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sosteneva doversi anzi preparar tutto per accogliere quell’augusto coll’onore e colla riverenza che era dovuta da uno Stato fedele al suo legittimo sovrano. Replicava Guido, sin ora non essere concorsa nell’elezione di Enrico di Lucemburgo che la sola Germania; non essere il regno d’Italia per anco radunato, nè acclamazione o incoronazione alcuna seguìta, onde potesse qualificarsi sovrano legittimo; trattarsi la questione appunto se convenga, coll’accettazione, crearlo tale; il che egli dimostrava contrario ai comuni interessi delle loro famiglie, e lo sosteneva con forza e con passione. Ma non gli riuscì di fare che gli altri abbracciassero questa opinione. Fosse negli altri timidità, fosse virtù, fosse ritrosa gelosia di non mostrarsi vinti dalle parole di Guido, fosse che l’eloquenza passionata e di sentimento vigoroso, che trascina le anime energiche, rende diffidenti ed ostinate le anime piccole e fredde, qualunque ne fosse la cagione, Guido uscì da quel congresso smanioso, esclamando d’aver trattato con ciechi, sordi ed insensati, che rifiutavano l’unico partito che rimaneva per la loro salvezza. Gli storici ce lo dipingono quasi fuori di sè, che, smanioso, passando da una sala all’altra del suo palazzo, andava ripetendo: "Che ho io che far mai con quest’Enrico di Lucemburgo? Che c’entra egli mai a turbare il mio Stato? Che gli debbo io; che mai gli dovettero quei di mia casa? Io mai nol vidi, nè mai ebbi relazione alcuna con lui". Così egli diceva, e, rivolto ad alcuni domestici che, sebbene sbigottiti, non lo perdevano di vista: "Dite, dite, rispondete (esclamava), che cosa ho io che fare con Enrico, o Tedesco o Francese ch’ei sia? Cosa gli debbo io? Qual ragione può egli aver mai per togliermi il mio? Perchè non ci difendiamo noi dunque?"