Storia di Milano/Capitolo X
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Della signoria de’ Torriani; e principii della grandezza della casa Visconti, sino al cominciamento del secolo XIV
Verso la metà del secolo decimoterzo l’Impero era immerso nell’anarchia e nella confusione. Vi erano più rivali, e ciascuno s’intitolava augusto ed aveva un partito; rivali deboli però, e appena bastanti a nuocersi scambievolmente; e perciò l’autorità imperiale più non vi era; anzi, riguardo alla storia di Milano, dobbiamo considerare l’influenza dell’imperatore sospesa sino alla fine del secolo decimoterzo. Gl’imperatori Corrado IV, Guglielmo d’Olanda, Riccardo di Cornovaglia, Alfonso di Castiglia, Rodolfo di Habsburg, Adolfo di Nassau e Alberto I non ebbero che poca o nessuna parte negli avvenimenti di Milano, dove si ritornò a riconoscere l’autorità cesarea colla venuta di Enrico (sesto per gl’Italiani, ma comunemente chiamato settimo), che ascese alla dignità imperiale l’anno 1308. Frattanto la città viveva tra le fazioni, cercando al solito i nobili d’opprimere la plebe, e questa di contenere i nobili ed umiliarli. La forma civile della società era incerta, non fondata sopra costituzione alcuna. La libertà, i beni, la vita non avevano altra protezione che la forza o l’astuzia. Questo stato di vera guerra piuttosto che di repubblica, peggiore della stessa tirannia, rendeva insopportabile a ciascun cittadino la propria condizione. Il solo motivo per cui non si eleggeva un principe stabile, era la fiducia che hanno sempre i governi liberi, di correggere colla propria autorità i propri mali; ma frattanto per intervalli si eleggeva un dittatore. Si è già veduto nel capitolo precedente come Pagano della Torre dominasse col titolo di protettore del popolo; egli fu proclamato tre anni dopo l’affare dì Cortenova, cioè l’anno 1240. Si è pure accennata la nuova carica di anziano della Credenza, conferita dal popolo a Martino della Torre, nipote di Pagano, l’anno 1247. Così la città cominciava ad accostumarsi al governo d’un solo. Il disordine civile crebbe dappoi, e si dovette pensare ad eleggersi un sovrano potente, a fine di preservarci dagli insulti de’ nemici vicini, e di contenere i mali delle civili dissensioni. Il primo passo verso la monarchia ascende all’anno 1253, nel quale Manfredo Lancia, marchese d’Incisa, fu creato signore di Milano per tre anni. E ben si vide quanto fosse necessario quel partito, poichè, appena terminata che fu quella temporaria monarchia, scoppiarono più che mai gli odii e le dissensioni fra la plebe e gli ottimati, avendo sempre la plebe alla testa i signori della Torre. Si cercava non più se dovesse la città esser libera ovvero soggetta, ma si disputava a chi dovesse consegnarsene la signoria. Le fazioni, spossate e stanche, combattevano alla fine per far avere la preferenza a quel signore che ciascuna bramava. Il popolo voleva Martino della Torre; un altro partito voleva Guglielmo da Soresina; i nobili espulsi proponevano Ezelino da Romano, uomo celebre nella storia di Brescia, Verona, Vicenza, Padova e Marca Trivigiana. Accadde che nessuno volle cedere al partito contrario, e si elesse il marchese Oberto Pelavicino signore di Milano per cinque anni. I signori della Torre rimanevano frattanto in Milano, godendo di tutta l’influenza del popolo, ma riconoscendo la signoria del marchese, il quale s’intitolò capitano generale di Milano. Non piaceva al papa che si andassero formando nell’Italia signori troppo potenti; perciò gli erano poco accetti e i Pelavicini e i Torriani ed Ezelino. L’Inquisizione non manco di adoperarsi per abbassare il capitano generale di Milano. I frati predicatori lo diffamavano come fautore degli eretici; e frate Rainerio da Piacenza, inquisitore in Milano, dal pulpito minacciò scomunica ai Milanesi se ricevevano il marchese: e il marchese scacciò l’inquisitore da Milano. Una moltitudine di forestieri s’incamminò processionalmente verso Milano. S’era inventata in Perugia allora l’usanza di flagellarsi, e si era sparsa questa opinione che fosse atto religioso il percuotere se medesimo; onde a turbe andavano, nudi dalla cintura in su, da una città all’altra questi promulgatori del nuovo rito, rappresentando dovunque un orrendo spettacolo di cilicii e di flagelli. Il marchese Pelavicino si diffidò di tanta divozione, e sulla strada fece piantare seicento forche, vedute le quali, la processione rivoltò cammino: Sexcentae furchae parantur; quo viso recesserunt, dice il Fiamma. Sembra che i papi avessero formato il progetto di stendere insensibilmente la loro sovranità anche sopra Milano e sopra la Lombardia, profittando della debolezza dell’Impero e delle civili discordie delle città. A tal fine si opponevano, destramente bensì, ma non risparmiando mezzo alcuno, contro di ogni famiglia che alzasse il capo a primeggiare: poichè, rimanendo alle città il solo partito del principato per dare una forma stabile e sicura al loro governo, quello che sopra d’ogni altro avvenimento più doveva spiacere a Roma, era appunto che alcuna famiglia s’innalzasse ad ottenerlo. Questa fu la base della politica de’ sommi pontefici; e la storia seguente ci farà conoscere quanti ostacoli abbia sempre posti la corte di Roma all’ingrandimento, prima dei signori della Torre, poscia dei signori Visconti, che Roma istessa aveva da principio favoriti, per abbassare con essi il potere de’ Torriani.
(1261) L’origine della grandezza della casa Visconti si può fissare all’anno 1261: non già che io intenda per ciò, ch’ella da prima fosse oscura affatto od ignobile, il che sarebbe falso. Già accennai un celebre Ottone Visconti al capitolo sesto, che morì in Roma centocinquant’anni prima di quest’epoca. Accennai pure altro di simil nome, console della città, assediata dall’imperatore Federico cent’anni prima. Ma l’origine di sua grandezza non ascende più in là: perchè, sebbene ella si fosse già condecorata con feudi ed antichi privilegi, sebbene ella si fosse già illustrata col valore di qualche suo antenato, nulla era di più che una delle famiglie nobili e generose, ma non potente nè ricca nè in condizione di lasciar prevedere la grandezza a cui rapidamente ascese; diventando poi, non solamente sovrana della sua patria, ma in meno d’un secolo regnando sopra venti altre città, e dilatandosi poi poco dopo alla grandezza di aspirare al regno d’Italia e possedere trentacinque città, fra le quali le più floride della parte settentrionale d’Italia, come vedremo. Colla fortuna de’ Visconti crebbe l’adulazione, e i genealogisti ammassarono le più grossolane menzogne, le quali vennero poi accettate con rispetto e credulità. Di ciò accaderà in seguito occasione di accennarne qualche cosa di più; ora conviene indicare come nacque la fortuna dei Visconti. Già sino dal 1257, in cui morì l’arcivescovo Leone da Perego, la sede metropolitana di Milano era vacante a cagione di due ostinati partiti che dividevano gli elettori. I nobili volevano fare arcivescovo Francesco da Settala, e i popolari volevano Raimondo della Torre, figlio di Pagano e zio di Martino, anziano della Credenza. Venne a Milano, l’anno 1261, il cardinale Ottaviano degli Ubaldini, ritornando dalla legazione di Francia. Egli alloggiava nel monastero di Sant’Ambrogio. Sono d’accordo i nostri scrittori nell’asserire che Martino della Torre, un giorno in cui meno se lo aspettava il cardinale legato, comparve sulla piazza di Sant’Ambrogio alla testa d’un forte squadrone di cavalleria, che ivi fece schierare; e il cardinal legato, sorpreso dal rumore delle trombe militari, non senza inquietudine ne ricercò il motivo; al che fu dato riscontro, come il signor Martino della Torre informato che allora il signor cardinale partiva, era venuto per onorevolmente accompagnarlo fuori della città. Il cardinale scelse il miglior partito; dissimulò, e ricevette cortesemente come un onore la violenza che gli veniva fatta, e se ne partì. (1262) Pochi mesi dopo, cioè il giorno 22 luglio 1262, il papa Urbano IV nominò arcivescovo di Milano Ottone Visconti, arcidiacono della chiesa milanese, uomo che il cardinale legato aveva riconosciuto in Francia ambiziosissimo, smanioso per comandare, violento; l’uomo in somma opportuno a bilanciare ed abbattere il potere de’ Torriani, tosto che ne avesse i mezzi. L’elezione era sempre stata libera agli ordinari, e quella fu la prima volta in cui il papa vi s’intromise; il che è stato anche osservato dal nostro conte Giulini. La lunga discordia, dic’egli, de’ nostri ordinari fu ad essi molto nociva, perchè a cagion di questa sofferì un gran crollo il loro antico insigne diritto di eleggere l’arcivescovo. Alcuni de’ nostri scrittori attribuiscono il fatto di Martino della Torre a ciò che, invogliatosi il legato d’una preziosa gemma del tesoro di Sant’Ambrogio, da essi chiamata carbonchio, cercasse colla sua autorità di appropriarsela; per lo che i canonici erano assai imbarazzati, e Martino per tal modo li trasse d’inquietudine. Altri credono che il legato si adoperasse per escludere dall’arcivescovado Raimondo della Torre; e sembra così più verosimile la cagione del vigoroso partito preso da Martino. Ma questa inaspettata elezione d’un arcivescovo fatta dal papa, doveva cagionare sorpresa nella città, negli ecclesiastici e nella signoria. In fatti Martino della Torre e il marchese Pelavicino, intesa ch’ebbero tale novità, occuparono immediatamente tutti i beni dell’arcivescovado. Il papa, senza indugio, pose la città di Milano all’interdetto. Poco dopo, in Lodi, venne a morte Martino della Torre, e prima di morire ottenne che il popolo di Milano eleggesse alla sua dignità Filippo, di lui fratello, siccome avvenne, ed ebbe il titolo di podestà perpetuo del popolo; ma ne godette poco, poichè morì improvvisamente, e gli fu successore Napoleone, ossia Napo della Torre, figlio del famoso Pagano.
