Sextarius Pergami saggio di ricerche metrologiche/Note
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Capitolo II | Appendice I | ► |
NOTE
1. Veggasi la significante espressione di Galeno in Metrol. Script. reliqu. 1 p. 210, 16, Hultsch.
2. Sex Sextari Congius siet vini. Fest. in Metr. Script. 2 p. 72, 2.
3. Metr. Script. 1 p. 198, 16 e in altri luoghi.
4. Fest. ibid. 2 p. 76, 23; Hultsch, griech. und röm. Metrol. p. 90 Nota 10.
5. Hultsch, Metrol. p. 94 seg.: il sistema romano delle misure di capacità è copiato interamente dal greco, lo stesso p. 91.
6. La enumerazione di queste misure si trova in Volusius Maecianus (distrib. part. in Metrolog. Script. 2 p. 71): Mensurarum liquoris atque grani expeditior et forma et ratio est: nam quadrantal, quod nunc plerique amphoram vocant, habet urnas duas, modios tres, semodios sex, congios octo, sextarios quadraginta octo, heminas nonaginta sex, quartarios centum nonaginta, cyathos quingentos septuaginta sex. Riporteremo più sotto (§ 2) il brano del plebiscito Siliano, che ha importanza pari, se non superiore a questo. I ragguagli delle misure romane colle odierne decimali furono presi dalle Tabelle di Hultsch, Metrol. p. 306.
7. V. sopra Nota 6: aggiungi Festo (in Metr. Scr. 2 p. 79, 11): quadrantal vocabant antiqui quam ex Graeco amphoram dicunt.
8. Euclid. in Metrol. Script. 1 p. 198, 15; Heron. fragm. ibid. p. 205; Fest. ibid. 2 p. 79, 12: (quadrantal) quod vas pedis quadrati octo et XL capit sextarios. Sulla forma pes quadratus per piede cubico v. Hultsch, Metrol. p. 8 An. 2, e i seguenti due passi di Balbo (in Metr. Scr. 2 p. 59, 124), che pongono la cosa fuori di dubbio: Solidum est quod Graeci stereon appellant, nos quadratos pedes appellamus; e altrove: Pes quadratus sic observabitur: longitudinem per latitudinem metiemur, deinde per crassitudinem, et sic efficit pedes solidos.
9. Nel Carmen de Ponderibus v. 59 seg. (in Metr. Scr. 2, p. 88 seg.) attribuito a Prisciano si legge:
- pes lungo in spatio latoque altoque notetur,
- angulus ut par sit quem claudit linea triplex,
- quattuor et medium quadris cingatur inane:
- amphora fit cybus hic, quam ne violare liceret,
- sacravere Jovi Tarpeio in monte Quirites.
Sulla esatta interpretazione v. Hultsch., Metrol. p. 89 Nota 3.
10. Fest. in Metr. Scr. 2 p. 78 seg.
11. La iscrizione su questo Congio dice: Imp. Caesare-Vespas. VI. T. Caes. Aug. F. IIII. Cos. — Mensurae-Exactae. In - Capitolio - P. X.: v. Hultsch, Metrol. p. 95 seg. La figura di questo Congius, si trova in Fabretti, Inscript. p. 526 e, per citare un’opera alla portata di tutti, in Rich, Diz. delle antich. gr. e rom. 1 p. 198.
12. Galen. in Metr. Script. 2 p. 233, 241, 250.
13. Hultsch, Metrol. p. 98.
14. Metrol. Script. 1 p. 229, 250. Pari a quello dell’acqua era tenuto anche il peso dell’aceto, ibid. p. 241, 5, 250, 21. E l’autore del Carmen de Ponderibus v. 93 seg. cantava:
- nam librae, ut memorant, bessem sextarius addit,
- seu puros pendas latices seu dona Lyaei.
15. Hultsch. Prolegorn. in Script. Graec. 1 p. 69, 72, 73, 78 ecc. e nell’Index gr. 2 p. 176 sotto la voce ἲλαιον.
16. Il plebiscito Siliano al peso delle misure di capacità mette per base il vino. Per ulteriori prove, se pure ne fa bisogno, v. Metr. Scr. 1 p. 223, 22; 224, 9; 229, 10 ecc.
17. Metrol. Scr. 1 p. 223, 22; 224, 10; 239, 8 ecc.
18. Rimettiamo il lettore per maggiori prove all’Indice gr. di Hultsch in Metrol. Scr. 2 p. 176, 192, 203 sotto le voci ἲλαιον, μὶλι, οἰ̃νος. Basti qui accennare, che, chiamando con 1 il peso del vino (o, che è lo stesso, dell’acqua e dell’aceto), quello dell’olio sarebbe stato di 0,9 e quello del miele di 1,5. Questo rapporto però non è in tutto esatto. La gravità specifica dell’olio d’oliva è di 0,915 (Pouillet, Elem. di Fisica. 2 p. 73), quello del miele è di 1,450 (Berti Pichat, Istit. di Agric. 1 p. 788), sicchè i rispettivi rapporti tra il peso ed il volume andrebbero di alcun poco modificati, anche non tenendo conto delle differenze di peso specifico fra l’acqua, il vino e l’aceto. Non è fuor di luogo anche il notare, che il rapporto tra il peso del vino e quello del miele non è dato costantemente per l’amphora e sue frazioni come da 80 a 108, e da 1 a 1,35 (Metrol. Scr. 1 p. 239,7; 237,8) e quindi, a cagion d’esempio, al Congius si attribuiscono 9 libbre di olio, 10 di vino, 13 1/2 di miele: sulle quali divergenze v. Hultsch, Proleg. in Metr. Scr. 1 p. 92, 100, 103 ecc.
19. V. il Carmen de Ponderibus v. 97 seg. dove acutamente si nota:
- haec tamen adsensu facili sunt credita nobis:
- namque nec errantes undis labentibus amnes
- nec mersi puteis latices aut fonte perenni
- manantes par pondus habent, non denique vina
- quae campi aut colles nuperve aut ante tulere.
20. Dione, 52, 30.
21. Fabretti, Inscr. dom. p. 528 n. 380: Mensurae ad exemplum earum quae in Capitolia sunt, auctore sanctissimo Caes. per regiones missae cur(ante) D. Simonio Iuliano praef. urbi v. c. L’incarico adunque di spedire questi esemplari spettava al Praefectus urbi. Il Borghesi (Oeuvres, 3 p. 478) giudica che sia dell’epoca di Gordiano il bronzo che ci ha conservato questa interessante notizia.
22. Bruzza. Ant. iscriz. Vercell. p. 55, che dietro il Gazzera o il Promis ha con molta dottrina illustrato la frammentaria iscrizione. Menzione di edifici, detti Ponderarii, nei paghi si ha in Gruter. 1020, 10; Bulletin. dell’Instit. 1845 p. 132: Mommsen, Inscr. R. Neap. 5331; Allegranza, opusc. erudit. p. 227. Questi Ponderarii erano eretti anche da privati, con molta verisimiglianza dove la povertà de’ luoghi non comportava tali spese da parte del pubblico: nelle città i pesi e le misure, che doveano esser provveduti a carico dell’erario municipale, spesso lo erano a spese dei magistrati, come a Consa (Gruter. 225, 1; Orelli 3849), a Brescia (Henzen 7073), ad Ostia (Orelli 3882), a Benevento (Zaccaria, Stor. letteraria d’Ital. 8 p. 264), a Lanciano (Murat. 483, 9). Oltre ai campioni dei pesi nel Ponderano vi era anche una stadera, come si conosce da iscrizioni beneventane (De Vita, Antich. Benev. p. 134) e da altra, che recheremo fra breve (Nota 25), scoperta alla Cattolica. Il Ponderano vercellese fu eretto da un T. Sestio, ascritto alla tribù Voltinia, e quindi straniero all’Italia Superiore, dove non vi ha alcuna città, compresa la nostra, che sia ascritta ad una tale tribù (Grotefend, Imp. rom. trib. descr. p. 2 Annot. 4; p. 173).
23. Digest. 19, 1, 32.
24. Pers. Satyr. 1, 130.
25. Bullett. dell’Inst. 1840 p. 96 dove la tavoletta di bronzo trovata alla Cattolica suona così: ex iniquitatibus mensurarum et ponder... aed(iles) staleram aerea et pondera decret. decur. ponenda curaverunt.
26. Hultsch, Metrol. p. 115. I diversi campioni sopravissuti discendono dal peso normale di gram. 327,5 a quello di gram. 282,7 (Böckh, Metrol. Untersuch. p. 170 seg.) I pesi di serpentino del già Museo Borbonico di Napoli esaminati da Cagnazzi (Sui valori delle misure p. 120 seg. della vers. ted.) darebbero per la libbra gram. 325,8, gram. 328,5, gram. 323,2, gram. 326. Dei due campioni trovati a Cuenca in Spagna l’uno darebbe gram. 325,06, l’altro gram. 325,4. Il peso della libbra sotto Teodosio discese a gram. 324, e il peso normale dell’epoca di Giustiniano era di gram. 323,51 (Hultsch, p. 116, 119 Nota 13Fonte/commento: Pagina:Sextarius Pergami saggio di ricerche metrologiche.djvu/256), e quindi al di sotto della libbra mantenutasi presso di noi in gram. 325,13 (Nota 156 e Append. I. § 5).
27. Schupfer, Ist. polit. longobard. p. 145. Rispetto alle misure agrarie, salve le modificazioni delle quali ci occuperemo a parte (v. Append. III. § 11 seg.), fu mantenuto lo Iugerm, colla sua 12ma parte, dai Romani detta Uncia (Columella, R. R. 5, 1) ora pertica jugialis e colla sua 288ma parte ai tempi romani detta scripulum ed ora tabula (Leggi di Ahistulf in Padelletti, Fontes iur. ital. med. aev. p. 296: qui non habent casas massarias et habent quadraginta jugis terrae. Hist. Patr. Mon. 13 col. 26, 31, 38 seg., 49, 82 ecc.): come pure alla misura lineare dei terreni fu mantenuto il nome di pertica (Hist. Pat. Mon. 14, col. 69, 82 ecc.). Per le altre misure di lunghezza o di grossezza la base è sempre il piede; Capit. extra Ed. vagant. in Padelletti, p. 282 seg.: quia quindecim tegulas viginti pedes lebant — vadant per solidum unum pedes ducenti vigniti quinque — si quis puteum fecerit ad pedes centum cet.; Hist. Patr. Mon. 13 col. 44 dell’anno 761: ad pedes septuaginta sex per longum; col. 45, usque ad pedes numero quinquaqinta sex; col. 47, ad pedes triginta sex per longum; col. 48, pedes manuales numero viginti quinque (sul pes manualis v. Excerpt. ex Isid. in Metrol. Script. 2 p. 137 seg.). Per le misure degli aridi, Capit. cit. in Padelletti p. 282: segale modia tria, legumen sextaria quattuor, sale sextario uno; Convenzione del 730 fra re Liutprando e quelli di Comacchio in Hist. Patr. Mon. 13 col. 18; decimas vero dare debeant sale modios XVIII. Per le misure dei liquidi, Capit. cit. in Padelletti a. l. c., vinum urna una. Per misura del vino troviamo anche la fiola in una carta del 768 riguardante dei fondi in Monza (vinum ternas fiolas, Hist. Patr. Mon. 13 col. 66 c). Evidentemente qui si tratta di una corruzione di phiala, ma come questo vaso, del quale non vi ha alcuna menzione negli antichi metrologi, e del quale più particolarmente si faceva uso nei sacrifici (Rich. 1 p. 161, 181), sia passato ad indicare una misura di capacità, non ci è possibile dirlo con tutta certezza. In un senso affatto generale usa phialas anche il nostro poeta Moisè del Brolo (Pergam. v. 249), ma che la phiala dovesse essere una misura effettiva, che durò anche nei tempi posteriori all’epoca longobarda, lo prova il Liber Iurium reip. Gen. (in Hist. Patr. Mon. 7 col 34) dove sotto l’anno 1128 troviamo phialam unam olei. Probabilmente il nome di fiala era sinonimo di qualcuno dei nomi legali delle nostre misure esistenti, ma a quale di esse potesse corrispondere, non abbiamo documenti per investigarlo. Rispetto poi alle misure di peso sarebbe quasi inutile addurne prove speciali, poichè la maggior prova è la sopravvivenza della libbra romana fino ad oggidì in quasi tutte le nostre città. Tuttavia citeremo Capitula ext. Ed. vag. 5 in Padelletti a. l. c. lardo libras decem: Hist. Patr. Mon. 13 col. 18; Modio vero (salis) pensato libras triginta — oleo libra una, garo libra una, piper uncias duas; ibid. col. 60, auri puri libras CCCCC; ibid. col. 108, oleum libras duecenti. Quanto poi alle monete troviamo in uso quelle dell’epoca costantiniana: il solidus, il tremissis terza parte del solidus, e persino la siliqua (Capit. cit. 6 in Padelletti a. l. c.), che era la 24.ª parte del solidus (Hultsch, p. 253; Marquardt, röm. Staatsverw. 2 p. 31, 70).
