensibilità. Se poi la facoltà della coscienza deve cercare (apprendere) ciò che è nello spirito, questo deve modificarla; e soltanto in questo modo essa può produrre un’intuizione di se stessa, la cui forma, posta già a fondamento nello [p. 91 modifica]spirito, determina nella rappresentazione di tempo la maniera, onde il molteplice è riunito nello spirito; poichè lo spirito intuisce se stesso, non come si rappresenterebbe immediatamente e spontaneamente, ma come internamente vien modificato; perciò come appare a sè, non come è.


III. Quando io dico: nello spazio e nel tempo così l’intuizione degli oggetti esterni, come anche l’intuizione che lo spirito ha di se stesso rappresenta l’uno e l’altro oggetto così come essa modifica i nostri sensi, cioè come esso pare, ciò non vuol dire che questi oggetti siano una semplice parvenza. Giacchè nel fenomeno gli oggetti, anzi le stesse loro qualità, che ascriviamo a loro, sono considerate come qualcosa di effettivamente dato; e solo in quanto queste qualità dipendono esclusivamente dal modo d’intuizione del soggetto nella relazione dell’oggetto dato con esso, quest’ogetto come fenomeno è distinto dallo stesso come oggetto in sè. Perciò io non dico che i corpi paiono semplicemente essermi esterni, o che l’anima mia pare semplicemente data nella mia autocoscienza, quando affermo che le qualità dello spazio e del tempo, secondo le quali, come condizione della loro esistenza, pongo e quelli e questa, sono nel mio modo di intuire, e non in questi oggetti. Sarebbe un errore il mio, se io facessi una pura parvenza di ciò che devo considerare come fenomeno9. Ma ciò non avviene secondo il nostro principio [p. 92 modifica]dell’idealità di tutte le nostre intuizioni sensibili; piuttosto, se a quelle forme rappresentative si attribuisse realtà oggettiva, allora potrebbe essere inevitabile che tutto per questa via si convertisse in semplice parvenza. Giacchè, se si considera lo spazio e il tempo come qualità che devono trovarsi, per la loro possibilità, nelle cose stesse, e si rifletta un po’ alle assurdità, in cui si resterebbe impigliati, poichè due cose infinite, non sostanza, e nemmeno inerenti a sostanze, dovrebbero tuttavia essere un che di esistente, anzi condizione necessaria dell’esistenza di tutte le cose, e restare, quand’anche tutte le cose esistenti fossero soppresse; allora non si può fare un aggravio al buon Berkeley, se egli ridusse i corpi a una pura parvenza: anzi la nostra stessa esperienza, che in tal modo verrebbe a dipendere dalla realtà per sè stante di un non-ente, quale il tempo, così diventerebbe una vana parvenza: assurdità, che finora nessuno s’è voluta addossare.


IV. Nella teologia naturale, nella quale si pensa un oggetto, che non solo non può essere punto per noi oggetto d’intuizione, ma nemmeno a se stesso oggetto d’intuizione sensibile, si è badato con gran cura a togliere da ogni sua intuizione (giacchè tale deve essere tutta la sua conoscenza, e non pensiero, che dimostra sempre dei limiti) le condizioni del tempo e dello spazio. Ma con qual diritto ciò si può fare, se l’uno e l’altro si son fatti forme delle cose in se stesse, e tali da rimanere a priori quali condizioni dell’esistenza delle cose, anche quando si fossero soppresse le cose? perchè come condizioni di ogni esistenza in generale essi devono esserlo anche dell’esistenza di Dio. Se non si vogliano prendere per forme oggettive di tutte le cose, non resta che considerarli come forme soggettive della nostra intuizione, così esterna come interna, la quale è sensibile perchè non è originaria, ossia non è tale che già con essa sia data l’esistenza dell’oggetto della intuizione (e quale, per quanto noi arriviamo a intendere, può appartenere soltanto all’Essere supremo), ma è dipendente [p. 93 modifica]dall’esistenza dell’oggetto; ed è perciò possibile solo ad un patto: che la facoltà rappresentativa del soggetto sia modificata da esso.

Non è nè pur necessario che noi limitiamo il modo di intuire nello spazio e nel tempo alla sensibilità dell’uomo: può darsi che ogni essere pensante finito debba trovarsi nelle identiche condizioni dell’uomo (sebbene non possiamo decider nulla di questo); ma non per questa universale validità tal modo d’intuire cesserebbe di appartenere alla sensibilità; che appunto perchè derivato (intuitus derivativus), non è un’intuizione originaria (intuitus originarius), e quindi non è intellettuale, come quella che, per la ragione addotta, par convenire soltanto all’Ente primo, ma non mai ad un essere che è dipendente, e rispetto alla sua esistenza, e rispetto alla sua intuizione (la sua esistenza è determinata in rapporto ad oggetti dati); sebbene l’ultima osservazione sulla nostra teoria estetica debba soltanto essere tenuta in conto di chiarimento, e non di dimostrazione.


CONCLUSIONE DELL’ESTETICA TRASCENDENTALE

Ormai noi abbiamo uno dei punti necessari alla soluzione del problema generale della filosofia trascendentale: come sono possibili giudizi sintetici a priori? cioè intuizioni pure a priori, in cui noi, se nel giudizio vogliamo oltrepassare il concetto dato, troviamo quello, che non nel concetto, ma nella intuizione corrispondente può essere scoperto a priori e congiunto con esso sinteticamente. Ma tali giudizi, su questa base, non vanno più in là degli oggetti dei sensi, e possono valere soltanto per oggetti di un’esperienza possibile.

Note

  1. Questo paragrafo è una aggiunta della 2ª edizione.
  2. Nel paragrafo precedente.
  3. Certo, io posso dire: le mie rappresentazioni si susseguono; ma ciò significa solamente: noi abbiamo coscienza di esse, come in una serie temporale, cioè secondo la forma del senso interno. Il tempo perciò non è considerato come qualcosa in sè, e nemmeno come una determinazione inerente oggettivamente alle cose. (N. di K.)
  4. Erscheinung.
  5. Undings = non-cose.
  6. Questo capoverso è un’aggiunta della 2ª edizione.
  7. Erscheinen, apparire (= essere Erscheinung, cioè fenomeno).
  8. Ciò che segue, fino alla fine del capitolo, è aggiunta della 2ª edizione.
  9. I predicati del fenomeno possono essere attribuiti all’oggetto stesso in rapporto al nostro senso, per es.: alla rosa il color rosso o l’odore; ma all’oggetto ad attribuire all’oggetto per sè, ciò che gli può convenire solo in rapporto ai sensi o in generale al soggetto, per es.: i due anelli attribuiti una volta a Saturno. Fenomeno è ciò che non appartiene all’oggetto in se stesso, ma si trova sempre nel rapporto di esso col soggetto, ed è inseparabile dalla rappresentazione di questo; giustamente perciò i predicati dello spazio e del tempo sono attribuiti agli oggetti dei sensi come tali, e in ciò non v’è parvenza. Al contrario, se io attribuisco alla rosa in sè il color rosso, a Saturno gli anelli o a tutti gli oggetti esterni in sè l’estensione, senza guardare a un determinato rapporto di questi oggetti col soggetto e senza limitare ad esso il mio giudizio, allora nasce la parvenza (N. di K.)