I signori della Torre andavano crescendo sempre più in potenza. L’arcivescovo Ottone Visconti aveva un nome vano; ma, esule dalla patria, non poteva ricavare cosa alcuna, nemmeno dalle terre arcivescovili, occupate dai Torriani. L’interdetto e gli anatemi non avevano arrestato il corso della grandezza loro. Essi possedevano Como, Lodi, Novara, Vercelli, Bergamo e Brescia; non già con sovranità decisa ed ereditaria, ma indirettamente, con varii titoli e magistrature, esercitandovi il supremo potere. La influenza loro negli affari d’Italia era già tale, che Filippo della Torre si era collegato con Carlo conte d’Angiò e di Provenza, fratello del re di Francia Luigi IX, affìne di far ottenere il regno di Napoli al conte d’Angiò; e l’accortezza di Napo della Torre gli suggerì d’indurre il popolo di Milano ad eleggere esso conte per suo signore per cinque anni, dopo che fu egli dichiarato re di Sicilia. Così, dando l’odioso titolo di sovrano al re Carlo, lontano, beneficato e debole, Napo della Torre dominava con minore invidia nella Lombardia, celando la sovranità e adescando la moltitudine con modi popolari e con largizioni splendidissime, aprendo corti bandite, con mense apprestate sulle pubbliche strade della città, a beneficio del popolo: di che minutamente ne tratta il conte Giulini. Furono magnificamente accolti in Milano, mentre i signori della Torre la reggevano, il papa Innocenzo IV, il quale vi fece ingresso il giorno 7 luglio 1251; il re di Francia Filippo III, nel 1271; il re d’Inghilterra Edoardo, colla regina Leonora sua moglie, nel 1273. Pare esagerato il numero di duecentomila persone, che i nostri autori asseriscono essere uscite da Milano per incontrare il papa Innocenzo; ma certamente la città si andava popolando e crescendo, a misura che in essa si ergeva una potenza capace di mantenervi l’ordine. Le strade della città cominciavano a lastricarsi nel 1271. I signori della Torre avevano un alloggio grandioso. Il loro palazzo era dove oggidì trovasi la chiesa del Giardino, e in quei contorni si cominciarono a lastricare le strade. Napo della Torre non voleva apertamente palesarsi sovrano, nè romperla colla corte di Roma. Egli teneva in suo potere i beni dell’arcivescovato; teneva esiliato l’arcivescovo Ottone, che per quindici anni non potè mai vedere la sua sede, non che goderne; teneva depressi i nobili ed esuli i fautori del Visconte; ma non si opponeva alle preghiere che la città faceva al papa per essere liberata dall’interdetto. (1268) Venne a questo fine a Milano un legato pontificio, l’anno 1268, cioè sei anni dopo fulminata la censura; e il Corio c’informa che il legato expuose come non levarebbe lo interdicto insine che tutta la plebe e famiglie non iuravano fede ala Romana Chiesia. Il che essendosi exequito: a Turriani dimandò che principalmente si reconoscessino ad Otho Vesconte, come a vero presule e pastore: secondariamente, che fusse restituito quanto era occupato de la archiepiscopale sede: tertio, che a li chierici nel tempo a venire non fosse posta alchuna graveza: le quali cose facendosi, levò lo interdicto. La prima condizione mostra chiaramente quai fossero le mire di Roma, e l’ultima era la più a proposito per sanare la perdita dell’elezione dell’arcivescovo, e rendere il clero della chiesa milanese propenso alle mire di Roma. Gl’interessi dell’Italia, se si fosse avuto in vista di conservarla una nazione sola riunita, erano conformi alle mire di Roma; ma l’interesse personale superò sempre. Quindi anche queste promesse furono senza effetto veruno; poichè nè l’arcivescovo potè venire in Milano e godere delle rendite, nè gli ecclesiastici furono esentati dai carichi, ai quali i frati e i preti si tennero soggetti nel tributo che tre anni dopo, cioè nel 1271, impose il podestà di Milano Roberto de’ Roberti.
Lasciavasi dai Torriani un’apparente libertà alla patria. Napo della Torre si accontentava del titolo di anziano perpetuo del popolo. Così l’accorto ambizioso regnava senza avere intorno di sè i pericoli che circondano un nuovo sovrano che vuole annientare una repubblica. V’era il parlamento, ossia il consiglio degli ottocento, il quale rappresentava la repubblica. V’era un podestà, che presedeva al consiglio. Ma il podestà era eletto ad arbitrio dell’anziano perpetuo, e il Corio ci ha conservato il giuramento del Piacentino che fu trascelto alla dignità pretoria, ossia podestà, l’anno 1272: Principalmente che iurasse ad honore de la Beata Vergine et il Divo Ambrosio di questa cità potentissimo patrone: ad exaltatione di Santa Chiesia e di Carlo serenissimo re de Sicilia, et a bono stato de la cità e destricto de Milano e de la Turriana famiglia, inscieme con gli amici de quella, remotto ogni odio o amore, gubernerebbe il dominio. Dal quale principio non sarebbe facile il decidere se la città fosse libera, ovvero suddita al re Carlo, ovvero alla casa della Torre; ma continua il giuramento e ci palesa la costituzione di que’ tempi: Item che obedirebbe tutti li precepti della Credentia de Sancto Ambrosio, e similmente li mandati de Napo Torriano, anziano e perpetuo rectore dil populo; e nessuna menzione si fa de’ mandati del re di Sicilia, al quale nemmeno si diede il titolo di signore di Milano. Il solo freno che poteva avere Napo della Torre, era per parte del consiglio degli ottocento; ma anche a ciò era posto tal sistema, che fosse una mera apparenza di libertà. Ecco nel giuramento istesso cosa fu ingiunto al podestà: Item che fusse tenuto con quello consiglio meglio li parirebbe (al podestà), con dui homini per porta, elegere la mità de la mità del consiglio de li octocento, che spectava a la societate de’ capitani e valvasori, cioè ducento de li predicti, e ducento fusseno electi a sorte secondo la consuetudine, e in questa forma fusseno electi li quatrocento appartenevano ala societate de Mota e Credentia. Da ciò vediamo come non rimaneva più nemmeno alla città la nomina dei suoi rappresentanti. Il consiglio che rappresentava la repubblica, ogni anno si cambiava: era composto di ottocento, la metà nobili e la metà popolari; la metà di questi consiglieri era nominata dal podestà, che aveva giurato di obbedire ai mandati di Napo della Torre; la sorte faceva eleggere il rimanente, se pure anche questa sorte non era una mera apparenza. Così il consiglio era unicamente una macchina destinata a lasciar credere che ancora vi fosse una repubblica, mentre la città era governata dal valore di un uomo solo; il quale, vigorosamente contenendo i nobili, lasciava che il popolo gliene sapesse buon grado: quasi a ciò venisse sollecitato per sola benevolenza, affine di preservarlo dall’oppressione, mentre egli teneva nell’umiliazione i suoi emuli. Le corti bandite, le mense generosamente esposte sulle strade a piacere del popolo, gli spettacoli pubblici di giostre e tornei, un costume semplice, affabile, popolare, tutto si univa in Napo per renderlo l’uomo il più opportuno ad istabilire una nuova sovranità senza che il popolo se ne avvedesse.
Napo della Torre non pose veruna marca alla moneta che allora si batteva nella zecca di Milano, nè alcuno di sua famniglia ve la pose. L’impero si considerava vacante, e le monete nostre, sì d’oro che d’argento, avevano da una parte sant’Ambrogio, e dal rovescio o i santi Gervaso e Protaso, ovvero una croce, col nome Mediolanum, senz’altro nome di principe o stemma alcuno. Nella mia raccolta ne ho d’oro, d’argento e di lega. La pulizia e l’ordine cominciarono a comparire nella città. Ma per far questo, e molto più per sostenere le frequenti guerre co’ vicini, e assoggettarli alla dominazione de’ Torriani, non meno che per dare alla plebe le feste, i conviti ed i giuochi frequenti, era necessario l’accrescere i tributi o l’imporne di nuovi. Si è già veduto nel capitolo precedente, come, al tempo di Martino della Torre, venisse formato il catastro dei fondi stabili, e sopra di esso ripartito il carico. L’anno 1271 s’imposero dieci soldi e cinque denari per ogni cento lire del valore de’ fondi, e l’anno 1275 s’imposero due lire di terzioli sopra di ogni centinaio di lire d’estimo. La più antica memoria che abbiamo della gabella del sale ascende all’anno 1272.
I due carichi prediali imposti nel 1271 e 1275 sembrano assai gravosi a primo aspetto, ora che il valore capitale delle terre si calcola comunemente moltiplicando trentatrè volte la rendita annuale. Un campo che produca tre scudi all’anno al padrone, si calcola valere cento scudi; e cento scudi dati a mutuo oggidì rendono il frutto di scudi tre, o tre e mezzo all’incirca. Allora il mutuo fruttava usure assai maggiori. Troviamo che verso il fine del secolo duodecimo venne da noi fatta una legge, ordinando che fra privati non si potesse esigere il frutto de’ prestiti più di tre soldi per lira, che corrispondono al quindici per cento. E poichè tai frutti produceva il denaro al limite moderato dalla legge, forza era che il valore dei campi proporzionatamente diminuisse; non potendosi sperare che alcuno comprasse per cento lire un fondo, se da esso non potesse ricavarne ogni anno quindici lire. Con tal principio l’imposizione del 1271 di soldi dieci e denari cinque per ogni centinaio di valore de’ fondi, era assai tenue, cioè circa la trentesima parte dell’annuo ricavo; e sebbene assai più importante fosse quella del 1275, cioè di lire due per ogni cento lire di valor capitale, ella pure si riduceva alla settima parte dell’entrata. Su queste imposizioni veggasi il nostro conte Giulini.
Queste imposizioni sopra le terre cadevano a danno de’ nobili; e così Napo della Torre da’ suoi rivali e nemici cavava i mezzi per sempre più indebolirli e rinfiancare il suo partito. (1273) Un seguito di prosperi eventi aveva innalzato Napo della Torre, il quale, anche per appoggiare sempre più la signoria, appena che fu terminata l’anarchia dell’Impero coll’elezione di Rodolfo conte di Habsburg, seguìta l’anno 1273, ottenne da quell’augusto la nuova dignità di vicario imperiale in Milano; dignità la quale costituiva Napo luogotenente dell’imperatore, e davagli tutto l’esercizio della suprema autorità che nella pace di Costanza era stata accordata ai cesari. Questo titolo di vicario imperiale servì poi d’introduzione alla signoria de’ Visconti, come vedremo.
Pareva fondata ben sodamente la fortuna di Napo e de’ Torriani. Se Napo avesse conservato, anche in mezzo degli avvenimenti felici, la moderazione, i suoi nemici verisimilmente non avrebbero potuto giammai prevalere. Ma due cose furono cagione del rovescio di sua fortuna: la prima fu il titolo ch’ebbe dall’imperatore, col quale troppo chiaramente dimostrò il suo fine di assoggettare la città; l’altra fu che alla fine commise molte crudeltà, condannando varii nobili al supplicio; ciò che lo appalesò anche alla plebe smascherato, e assai distante da quella dolcezza ch’egli, sino a quel punto, aveva saputo mostrare. Molti nobili milanesi andavano esuli dalla patria, o scacciati da Napo, ovvero spontaneamente sottrattisi ad un governo nemico. (1277) Poichè videro intiepidito il favore del popolo, i nobili fuorusciti si collegarono coll’arcivescovo Ottone Visconti, esule da quindici anni; lo elessero per loro capo; e sotto di lui radunati, con varia fortuna fecero dei tentativi e delle invasioni sul Milanese; sin tanto che, nel giorno memorabile 21 di gennaio 1277, sorpresero i Torriani a Desio, borgo distante dieci miglia dalla città, e fatto un macello de’ Torriani, che appena s’erano avveduti d’aver vicino il nemico dalla strage de’ loro compagni, rimase Napo istesso prigioniere. Entrò in Milano l’arcivescovo Ottone Visconti, e tutto il popolo lo acclamò signore. Così terminò Napo della Torre; il quale sopravisse ancora un anno e mezzo, miseramente rinchiuso entro di una gabbia, in cui cessò di vivere e di soffrire, il giorno 16 agosto 1278. I Novaresi, i Pavesi, i Comaschi ed altri del contado istesso di Milano avevano resa forte l’armata dell’arcivescovo.