28. Vuitry, Régime monetaire de la Monarch. féodale, nel Compte-rendu de l’Acadam. de sciences mor. et politiqu. 1876 p. 273, 282 seg.
29. Vuitry, o. c. p. 282 seg. ha riassunto la questione della libbra di Carlo Magno senza risolverla: reca i risultati di Le Blanc e Garnier, che le attribuiscono un peso di grani parigini 6912 o gram. 567,13, e quelli di Guérard, seguito da Leber, che la porterebbe a grani par. 7680 o grammi 407,92. V. anche Repossi, Milano e la sua Zecca p. 46; cfr. Carli, delle Monete e Zecche d’Italia, 1 pag. 282 seg.
30. Nel Capitolare Italicum, 109 (Padelletti, o. c. p. 360) troviamo: de mensuris ut secundum iussionem nostram aequales fiant. Nei Capitolari di Carlo Magno editi dal Canciani (Barbar. leg. ant. vol. 3: sfortunatamente la nostra Biblioteca non ha altre edizioni) troviamo (3 cap. 90): ut aequales mensuras et rectas et pondera iusta omnes habeant, sive in civitatibus, sive in monasteriis, sive ad dandum invicem, sive ad accipiendum; altrove (1 cap. 126), dove si stabilisce il prezzo dei grani per ogni moggio, si aggiunge: et ipse modius sit quem omnibus habere constitutum est. Et unusquisque habeat aequam mensuram et aequales modios. In altro luogo (addiction. 3 pag. 395) è chiamato turpe lucrum — pondera injusta vel mensuras habere. In un’epoca posteriore, sotto Carlo il Calvo, nell’Edictum Pistense del 864 (c. 9, 20) troviamo: volumus ut unusquisque iudex in suo ministerio mensuram modiorum, sextariorum cet. eo tenore habeat sicut et in palatio habemus. — Et ipsi homines qui per villas de denariis providentiam jurati habebunt ipsi etiam de mensura ne adulteretur provideant. Se, e fino a qual punto, questi saggi provvedimenti abbian potuto esser mandati ad effetto nei nostri paesi, è ciò che non possiamo dire.
31. Nella Convenzione commerciale del 730 fra re Luitprando e quei di Comacchio pel trasporto del sale ed altri oggetti lungo i fiumi del regno langobardo (Troya, Cod. diplom. 3,480, Hist. Patr. Mon. 13 col. 18) troviamo: Modio vero pensato libras triginta più volte ripetuto. Ma cinquantasette anni appresso, quando qui s’era stabilita la conquista franca, si voleva esigere maiorem modium — id est ad libres XLV (Hist. Patr. Mon. 13 col. 117 d), per cui Carlo Magno, sentite le giuste lagnanze, ordinò: tamen nos pro mercedis nostre argumento concessimus eis in elemosinam videlicet nostram, ut in tali tenore ipsum modium dare deberent, sicut et illi a nostris hominibus accipiebant, et nullatenus maiorem, id est per libras triginta (ibid. col. 117 d, 118 a). Non si può credere che di proprio arbitrio gli esattori dei dazii avessero recato un sì notevole aumento nel valore del Modius, quando non avesse cominciato a pigliar piede un corrispondente aumento della capacità del Modius o per lo meno del peso della libbra. Infatti, in un inventario Bresciano del 905 (ibid. col. 727 b) troviamo: invenimus etiam in eodem monasterio de terra arabilis ad seminandum inter totam modia CCLIX, de vinca ad modios francischos CCXLII. Qui il Modius francischus si può intendere in due maniere: o come una misura agraria fondata sul rapporto che praticamente esisteva fra una quantità data di semente ed una data estensione di terreno (cfr. Tab. Heron. 5 § 15 in Metrol. Scr. 1 p. 190; Balb. Tab. de Mens. ibid. 2 p. 124, 14: in centuria agri iugera CC, modii DC): oppure come un dato del prodotto medio della vigna, come oggidì nel contado si dice che il tal fondo è di tante staja (di frumento), e la tal vigna di tante brente (di produzione media). Esempi del Modius del vino ne abbiamo in Du Cange s. v. Ad ogni modo, in un caso o nell’altro perchè sia possibile questo ragguaglio, è necessario che si tratti di una misura di capacità fissa ed entro un certo àmbito pienamente conosciuta, precisamente come da noi erano lo stajo e la brenta, o come nel 905 dovea essere il Modius Francischus in opposizione ad un’altra specie di Modii. È da notarsi infine che il sistema delle misure di capacità introdotto da Carlo Magno (Saigey, Traité de Métrol. p. 112 seg.) è quello che maggiormente si addimostra connesso con quelli che sopravvissero fino ad oggidì, mentre dopo di lui non abbiamo trovato un sol documento che ci lasci anche solo con qualche verisimiglianza argomentare, che, dove troviamo una di queste misure con nome romano, si debba ritenere che anche la capacità si fosse, per quanto era possibile, mantenuta inalterata. Probabilmente la introduzione del sistema francese di misure di capacità avvenne fra noi tra il 799 ed il 806. Non potremmo dare altra spiegazione più verosimile al fatto, che il vescovo Tachimpaldo col suo testamento del 799 avea stabilito che si distribuissero ai poveri triginta modia grano vino anforas tres (Lupi, I, 643 seg.) mentre nel 806, non sapendo se un tale prodotto poteasi ottenere dai fondi legati, lascia in arbitrio dei custodi delle Basiliche beneficate di fare la distribuzione in quella quantità che crederanno opportuno. Il Ronchetti attribuisce questa clausola del nostro vescovo alla incertezza dei prodotti di questi poderi (Mem. stor. 1 p. 150): ma Tachimpaldo, che era già vescovo dal 796 e che giovanissimo non sarà salito sulla cattedra bergomense, se già nel 799 redigeva il suo testamento, non doveva per una lunga esperienza ignorare fino a qual punto potevano essere adempiuti i suoi legati. Ma la espressione, modo vero quod Dei iudicio non scio quomodo de ipsas res fruges exire debeat cet. (Lupi, 1, 645), può darci il modo di spiegare il fatto. Tachimpaldo, che con tutta probabilità era langobardo, avea assistito alla dolorosa caduta della sua gente avvenuta per imperscrutabile giudizio di Dio: le conseguenze di questo fatto si facevano sentire ancora dopochè il nostro Vescovo avea redatto il suo testamento, perchè il conquistatore, andando contro a secolari abitudini, avea abolito le antiche misure, e n’avea introdotte altre di sua creazione e al tutto differenti: ora, per lo meno il Modius non veniva ad esser più una misura di litri 8,75, ma sibbene di litri 157,5 (Saigey p. 113): la disposizione testamentaria quindi di Tachimpaldo veniva ad essere notevolmente alterata, o meglio ancora, poteva esser fonte di future controversie o pretensioni. A quel modo che Paolo Warnefrido non osò tramandare ai posteri la disfatta e l’assoggettamento de’ suoi connazionali, così il nostro Vescovo non fe’ che attribuire al Dei iudicio le ragioni per le quali trovavasi obbligato a mutare il suo legato a favore dei poveri, tacendo quelle circostanze che poteano riuscir gravi al suo cuore od al suo orgoglio di langobardo. V. Nota 118.
32. Recheremo alcuni esempi anteriori al secolo undecimo, al qual punto si fermano le indagini di questa breve introduzione:
I.° Per il Modius o Modium misura dei grani, il qual nome alla forma neutra si trova non solo nei nostri documenti medievali, ma anche nei Metrologi latini (Isid. in Metrol. Scr. 2 p. 142, 4, 7) e greci (ibid. 1 p. 190, 16; 271, 15 ecc.): Ann. 800, quinque modia grano medietate grosso et medietiate minuto (Lup. 1, 627); ann. 806, triginta modia grano (ibid. 645); ann. 806, decem et octo modia meleo (Hist. Patr. Mon. 13, col. 154 c); ann. 822, grano omni genere modio tertio (ibid col. 179 b); ann. 835, secale modios XXXV (ibid. col. 225); ann. 837, de grano grosso (frumento, segale) — mundo vel legumen mundo modio quarto (ibid. col. 230 c); ann. 854, persolvamus in vestra cella pro omni anno circuli ex ipsis rebus grano vel ficto siligine modio uno sicale modia dua et panico modia dua ad iusta mensura (ibid. col. 314 b); ann. 881, modia grani (ibid. col. 515 a); ann. 915, unde reddet annue censum afictuario nomine promiscua ad justam mensuram mediolanensem modios octo (ibid. 790 c); ann. 940, modios tres (ibid. col. 948, b); ann. 968, frumento bono modio uno — modia duodecim (Lup. 2, 283); ann. 997, segale modia tres et frumento modio uno panico modia trex (ibid. 413).
II.° Per il Sextarius o Sextarium (Isidor. in Metrol. Scr. 2 p. 119 seg.): ann. 877, modia dua sextaria quatuor (Hist. P. M. 13 col. 460 d); ann. 897, seligine staria duodecim et faba similiter staria duodecim ordeo et scandella staria octo (ibid. col. 621 a); ann. 905, frumentum sextaria XII (ibid. col. 703, a); ann. 905, de segale modia XXX staria III (ibid. col. 707 b); ann. 934, segale modios tres cum staria quattuor (ibid. col. 931 c); ann. 957, frumentum starias II (ibid. col. 1071 c); ann. 963, unum stario de formento bello et bono reculmo et bene gribellato (ibid. col. 1175 c); ann. 968, segale sextaria quinque sandillo sextaria quinque (Lupi, 2. 285); ann. 986, secale bona sextaria quinque panico bono sextaria quinque (ibid. 381).
III.° Per la Hemina o Mina. La Mina si trova nominata in un documento milanese del 905, la cui genuinità soffre eccezioni (Hist. P. M. 13 col. 485 seg.): ann. 905, del mel Mina I (ibid. col. 712, d); ann. 996, grano grosso sextaria septem et mina una — grano minuto sextaria septem mina una (Lupi, 2, 409).
IV.° Per le misure dei liquidi: ann. 796, et pro lavores (interessi) eorum persolvamus vobis in vindimia esta proxima veniente vino bono ad mensura insta ad pleno urnas tres (Hist. P. Mon. 13 col. 128); ann. 806, tres anforas vino (Lupi 1, 645); ann. 835, vinum anforas XII (Hist. P. M. 13 col. 225); ann. 837, et si vites posuerimus exinde reddemus anfora quarta (ibid. col. 230 c); ann. 852, vino de Gellone de Blexuni qui est Congia decim (ibid. col. 302 b); ann. 905, de vino anforas tres et urnam — de vino anforam unam et urnam; de vino anforas VIII et urnam; de vino anforas XXI et urnam; de vino Concia II; de vino urnas tres; de vino anforas XIV et conzias IV; de vino anforas X et conzias VI; de vinea ad anforas I Staria V (ibid. col. 709, 710, 712, 714, 720, 724); ann. 940, quinque anphoras vini et urnam (Giulini, mem. stor. di Mil. 9 p. 24; cfr. 2 p. 148). L’inventario del 905 dei beni del monastero di S. Giulia in Brescia, di cui qui abbiamo dati gli estratti più salienti, lascia supporre che per le misure dei liquidi, se non la contenenza, almeno le partizioni dell’epoca romana rimanessero inalterate, e che quindi, come misura di maggior capacità fosse prima l’amphora, poi l’urna, indi il Congius infine il Sextarius. La carta del 940 citata dal Giulini non contraddice a questa supposizione, ma i documenti sono sì scarsi, che non possiamo applicare a tutti i luoghi, che a noi sono più vicini, una tale supposizione. Rispetto alla capacità di queste misure non fa bisogno neppure parlarne, perchè vedremo nel secolo undecimo mantenersi i nomi di Congius, Sextarius, Hemina, Quartarius, quantunque il valore di queste misure fosse del tutto differente.
33. Un brevissimo, ma significante tratto delle condizioni nostre a quest’epoca fu dato da Hegel, Stor. della Cost. dei Munic. ital. p. 379 della vers. it.