L’arcivescovo Ottone Visconti poco tempo potè rimanere principe tranquillo di Milano. Sebbene Napo della Torre non fosse più capace di fargli ostacolo, comparvero in campo molti signori della famiglia della Torre, e fra questi il patriarca d’Aquileia Raimondo, Cassone, Gotifredo, Salvino ed Avone, tutti della Torre; e colle scorrerie, sino sotto le porte di Milano, rendevano pericolosa e precaria la condizione di Ottone Visconti, ancora troppo debole per opporre una valida resistenza; e perciò l’arcivescovo, costretto ad eleggersi un signore, prima di cadere nelle mani dei Torriani suoi nemici, stimò miglior partito il dare la signoria di Milano al marchese di Monferrato per dieci anni, colla facoltà della guerra e della pace. Questa dedizione, cominciata nel 1278, non durò che quattro anni soli; giacchè, battuti che furono i Torriani a Cassano, e indeboliti a segno di non potere sì tosto innalzarsi, l’arcivescovo Ottone, cessando il timor in lui e il bisogno dell’assistenza del marchese, le di cui forze erano di molto peso, non ebbe ritegno alcuno di violare il contratto. (1282) Colse il momento opportuno, e, montato a cavallo, il giorno 27 dicembre 1282, coll’armi in mano, alla testa dei suoi fedeli, scacciò gli ufficiali tutti del marchese, e ritornò a signoreggiare da sè. Queste zuffe di patriarchi e di arcivescovi, tanto aliene dallo spirito del sacerdozio, sono una prova de’ progressi che la ragione e seco lei la virtù hanno fatto ai tempi nostri, ne’ quali ad alcuni sembreranno o supposti o esagerati questi fatti. Sembrerà poco credibile altresì che l’arcivescovo avesse adottato per suo figlio Guido da Castiglione, e che Milano venisse sottoposto all’interdetto l’anno 1381, perchè una famiglia aveva fatta ingiuria al prior d’un convento. Ma il Calco ce lo attesta: Sacris interdicta manserat civitas Mediolanum ex controversia qua per injuriam gens Mirabilia priorem Pontidae premere videbatur; e così, per il fatto d’un casato, si maledisse tutta la città. La storia tutta di que’ tempi ci prova l’abuso di ogni cosa sacra. Ho detto che Ottone Visconti diede la signoria di Milano al marchese di Monferrato: non però la diede violando le apparenze della libertà, poichè anzi ne ottenne l’adesione del pubblico consiglio; e mentre comandava il marchese, si continuarono ogni anno a creare due magistrati, uno col nome di podestà, e l’altro con quello di capitano del popolo, e sempre si eleggeva il consiglio degli ottocento; consiglio, come ho detto, mutabile ogni anno, e che non rappresentava la città ed il popolo che per mera apparenza, perchè composto da membri non eletti del popolo. Il signore creava il podestà, e il capitano del popolo; i quali, siccome dissi, giuravano obbedienza a lui; e il podestà e capitano creavano il consiglio. La città era realmente priva di libertà; soggetta a signorie temporarie del marchese d’Incisa, del marchese Pelavicino, del marchese di Monferrato: ma le fazioni interne erano almeno frenate e non rimanevano da soffrire che gl’insulti d’un solo, sempre da principio cauto nel celare l’abuso del potere, non solo, ma persino la di lui ampiezza. Ne’ tempi de’ quali trattiamo, mentre il marchese di Monferrato godeva la signoria di Milano, si creò il Tribunale di Provvisione, ossia dodici sapienti uomini che presedevano alla provvisione del comune di Milano. Ciò viene dall’erudito conte Giulini fissato all’anno 1279, e quel tribunale e il podestà sono le due più antiche magistrature che ancora ci rimangono. Il podestà cominciò coll’anno 1188; e poco manca a compiere il sesto secolo dalla sua instituzione, e i dodici di provvisione contano l’antichità di cinque secoli già trascorsi.
Il carattere di Ottone Visconti era assai meno moderato di quello di Napo Torriano. Cercò ed ottenne l’arcivescovo che l’imperatore Rodolfo facesse lega con lui, quantunque avesse fatto morire entro di una gabbia il suo vicario creato dieci anni prima. Ma l’influenza dell’Impero, dopo le seguìte vicende, era assai debole nell’Italia, e conveniva cogliere ogni opportunità per acquistare appoggio. In ciò Napo ed Ottone palesarono ambizione uguale; ma Ottone Visconti con maggior impeto si volle mostrar prepotente. Egli bandì le famiglie che gli erano sospette, e fece diroccare le case de’ signori da Soresina. Poscia, disgustatosi del figlio adottivo, fece diroccare parimenti le case di Guido Castiglione. Indi, dopo una concordia giurata, l’arcivescovo istesso a tradimento s’ìmpadronì di Castel Seprio, e distrusse quella ròcca, celebre per la tradizione che in quel luogo eminente avessero collocata la prima loro sede gl’Insubri, e celebre non meno per la fortezza del luogo medesimo; e fece porre negli statuti: Castrum Seprium destruatur, et destructum perpetuo teneatur, et nullus audeat vel presumat in ipso monte habitare; e questo statuto è stato obbedito finora. Il Calco, scrivendo di quei tempi e di Ottone, c’insegna: Cum suspicionibus plena omnia viderentur, nova etiam consilia vicatim agitari dubitabat, proindeque armatas cohortes die noctuque circumire urbem, et ne conventus inter cives fierent curare jussit. Cercava, coll’orribile argomento delle torture, quell’arcivescovo di schiarire i molti sospetti. Era in somma un cattivo principe; come lo sarà sempre un uomo pauroso e potente. La città sentiva il peso d’un tal nuovo governo. Era probabilmente vicina una strage, se l’arcivescovo Ottone opportunamente non si piegava, abbandonando ogni cura civile a Matteo Visconti, suo pronipote, capitano del popolo, e creato podestà l’anno 1288. Ottone sopravisse ancora sette anni oscuramente, pieno di paura della morte, ed attorniato da’ medici, i quali non l’abbandonavano mai; e coll’assistenza di essi, all’età di ottantotto anni, morì, il giorno 8 agosto 1295, a Chiaravalle. Il tumulo di quest’Ottone, il primo de’ Visconti che ebbe la signoria di Milano, sta nel coro del Duomo, ove fu trasportato dalla vecchia chiesa di Santa Tecla. L’arca viene sostenuta da due colonne; e vi si legge l’epitaffio dell’arcivescovo Giovanni Visconti, postogli da poi, allorchè venne tumulato nella stessa tomba di Ottone. La signoria di Ottone durò circa undici anni. Egli nulla fece che meriti d’essere dalla storia ricordato con lode. Si può dire in sua discolpa ch’egli dominò fra le turbolenze. Ma la mancanza di fede commessa col marchese di Monferrato, scacciandolo dalla signoria di Milano, prima che i dieci anni finissero, è un tratto d’aperta ingiustizia che non ha discolpa. Così non si doveva da lui tradire un principe coll’assistenza del quale era stato liberato dalle mani de’ Torriani nemici. La fede mancata a Guido Castiglione, dopo appena giurata concordia con lui, introducendo degli uomini travestiti in Castel Seprio, e con tradimento invadendo quella ròcca, nemmeno può dar luogo a discolpa. I bandi, le torture, le case diroccate, la pusillanime paura di morire, anche dopo d’essere vissuto ottant’anni, mostrano un uomo che nulla aveva di grande, nulla di generoso, e che forse nessun altro talento aveva per diventar principe, che la smania di comandare. Durante la signoria d’Ottone si abbandonò l’usanza di condurre il carroccio alla guerra; usanza che da due secoli e mezzo era stata in vigore, e di cui ho parlato al capitolo quarto. Nè questo cambiamento possiamo attribuirlo alle armi da fuoco, le quali si cominciarono ad usare più di mezzo secolo dopo. Forse si cambiò l’usanza del carroccio, perchè allora si introdusse quella di stipendiare una classe di uomini particolarmente addetta alla milizia, e conseguentemente disciplinata in modo, ch’ella non avrà avuto bisogno di segnali tanto visibili per eseguire le evoluzioni: il che faceva di bisogno per rendere uniformi e cospiranti ad un fine le mosse di una moltitudine di cittadini, condotti a combattere senza una determinata educazione a quel solo oggetto. Anche questo costume di assoldare truppe, e inventare una classe di milizia, conduceva alla signoria d’un solo: perchè allontanava da una parte il popolo dall’uso delle armi e lo disponeva all’obbedienza, e dall’altra parte dava il comando d’una forza preponderante nelle mani d’un uomo solo: forza composta di elementi staccati in certa guisa dalla società civile, il ben essere di cui in nessun modo influisce sul loro, e conseguentemente dipendenti affatto dall’arbitrio del comandante.