34. Questo è quanto vorrebbe provare Saigey, Métrol. pag. 109-115.
35. Dai brani dei documenti più sopra recati (Nota 32) si potrebbe argomentare che nel Modius non entrassero più di otto Sextarii, perchè non vediamo mai questo numero sorpassato dai Sextarii uniti ai Modii. Ma troppi sono i documenti o periti, od a noi sconosciuti perchè con tutta sicurezza sia concesso venire ad una tale conclusione. Rispetto alle misure del vino valga l’osservazione già fatta in fine della citata Annotazione. Naturalmente, per la connessione che vi ha fra le notizie di un’epoca precedente e di una posteriore a questo periodo, noi non possiamo restare in dubbio nell’ammettere che il Sextarius, come a’ tempi romani, si dividesse in due Heminae e quattro Quartarii: le ulteriori suddivisioni e i loro nomi ci sono perfettamente sconosciuti. Vi ha però un punto, che può essere posto in luce con una certa verisimiglianza, ed è che le misure degli aridi di questo periodo devono essersi discostate di ben poco da quelle che qui troviamo in uso a cominciare dal secolo undecimo. Questo si può ricavare dai canoni d’affitto, per quanto sieno imperfette le cognizioni che abbiamo su questo riguardo. Così nella locazione di una Sorte posta in Isione sull’Adda fatta nel 968 (Lupi, 2, 283) dove si esige un canone di 1 Moggio di frumento, di 5 Staja di segale, di altrettante di scandella, e di 12 Moggia di non sappiamo qual grano per la corrosione della carta, avremmo un canone, stando alle antiche misure romane (Hultsch, Metrol. Tab. XI p. 306) di poco più di 119 litri di grani: il che non è neppure ad immaginarsi. Si conferma ciò col documento del 996, dove, per la quarta parte di una Sorte posta in Sussiago (che era nei contorni di Calcinate), il locatario si obbliga a pagare per la festa di s. Lorenzo grano grosso (orzo, frumento, segale) Sextaria septem et Mina una, e per la festa di s. Martino grano minuto (miglio, panico) Sextaria septem et Mina una (Lup. 2, 409). Ora, una mezza Sorte, secondo un nostro documento del 1170 (Lupi 2, 1265), si calcolava di circa quattro jugeri, o Pertiche 48 (v. Append. III § 13Fonte/commento: Pagina:Sextarius Pergami saggio di ricerche metrologiche.djvu/256): nella stessa proporzione poi il quarto di Sorte veniva ad essere poco su, poco giù di Iugeri 2 o Pertiche 24 pari ad Ettari 1.59. Ognuno vede che, sopra questa estensione di terreno, quando si fossero mantenute le antiche misure romane, il locatario avrebbe corrisposto annualmente litri 4,10 di grani grossi ed altrettanti di grani minuti, in complesso litri 8,20, che equivalgono ad un terzo di litro (litri 0,342) per Pertica. Ma nel 1098, dopo che era avvenuta già la riforma del nostro Stajo, l’affitto di un fondo in Almè era calcolato in uno Staio di frumento per Pertica (Lupi 2, 805), ossia in litri 21 circa ogni 6,62 are, dal che si vede che, per quanto si voglia tener conto delle più disparate condizioni, sarebbe difficile ad ammettersi che nel corso di un secolo l’affitto medio in grano per pertica fosse aumentato di più che sessanta volte, mentre non si presenta alcuna difficoltà nell’ammettere che il Sextarius prima del mille non dovesse essere gran fatto differente da quello che troveremo stabilito nel secolo undecimo. E quando fosse indubitato che il Modius quem omnibus habere constitutum est (v. sopr. nota 30) non fosse stato altro che il cubo del cubito degli Arabi (Saigey p. 113), e che al pari del Modius posteriore al secolo undecimo fosse diviso in 8 Sextarii, potremmo presentare i seguenti dati approssimativi, che in mezzo a tanta oscurità, non dovrebbero riuscire affatto privi di interesse:
Modius | 1 | litri | 157,46 | |||
Sextarius | 8 | 1 | » | 19,68 | ||
Hemina | 16 | 2 | 1 | » | 9,84 | |
Quartarius | 32 | 4 | 2 | 1 | » | 4,92 |
36. In una carta Cremonese si legge: argentum bono monetatum expendibilem denarium unum de moneta nostra (Hist. P. M. 13, col. 1175): in altra del 999 vi ha (ibid. col. 1704): de bona moneta nostra cremonensi.
37. Donazione alla chiesa di s. Alessandro a favore della quale il giorno di s. Martino saranno pagati argentum denarios bonos mediolanenses numero sex (Lupi, 2, 379). Già prima, cioè nel 972, in una locazione di beni fra l’Adda e l’Oglio, fatta da Radoaldo patriarca di Aquileja al nostro vescovo Ambrogio, è stabilito che si debbano annualmente pagare argenteos denarios bonos mediolanenses solidos quinque aut de Venetia solidos decem (ibid. 301).
38. In un affitto di fondi in Lomellina: in arientum denarios bonos papienses solidus tres boni (Hist. P. M. 13 col. 1670).
39. Et lino scosso ad statera iusta Mediolani libras octo (H. P. M. 13 col 621; Giulini, Mem. Stor. di Mil., 2 p. 63).
40. Omni grano bono ad insta mensura Mediolani (H. P. M. 13 col. 621); ann. 915 (ibid. col. 790): ad iustam mensuram mediolanensem modios octo. Abbiamo citato questi pochi esempi: ma basti vedere nel solo Du Cange sotto le voci Modius, Sextarium, Pertica ecc. a qual punto fosse giunto il caos delle misure in questi secoli. Pochi altri esempi sono recati nella Appendice III § 14Fonte/commento: Pagina:Sextarius Pergami saggio di ricerche metrologiche.djvu/256.
41. Lupi, 2, 706. Sul peso di questi pani v. Nota 82.
42. Pergam. nella civ. Biblioteca, n. 503.
43. Lupi, 2, 865.
44. In una permuta di decime, fatta in quest’anno (1112) fra i Canonici di s. Alessandro e quelli di s. Vincenzo, questi ricevono anche totam illam terram — positam in loco et fundo Albigne unde solvitur fictus sex Modii et quatuor Sextarii grani ad Sextarium civitatis qui nunc currit (Lupi 2, 873); nella convenzione del 1122 fra il conte Alberto di Soncino ed alcuni suoi censuali di Ciserano è stabilito che questi debbano dare ogni anno sextaria quindecim de grano — ad sextarium currentem de civitate Bergamo (Lupi, 2, 911); in una investitura di fondi in Chignolo dell’anno 1136 è obbligo dell’investito di pagare ogni anno Sextaria octo Stario de Pergamo (in Bibl. n. 501); in una donazione fatta nel 1156 alla chiesa e monastero di Pontida di una casa e fondi posti in Vanzone, i donatori si obbligano di tenerli in affitto pagando ogni anno staria quatuor ad starium de Bergamo de frumento (Lup. 2, 1139); in una convenzione del 1162 fra i Canonici di s. Alessandro ed i Decani di Zogno è stabilito quod vicini de Zonio debent dare omni anno officiali ecclesie s. Laurentii — pro unoquoque faco — sextarium unum frumenti ad sertarium civitatis Pergami (Lupi 2, 1193); nell’anno 1169 l’abate Mauro di Astino acquista il diritto di un canone annuo che gravava un molino in Paderno, e che era Modio uno frumenti — ad mensuram Pergami currentem (in Bibl. n. 577), poi lo stesso anno vende quel canone, che, come dice il documento, era Modio uno frumenti — ad sertarium Civitatis (in Bibl. n. 385); in una locazione fatta nel 1203 dal monastero di Astino troviamo: dando et designando ad Giussanicam missis ipsius monasterii de hinc ad s. Martinum sextaria duo et minam unam milii ad sextarium civitatis et deinde omni anno usque ad suprascriptum terminum in s. Laurentio sextaria octo sicalis et omni s. Michaele sextaria segtem milii ad eandem mensuram (in Bibl. n. 576).
45. Dello Statuto del 1204-48 è fortunatamente sopravissuta tutta la collazione in cui si tratta dei pesi e delle misure e delle loro verifiche, ma ivi non si parla dello Stajo che come di una misura in pieno uso (13 § 43): lo stesso si dica della Soma (14 §§ 35, 36). È inutile parlare degli Statuti posteriori che non avrebbero mancato di avvertire un qualunque cambiamento in questa misura, come è inutile avvertire che in nessuno dei documenti, che ci fu dato esaminare, si trova una espressione che, come quella del 1076, dia motivo di pensare ad una qualche riforma.
46. Pergam. in Bibliot. n. 549.
47. Lupi 2, 1209.
48. Lupi 2, 1219.
49. Lupi 2, 1333 seg.: Il Proposito di s. Alessandro debeat dare ad manducandum centum pauperibus et pro quo convivio debeat erogari Somas quatuor de omni blava. — Leprosi ipsius Civitatis habeant omni anno Somas tres de blava et Croxati eiusdem Civitatis totidem et hospitale sancti Alexandri habeat tantum Somas duas et sacerdotes ipsius Civitatis habeant Somas quatuor.
50. In Isidoro (Etymol. 20, 16) abbiamo: Sagma quae corrupte vulgo dicitur Salma a stratu sagorum vocatur. Unde et caballus sagmarius, mula sagmaria. Il nome di Salma, che in origine significò un carico, si mantenne nella bassa Italia, mentre nell’alta, per una nota legge, che vige anche nel nostro dialetto (oter per altro, Valóta per Vallalta), si convertì in Sauma, Soma. Il Du Cange reca le varie forme di questo nome, e da lui trarremo alcuni esempi, altri aggiungendone, che ci fu dato raccogliere qua e colà, a migliore schiarimento di questo nome. Mamotrectus 15 Levit.: Sagma, quae corrupte dicitur Salma, est sella vel pondus et sarcina quae ponitur super sellam; un documento del 1179 ap. Ughelli Ital. sacr. 7 p. 706: concedimus ut predicta ecclesia unoquoque die semper capiat duas Salmas lignorum de foresta nostra; in altro documento ibid. p. 1321; debet octo Salmas vini; ibid. 9 p. 467: Salma salis; nella costituzione di Giacomo re di Sicilia cap. 62: generalis et maior Salma, dove s’intende un determinato peso; Sanuto 2, 4, 10; Tria sextaria de Venetiis sunt una Salma de Apulia tam de lignamine quam etiam de frumento, dove vediamo aver la stessa base, necessariamente il peso, la Salma tanto di frumento che di legname; Hist. Dalph. 2 p. 283: item Disderio Fabri pro octo Salmis vini veteris, dove lo scrittore di quella storia osserva, essere la Salma di vino nel Delfinato un peso di circa 240 libbre locali; Falco Benevent. an. 1424: tanta fuit fertilitas vini quod — centum Saume pro triginta denariis vendebantur; Nov. Gall. christ. 2 col. 323: et unam Somam vini; Fontanin. Antiqu. Hortæ illustr. p. 406: item petit ut compellatis dictum episcopum ad restitutionem viginti Saumarum vini; Malvec. in rer. ital. Script. 14, 1003 dove parla degli onori fatti a Giovanni di Boemia quando entrò in Brescia: quinquaginta plaustra vini diversorum generum, Somas viginti farinae frumenti, Somas centum spelthae cet. Salmata, Saumata è il peso che può essere portato da un asino: Hist. Dalph. 1 p. 16, 2 septem Salmatae erant de vino puro; Carta del 1364 in Camer. comput. Aquensi: item in festo natalis Domini novem Salmatas lignorum quolibet anno; altra Carta del 1413 dal Tabul. Archiep. Ausciensis: Salmata vini — salmata merlucii: Stat. Avenion. mss., 12 § 2: Salmatam vero (intelligimus) que continet decem heminas mensure Avenionensis, dove quindi è stabilito un esatto rapporto fra il peso ed il volume; nello Statuto dell’anno 1283 di Edoardo I re d’Inghilterra ap. Rymer 2 p. 282 (emend. dal Du Cange): dabit venditor extraneus — de Salmata bladi unum denar. — de Salmata coriorum grossorum 2 denar. — de Salmata de onere hominis de predictis rebus et similibus 1 denar.; Hist. Dalph. 1 p. 98. 2; item qualibet Somata salis de Valentia debet per aquam quatuor denarios: Somata vini duos denarios, Somata vini acetosi vel tornati unum denarium, Somata mellis et oli unum denarium; ibid. 90, 1: exigere volunt de L Somatis salis unum Sextarium; ibid. 90, 2: chascun muy contient dix Sommées de sel, et chacune Sommée contient six sestiers de sel de Valence, qui valent quatre bestes chargées. — A la mesure de Vienne, la Sommée vaut dix sestiers et demy, et chascune beste porte deux sestiers, deux quartes et demy à ladite mesure; in un elenco di diritti della curia di Pareto scritto intorno al 1223 in Hist. Patr. Mon. 7 col. 707: de sommis vero seu de bestiis portantibus sommas olei aut alterius mercis capitur apud castrum Pereti denarios VIII. de duobus barrilibus. seu denarios IIII. pro quolibet barrili. si ferret mel in barrili capitur tantundem. de soma coriorum accipitur denarios XII. de soma casei denarios octo; in una convenzione del 1251 fra i consoli di Genova e quelli di Asti, ibid. col. 1082 seg.: item quod postquam Saume et Cargie hominum de Ast. ponderate fuerint per ponderatores pedagiorum comunis Janue. et onerate in ligno vel bestiis. consules mulionum non possint postea ponderare vel exhonerari facere illas — et quod potestas Janue preconari faciat et denuncet consulibus mulionum. quando introitus ille incantabitur ut intersint si velint ad ponderandum sommas et cargias; negli Stat. di Brescia del secolo XIII in Hist. Patr. Mon. 16, 2, col. 1584-107: item statuunt et ordinant correctores, quod de omni mercathandia grossa que introducitur in civitatem — solvantur septem soldi imper. pro quolibet plaustro, et duodecim imperiales pro qualibet soma, et intelligitur plaustrum centum pensa, et Soma viginti pensa, et mercathandia minuta solvantur quatuor soldi imper. pro quolibet plaustro, et sex imper. pro qualibet Soma; ibid. col. 1584-109; item intelligitur esse Soma duodecim pensium pannorum de Mediolano, et de Francia mediolanae fratrum viginti octo pensium Soma; nella Concordia Ripatici da pagarsi dai mercatanti alla riva di Ferrara le mercanzie sono calcolate a Some, e inoltre vi troviamo: item quod de lignamine, lapidibus masinis blava et vino non auferatur Ripaticum pro Soma vel carro, sed solvatur de fundo navis (Murat. diss. 19 Ant. m. aev. 2 col. 32); nel Dazio sulle merci condotte nel territorio di Modena stabilito nel 1281, ad esempio, leggiamo: de Soma qualibet pannorum ultramontanorum, de soma setæ, de soma Pillizarie salvatize, de soma argenti in pettis, de soma Bambacis, de soma lane, de soma cere, de soma telarum, de soma datilorum, zachirelorum et uve passe, de soma butiri, de soma sepi, de soma pignolorum extractorum de pignis, de soma nizollarum cet. (Murat. diss. 30, Ant. 2 col. 901 seg). Nè mancano esempi più antichi degli arrecati. Nel capitolare 2 c. 10 del 813 vi ha: et Marscalci Regis adducant ei petras in Saumas viginti; in una carta di Carlo Magno ap. W. Hedam in Rixfrido ep. Traject.: teloneus exigatur nec de navale, nec de carale, neque de Saumis. Questi esempi, ed altri che sono recati nel testo, dimostrano che la Soma è sempre un determinato peso di materie, sieno poi grani, cuoi, pietre, legnami, vino e così di seguito, e che se una misura di capacità la troviamo indicata col nome di Soma, è indizio indubitato che in origine il volume fu stabilito mediante il peso.