(1287) Matteo Visconti, col titolo di capitano del popolo, cominciò la signoria di Milano. I nostri scrittori lo chiamano Matteo Magno. Io mi limiterò a chiamarlo Matteo I, per distinguerlo da un altro dello stesso nome che regnò poi. Il Fiamma ci attesta che, sino dal principio del suo governo, Matteo I ebbe cura di conservare le pubbliche entrate, e non se ne appropriò la menoma parte; che non sparse mai sangue d’alcuno; che consegnava ai nobili le signorie de’ borghi e delle terre, cambiandole però ogni anno; ch’egli era molto compiacente verso dei nobili; agile di corpo, e di tale robustezza, che colle sue mani spaccava il ferro d’un cavallo; ch’egli, in mezzo alla sua robustezza, era morigerato; che aveva la sua corte ripiena di frati; che vestiva colle sue mani i sacerdoti, esercitava giornalmente atti di religione, e obbligava i suoi domestici ogni anno nella quaresima a confessarsi, e i renitenti castigava: Cum autem praedictus Matheus Magnus Vicecomes dominium Mediolani obtinuisset, in ipso primo regimine nimis virtuose se habuit: fuit enim tantae castitatis et honestatis, quod tota ejus curia ex religiosis viris conserta videbatur. Missas devotissime audiebat, sacerdotes propriis manibus vestiebat. In omni quadragesima suos domicellos et caeteram familiam confiteri faciebat; aliter, ipsos graviter puniebat. Nobiles de Mediolano libenter audiebat, quorum consilio non contradicebat. Bona communitatis conservabat, sibi nihil retinebat. Nullius unquam sanguinem effudit. Dominia burgorum et villarum inter nobiles dividebat: omni tamen anno istorum dominia permutabat, unde omnes nobiles provocabat in amorem sui. Fuit etiam fortissimus corpore et agilis: ferratam magni dextrerii manibus lacerabat: et multa alia commendabilia faciebat, Vedremo poi che Matteo I, scomunicato, interdetto, morì senza ottenere nemmeno gli onori d’ un funerale. Non sarà forse discaro il leggere qual giuramento facesse Matteo Visconti come capitano del popolo per cinque anni; il Corio ce lo ha tramandato: Ad honorem Domini nostri Jesu Christi, et gloriosae Virginis Mariae, suae matris, et beati Ambrosii confessoris nostri, et beatorum Vincentii, Agnetis, Dionisii, et omnium sanctorum, sanctae matris Ecclesiae, et summi pontificis, et domini regis Romanorum, et ad conservationem Status venerabilis patris domini Othonis, sanctae mediolanensis Ecclesiae archiepiscopi, et ad bonum, tranquillum et pacificum statum populi et communis Mediolani, ac omnium amicorum, et ad mortem et destructionem marchionis Montisferrati, et ejus omnium sequacium, vos, domine capitanee, così a Matteo Visconti diceva Francesco da Legnano, vos, domine capitanee, jurabitis regere populum Mediolani ab hodie in antea, ad annos quinque proxime venturos, bona fide, sine fraude, et quod custodietis et salvabitis ipsum populum... et statuta... et si deficerent, servabitis leges romanas. I signori della Torre avevano il capitaniato del popolo, perpetuo nelle loro persone; poi si fece un annuale capitano; indi Matteo Visconti l’ebbe per cinque anni. Nel giorno di sant’Agnese, Ottone Visconti vinse i Torriani a Desio; nel giorno di san Vincenzo, Ottone s’era impadronito di Milano; nel giorno di san Dionigi, erano ultimamente stati sconfitti i Torriani a Vaprio: ecco il motivo per cui que’ tre santi furono nominati. Per conoscere poi il cambiamento felice de’ nostri costumi, si veda se oserebbe ora più alcuno, assumendo una solenne dignità, di promettere mortem et destructionem marchionis Montisferrati, et ejus omnium sequacium: giuramento crudele, iniquo e sacrilego, nulla più potendo un sovrano cercar dal nemico, se non la riparazione de’ mali che gli ha fatto, e la sicurezza di non riceverne di nuovi, non mai la morte e distruzione di esso e de’ suoi; pensiero atroce, che offende la religione e persino le stesse leggi di natura. Merita osservazione altresì il vedere come si cercassero le leggi romane per servire ai giudici in caso non contemplato dallo statuto; la qual reviviscenza del gius romano presso di noi, è la più antica memoria sinora osservata in questo giuramento, fatto l’anno 1288.
La signoria di Matteo Visconti non era ben sicura; egli era appena capitano del popolo per cinque anni, e terminavano coll’anno 1292. I Torriani, sebbene colla disfatta di Vaprio, seguita nel 1181, fossero stati per allora ridotti all’impotenza di nuocere, non vennero ivi estinti, e, col tempo, ricomparvero ancora potenti. (1290) Mosca ed Errecco della Torre, l’anno 1290, invasero da più parti le terre milanesi. Avevano degli alleati, e fra questi il marchese di Monferrato, nominato nel giuramento solenne del nostro capitano del popolo. L’infelice marchese fu preso dagli Alessandrini, e finì i giorni suoi entro di una gabbia, come Napo della Torre. L’umanità geme alla memoria di tai venture! Quasi tutte le città della Lombardia avevano, verso la fine del secolo decimoterzo, due fazioni e due famiglie prepotenti che si disputavano la signoria, come accadeva in Milano fra i Torriani e i Visconti. Pavia, per esempio, aveva i Beccaria e i Langosco; Novara, i Tornielli e i Cavalazzi; Vercelli, gli Avvocati e i Tizzoni; Bergamo, i Colleoni e i Suardi; Lodi, i Vignati e i Vistarini; Como, i Rusca e i Vitani: e così altre città erano internamente lacerate da’ partiti. Mentre in tale imbarazzo si trovava Matteo I, due frati si posero a predicare pubblicamente per Milano la Crociata per Terra Santa, e radunavano molta gente pronta ad abbandonare la città per le indulgenze di quella impresa. Matteo perdeva se stesso e la signoria, se avesse concesso che si allontanassero dalla patria le persone atte alle armi, nel tempo in cui aveva tanto bisogno d’essere difesa; e perciò impedì questa emigrazione: il che poi fu uno dei capi di accusa che vennero fatti a Matteo. Cercava accortamente Matteo I di fiancheggiare la sua nascente sovranità. Egli signoreggiava in Como, in Alessandria, in Novara e nel Monferrato, in qualità di capitano temporario del popolo di quei luoghi. Era stato eletto imperatore Adolfo conte di Nassau, l’anno 1292; e Matteo cautamente spedigli persona che lo impegnasse in favor suo, affine di ottenergli il titolo di vicario imperiale. Non cercava Matteo la signoria della sola città sua patria; più vaste erano le sue mire, e nulla meno desiderava che d’essere signore della Lombardia tutta. (1294) Il nuovo cesare era poco sicuro sul suo trono; nella Germania aveva un potente partito contrario, al quale finalmente dovette piegarsi. I denari dell’Inghilterra non furono inefficaci presso di lui; e non senza ragione crediamo noi che i doni e le promesse di Matteo avranno indotto quell’augusto a spedire a Milano, siccome fece nell’aprile dell’anno 1294, quattro legati cesarei; i quali, introdotti nel pieno generale consiglio, vi pubblicarono l’imperiale diploma, in cui Matteo Visconte veniva dichiarato vicario imperiale in Milano e per tutta la Lombardia, con mero e misto imperio, come lo aveva lo stesso re de’ Romani. L’accorto Matteo si alzò, si mostrò sorpreso, e protestò ch’egli non accettava quella sublime dignità, salvochè il consiglio generale non l’ordinasse. Il che fu immediatamente determinato da quel consiglio, scelto da Matteo medesimo, mutabile ogni anno, e che si pretendeva che rappresentasse il volere de’ cittadini, dai quali non aveva ricevuta veruna commissione. Il consiglio supplicò Matteo ad accettare la dignità. Nè meno accorto si dimostrò Matteo nel fare in modo che in quel diploma medesimo l’imperatore assai onorevolmente confermasse tut’i privilegi della nostra città; la qual graziosa conferma dispose i cittadini a giurare volentieri fedeltà all’imperatore, e indirettamente al suo vicario. Spedì Matteo i suoi legati per la Lombardia, per essere riconosciuto rivestito del potere imperiale. Ma non tutte le città fecero loro facile accoglienza. Le città di Lodi, di Crema ed alcun’altra avevano anzi fatto lega co’ signori della Torre, per bilanciare la potenza del Visconte. Matteo prudentemente pensò a farsi confermare dai Milanesi per altri cinque anni capitano del popolo, per togliere ogni odiosità al nuovo titolo, e riconoscere sempre temporaria e dipendente dal consiglio la signoria esercitata. Tale era il carattere di Matteo; l’uomo che meglio di ogni altro seppe adattarsi ai tempi e cavare profitto dalle circostanze.
(1298) Il successore del deposto imperatore Adolfo, cioè Alberto re de’ Romani, innalzato l’anno 1298, confermò a Matteo Visconti il diploma di vicario imperiale, che quattro anni prima aveva ottenuto. Il titolo che si dava a Matteo era al magnifico ed egregio uomo il signor Matteo de’ Visconti. Varie città, siccome dissi, eransi collegate coi Torriani a danno del Visconte, la di cui rapida fortuna e la di cui vasta ambizione facevano temere un padrone a molti piccoli Stati, i quali, in mezzo alla discordia, al disordine, alla tirannia di più padroni, avrebbero anzi dovuto desiderarne un solo, se la lusinga d’una chimerica libertà non gli avesse sedotti. Le terre del Milanese erano devastate dalle scorrerie de’ Torriani. (1299) Matteo Visconte fece radunare in Milano il consiglio generale il giorno 9 di aprile 1299. Ivi espose lo stato delle cose, le alleanze dei Torriani, i guasti cagionati dalle loro incursioni, le forze loro, le nostre, gli appoggi su i quali potevamo noi far conto; indi propose il partito se convenisse fare la guerra ovvero la pace. Detto ciò, volle abbandonare l’adunanza, affine di lasciare un’intera libertà alle opinioni di ciascuno. Con tale accorgimento Matteo si rendeva affezionata la città; credendosi libero il volgo, pago dell’apparenza e dei nomi; e credendosi considerati i pochi avveduti, per l’artificio medesimo che adoperava colui che aveva il potere nelle mani. La determinazione del consiglio fu, di confermare per altri cinque anni Matteo Visconte capitano del popolo, colla facoltà di fare la guerra o la pace a suo piacimento. Il credito di Matteo era tale, che i Veneziani e i Genovesi lo scelsero per arbitro d’una loro contestazione, ch’egli terminò; e quasi tutta la Lombardia si reggeva da lui. Alla moderazione e prudenza aggiungeva Matteo la liberalità pubblica. (1300) L’anno 1300 egli ammogliò Galeazzo, suo primogenito, con Beatrice d’Este, sorella di Azzone VIII, signore di Modena e Reggio e marchese di Ferrara. Lo sposo era più giovine della sposa. Galeazzo aveva ventitrè anni, e Beatrice trentadue. Fra le singolari pompe che diede Matteo all’occasione di queste nozze illustri, per otto giorni vi fu corte bandita, cioè cibo e bevanda per chiunque la volesse; e alla mensa nuziale sedettero mille convitati, vestiti tutti in abito uniforme a spese della comunità di Milano. Per conciliarsi la corte di Roma, Matteo lasciava che il papa Bonifacio VIII regolasse e disponesse della chiesa milanese a suo libero arbitrio, eleggendo i candidati per qualunque beneficio, e dando ordine ai regolari senza saputa dell’arcivescovo; in somma comandando senza limite quanto voleva nella gerarchia ecclesiastica. Pareva infatti consolidata la signoria di Matteo di modo che nessun avvenimento potesse rovesciarlo giammai. Ma l’amore paterno deluse la politica nel cuore di Matteo: il che non lo rammento per biasimo, anzi per lode; giacchè è grande colui che talvolta è sedotto dalla benevolenza. Un cuor gelato che lascia l’ingegno arbitro de’ propri interessi in ogni occasione, non può avere mai l’eroismo: e gli uomini tutti, e molto più i principi, si possono non credere benèfici, sin tanto che, mostrandosi tali, promovono i propri interessi; ma laddove, beneficando, li pregiudicano, forza è conoscere l’animo loro sensibile e generoso. Galeazzo, sposo, giovine, imprudente, era l’idolo di suo padre; il quale fece passare in lui la carica di capitano del popolo. I nemici, siccome dissi, devastavano colle loro scorrerie lo Stato. Il nuovo capitano del popolo, senza sperienza militare, senza talenti, col solo inquieto ardimento dell’età sua, prese a fare diverse spedizioni, ora contro de’ Novaresi, ed ora contro de’ Pavesi; con nessun profitto, e con notabile dispendio e incomodo dei Milanesi. Mosca, Errecco e Martino della Torre erano acquartierati in Cremona, ed avevano in favor loro Novara, Pavia, Vercelli, Lodi, Crema, ed il giovine marchese di Monferrato. Tutta questa lega era combinata per ricondurre i signori della Torre in Milano, e deprimere la nascente potenza de’ Visconti il governo de’ quali era diventato spiacevole colla condotta imprudente di Galeazzo. La sorte rimase indecisa sino all’anno 1302, nel quale i Visconti caddero alla condizione di semplici privati. Matteo non ebbe altro partito da prendere, se non quello di ritirarsi a Peschiera presso il lago di Garda, indi a Nogarola nel Veronese, dove con pochi beni di fortuna si pose a vivere una vita libera e campestre, lontano da ogni cura pubblica. Galeazzo si rifugiò colla moglie presso il marchese suo cognato, ed in Ferrara diventò padre di Azzone Visconti. Ho risparmiato al lettore il racconto delle zuffe datesi con varia fortuna in questa ed in altre occasioni, e lo risparmierò sempre; fuorchè non siavi qualche circostanza che sembri meritevole di essere conservata nella memoria degli uomini. Matteo non si mostrò mai buon soldato. Galeazzo aveva impeto, ma non condotta. Dovettero perciò soccombere a forze assai preponderanti.
(1302) Ritornati alla patria i signori della Torre l’anno 1302, dopo venticinque anni d’esilio, mostrarono ne’ primi cinque anni d’essere alieni da ogni vita ambiziosa, e di volere essere cittadini di una patria libera; non ottennero dignità alcuna. La città si reggeva co’ soli magistrati, il podestà e il capitano del popolo. Si nominava ogni anno il consiglio degli ottocento; e sarebbe stata libera la patria, se i consiglieri avessero ricevuta la loro dignità dall’elezione del popolo. Nondimeno la rispettosa opinione verso de’ signori della Torre non era svanita. Morì in Milano Mosca della Torre, e il di lui funerale si celebrò con pompa sovrana, vestendo di porpora il cadavere, e trasportandolo sotto un baldacchino alla chiesa di San Francesco. (1307) Guido della Torre rimase il capo della sua casa, e a lui venne offerta la carica di capitano del popolo per un anno, e l’accettò il giorno 17 dicembre 1307. Fu tanto gradito il governo di Guido alla città, che, al terminare dell’anno, per acclamazione pubblica, non solo venne creato capitano perpetuo del popolo, ad esempio di quanto si era fatto con Martino, con Filippo e con Napo dello stesso casato, ma di più gli venne data la facoltà di fare nuovi statuti; il quale attributo, costituendolo legislatore, gli dava la vera sovranità. Guido si mostrò sorpreso da un impensatissimo avvenimento, quando vide attorniata la sua casa dai popolari applausi; e accondiscese quasi a stento a portarsi alla sala, ove il popolo lo volle accompagnare; ed ivi dagli ottocento radunati consiglieri era aspettato per dare il giuramento della dignità. Quasi crederei sincera la sorpresa, e sincera la renitenza in Guido della Torre, il quale, dimenticando le gabbie orrende che avevano rinchiusi Napo suo zio e il marchese di Monferrato suo amico, non pensò mai a tessere insidie a Matteo Visconti, che, privo di denaro e di forze, viveva tranquillamente alle sponde dell’Adige. Guido non potè piegarsi mai alla dissimulazione, anche in tempo in cui il solo partito che gli rimaneva era quello.
Mentre Guido della Torre godeva d’una sovranità la più legittima di ogni altra, poichè spontaneamente offertagli dai voti pubblici, si preparava nella Germania la di lui rovina coll’elezione di Enrico di Lucemburgo, innalzato alla cesarea dignità. Guido, in mezzo alla prosperità, fece chiedere a Matteo Visconti come vivesse, e quando sperasse di riveder Milano. I due quesiti vennero fatti in nome di Guido a Matteo mentre passeggiava alle sponde dell’Adige; e la risposta fu precisa; come io viva lo vedi, passeggiando e adattandomi alla fortuna; per ritornare alla patria aspetto che i peccati de’ Torriani sieno maggiori de’ miei: tale fu il riscontro ch’egli fece fare a Guido della Torre. Alcuni amici rimanevano ancora a Matteo, ma dispersi, abbattuti e proscritti. Fra questi merita distinta menzione Francesco da Garbagnate, milanese, esiliato per essere del partito di Matteo; uomo di studio, di età fresca e di ottime maniere. Viveva egli in Padova insegnando la giurisprudenza, e traendo da quest’esercizio il suo vitto. Ma poichè intese l’elezione accaduta in Germania di Enrico di Lucemburgo, annoiato egli della sua ristrettissima condizione, e probabilmente a ciò spinto da Matteo, vendette i suoi libri; e, col denaro che ne potè adunare, s’equipaggiò alla meglio, e passò in Germania, cercando stipendio sotto il nuovo imperatore. Il Garbagnate era un giovine colto, amabile, di felice aspetto, accorto, informato dello stato d’Italia, e probabilmente parlava la lingua tedesca. Si presentò al nuovo augusto in un momento felice, e fu bene accolto ed ammesso fra gli stipendiati. Enrico già pensava all’Italia, e non potevagli essere indifferente il Garbagnate; il quale anzi in breve seppe così ben soddisfare la curiosità di Enrico, che acquistò la sua grazia e benevolenza, per modo che lo informò minutamente del carattere di ciascuno de’ signori che possedevano le città lombarde, degli appoggi, delle amicizie, degli odii di ciascuno, delle loro forze, dello stato di ciascuna città: il che alla venuta che fece poi Enrico nell’Italia, lo trovò esattamente vero. Il Garbagnate non mai dimenticava ne’ suoi discorsi con Cesare il suo Matteo Visconti, di cui la fedele divozione all’Impero, la bontà, la prudenza, la moderazione, il disinteresse, la beneficenza e tutte le virtù venivano poste in tal lume da invogliare l’imperatore a conoscerlo, e preparare la confidenza in lui, come il più conveniente di ogni altro per terminare le intestine discordie, e far rivivere l’autorità dell’Impero sulle città lombarde, tosto che ei fosse tratto da quell’oscurità in cui la capricciosa fortuna l’avea gettato.
L’eletto imperatore si dispose a venire nell’Italia, ove disegnava di ricevere la corona del regno italico prima, indi la imperiale. (1310) Egli previamente spedì a Milano il vescovo di Costanza, il quale, nell’aprile dell’anno 1310, si presentò al consiglio generale; ed ivi ricercò, seguendo l’antica pratica usata nel viaggio dei cesari, che la comunità facesse accomodare le strade e i ponti per dove il nuovo augusto doveva passare; ed avvisò i conti, i baroni e i vassalli tutti che si portassero alle Alpi ad incontrare il sovrano. Lo storico milanese Giovanni da Cermenate, che viveva in que’ tempi, espone l’arringa officiosa di quel vescovo; il quale, fra le altre cose, disse che Enrico di Lucemburgo, incoronato già in Acquisgrana col diadema d’argento, aveva destinato di ricevere in Milano la corona di ferro; Quod, clarissimi cives, significat, quod sicuti per ferrum et istrumenta ferrea cætera metalla domantur, sic per salubre consilium, nec non praeclaram armorum virtutem italicorum, et præcipue Mediolanensium, domare debet imperator cæteras nationes. Il punto era assai scabroso per Guido della Torre, il quale, come capitano perpetuo, sedeva nel consiglio. L’opporsi alla domanda, era lo stesso che il dichiararsi apertamente ribelle; la domanda era giusta, conforme alla pratica, e fatta colla maggiore onorevolezza; nè si poteva contrastarla, se non innalzando lo stendardo della fellonia; e Guido non era sicuro d’essere secondato dalle altre città, ossia da’ molti vacillanti principi che le reggevano. L’aderire alla richiesta era lo stesso che porre nelle mani del nuovo eletto la città, la signoria acquistata, e la propria persona. Promettere tutto, e mancare poi, non lo permetteva il carattere di Guido. L’imbarazzo era grande per darvi una risposta; e chi lo sciolse fu un di lui amico intimo, un giureconsulto che sedeva nel consiglio, Bonifacio da Fara. Incominciò questi un discorso ampolloso, magnificando primieramente la maestà del romano Impero, il rispetto dovuto al trono augusto, la divozione che sempre la città di Milano aveva dimostrato ai cesari benèfici; passò quindi a trattare della venuta degli augusti nell’Italia, per ricevere la corona d’oro in Roma, dopo essere incoronati col ferro in Milano, e coll’argento prima nella Germania; viaggio di somma importanza e per il sublime personaggio che lo fa, e per la sacra solennità che viene a celebrarvi; poscia discese a trattare della venerazione che meritava il vescovo di Costanza, non meno per l’episcopale dignità, che per l’importantissima legazione che eseguiva, rappresentando il più gran monarca del mondo; e dopo una lunga amplificazione concluse, essendo perciò quest’affare della maggior importanza, o si risguardi l’eccelso principe che lo promoveva, o il venerabile ministro che lo annunziava, o la maestà della cosa che veniva proposta; quindi come i grandi oggetti meritano rispetto e ponderazione somma per ogni riguardo, tempo perciò vi voleva per maturamente esaminarlo, e preparare una confacente determinazione. Con tale artificio l’astuto Bonifacio da Fara offrì il disimpegno per guadagnar tempo e sciogliere il consiglio, come si fece; e il vescovo ne uscì nulla più informato di prima sulle intenzioni del signor Guido della Torre, capitano perpetuo del popolo di Milano.