51. Lupi 2. 1403.
52. Murator. Ant. m. aev. 2 col. 895; ibid. col. 39 seg. de Bergamaschis datium quod de quolibet torsello solvant cet.; Hist. P. M. 7 col. 1083: item quod si erit contencio de torsellis quod sint maioris vel minoris ponderis. stari debeat quod torsellus stanfortorum sit undecim petiarum. pannorum de zalono peciarum tredecim cet. A que’ tempi era definito anche il peso di ogni pezza di panno, sicchè nel nostro Statuto del 1353 (8 § 34) troviamo: quod quelibet pecia panni bergamaschi — sit et esse debeat librarum viginti grossarum, sicchè si sapeva a priori quante pezze di una data qualità di panni entravano a formare la Soma. V. anche Du Cange s. v. Torsata, Torsel, Torsellus.
53. Stat. am. 1204-48, 14 § 10; Stat. an. 1353, 14 § 7.
54. Quod de qualibet Soma cutium magnarum de pensibus viginti solvantur cet. Stat. Datior. fol. 23 r. Nel privilegio accordato alla Valle Brembana inferiore nel 1438 da Nicolò Piccinino pel duca di Milano, e che si trova in calce allo Statuto del 1453, dono Camozzi, si ripete la stessa cosa.
55. De qualibet Soma ferri et Azalis de pensibus XII libr. V. Stat. cit. fol. 33 v.
56. De papiro vero facto in territorio pergamensi vel fiendo solvantur soldi octo imperial. pro Soma. — Intelligendo Somam de pensibus sedecim. Stat. cit. fol. 22 v.
57. De qualibet Soma carbonorum — de qualibet Soma merchadendie. Stat. cit. fol. 33 v, 34 r, 56 v.
58. Hist. P. Mon. 16. 2 col. 1584-109; Stat. Brix. an. 1313, 2 §§ 242-251 ibid. col, 1715 seg.
59. Malavasi, Metrolog. ital. p. 271. Il Bozzolo, o come diremmo noi, lo Stopello a Pistoia era prescritto che avesse la tenuta di tre libbre di frumento compreso il colmo (Capit. Grasc. Pist. 33). Presso gli Ebrei il lethec era il carico di 15 moggia di frumento, od orzo, che poteva esser portato da un asino, ed avea posto fra le misure (Epiphan. in Metr. Ser. 1 p. 260; 2 p. 100; Saigey, p. 22); ai tempi di Edoardo il Confessore una sì grande carestia invase l’Inghilterra quod Sextarius frumenti, qui equo uni solet esse oneri, venundaretur quinque solidis, et etiam plus, Huntingdon. Hist. lib. 6 ap. Du Cange s. v. Sextarius.
60. Berti Pichat, Istit. di Agricolt. 4 p. 879.
61. Il Paucton (Métrolog. p. 489) ammette come il peso medio di un buon frumento quello di libbre 20, peso di marco, per ogni boisseau di Parigi, che corrisponderebbero a chilogr. 128,8 per ogni Soma nostra, o chilogrammi 75,3, per ogni ettolitro (v. anche p. 243). Anche il Saigey, p. 52, parlando del sistema fileterio, tiene il peso medio del frumento per la Francia in chilogr. 75 all’ettol. e questa effettivamente sarebbe anche la media tra i due estremi dati dal Berti Pichat. a. l. c. Anche le esperienze che Thibault ha fatto sulla panificazione hanno per base frumenti che vanno gradatamente dal peso di 70 a quello di 80 chilogr. per ettolitro (Cantoni Encicl. agr. 4 p. 380). Quando si volesse basarsi su questa media la capacità dello Staio sarebbe stata a un bel circa di litri 21.675. Crediamo però che si sarà preso per base il peso medio di un buon frumento, e questo lo prova l’uso costante di esigere frumento da Pesi 16 per Soma. Il Cantoni dice che nell’Italia superiore un ettolitro di frumento ben stagionato varia dai chilogrammi 78 agli 84 (Cantoni, Tratt. di Agric. 2 p. 111, § 668). Questa sarebbe una eccezione, perchè da noi si collocano già fra i migliori frumenti quelli da Pesi 16 1/2 per Soma o chilogr. 78,3 per ettol., nè conosceremmo alcun luogo del nostro contado dove, se non per eccezione, sia sorpassato questo limite. Il peso dei varii frumenti portati a Roma non si scostava dai limiti che qui abbiamo segnati. Plin. Nat. hist. 18, 12 § 2 scrive: Nunc ex generibus quae Romam invehuntur, levissimum est Gallicum, atque e Chersoneso advectum: quippe qui non excedunt in modium vicenas libras, si qui granum ipsum ponderet. Adiicit Sardum selibras, Alexandrinum et trientes: hoc est Siculi pondus. Boeoticum totam libram addit: Africum et dodrantes. Così, per ridurre questi dati a misura odierna, erano frumenti da chilogr. 74,81, chil. 76,67, chil. 77,93 e chil. 78,55 per ogni Ettolitro. Il nostro frumento poi in ragione di Pesi 16 la Soma darebbe esattamente chil. 75,93 per ettolitro.
62. Tavole di Ragguaglio fra le nuove e antiche misure fra i nuovi e gli antichi Pesi della Repubbl. Italiana, p. 156, Milano 1803. La pubblicazione di queste Tavole fu fatta per l’art. 13 della legge 27 Ottobre 1803. La Commissione incaricata dei ragguagli era presieduta da Oriani, e questo solo nome è sicura guarentigia della esattezza delle operazioni. A p. IV si spiega la diligenza usata per avere i campioni delle misure e le più sicure notizie sulle stesse, Nella Istruzione su le Misure e sui Pesi della Rep. Cisalp. p. 68 seg., che pure è scritta da Oriani, si indicano le due diverse operazioni che si impiegarono per ottenere il ragguaglio delle misure di capacità: quando i due risultati erano differenti si prendeva la media. Nella mancanza assoluta di un solo campione un po’ attendibile, il lavoro di questa Commissione è per noi il documento più attendibile e più importante in tutte queste ricerche.
63. Stat. an. 1453, 1 § 21: Item quod Comune Pergami fieri faciat unum Sextarium et unum Quartarium rami expensis Comunis Pergami qui manuteneantur et teneantur penes Bullatorem Com. Pergami.
64. Calvi, Effemer. 2 p. 476. Questo provvedimento fu preso in data 24 Luglio.
65. Stat. an. 1493 (1727), 7 § 144: Teneatur quoque Comune Bergomi fieri facere unum Sextarium et unum Quartarium ferrata et bene ordinata in uno vel duobus magnis lapidibus, qui faciliter moveri non possint, ad quae habeatur recursus pro mensuris justificandis, quae teneantur in loco publico.
66. Lupi 2, 706.
67. Pergam. in Bibl. n. 503.
68. Lupi 2, 873.
69. Pergam. in Bibl. nn. 385, 577.
70. Lupi 2, 909, che ha stampato inesattamente questa carta, perchè ha trascritto soltanto fictum modia quatuor de grano mentre nel documento, che apparteneva al Monastero di Astino, e che ora si trova nella Civica Biblioteca sotto il n. 510, sta effettivamente modia quatuor de grano et staria sex.
71. Pergam. in Bibl. n. 570. Non si deve dissimulare tuttavia che questa espressione potrebbe riferirsi allo Stajo riformato, a quello che era in uso immediatamente prima del 1125 e non già a quello che era in uso nella prima metà del secolo undecimo. Che delle misure vecchie potessero abusivamente ancora sussistere, sarebbe difficile negarlo, perchè, vedremo parlando di quelle dei liquidi, con quanta difficoltà si giungesse a sradicare vecchi sistemi, sicchè la espressione potrebbe adattarsi ugualmente bene e all’una e all’altra supposizione.
72. Pergam. in Bibl. n. 549.
73. Lupi 2, 1209.
74. Lupi 2, 1333 seg.
75. Lupi 2, 1343.
76. Lupi 2, 1349.
77. Stat. an. 1204-48, 14 §§ 35, 36, 38 ecc.
78. Questa notizia ci fu comunicata dal nostro amico prof. A. Tiraboschi, che nella Valle Brembana trovò in pieno uso il Mós de calsina come misura della calce, e ch’egli fa corrispondere a circa due quintali e mezzo, Per un più esatto ragguaglio v. sotto Nota 94.
79. Anche questa notizia la dobbiamo al nostro amico Tiraboschi, il quale aggiunge che, per quanto venne assicurato, sebbene il Mós de calsina differisca dal Mós de carbù, tuttavia non gli fu dato precisare una tale differenza. E a noi ugual mente mancarono i dati per poterlo fare.
80. Noi non abbiamo una prova diretta per asserire, che sei Some di carbone formassero il carro, ma lo deduciamo indirettamente dalla tariffa del così detto Dazio della ferrarezza, che non abbiamo alcun motivo per non tenere affatto proporzionale. Ivi in due luoghi si legge (Stat. Datior. fol. 34 r., 34 v.); de qualibet Soma carbonorum denarios tres, de qualibet charga carbonorum ab homine denarium unum, de quolibet carro cargato carbone soldum unum den. sex. Nell’altro luogo la tariffa è raddoppiata, ma è mantenuta la proporzione, dalla quale apparirebbe che il Carro fosse formato da sei Some o Moggi e da diciotto Carichi (Charge).
81. Nello Statuto dei Dazii a fol. 70 r. troviamo: Item quod omnes Castelani prelibate dominationis teneantur et possint habere infrascriptam munitionem pro paga omni anno pro qua presens Dacium solvere non teneantur sed non possint condemnari si non haberent nisi medietatem, videlicet pro sex mensibus: Primo ad computum Modiorum trium frumenti pro paga omni anno. Ma qui non si riconferma che quanto era già stato detto prima a fol. 6 r.: que res sunt infrascripte ad computum pro qualibet paga. Videlicet. Primo Somas tres frumenti. Il nome di Moggio e quello di Soma si usavano adunque indistintamente per indicare la stessa quantità di grano, e dopo la riforma del secolo undecimo l’uno equivaleva all’altro.