Guido della Torre si approfittò del tempo, e chiamò a Milano tutti i signori che dominavano nelle città della Lombardia ad un congresso; a fine di concertare il partito che conveniva di prendere intorno la venuta del nuovo imperatore. Erano trascorsi già centoventiquattr’anni dopo l’ultima coronazione, fatta in Milano nel 1186, di Enrico, figlio di Federico I. Gl’imperatori non erano stati dopo quell’epoca nominati da noi, se non o per qualche diploma, ovvero per le guerre che avevamo con essi. Radunatisi questi principi in Milano, Guido propose che tutti seco lui si collegassero a far causa comune per la comune loro salvezza, e, combinando tutte le forze loro in una armata, si portasse questa ai difficili passi delle Alpi, e s’impedisse la insolita venuta d’un imperatore nell’Italia; il che non facendosi, Guido annunziava, non solamente ecclissato lo splendore delle loro famiglie, ma schiantata dalle radici la loro dominazione sulle città. Guido prevedeva esattamente la cosa, come la sperienza mostrò poi. Ma il conte di Langosco, suo suocero, rammentando la devozione che i maggiori suoi ebbero sempre all’Imperio, ricordandosi vassallo dell’imperatore, sosteneva doversi anzi preparar tutto per accogliere quell’augusto coll’onore e colla riverenza che era dovuta da uno Stato fedele al suo legittimo sovrano. Replicava Guido, sin ora non essere concorsa nell’elezione di Enrico di Lucemburgo che la sola Germania; non essere il regno d’Italia per anco radunato, nè acclamazione o incoronazione alcuna seguìta, onde potesse qualificarsi sovrano legittimo; trattarsi la questione appunto se convenga, coll’accettazione, crearlo tale; il che egli dimostrava contrario ai comuni interessi delle loro famiglie, e lo sosteneva con forza e con passione. Ma non gli riuscì di fare che gli altri abbracciassero questa opinione. Fosse negli altri timidità, fosse virtù, fosse ritrosa gelosia di non mostrarsi vinti dalle parole di Guido, fosse che l’eloquenza passionata e di sentimento vigoroso, che trascina le anime energiche, rende diffidenti ed ostinate le anime piccole e fredde, qualunque ne fosse la cagione, Guido uscì da quel congresso smanioso, esclamando d’aver trattato con ciechi, sordi ed insensati, che rifiutavano l’unico partito che rimaneva per la loro salvezza. Gli storici ce lo dipingono quasi fuori di sè, che, smanioso, passando da una sala all’altra del suo palazzo, andava ripetendo: "Che ho io che far mai con quest’Enrico di Lucemburgo? Che c’entra egli mai a turbare il mio Stato? Che gli debbo io; che mai gli dovettero quei di mia casa? Io mai nol vidi, nè mai ebbi relazione alcuna con lui". Così egli diceva, e, rivolto ad alcuni domestici che, sebbene sbigottiti, non lo perdevano di vista: "Dite, dite, rispondete (esclamava), che cosa ho io che fare con Enrico, o Tedesco o Francese ch’ei sia? Cosa gli debbo io? Qual ragione può egli aver mai per togliermi il mio? Perchè non ci difendiamo noi dunque?" Cercarono di calmarlo i signori del congresso, e fu concluso che, dovendo il re entrare nell’Italia per la strada di Savoia, siccome aveva egli disposto, nulla pregiudicava il lasciarlo avanzare sino al Piemonte; che ivi poi alcuni di essi sarebbergli andati incontro, ed esaminando più da vicino quali pretensioni avesse quel sovrano, o avrebbero fatte le scuse per gli assenti, qualora mite e benevolo lo trovassero; ovvero avrebbero avvisati gli amici lontani per l’opportuno concerto, quando mai avessero ravvisato lui disposto a contrastare la loro autorità. Guido fu costretto ad accontentarsi di questo complimento; e il congresso fu sciolto con una determinazione che da una parte doveva alienare l’animo del nuovo augusto da questi piccoli principi, e dall’altra nessuna precauzione preparava per mettersi al coperto dei danni che poteva loro cagionare. Guido non misurava l’indipendenza sua colle sue forze. Proibì che nessuno in Milano nominasse Enrico da Lucemburgo, o ragionasse della venuta d’un nuovo imperatore. I vassalli s’erano allestiti per andare incontro al nuovo cesare, e Guido proibì loro l’uscire dalla città.
Il re Enrico, verso la fine di ottobre dell’anno 1310, venne a Susa, d’onde passò a Torino, indi ad Asti. Egli aveva seco la regina Margherita sua moglie, principessa d’una bellissima figura; conduceva seco molti principi tedeschi e francesi, e lo accompagnavano mille arcieri e mille uomini d’arme. I vassalli d’Italia, che gli andavano giornalmente incontro co’ loro militi, rendevano sempre più forte il seguito di quell’imperatore. Alcuni del congresso di Milano si presentarono al nuovo cesare. Enrico parlava di pace, di ordine, di tranquillità civile, e di voler dare questi beni alle città d’Italia, le quali da lungo tempo ne erano prive. Il re si mostrava imparziale, non inclinato a fazione alcuna; e da quanto aveva già fatto in Torino ed in Asti, si comprendeva qual fosse il piano da lui abbracciato per procedere a questo fine; cioè togliendo ai privati ogni dominio, restituendo il governo di ciascuna città al suo consiglio generale, sotto il presidio di un vicario imperiale. Con questo saggio e benefico progetto ogni gara veniva annientata; e l’Italia, sotto un moderato governo, veniva a goder della pace; e la regia autorità si rianimava sol tanto quanto bastava ad escludere gli usurpatori, con utilità reciproca del sovrano e del popolo. Allora compresero Langosco e gli altri che più poco v’era da sperare per la loro dominazione; e conobbero tardi che Guido aveva saputo prevedere.
Francesco da Garbagnate, sempre caro e sempre vicino al nuovo imperatore, era in Asti, venuto in seguito di lui; nè mai trascurava l’occasione di encomiare le qualità e il merito di Matteo Visconti. Allorchè vide il re invogliato di conoscerlo, e che dal re medesimo ne intese la brama, cautamente operò in modo che Matteo, travestito e colla compagnia d’un solo domestico, per strade inosservate, prestamente da Nogarola si portò in Asti. Tanta era la fama di quest’uomo e tanta la fiducia che avevano in lui i nemici dei Torriani, che, risaputosi appena l’arrivo di questo illustre solitario, un’immensa folla di persone andò al suo albergo, e lo accompagnò al palazzo ove risedeva il re Enrico, i cortigiani del quale conobbero di quanta considerazione godesse l’uomo che cercava d’essere al re presentato, il che subito gli venne concesso. Il Visconti, introdotto alla presenza del nuovo cesare, levatosi il cappuccio, si gettò a’ suoi piedi, e raccomandò alla giustizia e clemenza sua la persona propria e i suoi. Fu accolto con molta grazia dal re. Dicono i nostri scrittori che nella stanza medesima vi fossero varii altri signori delle città lombarde, e fra questi il conte Langosco; che Matteo, poichè ebbe reso omaggio al re, si accostasse per abbracciare il conte, dal quale villanamente gli fossero voltate le spalle; il che desse luogo a Matteo di ammonirlo, esser tempo omai di por fine alle inimicizie private, e di servire tutti d’accordo all’utilità pubblica sotto di un così benigno, così giusto e così grazioso monarca. Se questo fatto è accaduto, egli è certamente lontano dai nostri costumi, che non permettono in faccia del sovrano di essere occupati da simili personalità. Si dice di più, che ivi rabbiosamente taluno rinfacciasse a Matteo Visconti d’essere il perturbatore della Lombardia; e che Matteo, sempre padrone de’ suoi moti, pacificamente indicando il re, null’altro rispondesse se non: ecco il nostro re, che darà la pace a ciascuno. Se ciò avvenne, la inurbana ostilità de’ suoi nemici dovette dare risalto alla cortese moderazione del saggio Matteo. Il re, sorridendo, terminò il discorso col dire: la pace per metà è già fatta; a me spetta il compierla. Così racconta il Corio.
Guido della Torre frattanto se ne stava in Milano. Egli alloggiava nel palazzo fabbricato quindici anni prima da Matteo Visconte, allora vicario imperiale dell’imperatore Adolfo; il qual palazzo era situato dove oggidì vi è la real corte arciducale. Guido aveva al suo stipendio mille soldati a cavallo. Il re gli aveva spedito ordine di consegnargli liberi i due fratelli dell’arcivescovo, ch’egli teneva prigionieri; e Guido non aveva dato riscontro alcuno. Sperava Guido che i consigli de’ Langoschi e di altri suoi aderenti avrebbero dissuaso il re dal venire a Milano; e si fidava che in ogni evento, Vercelli, Novara e Vigevano, ben presidiate città, avrebbero resistito alla venuta di Cesare. Il Langosco, in fatti, e gli altri suoi aderenti adoperarono ogni arte per fare che il re prescegliesse di farsi incoronare a Pavia, e non venisse a Milano. Ma il Garbagnate e il Visconte fecero comprendere ad Enrico che non v’era sicurezza sin tanto che Milano era in potere di Guido della Torre; che anzi era indispensabile che in Milano l’imperatore piantasse la sua sede: poichè, padrone una volta della città, e ricevuta che avesse ivi solennemente la corona del regno italico, alcuno più non avrebbe osato di fargli opposizione. Il re deliberò appunto di così fare. Al presentarsi del re colle sue forze prima a Vercelli, poscia a Novara, nessuna opposizione ritrovò: venne anzi onoratamente accolto e venerato come sovrano. Vigevano fu preso dalle truppe reali senza spargimento di sangue, poichè un medico del paese cautamente ve le introdusse. Il re non permise che si oltraggiassero i vinti, e il solo uso ch’ei fece dell’autorità, fu per sedar le fazioni. Informato Guido di tai progressi, finalmente spedì a Novara anch’egli alcuni de’ suoi, per rendere omaggio in di lui nome al re, e presentargli i due fratelli dell’arcivescovo. S’incamminò poscia il re de’ Romani verso Milano; dove aveva già spedito il suo maresciallo di corte con truppe, affine di preparare gli alloggiamenti; e mentre era innoltrato nel cammino da Novara a Milano, ricevette un avviso dal maresciallo, che Guido della Torre non voleva sbrattare dal suo palazzo per lasciarlo al re; e che non voleva licenziare i mille armati del suo stipendio. Il re, scostatosi dalla via pubblica, chiamò a parlamento i suoi. Nessuno ardì di consigliargli il partito ch’egli saggiamente prese. Spedì rapidamente avanti di sè l’ordine che il maresciallo al momento pubblicasse in Milano il comando, che ciascuno uscisse incontro del re fuori della porta della città. La sorpresa, la fama già precorsa della bontà di quel sovrano, l’amore delle cose insolite, naturale al popolo, che sente i mali presenti e si lusinga d’un favorevole cambiamento; la maestà d’un augusto, la noia de’ Torriani, tutto in un momento si riunì, e fece uscire i Milanesi affollati fuori della porta della città ad incontrare l’imperatore. Guido della Torre, per non rimanere solo, s’indusse egli pure ad uscire; e fu degli ultimi. A misura che il re s’andava accostando alla città, cresceva il numero de’ Milanesi che gli rendevano omaggio. I signori cavalcavano, secondo l’uso di que’ tempi, col loro scudiere, che portava innalberata la loro insegna; e a misura che compariva il re, le insegne si abbassavano per riverenza. Presso le porte, al fine della città, comparve Guido della Torre, preceduto dal podestà, che in quell’anno era Ricuperato Rivola, bergamasco. Il podestà umilmente presentò al re il bastone del comando, ch’era il distintivo della sua dignità; il re lo prese, indi graziosamente glielo riconsegnò. Guido della Torre teneva immobilmente innalberato il suo stendardo; e alcuni del seguito del re de’ Romani, ragionevolmente sdegnati di questo inopportuno orgoglio, si scagliarono sullo scudiero, glielo strapparono dalle mani e lo gettarono nel fango. Sconcertata così ogni pretensione di Guido, scese da cavallo, e umiliatosi al re, baciogli il piede, siccome allora era il costume. Il saggio Enrico allora lo accolse con bontà, e con paterno amichevole tuono gli disse: sia d’ora innanzi fedele e paciflco; questo è il solo buon partito che ti resta da prendere.