82. Giacchè il Modius a cominciare dal secolo undecimo è fondato, al pari della Soma, sullo Stajo nuovo della città, così la differenza non potrebbe stare che nel numero dei Sestieri, che nel Modius, a cagion d’esempio, potrebbero, come all’epoca romana, essere entrati in numero di 16. Non abbiamo un solo esempio che giustifichi una tale supposizione. In Como si usa il Moggio da 8 Staja (Malavasi, Metrol. it. p. 137), ma nel secolo decimoterzo questa misura era chiamata Soma al pari che da noi (Stat. Novocom. 2 §§ 174-179, 209, 240 ecc. in Hist. P. M. 16. 1), sicchè la differenza sta nel nome. Nell’elenco dei diritti della curia di Pareto ligure scritto intorno al 1223 il Modius è chiarissimamente indicato come una misura da 8 Staia, poichè vi leggiamo: et intravit in ea (petia campiva) pro seminatura staria novem medium sicalis et medium frumenti. sed si esset tota seminata intrarent in ea staria XII que essent modium unum et dimidium. (Hist. P. M. col. 704 d). La perfetta corrispondenza nei nostri documenti fra il nome di Modius è quello di Soma è apertamente indicata dalla convenzione del 1165 fra i Canonici di S. Alessandro e i Signori di Carvico, colla quale si assopirono precedenti questioni, ed ove si legge: et ipse Pascebrucus et Teutaldus frater eius similiter dare eis (ai Canonici) debet honorem quem habet in castro de Calusco seu villa atque finita ficta idest terretorias ita quod debeat computari solidus per solidum et Modium per Modium et solidi duo pro Soma de blava et si ab una parte superabundaverit solidum unum emere debent per solidos viginti et Somam de blava per solidos quudraginta (Lupi 2, 1219). Questi fatti possono essere con assai verisimiglianza confermati dall’importante documento del 1076 (v. sopra § 1 in principio). In esso leggiamo: sexaginta panes factos ex Modio uno frumenti ad currentem sextarium suprascripte civitatis Pergamensis (Lupi 2, 706). Noi non abbiamo, per conoscere quanto pane si traesse da uno Staio di frumento, dati più antichi di quelli forniti dallo Statuto del 1263 (v. sotto Append. IV), ma non vi può esser dubbio che questi non sieno stati basati sovra una lunga pratica, sicchè possiamo tenerli come i più certi ed i più approssimativi in questo calcolo. Ora, sulle basi di quello Statuto, quando il Moggio fosse stato di 16 Sestieri, avrebbe dato sessanta pani del peso di chilogrammi 3,515 ciascuno, il che ci pare difficile ad ammettere, perchè anche i pani che si fabbricavano in epoche di massimo buon mercato di poco superavano il mezzo chilogrammo (gram. 549). Che se ammettiamo il Moggio da 8 Sestieri, com’era effettivamente, vediamo i pani ridursi al peso di chilogrammi 1,758, e questo peso ci sembra più confacente al vero, perchè, prescindendo dal fatto che si prestava meglio ad una discreta cottura, lo vediamo anche avvicinarsi al peso di certi pani, che in consimili distribuzioni si usavano in quell’epoca, e che erano detti Panes de Cambio. Il Milanese Beroldo della prima metà del secolo decimosecondo nomina più volte questa sorta di pani (Ordo et Cerem. eccl. Ambros. in Murat. Antiqu. 4 col. 920, 922 ecc.) ma spiega anche che cosa si fossero. Egli scrive: sciendum est quia omnes illi panes, qui dantur Custodibus et Veglonibus pro festo, debent esse de Cambio, idest sex de Sextario (ibid. col. 922). Fatta la proporzione della capacità dello Stajo di Milano in litri 18,3 e del nostro in litri 21,4, i pani, quando fossesi esattamente mantenuto lo stesso peso per ciascuno, sarebbero stati 7 per ogni Stajo e 56 per ogni Moggio o Soma nostra da 8 Sestieri: in altri termini, partendo dai nostri più antichi dati di panizzazione, i Panes de Cambio di Milano avrebbero pesato chilogr. 1,878 ciascuno, e ne sarebbero stati fabbricati sei collo Staio milanese, sette col nostro: presso a poco viene alle stesse conclusioni anche il Giulini, attribuendo a ciascuno di quei pani il peso di più che due libbre milanesi (Giulini, Mem.Fonte/commento: Pagina:Sextarius Pergami saggio di ricerche metrologiche.djvu/256 stor. 1 p. 424), od oltre ad un chilogrammo e mezzo. Che se è molto verisimile che questi pani sieno gli stessi, che quelli in un’epoca posteriore detti coronati (Giulini, 3 p. 474), si comprende quale difficoltà vi dovesse essere nel far cuocere un po’ perfettamente dei pezzi di pasta, che non doveano pesar meno di 2 chilogrammi (ciascun pane di cambio in pasta, secondo il nostro Calmerio, avrebbe dovuto avere il peso di chilogrammi 2,147), se si dovette dare ad essi la forma a corona, la quale, secondo le esperienze di Laffon, soffre nella cottura il calo del 40 per 100 (Selmi, Encicl. chim. 8 p. 670), sicchè ogni pane coronato, ben cotto, avrebbe avuto il peso di chilogram. 1,286. Che se si ammetta, come vedremo (v. sotto Appendice IV), che generalmente a quell’epoca non si giungeva a dare al pane una cottura quale è richiesta dalle odierne esigenze, neppure quando i pani aveano un peso dai grammi 549 ai grammi 137, si scorgerà agevolmente quanto sia difficile, per ammettere che il nostro Modius contenesse 16 Staia, il voler sostenere che si facessero pani, ciascuno dei quali avrebbe pesato in pasta chilogrammi 4,02 e cotto chilogr. 3,52. Si deve adunque senz’altro ammettere che il peso dei pani legati dal chierico Andrea fosse allo incirca di chilogr. 1,750 per ciascuno.
83. Catone de Re rust. 58: Salis unicuique in anno modium satis est; Cicer. de Amicit., 19: Verum illud est, quod dicitur, multos modios salis simul edendos esse ut amicitiae munus expletum sit; Plin. Nat. Hist. 14, 11: congio mellis et salis cyatho.
84. Hist. Patr. Mon. 13 col. 18: Modio vero pensato libras triginta.
85. Hist. Patr. Mon. 13 col. 117.
86. Stat. an. 1204-48, 13 § 43: item ne aliquis homo Civ. vel Virtutis Pergami qui sit revenditor salis vel blave teneat nec habeat plura Sextaria nec pluras rasoras. Dal che si vede che il sale si vendeva, come i grani, a staio raso.
87. Castelli, Chronic. in rer. ital. Script. 16, 860.
88. Capit. del Dazio del Sale in Stat. Datior. fol. 79.
89. Stat. an. 1453, 1 § 1.
90. Nello Statuto dei Dazii, dove si determina per rapporto al Dazio la paga dei Castellani del veneto dominio, da una parte (fol. 6 r.) vi ha: Penses duos salis, e dall’altra (fol. 70 r.); Sextarii unius salis: dal che è posto apertamente in chiaro che, tanto valeva dire uno Staio di sale, quanto dire due Pesi, precisamente come pel frumento. A noi non fu dato aver notizia di esperienze per le quali siasi stabilito il rapporto che vi ha tra un dato volume ed il corrispondente peso di sale: tuttavia potrà valere come un dato approssimativo questo che in questi ultimi tempi a Roma al peso di libbre 600, o chilogr. 203,44 si faceva corrispondere il rubbio di sale del volume di litri 164,6 (Malavasi, Metrol. ital. p. 155, 253). Stando a questa proporzione, perchè il nostro Staio del sale contenesse libbre 20 o chil 16,26 avrebbe dovuto avere la capacità di circa litri 13,15, la Mina di litri 6,58, il Quartario di litri 3,29. E se esisteva il Moggio, o la Soma del sale di 8 Staja, come quella del frumento, essa avrà avuto la capacità di litri 105,22. Ma questi sono dati che noi non presentiamo che a titolo di confronto; perchè ci mancò ogni mezzo per poterne verificare la esattezza.
91. Stat. ann. 1204-48, 13 § 33: huic capitulo addimus quod Sextarius cum quo debeat mensurari calcina non debeat esse altus a fondo de intus ultra IIII untias ad untiam capiti Comunis Pergami. Ita quod fraus fieri non possit in mensura calcine.
92. Fino a quello del 1453 però, che nella coll. I § 198 ripete la misura dello stajo e insieme determina il peso della calce in esso contenuto. Lo Statuto del 1493 (1727) non parla del Modius calcine che come di misura di peso, ommettendo la prescrizione sullo Staio: pro quolibet modio calcinae — quae pensa non sit minor pensium trigintaduorum pro quoque modio (7 § 184). Si vede che lo Statuto dovette sancire la consuetudine già invalsa da lunghissimo tempo di pesare la calce, anzichè di misurarla.
93. Stat. an. 1453, 1 § 198: et qui Sextarius sil tenute pensium trium et librarum duarum — et quod Modius culcine sit et esse debeat Sextarios decem culcine pensium ut supra. Qui Modius culcine ascendat in summa penses trigintaduos culcine.
94. Stando alle prescrizioni dello Statuto del 1453 (v. Nota 93) lo Staio della calce dovea contenere chilogr. 26,01 di calce, il Modius, o dieci staia, chilogr. 260,10. Secondo esperienze dell’Ingegnere Cadolini, un metro cubo di calce viva fatta con ciottoli del Brembo corrisponde a chilogrammi 1132 (Cantalupi, Portaf. dell’Ing. p. 243), per il che si può indurre approssimazione che i chilogrammi 26,01 del Sextarius avranno corrisposto a decimetri cubici o litri 23 (più precisamente 22,977) ed i chilogrammi 260,10 del Modius a decimetri cubici o litri 230 (229,77), e che quindi tale a un di presso dovesse essere la contenenza di queste nostre misure. Che se badiamo a questo, che già fino dal 1110 si avea cura di notare, che il frumento si dava a staio raso (ad rasum Sextarium, Lupi 2, 863): che nelle aggiunte al più vecchio Statuto troviamo quod quilibet venditor blave vel leguminis vel salis teneatur habere vel habeat — rasoram (la rasiera) unam bonam et iustam et bollatam ad bollam Comunis Pergami et cum qua rasora sola debet radere (Stat. an. 1204-48, 8 § 43): se osserviamo che nessuna di queste prescrizioni si trova fatta rispetto allo Staio della calce, ci sembra si possa indurre con tutta evidenza che questa si vendesse a staio colmo. Non crediamo quindi sia arrischiata congettura l’ammettere che lo Staio dei grani e quello della calce avessero la medesima capacità, e che la differenza fra i decimetri cubici 23 per lo Staio della calce ed i decim. cubici 21,41 stabiliti per quello del frumento si possa e si debba senza alcuna difficoltà tenere come il minimum del colmo lasciato nel misurare la calce. La stessa disposizione dello Statuto, colla quale si prescrive l’altezza delle pareti dello Staio della calce, conferma queste induzioni. I colmi sono proporzionali all’ampiezza dei vasi: quanto più quindi venivano alzate le pareti dello Staio, questo si faceva più stretto, ed il colmo della calce ammesso nei contratti veniva a diminuire. Dov’era quindi ammesso il colmo nella misura, questa dovea essere tanto più aperta, perchè colla eccedenza si raggiungesse il peso richiesto: il Sextarius calcine, in altri termini, dovea essere un recipiente che, avendo le pareti alte quattro once del nostro Cavezzo, o millimetri 146, avesse la contenenza di litri 21,41, ma in pari tempo dovea coll’ampiezza del suo diametro guadagnare quanto si perdeva coll’altezza delle pareti, affinchè con un maggiore di più raggiungesse il peso voluto dalla consuetudine. Se poi lo Statuto, oltre all’altezza delle pareti, avesse tenuto calcolo anche degli altri elementi coi quali poter determinare la capacità del Sextarius calcine, comprenderemmo a primo tratto di trovarci di fronte ad una speciale misura; ma in quella vece tutti gli Statuti indistintamente non si occupano che della sola altezza delle pareti di quello Staio, il che indica che la sua capacità dovea corrispondere a quella di qualche altra misura che portasse lo stesso nome, e tale non poteva essere che lo Staio usato pei grani. In tal caso, quando la forma dello Staio della calce fosse stata, com’è quasi certo, cilindrica, il suo diametro con molta approssimazione sarà stato di millimetri 432,22: che questa misura poi fosse di legno non è permesso neppure di metterlo in dubbio, dal momento che a quest’epoca erano di legno anche le misure che sul mercato si adopravano pei grani e pei legumi (v. sopra § 3). I confronti con una città vicina non ponno che raffermare quanto siamo venuti esponendo. A Brescia era ammesso il colmo nella misura di certe materie, ma nello Statuto più vecchio si prescriveva quod omnes mensure cum quibus fiat venditio alicuius rei ad culmen sint de cetero in amplitudine equales mensure sculpte in lapide mensurarum Comunis Brixie (Hist. P. M. 46, 2 col. 1584-210), e tutto permette di credere, e che fra tutte quelle cose misurate col colmo vi fosse la calce, e che la rispondenza fra il volume e il peso della stessa non fosse mai esatto e aprisse l’adito a continue questioni, poichè nei successivi Statuti del 1313 troviamo ordinato che teneantur (fornaxarii) et debeant ponderare calcinam et vendere eam ad stateram eisdem pro Comuni Brixie datam, et non ad mensuram Sextarii, e inoltre che fornaxarii solvant quinque soldos imperiales quotienscumque non ponderant calcinam (Stat. Brix. an. 1313, 2 §§ 120, 121 in Hist. Patr. M. 16, 2 col. 1681 seg.). A Brescia era già stato sanzionato nel 1313 quello che da noi non si giunse a stabilire che parzialmente nel 1453 e totalmente nel 1493 (v. Nota 92), e se là si trovò insufficiente la ampiezza delle misure a determinare con qualche esattezza il peso della calce, da noi invece si persistette a credere che la determinata altezza delle pareti dovesse essere una bastante guarentigia contro le frodi dei produttori, mentre d’altra parte non si stabilì punto quale dovesse essere l’altezza del colmo in rapporto alla profondità della misura, come, a cagion d’esempio, si fece colla legge inglese 17 Giugno 1824 che, rispettando l’uso delle misure di capacità a colmo, prescrisse che l’altezza di questo fosse di 3/4 della rispettiva profondità della misura (Martines, Rudimenti di Metrol. p. 137): mancanza, la quale da noi portava per necessaria conseguenza che si finisse col dar prevalenza al peso: al che dovette adattarsi anche la municipale legislazione. Tuttavia risulta in questi fatti una importante coincidenza, ed è che la calce a una cert’epoca in questa città si vendeva a staio colmo, col che si rafferma anche la rispondenza fra peso e volume, che abbiamo procurato di mettere in sodo, basandoci sulle disposizioni dei nostri Statuti. In tal modo le notizie che questi ci forniscono sul peso dello staio di calce ci prestano il mezzo di confermare il valore che noi abbiamo trovato per lo Staio del frumento e di accertarci della sua inalterabilità storica attraverso a questi secoli. — Le misure colme della calce, tenendo conto di quanto abbiamo premesso, approssimativamente avranno avuto il volume in litri ed il peso in chilogrammi quali risultano dalla Tavola Iª, D, tenendo il valore del Sextarius eguale a litri 22,9773 ed a chilogrammi 26,010304.
95. Il primo Calmerio, nel quale troviamo posto in istretto porto il prezzo del frumento con quello del pane, è il Calmerio riportato nello Statuto del 1331 dallo Statuto veteri tercia collatione capitulo vigesimoquarto de declarationibus factis per d. Johannem Falavellis super predietis (Stat. an. 1331, 8 § 34). È inutile ripetere ciò che più volte abbiamo già avvertito (Indicaz. sulla Topogr. di Berg. p. 62 Nota 30; Perelassi p. 136 seg.), che lo Statuto vecchio, al quale accenna quello del 1331, è lo Statuto del 1263, che ora è andato perduto: ma quello che importa di stabilire si è, che il Calmerio dovea esistere prima di quest’epoca. Già in una locazione fatta nel 1174 dal Proposito di S. Alessandro a parecchi di Treviolo è convenuto che predicti homines — habeant — ad persolvendum exinde omni anno fictum triginta et duos modios blave et insuper sedecim denarios de pane (Lupi 2, 1281). Se fu stabilita in denaro la quantità di pane da retribuirsi, è indizio sufficiente che nella nostra città era già in pratica una norma certa che determinasse il rapporto fra il prezzo e la quantità del pane in base al valore corrente del frumento, sicchè non poteva stare in arbitrio dell’una o dell’altra parte il variare la quantità annuale del pane, ma sibbene ambe le parti venivano a rimettersi tacitamente a quanto di volta in volta (e probabilmente di settimana in settimana) era stabilito dalla autorità cittadina. Questa induzione è confermata dallo Statuto più vecchio, dove troviamo queste espressioni (13 § 26): insuper iurare faciam omnes Tabernarios Pristinarios et omnes de familia eorum quod vendent et dabunt panem et vinum ad rectam pensam et iustam Mensuram eis datam vel dandam per Milites justitie vel per alios officiales Comunis; e il senso di queste espressioni resta chiarito dallo Statuto del 1331 nella introduzione al Calmerio dello Statuto del 1263 dove si legge: quod omnes Pristinarii Civitatis et Districtus Pergami teneantur et debeant facere panem venalem ad sufficentiam ad pensam que daretur pro Comuni Pergami et per D. Vicarium. — Pensa autem secundum quam facere debent ipsum panem est illa que tradita est in Statuto Veteri — cujus capituli tenor talis est (8 § 34), dove tien dietro il Calmerio: più è chiarita anche dagli Statuti posteriori, a cagion d’esempio da quello del 1391 (1 §§ 48, 53), dove si dice: detur pensam Fornariis in hunc modium. — Calmedrium. La Pensa o Mensura è adunque il prezzo stabilito dall’autorità municipale su certi generi; è la determinazione della quantità di merce, in peso o misura, che un venditore, in base alle condizioni del mercato, deve dare dietro ad una prestabilita quantità di denaro, e questo si rafferma anche col fatto degli osti, i quali abbiam già veduto accomunati ai fornai nel ricevere questa pensa o mensura. Infatti in una disposizione che li riguarda nello Statuto più vecchio è detto (13 § 24): item super facto Tabernariorum sic decernimus quod si quis Tabernarius vel alius vendens vinum ad minutum usque ad Sextarium unum vel minus eo precio quo data fuerit ei mensura pro Comuni cet.: ma la meta del vino fu evidentemente abrogata poco dopo, perchè i posteriori Statuto non si occupano che delle misure giuste, che è obbligo dei Tavernai il tenere nel loro negozio (Stat. an. 1331, 8 § 46), anzi per di più nello Statuto dei Dazii del 1431 troviamo quanto segue: item quod unus et plures possint simul stare ad vendendum vinum ad usum discum et canipam, et habere et tenere frascatas et claudos et claudinos dummodo claudi et claudini sint iusti et pro eo pretio quo ei placuerit (Stat. Datior. fol. 38 v.) Il commercio del vino era adunque stato sciolto da tutti quei vincoli, che non dipendessero più da dazii; la pensa o mensura data dal Comune per più non esisteva, mentre per contro venne mantenuta pel commercio del pane. La interpretazione da noi data alle espressioni del più vecchio nostro Statuto è pienamente confermata dagli Statuti di Como della stessa epoca, dove è detto: imprimis statuerunt quod quilibet pristinarius — faciat ipsum panem ad pensam sibi datam per officiales Comunis de Cumis ad hoc constitutos. — Et si quis pristinarius fecerit aliquem panem qui sit minor pensa media unzia solvat cet. — Item statutum est, quod omnes officiales pensatores panis singulis diebus dominicis teneantur sacramento accedere ad superstantes blave Comunis, et apud eum et cum eis quelibet Capitula officialium, scilicet et pro suis quarteriis examinare frumentum et mesturam datam per superstites cuilibet pistori in diebus ipsius hebdomade, et examinare si eis officialibus per quemlibet pistorum de pane frumenti vel mesture fuerit illa ostensa quantitas qua est eis data blava a superstantibus (et que?) exire potuerit secundum pensam pistoribus datam. Et si quem pistorem, facta dicta examinacione, predicti officiales pensatores in ostensione panis, qui de iure potuerit exire de quolibet quantitate blade recepte a superstantibus secundum pensam, ut supra, dolum comisisse vel fraudem invenerit cet. — Item statutum est, quod predictus iudex victualium non permittat aliquem pistorem Cumarum facere panem de imperiali ad vendendum de formento, si formentum valuerit solidis quadragintaquinque vel ab inde infra pro qualibet Soma, sed debeat facere fieri de denariis. Et si voluerit a solidis quadragintaquinque supra, possit facere fieri panem de imperiali cum consilio procuratorum caneve Comunis de Cumis et superstitum mercati (Stat. Novocom. §§ 191, 208, 209 in H. P. M. 16, 1 col. 175, 178). Abbiamo voluto recare questi provvedimenti di una vicina città perchè li crediamo il più chiaro commento alle poche espressioni del nostro Statuto: il modo però complicato, col quale in quel tempo vediamo aver procurato questi municipii di guarentirsi dalle frodi dei fornai, fu reso più semplice dalla introduzione di uno stabile Calmerio. Ciononostante riteniamo, che senz’altro fino dal 1174 fosse già in uso questo meccanismo, o qualche cosa di consimile, se il nostro Statuto più vecchio, senza addentrarsi in minuti particolari, parla senz’altro della pensa e della mensura come di cosa perfettamente nota e già pienamente in uso. Si conferma tutto ciò collo Statuto del 1263 il quale, dove stabilisce le basi del Calmerio, usa la espressione item declaraverunt quod hic retro a longo tempore vitra optentum et observatum est cet. (in Stat. an, 1331, 8 § 34), dal che si vede che anche in un’epoca precedente, in quella appunto che cadeva nel periodo di redazione dello Statuto del 1204-48, esisteva già un Calmerio pei Fornai.
96. Stat. an. 1353, 7 § 45: item quod Calmedrium panis frumenti venalis factum tempore regiminis suprascripti d. Pagani de Bezozero locum habeat et conservetur et non aliud Calmedrium. Pagano da Bizzozzero fu Podestà nel 1340, Ronchetti Memor. Stor. 5 p. 82.
97. G. Villani, Ist. fiorent. 11, 113 sotto l’anno 1340: «Con essa pestilenza seguì la fame e il caro, aggiunta a quella dell’anno passato; che con tutto lo sciemo de’ morti valse lo Staio del grano più di soldi trenta, e più sarebbe assai valuto, se non che ’l comune ne fece provedenza di farne venire di Pelago.» Chron. Estens. in rer. italic. Script. 15, 403 E: «et tunc erat maximum carum omnium bladorum.» Disastroso era stato anche l’anno precedente, come si comprende dal Villani, e più dalla citata Cronaca Estense (a. l. c.), la quale, non solo fa menzione di grandi innondazioni del Po nei mesi di Settembre, Ottobre e Novembre, ma di più aggiunge che «his temporibus maximum miraculum apparuit in Lombardia, quia multae locustae venerunt et apparuerunt, quae devorabant bladas et campanias, et magnae erant sicut vespertiliones.»
98. V. Appendice IV.
99. Lupi 2, 873.
100. Pergam. in Bibl. n. 516; cfr. Lupi 2, 909 (v. sopra Nota 70).
101. Tiraboschi, Vocab. dei dial. bergam. s. v.
102. Lupi 2, 409.
103. Pergam. in Bibl. n. 549.
104. Pergam. in Bibl. n. 579.
105. Pergam. in Bibl. n. 439.
106. Lupi 2, 1209.
107. Pergam. in Bibl. n. 629.
108. Stat. an. 1204-48, 13 § 43. Una numerazione più incompleta, ma non meno importante si trova in un atto di investitura del monastero d’Astino del 1280, fattoci conoscere dal prof. Tiraboschi, dove fra l’altre cose l’investito deve retribuire sextarios septem et minam et unum terzarium frumenti (Pergam. in Bibl. n. 1637).
109. Hultsch, Metrolog. p. 95 Nota 27.
110. Catone, de Re Rust., 95: «postea sumito bituminis Tertiarium et sulfuris Quartarium.» Il Tertiarius era anche misura del vino: Laurent. in Amalth. ap. Du Cange s. v. Quartarium: item Quartarius Congii quartam partem continens; Tertiarium, tertiam. Queste misure, tanto dei liquidi, che degli aridi, andarono perdute, come andò perduto il Rasum di Milano, che intorno al 1130 era così definito: Rasum vini, quae sunt tres partes Sextarii (Berold. in Murat. Ant. med. aev. 4 col. 920).
111. Du Cange s. v. da cui prendiamo alcuni esempi, Chron. abbat. Laurishani p. 179: Mensura potus antea Staupus; Carta ap. Christian, Rer. Mogunt, 2 p. 534: in signum fraternitatis Staupum vini et panem album eidem exhibemus; Cod. Cons mss. Irmin. ab. Sangerman. fol. 34 v.: de sinapi plenum Staupum, dove vediamo lo Staupus impiegato anche per gli aridi; Hincmar. Remens. Opusc. 30: bibit quasi dimidium Staupum de vino. Non vi può essere il menomo dubbio che il nostro Stopellus, colla sua forma diminutiva, non sia derivato da questo Staupus, Stopus.
112. Stat. Placent., 6 fol. 67: quelibet villa habeat unum Starium ad minus et unum Stopellum bullatos bulla Comunis: qui Sestarius et Stopellus sint in custodia Consulis illius ville.