Resosi per tal modo padrone di Milano, Enrico di Lucemburgo, andò ad alloggiare nel palazzo, ove sta oggidì la real corte, il quale era signorilmente fabbricato per l’uso di que’ tempi. Questa entrata del re in Milano accadde il giorno 23 dicembre 1310. La prima cosa che ordinò Enrico fu: che fra le due famiglie Visconti e della Torre vi fosse una perpetua pace; che le cose passate nemmeno più si potessero nominare; che da quel punto ogni fazione si’ntendesse proscritta ed abolita per sempre; che i fuorusciti liberamente ritornassero tutti nel seno della loro patria, e fossero repristinati nel godimento de’ loro beni. Ciascuno dovette giurare di osservare questa legge; in cui venne imposta la pena contro i contravventori di mille libbre d’oro: per fare il qual peso vi vogliono centomila zecchini, somma che, in que’ tempi singolarmente, doveva essere difficile il far pagare. Io quasi dubiterei di errore, se la carta non dicesse chiaramente mille librarum auri puri poena, e non l’avesse pubblicata il nostro esimio Muratori. Il re Enrico fece dappoi radunare il popolo sulla piazza di Sant’Ambrogio. Ivi si collocò sopra di un eminente e magnifico trono, a’ piedi del quale fece sedere i signori Visconti e della Torre; e in questa circostanza, d’ordine del re, un oratore prese a parlare al popolo, dichiarando che il nuovo augusto non era venuto in Italia per proteggere alcun partito, ma per fare indistintamente il bene, e senza parzialità, a tutti; ch’egli voleva la pace e la concordia; ed in prova indicò i signori che unitamente sedevano sui gradini del trono. Questi benèfici sentimenti, la vista inaspettata e tenera di due famiglie irreconciliabili, rese tranquille dalla felice autorità del monarca, fecero che il popolo scoppiasse in lagrime di gioia e in applausi al virtuoso e benigno principe; e così l’eloquenza del cuore della moltitudine coronò, nella più sensibile maniera e nella più fausta, il principio della nuova sovranità, anche prima della sacra cerimonia, che si celebrò poi in Sant’Ambrogio il giorno 6 gennaio 1311; dove l’arcivescovo di Milano, assistito da due arcivescovi e da ventun’altri vescovi, solennemente incoronò colla corona ferrea del regno d’Italia il nuovo augusto. I due arcivescovi assistenti furono quei di Treveri e di Genova. I vescovi furono di Liegi, di Ginevra, d’Asti, di Torino, di Vercelli, di Novara, di Bergamo, di Padova, di Vicenza, di Treviso, di Verona, di Mantova, di Piacenza, di Parma, di Reggio, di Modena, di Lucca, di Brescia, di Lodi, di Como e di Trento. Questa solennità fu resa più augusta dall’assistenza del duca d’Austria, del duca di Baviera, del conte di Lucemburgo, fratello dell’imperatore, del conte di Fiandra, del conte di Savoia del Delfino, del marchese di Monferrato, e di gran numero d’altri baroni e signori italiani e tedeschi. Il vescovo di Vercelli ebbe l’onore di cingere la spada al re, al quale vennero con cerimonia consegnati il pomo d’oro, lo scettro e la verga, prima che l’arcivescovo terminasse il rito, imponendogli la corona. È degno di memoria un fatto, ed è che non fu possibile per quante ricerche se ne facessero, di ritrovar conto dell’antica corona del tesoro di Monza, colla quale era tradizione che fossero stati incoronati gli antichi re d’Italia. Forse il far smarrire quell’antico cerchio è stata una minuta animosità di Guido della Torre; ma vi si supplì ben tosto con poca difficoltà da un fabbro, che formò d’acciaio una corona di ferro, a foggia di due rami d’alloro intrecciati. In quel giorno solenne il nuovo re d’Italia creò alcuni militi, siccome era l’uso di fare nelle grandi occasioni, e il primo nominato fu Matteo Visconti.
Sin qui la novità della venuta del re Enrico non aveva cagionato se non giubbilo e consolazione alla città. Ma terminata appena la incoronazione, venne convocato il consiglio generale; dove, entrando un ministro del re con un notaio, ricordò ai consiglieri radunati l’antica usanza del regalo da farsi all’imperatore nuovamente coronato; e, rivoltosi al notaio: scrivete, disse, ciò che una città sì grande e magnifica determinerà di offrire al nuovo cesare. Nessuno ardiva essere il primo a favellare. Un cupo silenzio regnò per qualche tempo in quella numerosa adunanza. Pure conveniva proferire; e il primo eccitato a parlare, per liberare sè medesimo d’imbarazzo, altro non seppe suggerire, se non d’incaricare uno dei più stimati fra’ consiglieri, a lui rimettendo il determinare la somma. Nominò poi Guglielmo della Pusterla; e tutti i consiglieri, contenti di questo disimpegno, replicarono il nome di Guglielmo della Pusterla: il quale, così impensatamente còlto, avrebbe pur voluto potersi liberare da quella briga, e uscire dall’alternativa o di mancare con suo danno ai riguardi verso del nuovo augusto, ovvero d’esporsi, pure con suo danno, ai venturi rimproveri de’ cittadini. Non v’è cosa buona che qualche volta non rechi incomodo; persino la buona riputazione. Costretto Guglielmo a nominare una somma, proferì cinquantamila fiorini d’oro. Il consiglio approvò questo donativo. Matteo Visconti non voleva tralasciare occasione di farsi merito; quindi, dopo di avere anch’egli assentito al donativo proposto, quest’è, disse, per l’imperatore; ma lasceremo noi di offrire qualche segno d’omaggio alla incomparabile imperatrice? Presentiamo alla bellissima principessa dieci altri mila fiorini d’oro. Così propose Matteo; e, sebbene tacessero i consiglieri tutti, il notaio andava scrivendo anche questo secondo regalo; Guido della Torre, impetuosissimo uomo e incapace di piegarsi ai tempi, non si potè contenere; o fosse sdegno contro di Enrico, o fosse insofferenza vedendo un antico rivale diventato l’arbitro del consiglio, qualificò altamente Matteo per un cattivo cittadino, che con una comodissima liberalità donava l’altrui; s’alzò borbottando e dicendo con ironia: e perchè non piuttosto il numero compito di centomila fiorini? Il notaio puntualmente scrisse centomila fiorini d’oro, e si dovettero pagare, malgrado i maneggi fatti poscia inutilmente per diminuire tal somma.
Mi sia permessa una breve digressione. Se la somma di centomila fiorini d’oro era allora tanto grave a pagarsi, quantunque ripartita su tutta la città, come adunque una somma di tal valore poteva minacciarsi a un privato, il che pocanzi si è veduto nella pace ordinata fra i Visconti e i Torriani? La storia ci presenta frequenti occasioni di dubitare, anche sopra de’ più autentici documenti, perchè i costumi, co’ secoli, si sono cambiati; e se oggidì sarebbe ridicola una legge che imponesse la pena d’un milione di scudi al delinquente, forse allora non lo sarà stata, e la esagerata minaccia era forse lo stile del legislatore. Fors’anco l’antico spirito delle leggi longobarde, che fissava le pene pecuniarie, non permetteva di imporre, se non indirettamente, le pene personali, cioè fissando una somma impossibile, la quale, non pagata, il delinquente cadeva in potere del legislatore. È noto come il fiorino d’oro è la stessa moneta che oggi chiamiamo il gigliato, che, da Fiorenza e dal fiore che aveva ed ha nell’impronto, si chiama fiorino; che questa moneta di purissimo oro si cominciò a coniare in Firenze l’anno 1252; e che ben presto acquistò tal credito, che molti altri Stati lo imitarono. Anche Milano ebbe i suoi fiorini d’oro nei tre secoli che vennero dopo quell’epoca: ed io credo che una di tali monete che possedo, coll’immagine da una parte di sant’Ambrogio, e dall’altra, de’ santi Gervaso e Protaso, e colla data Mediolanum, possa essere coniata circa l’anno 1258, nel quale si fece uno statuto per migliorare la moneta, ovvero circa al 1260; anno al quale il Muratori attribuisce altre monete d’argento battute in Milano senza nome di principe, poichè l’Impero era vacante.
Era sul punto il re Enrico d’incamminarsi verso di Roma, per ivi ricevere la terza incoronazione come imperatore; ma ben prevedeva quel prudente signore che sarebbe stata di corta durata la pace data a Milano, s’egli si allontanava, conducendo seco le sue milizie. Gli armati che lo accompagnavano non erano numerosi abbastanza per poterne staccare porzione in custodia della Lombardia. Doveva aspettarsi che l’odio e la rivalità delle fazioni sopite, scoppiassero al momento in cui veniva levato il peso che le aveva fiaccate; e che o i Visconti o i Torriani ben tosto venissero espatriati e resi raminghi co’ loro aderenti. Il saggio principe, con accorto consiglio, nominò cento nobili milanesi, dai quali voleva essere onorevolmente accompagnato nel suo viaggio di Roma; e in questo numero erano compresi i capi e i più distinti d’una e dell’altra fazione. Questa determinazione, che in fatti era decorosa per gli eletti, piacque sommamente alla città, che ne traeva l’augurio della ventura quiete e dell’ordine. Gli eletti, per lo contrario, cercavano il pretesto onde potere sventarne l’idea; e quello che singolarmente rappresentavano, era la mancanza del denaro per un decente corredo: mancanza in parte vera; poichè gli espulsi, nel tempo dei partiti, avevano perduto i loro beni. Comandò adunque il re che la comunità di Milano dovess’ella somministrare i mezzi convenienti per i cento nobili nominati ad accompagnarlo. Pareva che per tal modo fosse spianata ogni difficoltà; ma le sorde ed implacabili passioni rovesciarono ogni cosa. Sembrava quasi che secretamente i due partiti operassero di concerto per annientare ed eludere il potere benefico del re, che altro non toglieva loro che la facoltà di nuocersi. I centomila fiorini d’oro del regalo si riscuotevano con violenze, e in modo cotanto odioso, che la città era piena di lamenti. Si disseminò la vociferazione del nuovo aggravio da imporsi, per equipaggiare i cento nobili ed abilitarli al viaggio di Roma. Si cercava di far nascere l’avversione contro del re e dei Tedeschi, come invasori dello Stato. In queste circostanze, e mentre cominciava già a spargersi la tristezza, venne radunato il consiglio generale per ordine del re, nel quale comparve Niccolò Bonsignore di Siena, come ministro del re, proponendo al consiglio d’assumersi la spesa per il viaggio de’ cento nobili. Aveva Niccolò Bonsignore fatto circondare dalle armi del re la sala del consiglio, quella cioè dove attualmente si trova l’archivio pubblico. Fatta ch’ebbe quel signore la proposizione, un cupo silenzio occupò tutta la sala, e non vi fu mai modo che un solo de’ consiglieri rispondesse alle molte istanze e interpellazioni di quel ministro. Credette Niccolò di essere deriso; e dopo inutili tentativi, partì dal consiglio lasciando gli ottocento radunati e custoditi dalle guardie, sì che nessuno potesse uscirne. Portossi immediatamente dal re, al quale esponendo l’ostinazione del consiglio, procurò di animarlo contro de’ Milanesi; gli significò come la città fosse inquieta; che fuori di porta Ticinese, ne’ prati ove scorre la Vecchiabbia, eransi veduti Galeazzo Visconti e Francesco della Torre in secreto misterioso colloquio, d’onde, non credendosi veduti, s’erano separati prendendosi per la mano in atto di reciproca promessa; il che fra due case cotanto nemiche non poteva indicare se non una congiura contro del nuovo regno; eccitò l’animo reale a farsi perfine temere da un popolo che non poteva guadagnare co’ beneficii, e chiese se dovesse trasportare in carcere i taciturni consiglieri, ovvero passarli tutti a fil di spada. Tale fu il bel parere che quell’italiano diede ad Enrico. Ma il re aveva un miglior naturale del suo ministro. L’ora è ben tarda, rispose il re; i consiglieri non hanno pranzato; licenziate il consiglio, e lasciategli andare alle case loro. Così rispose quell’augusto, il quale merita d’aver sempre un luogo onorato nella memoria di tutti i buoni. Così venne fatto. Questa nel saggio monarca era virtù, era umanità, nobile sicurezza e moderazione; non era spensieratezza o mancanza di azione. Egli cautamente sapeva diffidare; vegliava sopra tutti i movimenti d’una città abituata ai cambiamenti; era di tutto informato; e con varii pretesti giravano sovente le truppe imperiali per i quartieri della città.