113. Rosa, Statuti di Vertova p. 44.
114. Stat. an. 1331, 8 § 49.
115. Stat. an. 1453, 10 § 50.
116. Lo Stopello, essendo la 24ma parte dello Stajo, viene ad essere la 192ma parte della Soma: ugualmente a Brescia la 192ma parte della Soma era il Coppello ossia Stopello, quantunque effettivamente la Soma non si dividesse in 8 Sestieri, come da noi, sibbene in 12 quarte. (Fedreghini, Piede Stat. di Brescia p. 8). Negli Statuti della Valsolda compilati nel 1246, il coppus è, come il nostro Stopello, la 24ma parte dello Stajo, poichè vi leggiamo: item statutum est quod Potestas dicte Vallis debeat facere equari omnes coppos cuiuslibet molendini dicte Vallis, et quod viginti quatuor coppi faciant Starium unum (Stat. Valissold c. 65 in Barrera, Stor. d. Valsolda p. 582). Questo modo di suddividere lo Staio non è dunque speciale a noi, ma comune ad altri contadi, il che indica che un tempo lo Stopello, o qualunque fosse il suo nome, era una misura effettiva, che entrava in un sistema di suddivisioni dello Stajo, che col tempo andò perdendosi. Quando poi il Cristiani (delle Misure ant. e mod. p. 145) attribuisce il nome di Coppello al nostro Sedecino piglia un errore, perchè quel nome più propriamente adatterebbe allo Stopello. Lo stesso Autore fonda il ragguaglio delle nostre misure di capacità dei grani sulla gravità specifica del frumento (pag. 144 seg.). Quindi, avendo ammesso che il Setier di Parigi, della capacità di quattro Piedi cubici, contenga 280 libbre parigine di acqua (chilogrammi 137,06), ed avendo ammesso che la gravità specifica dell’acqua stia a quella del frumento come 140 a 123 (p. 130, 131 §§ 216, 218), così viene ad attribuire al Sestiere parigino il peso di libbre 246 di frumento. Secondo questo Autore la Carica o Carro nostro da 8 Some dovea avere il valore di 9 7/25 di quei Sestieri (p. 145 § 270) e quindi sarebbe corrisposto a chilogram. 1117,48, la Soma in conseguenza a chilogr. 139,69 di frumento. E siccome si può tenere per assai prossimo al vero che un chilogrammo di acqua comune corrisponda al volume di un litro, così, partendo sempre dal rapporto fra la gravità del frumento e quella dell’acqua, rapporto che servì di base ai calcoli del Cristiani, la Soma avrebbe avuto a un bel circa la capacità di litri 158,99, lo Stajo di litri 19,87, inferiore quindi a quella trovata dalla Commissione del 1801. Allo risultato conduce il calcolo diretto sui Sestieri 9 7/25 da quattro Piedi cubici parigini, corrispondenti ciascuno a litri 137,11. È a dolersi che il Cristiani non abbia dato anche in Pollici cubici parigini il ragguaglio di queste nostre misure di capacità, perchè non ci è concesso accertarci se vi sia errore ne’ suoi calcoli, o nei nostri; riteniamo però che l’inesattezza stia da parte del Cristiani, perchè, attribuendo egli al Carro da 10 Some di Brescia il valore di Sestieri Parigini 11 4/11 (p. 145 § 271), la Soma verrebbe ad essere a un di presso di litri 155,70: allo stesso Carro attribuendo in altro luogo Pollici cubici parigini 78540 (p. 147), avrebbe ancora per la Soma valore approssimativo di litri 155.51, mentre dalla Commissione del 1801 fu trovata di litri 150.62 (Istruz. sui Pesi e Misure p. 118; Malavasi, Metrol. ital. p. 133), quindi inferiore di 5 litri a quella data dal Cristiani in due diversi conteggi. Riducendo il ragguaglio delle nostre misure di capacità dei grani, eseguito dalla Commissione del 1801, in vecchie misure parigine, avremmo per lo Stajo Pollici cubici 1079, per la Soma Pollici cubici 8635, per il Carro Pollici cubici 69078, mentre stando ai calcoli del Cristiani che, attribuendo al Moggio da 12 Sestieri di Parigi Pollici cubici 82944, viene ad attribuire il valore di Pollici cubici 6912 a ciascuno de’ Sestieri, 9 7/25 di questi darebbero pel nostro Carro soltanto Pollici c. 64143, e quindi per la Soma Pollici c. 8018, per lo Stajo Pollici c. 1002. È probabile che il Cristiani per le misure della sua città siasi attenuto a qualche campione non troppo esattamente costrutto, e che per le altre città, compresa la nostra, siasi affidato ad informazioni altrui, d’onde l’errore. Poichè avendo egli attribuito al Boisseau, da lui detto anche Stajo, la capacità di Pollici cubici 576 (p. 147 § 294), che sarebbero litri 11,43, il ragguaglio della nostra Soma dovea rimanere al di sotto del vero, poichè quando in Francia si introdusse il nuovo sistema metrico, per quanto fu dato accertarsene sopra vasi grossolanamente fabbricati, sì trovò che il boisseau avea la capacità di circa litri 13 (Saigey, Métrol. p. 112 seg.), e quindi notevolmente superiore a quella data dal Cristiani. I ragguagli di quest’ultimo dobbiamo adunque accettarli come approssimativi, e non come rigorosamente esatti, poichè danno sempre un valore ora inferiore, ora superiore a quello della Commissione del 1801, V. anche Nota 156.
117. Tavole di Ragguaglio della Rep. Ital. p. 156.
118. È appena necessario avvertire, che quanto abbiamo detto nella Nota 31 sull’epoca della introduzione di questo sistema fra noi non va accettato in via assoluta, ma solo come una probabile interpretazione di una espressione, che potrebbe lasciar campo ad altre spiegazioni, ma che, malgrado le molte eccezioni alle quali potrebbe andare soggetta, in mezzo a tanta incertezza ed oscurità più o men bene si presta anche a questa.
119. Lupi 2, 941.
120. Lupi 2, 508, 511, 513 seg., 647 seg., 655, 697 seg., 701 seg., 795 seg. Per Arnolfo le nostre Tavole cronologiche danno l’anno 1096 come l’ultimo del suo episcopato unicamente perchè d’allora il suo nome più non compare nei nostri documenti, quantunque solo nel 1098 venisse esautorato dal Sinodo milanese. Ma questa questione ha pel nostro argomento una importanza affatto secondaria: piuttosto è da avvertire che, onde il testimonio Pietro Bertane si ricordasse di una circostanza di sì lieve entità, qual era il contributo di due Cogna di vino da parte del vescovado alla chiesa di S. Alessandro, bisogna che avesse vissuto per lo meno negli ultimi 15 o 18 anni del vescovado di Ambrogio, sicchè si potrebbe ritenere che già nel 1039 o 1042 fosse in uso la mensura pergamensis, come alla stessa epoca fosse già stabilito il Sextarius pei grani, poichè non v’è una sola ragione che permetta di credere che l’una riforma andasse scompagnata dall’altra.
121. Lupi 2, 1339.
122. Pergam. in Bibl. n. 445.
123. Pergam. in Bibl. n. 481.
124. Tiraboschi, Stor. della Lett. It., 3 p. 340. La guida principale di Papias, per non dire che delle sole misure, è Isidoro, uno degli scrittori più studiati nel medio evo (Bahr, Stor. della letter. rom. § 401): tuttavia non doveangli essere sconosciute altre tavole metrologiche. A cagion d’esempio, Papias ha: Cyatus unciam retinet et tres (meglio sex) scrupulos: pondus X drachmas appendit: a quibusdum dicitur Cafatus (v. Isidor. Etym. in Metr. Script. 2 p. 116, 12; 140, 17); Acetabulum quarta pars Eminae dictum, quod aceti ferat duas uncias et sex scrupulos (Cfr. Isidor. ibid. p. 116, 16; 140, 17). Isidoro però attribuisce all’Acetabulum il peso di 12 dramme, od una oncia e mezza: il peso invece attribuitogli da Papias sarebbe di dramme 18 od once 2 1/4. Galeno infatti (Metr. Script. 1 p. 239, 16) attribuisce un identico peso all’Acetabulum, ma quando però sia a verificarsi coll’olio, perchè altrimenti col vino, che si riteneva di peso uguale all’aceto (Metrol. Script. p. 241, 5; 250, 21), sarebbe salito a 20 dramme; Emina appendit libram unam, quae geminata Sertarium facit: habet drachmas centum. Anche qui la fonte principale è sempre Isidoro (Metr. Scr. 2. 117, 1; 140, 23). La aggiunta però che la Emina pesasse cento dramme è un puro malinteso di Papias. A ragione di otto dramme per oncia (Carm. de Pond. vv. 9, 14 in Metr. Scr. 2 p. 99) la Emina avrebbe dovuto pesare 96 dramme; ma vi è luogo a sospettare che Papias abbia preso la Mina, misura di peso, per la Emina (corrottamente in questi secoli detta Mina), misura di capacità: infatti in Isidoro troviamo: Mina in ponderibus centum dragmis appenditur et est nomen Graecum (Metr. Ser. 2 p. 115, 1). Da ultimo noteremo che Papias s. v. Sextarium ha: Sextarium duarum est librarum. — Sextarium vini habet libras duas et octo uncias: Sextarium olei habet libras duas: Sextarium mellis habet libras tres. Anche Isidoro ha: Sextarium duarum librarum est (Metr. Ser. 2 p. 117, 3), ma per il resto Papias ha attinto ad altra sorgente, sebbene vi sia evidentemente incorso un errore nel peso del vino rapporto a quello dell’olio e del miele; tuttavia abbiamo voluto notare questi pochi punti per dimostrare che l’antico sistema di verifica delle misure era tutt’altro che sconosciuto all’epoca della quale ora ci occupiamo.
125. Murat., Ant. it. med. aev. 2 col. 822: Anno 1249 Ind. VII die Martis X intrante mense Augusti regnante d. Imperatore Frederico. Hec est ratio qualiter vinum vendi debeat ad minutum. Vinum, quod constat X Solidos Mutinenses Quartarium, debet fieri mensura de XXXIII unciis et una drama. Item mensura vini de XI solidis Mutinensibus, debet esse de triginta uncis et una drama. cet. Nota quod Quartarium vini est in summa CCCXXXIII libras. Questo brano dimostra più cose. E primamente che le misure del vino erano fondate sopra un determinato peso: qui il Quartarium è di 333 libbre. Che questo peso fosse di vino, lo dimostra il rapporto in cui è posto il Quartario stesso colle minori misure che variavano in peso col variare del valore del vino stesso. In secondo luogo si chiariscono perfettamente le espressioni del nostro più vecchio Statuto sulla mensura data vel danda Tabernariis (13, §§ 24, 26; v. sopra Nota 93). Se la variazione nelle minori misure, colle quali smerciavasi il vino al minuto, succedeva nel peso, è indizio evidente che anche le maggiori e stabili misure aveano per base il peso e non altro: in altri termini la mensura agli osti sarà stata data sul valore del Sextarius di vino, ma per quanto questo fosse ridotto ad una misura di capacità, tuttavia si sapeva (o si pretendeva sapere v. sotto § 3) esattamente che, affinchè non fosse falso, dovea contenere appunto una determinata quantità di vino, e, per lo meno entro certi limiti, il campione cittadino avrà risposto a questa condizione. In ultima analisi, il modo identico con cui si dava il Calmerio agli osti e da noi, ed a Modena, indica anche che nello stabilire le misure cittadine i nostri vecchi erano partiti da un identico concetto. A Brescia alla stessa epoca questo Calmerio del vino pare fosse già caduto in dissuetudine, perchè ivi ai venditori di vino al minuto è prescritto che giurino de vendendo et fatiendo vendi vinum bene mensuratum et cum recta et iusta bozola (Stat. Brix. saec. XIII in Hist. P. M. 16, 2 col. 1584, 178), il che indica che alla guarentigia del Calmerio s’era sostituita quella delle misure, il che da noi non avvenne che in un’epoca posteriore (v. Nota 95).
126. Catone, R. R. 58: Oleum dato in mensem unicuique Sextarium unum; Liv. 25, 2: et congii olei in vicos singulos dati L e così di seguito.
127. Hultsch, Metrol. p. 86, 93 seg.; Proleg. in Script. Metrol. 1 p. 79 seg.
128. Hist. Patr. Mon. 13 col. 18 a.
129. Hist. P. M. 13 col. 108 a.
130. Lupi 1. 673.
131. La mancanza del peso o della misura dell’olio è indicata nel Lupi (2. 571) da alcuni punti: videlicet... de oleo pro fisco seu pro servicio annuatim abere possit.
132. Lupi 2. 751.
133. Stat. an. 1204-48, 14 § 10. Nel 1128 l’olio a Genova si misurava: phialam unam olei (Hist. P. M. 7 col. 34): nel 1135: et papiensi ecclesie barile unum olei in pasca (ibid. col. 49). Negli Statuti di Brescia del secolo decimoterzo è nominata una speciale misura di capacità per l’olio, detta bazeta olei (Hist, P. Mon. 16, 2 col. 1584. 119) e così anche negli Statuti del 1313 (2 § 272, ibid. col. 1721), nei quali anche troviamo: accipiantur — de modio olei IIII soldi imper. (2 § 254, ibid. col. 1716 seg.); item statuunt correctores quod modius olei extimetur de tempore preterito XL soldi imper. (3 § 100, ibid. col. 1747; 3 § 181, ibid. col. 1766).
134. Pergam. in Bibl. n. 432, Riportiamo quasi per intero questo inedito documento perchè è la base delle nostre ricerche sulle misure del vino in questi secoli: Die quintodecimo exeunte Marcio millesimo trecentesimo quarto ind. secunda sub. palacio Comunis Pergami. — Ibi frater Finettus de Mocho — fuit confessus ad postulacionem Venturini fil. quondam Villelmi de Manduca civit. Pergami quod ipse Venturinus eidem fratri Finetto dederat et solverat Minam unam oley linose legate et relicte ipsi hospitali (s. Lazari) occasione illuminandi infirmos et infirmas ut continetur in testamento d. Verdelli Villani rogatum per Guillelmum de Almine not. die Veneris duodecimo intrante Marcio millesimo ducentesimo vigesimo septimo — per judicerium seu prastationem ipsius judicerii anno currente millesimo trecentesimo tercio cuius fuit terminus in s. Martino prox. preterito. La casa gravata da questo canone era posta entro la città, nel luogo detto Sub Plazzis, cioè in contrada S. Giacomo.