La congiura fra i Visconti e i Torriani forse non era un sogno. Galeazzo Visconti fors’anco vi ebbe parte; almeno il popolo credette già preso il concerto di scacciare il re ed i suoi. Taluno dubita che Matteo istesso vi avesse parte; io non lo credo. Egli è certo che Matteo comparve innocente e fedele presso dell’imperatore. Chi crede gli uomini troppo buoni s’inganna; e s’inganna non meno chi li crede troppo maligni. Matteo Visconti non si è mostrato mai uomo di cattivo carattere; e bisognava supporlo d’un pessimo animo, se appena ottenuto il beneficio di ricuperare la patria e i beni, appena onorato del cingolo della milizia, avesse tramata una insidia contro dell’augusto benefattore. Il fatto è questo. Già era cominciato il tumulto nella città, e molti erano usciti dalle loro case armati. Correva voce che i Visconti e i Torriani riuniti volessero scacciare i forestieri, a cagione de’ quali s’erano imposte le ultime gravezze. Il luogo per radunarsi si vociferava alle case de’ Torriani, le quali erano al Giardino, al Teatro Nuovo, ne’ contorni di San Giovanni alle Case Rotte; denominazione data dappoi, quando, diroccate le case de’ Torriani, così rimasero per alcuni anni. La città era in allarme; ma le truppe tedesche eranvi in buon numero, e giravano per le strade, in modo da non essere sorprese o poste facilmente in fuga. Si pretende da alcuni che il complotto fosse concertato fra l’inquieto Galeazzo, figlio di Matteo, e Francesco, figlio di Guido; il quale Guido della Torre trovavasi ammalato. Dai movimenti dei Tedeschi potè Galeazzo accorgersi che più non era possibile il sorprenderli, e che la mina era sventata. Il partito più scaltro era quello di ripiegare a tempo, di non arrischiarsi; comparire fedele, e lasciare che tutta la colpa e la macchia piombasse sopra dei Torriani. Se la cosa sia stata fatta a disegno e con malizia non lo sappiamo. Egli è vero che Matteo Visconti nascose entro un ripostiglio di sua casa Lodrisio Visconti, che era già armato per uscire; e fatto ciò, Matteo, in abito da casa, si pose a sedere sotto il porticato del suo cortile, e fece venire intorno di sè alcuni domestici, co’ quali si mise tranquillamente a ragionare, come se nulla accadesse nella città, o non fosse a di lui notizia che dovesse accadere. Il re aveva spedita una banda de’ suoi per arrestare Matteo, qualora lo cogliessero in armi. Entrarono improvvisamente gl’imperiali, e furono sorpresi di trovare il silenzio e la pace in quel ricetto in cui erano disposti a combatter i nemici. Matteo, spogliato, e attonito a quella novità, mostrò tutte le apparenze d’un buon uomo che vive nella tranquillità la più profonda: fece offrire cibo e bevanda con ogni ospitalità a que’ stipendiati; i quali non ricusarono il dono, indi, preso il galoppo, si inviarono alle case dei Torriani, intorno alle quali tutto era in armi. Pagano della Torre, vescovo di Padova, si pose gli abiti episcopali indosso, la mitra, il baston pastorale, e si collocò sulla porta di sua casa per ricevere i Tedeschi; come i Romani al tempo di Camillo ricevettero i Galli. La persona del vescovo non fu offesa da alcuno, ma non potè per questo impedire l’ingresso. I signori della Torre, vedendosi sorpresi e male assistiti da una moltitudine disordinata, raccomandarono la loro vita a generosi cavalli, ai quali tagliarono gli usati ornamenti per renderli più veloci alla fuga; e così Francesco e Simone, figli di Guido, giunsero a ricoverarsi a Montorfano. Guido, infermo, si alzò da letto, e, sorpassando il muro del giardino, si appiattò entro un monastero di monache; d’onde poi ebbe asilo presso un antico suo amico, e potè nascondersi e passare a salvamento. Frattanto gl’Imperiali con poco stento uccisero e sbandarono quegli ammutinati. Le case de’ Torriani, bagnate di sangue e ingombrate di cadaveri, vennero esposte al saccheggio dalla licenza militare.
Mentre questa tragedia si eseguì in Milano, Matteo Visconti e Galeazzo, di lui figlio, rappresentavano due scene in luoghi distinti. Matteo aveva comandato a Galeazzo di starsene in casa sino al di lui ritorno. Ma Galeazzo, appena fu il padre uscito, si armò, si pose a cavallo e si mostrò per le strade. Matteo Visconti, poichè vide sgombrati gl’imperiali dalla sua casa, si portò disarmato dal vescovo di Trento, cancelliere imperiale, e lo pregò di volerlo presentare al re; mentre non osava di presentarglisi solo nel momento in cui poteva ogni cittadino essere sospetto. Il vescovo fu compiacente; e la spontanea presenza del Visconti, i suoi ragionamenti, la relazione dello stato in cui venne sorpreso nella sua casa, persuasero il re che Matteo fosse innocente: e tutta la trama ricadde soltanto sopra i Torriani. Probabilmente, o non vi fu intrigo dalla parte di Matteo, ovvero fu concertato dal solo Galeazzo senza saputa del padre. Nel momento poi in cui scoppiò il tumulto, facilmente Matteo avrà conosciuto come fosse stata ordita la trama. Mi piace, se posso, senza mancare alla verità, di togliere quest’ingrata e bassa accusa alla memoria di un uomo la di cui vita non presenta azioni nere; e mi piace pure di non lasciare al buon re Enrico un inganno, per mercede della bontà del suo animo. Matteo da Enrico non aveva ricevuto se non beneficii. Per lui aveva riacquistati i beni e la patria. Per lui il sommo potere non era più fra le mani di Guido, suo nemico, da cui doveva temere nuovi danni se cessava il potere d’Enrico. Quindi a me sembra poco verosimile la congiura di cui alcuni nostri autori lo voglion complice, e della quale minutamente descrivono persino i familiari colloqui di Guido con Matteo. Forse i Torriani con tai dicerie cercarono poi d’offendere la fama di Matteo, la sola che avevan forze bastanti per invadere; e gli scrittori ne furono sedotti facilmente; perchè riesce più frizzante la storia, quando più malignamente dipinge gli uomini; e lo storico signoreggia più, indicando ingegnosamente le cagioni, ancor false, anzi che raccontando i fatti soli, ove siano incerte le cagioni che li produssero. Io mi crederò onorato ancora più, rendendo un omaggio costante alla verità. Si può credere innocente anche Galeazzo, di lui figlio, il quale uscì armato; e, inalberando l’insegna della vipera, aveva radunato un buon numero di cavalieri, che marciavano dietro di lui pronti a combattere. Questo drappello marciava dal Bocchetto al Corduce; quando improvvisamente se gli fece incontro un grosso squadrone di Imperiali, in numero da non cimentarvisi. Gl’Imperiali, avevano già le lance in resta, ma Galeazzo, alzata la visiera, si diè a conoscere venuto per unirsi a combattere contro i sediziosi e in servizio del re. I Tedeschi erano comandati da un vescovo. Con essi si accompagnò Galeazzo, e fece in modo che s’introdusse nella città un corpo di Austriaci acquartierati a San Simpliciano, che allora esisteva fuori delle mura. Accadde in tale occasione che il duca Leopoldo d’Austria, passando in mezzo a questi popolari tumulti, nelle vicinanze della chiesa di San Marcellino corse pericolo d’essere trasforato da una lancia; se un suo fedele non avesse spronato il cavallo, e, postosi di mezzo, salvata la vita a questo giovine principe, glorioso ascendente dell’augusta casa d’Austria. La lancia fortunatamente passò fra le vesti del generoso suddito, senza nocumento di Leopoldo.
I Torriani in quel giorno perdettero per sempre la patria, da cui vennero proscritti; e sempre dappoi riuscirono vani gli sforzi che posero in opera per ritornarvi. Così terminò la dominazione de’ Torriani, la quale interrottamente durò anni trentatrè, cominciando da Martino, che, nel 1247, intraprese a reggere il popolo, e lo resse per anni sedici, poscia Filippo, per anni due, indi Napoleone ossia Napo, per anni dodici, poi (dopo l’intervallo di Ottone Visconti e di Matteo), Guido della Torre lo resse per anni tre sino al 1311, il che forma il periodo di trentatrè anni. Non ho interrotto il racconto di questa interessante serie di avvenimenti colle frequenti citazioni; perchè l’epoca è assai nota, quantunque gli autori raccontino variamente le circostanze. Chi bramasse di esaminare il fatto dalla sorgente, vegga il tomo XII della Raccolta Rerum Italicarum; Bonincontro Morigia, Cronaca di Monza; Giovanni Villani, Storia, lib. IX; Cronaca d’Asti; Giovanni da Cermenate, Istoria; il Corio, all’anno 1311; e più d’ogni altro, la diligente e laboriosa opera del nostro conte Giulini, al tomoVIII.