135. I due rotoli n. 391, 432 in Bibl. portano alcune di queste quitanze scritte le une di seguito alle altre. Essi andrebbero uniti, il che si potrà fare quando a quei cataloghi di Pergamene si potrà dare una più razionale disposizione, il che fu impossibile a farsi prima pel disordine con cui quei documenti pervennero alla Civica Biblioteca.
136. Tutti gli olii vegetali hanno una densità inferiore a quella dell’acqua (Selmi, Encicl. chim. 8 p. 297), e sarebbe certamente un far torto ai nostri maggiori il pensare che non si sieno accorti di questo fatto, che la esperienza quotidiana poteva porre ad ogni momento sotto i loro occhi. La densità varia col variare della temperatura: noteremo soltanto che a 12 gradi C. quella dell’olio di lino è di 0,939 e quella dell’olio d’olivo è di 0,919. D’altra parte gli esempi che abbiamo estratti da Papias dimostrano che a quell’epoca si conoscevano i risultati dell’esperienza grecoromana su questo argomento (v. Nota 124): che anzi, se ciò che questo autore scrive rispetto al Sextarius fu estratto esattamente da qualche Tavola metrologica in quel tempo relativamente abbastanza diffusa, sarà forse stato sufficiente ad indurre nell’opinione che il rapporto fra il peso del vino (o che è quasi lo stesso dell’acqua distillata) all’olio fosse come 32:24, ovvero 100:75, il che a niun conto potrebbesi ammettere: ma che ad ogni modo serve a dimostrare, non solo che in quel tempo aveano mezzo di conoscere la differenza di peso fra il vino e l’olio, ma che erano sì persuasi di questo, che non s’accorgevano quando all’olio veniva attribuito un peso di gran lunga inferiore a quello che avea effettivamente.
137. Questo veramente non è detto nello Statuto del 1331, che troppo seccamente espone la base delle riformate misure del vino, ma sibbene in quello del 1353 (8, § 11) ove si legge: Et propterea non est habitus (respectus) ad pondus seu mensuram vini quoniam vinum seu vina sunt diversa ponderis (unum ab) altero. Le intercalazioni qui fatte sono giustificate e dal senso e dagli altri Statuti. Si vegga la stessa opinione espressa nel Carmen de Ponderibus, il cui brano è recato alla Nota 19.
138. Pergam. in Bibl. n. 1185 (Schede Tiraboschi).
139. Pergam. in Bibl. n. 2036 (Schede Tiraboschi).
140. Pergam. in Bibl. n. 1346 (Schede Tiraboschi).
141. Ronchetti, Mem. stor. 4 p. 130 seg.
142. Stat. an. 1204-48, 13 § 31; Stat. 1331, 8 § 47.
143. Questo fatto è dimostrato pure dagli Statuti Comaschi. In quelli del secolo decimoterzo (2 § 397 in Hist. P. Mon. 16, 1 col. 235) a chi non si assoggetti a certe condizioni nel condurre il vino per il lago è comminata la pena di sessanta soldi nuovi pro quolibet Congio e la perdita del vino: in quelli del secolo seguente si dice che il Congio conteneva sei staja (ibid. col. 357), ma appunto il vaso della capacità del Congio era detto Brenta in qua sunt punctata Staria sex (ibid. col. 354). Negli Statuti di Valsolda del 1246 è prescritto quod quelibet vicinantia diete Vallis debeat habere brentam unam et quartarium unum que sint equata ad mensuram comunem Comunis dicte Vallis (c. 84 in Barrera, Stor. della Valsolda p. 385), e qui si tratta del vaso con cui si misurava il vino, ma la quantità di vino contenuta in quel vaso era detta Congius, perchè poco dopo è detto (c. 87 pag. 386): item statutum est quod illud vinum quod dare debent in festo Pasche resurrectionis Christi — pro vinea de sancto Mamete — ad ecclesiam s. Mametis — est et esse debet Contium unum quolibet anno. Il processo di trasformazione di questi nomi avvenne uniformemente in tutti questi contadi. Il vaso col quale si determinava la capacità del Congius era volgarmente chiamato Brenta: per alcun tempo la distinzione si mantenne e nella legislazione e nella consuetudine, perchè con un nome si indicò una data quantità di staja di vino, coll’altro il vaso che conteneva quel vino, ma poi, come era naturale, il nome popolare prevalse, e con quello di Brenta si indicò e il vaso e la quantità del vino in esso contenuta.
144. Questo lo udimmo asserire da alcuni abitanti di quei luoghi senza che neppure ne fossero interpellati: il che accresce forza alla loro dichiarazione.
145. Tiraboschi, Vocab. dei dialetti Berg. s. v. Forse a quest’epoca si diceva cavalata. V. Nota 146.
146. Stat. an. 1453, 3 § 124: quod quelibet persona que vendet sablonum ad cavalatam teneatur dare ad computum pensium sedecim sabloni pro qualibet cavalata. Forse quello che noi chiamiamo ora Cavallo di vino ne’ secoli andati si chiamava Cavalata, o Caballata. In una carta del 1234 (Bibl. Sebus. p. 51 ap. Du Cange s. v.) abbiamo: ego Rodulphus de Thoria pro remedio anime mee — concessi una caballatam vini puri.
147. Stat. an. 1204-48, 14 § 14: Statuimus quod quilibet vendens vinum ad minutum debeat dare Comuni Pergami solidos duos imper. de quolibet carro vini quod vendiderit.
148. Stat. Datior. Berg. fol. 37 r.: vinum quod esset valloris librarum quinque vel abinde infra soldos tres imper. pro quolibet carro intelligendo carrum quo ad solutionem suprascripti datii Brentas sex. — Solvat soldos quatuor imper. pro quolibet plaustro seu carro. fol. 37 v.: item quod carrum vini intelligatur sex Brentarum ad Brentam Comunis Pergami.
149. Il nostro amico prof. Tiraboschi ci comunica il seguente brano del Regolamento de’ Corpi e dell’Economico della Comunità di Clusone, stampato a Bergamo nel 1793 ove si legge: «Per togliere qualunque mala interpretazione sopra la misura del vino così bianco come nero, dovranno considerarsi sempre li Carrari il carico di tre Cavalli di vino, e il Cavallo per Cavallo.» Qui per Carraro s’intende una di quelle Botti, dette ancora Carér, che servono pel trasporto del vino, e le quali, al contrario dell’altre usate a conservare il vino nelle cantine, hanno un fondo piano col quale poggiano sul carro, evitando così i pericoli di trabalzamenti e di scosse. Il suo nome deriva evidentemente dal Carro (Car) ed in origine dovea essere un aggettivo passato poi a sostantivo con senso assoluto, e si connetteva precisamente colla contenenza che doveano avere queste botti, cioè di sei Brente od 1 Carro di vino. Il Regolamento di Clusone non definisce veramente il valore del Carro di vino, perchè questo era già stabilito da una secolare consuetudine, ma siccome, a quello che si vede, allora, come ora, si chiamava Carér ogni botte che avesse la speciale forma precitata, così credette bene stabilire, che per Carraro intendeva unicamente quel vaso che, coerentemente al suo nome, contenesse un Carro o tre Cavalli di vino, equivalenti a 6 Brente. Dai Milanesi queste botti chiamansi Bonze (Istruzione sui Pesi e Mis. della Rep. Cisal. (Oriani), p. 69 seg.). Se poi, quando i nostri Statuti parlano del Carro, si debba intendere unicamente una misura di conto, o se esiste anche un recipiente di quella capacità, come lo troviamo ne’ secoli posteriori, è cosa che non possiamo affermare con qualche sicurezza. Siccome però qui appiedi delle Alpi la costruzione de’ vasi di legno per contenervi il vino risale all’epoca romana (Plin. Nat. Hist. 14, 27: Circa Alpes ligneis vasis (vinum) condunt, circulisque cingunt), e siccome sappiamo che verso la metà del nono secolo i vasi vinarii qui da noi aveano forma identica agli attuali (Andr. Presb. Chron. in Lupi Cod. Dipl. 1, 790: et vinum intra vascula glaciavit, ut etiam per foramen spinarum nihil exiret.), così non è a credersi, che solo in questi ultimi secoli si fosse pensato dare a questi vasi una forma sì adatta pel trasporto del vino su carri. Poteva il Carro restare una misura di conto risultante dalla effettiva di 6 Brente, ma nulla esclude che anche in pari tempo esistesse un vaso di quella contenenza.
150. V. sopra Note 145, 146 dalle quali pare non possa rimaner dubbio che la misura del Cavallo o Caballata non potesse esser in uso anche a quest’epoca. Sebbene non ne abbiamo documenti, non è tuttavia improbabile che il cavallo di vino possa esser stato chiamato anche Soma. Il peso ad esso attribuito, che viene ad essere di 16 Pesi, ed il nome stesso di questa misura (v. sopra Nota 50) ce ne offre qualche indizio. Accresce probabilità a questa supposizione il fatto, che ancora in alcune città della Romagna, come, a cagion d’esempio Ancona, Ascoli, Rimini, Castelfidardo, Faenza (Malavasi, Metrol. ital. p. 129, 130, 135, 139, 155), la maggior misura del vino si chiama tuttodì Soma: nè mancano esempi medievali che confermino questo fatto. Ughelli, Ital. sacr. 7 p. 1321: debet octo Salmas vini; Fontanini, Hort. illustr. Append. p. 404: duas Salmas musti mundi; Falc. Benev. ad an. 1124: Tanta fuit fertilitas vini quod — centum Saume pro triginta denariis vendebantur; Nov. Gall. christ. 2 col. 323: unam Saumam vini ad Missas cantandas; Fontan. Hort. illustr., Append. p. 406: item petit ut compellatis dictum episcopum ad restitutionem. viginti Saumarum vini; Chron. Estens. in Murat. rer. italic. Script. 15 col. 468: largitus est Sommam unam vini in duabus lagenis. Noi crediamo, che, se in alcuno dei documenti nostri di quest’epoca avessimo a trovare indicata la Soma del vino, si debba senz’altro ritenere che si tratti del peso di 2 Congi o Brente, ossia di un Cavallo di vino.
151. Ad esempio in Stat. Brix. (Hist. P. M. 16, 2 col. 1584, 178): quod nulla persona possit vel debeat vendere — vinum ad minutum nisi primo — iuraverit — de vendendo et fatiendo vendi vinum bene mensuratum et cum recta et iusta bozola. Questo nome si trova usato anche negli Statuti di Vicenza, lib. 3. V. Du Cange s. v.
152. Il Tiraboschi nel suo Vocabolario dei dialetti Berg. la voce Stopa volge con ubbriachezza: pone a confronto il toscano Stoppa e l’inglese tope trincare. Ma nella nostra espressione dialettale che, tradotta letteralmente, suonerebbe: averne adosso una Stopa, averne in corpo una Stopa, si include già l’idea di misura, e questo si rafferma con esempi medievali, in cui Staupus, Stopus e Stopa hanno il significato di coppa, tazza da bere il vino e in pari tempo misura dei liquidi (Du Cange ss. vv.), Ludewig, Reliq. mss. 1 p. 354: nos Gevehardus nobilis de Quermode — donavimus et donamus domino abbati et conventui Monasterii in Eylverstorph tynam musti XVIII Stopas capientem; Buschius, de Reform. Monast. 3, c. 44 p. 945: singuli capsam cum speciebus confectis et Stopam vini pretiosi ei propinantes. Da altri esempi poi (v. Nota 111) si vede che in generale lo Staupus era un vaso da bere, e che quindi non dovea essere di una grande capacità. Christian. Rer. Mogunt. 2 p. 534, in signum fraternitatis Staupum vini et panem album eidem exhibemus, prebendale unius diei vel duorum, Tract. de Convers. Boior. vel Carent.: Servis autem Staupis deauratis propinare jussit; Christ. Rer. Mogunt. 2 p. 668, item quolibet die anni tocius Staupum vini; Consuet. Eccl. Colon., quando dyaconi et sacerdotes minuunt sanguinem, tunc unus Stopus vini melioris datur unicuique.
153. La maggior parte dei vini più conosciuti ha un peso inferiore a quello dell’acqua distillata (v. un piccolo prospetto in Malavasi, Metrol. ital. p. 408), altri sono superiori, ma devesi tenere quasi come una eccezione, a cagion d’esempio, lo Scandianese bianco il cui peso specifico giunge ad 1,0673 (Malavasi, a. l. c.) Nel determinare il volume delle nostre misure dei liquidi dal secolo XI alla seconda metà del XIII abbiamo seguito il metodo usato da Hultsch (Metrol. p. 98 seg.) per determinare la capacità delle misure romane come l’unico che possa dare i risultati più prossimi al vero.
154. Bianchi, Geol. ital. in Somerville, Geogr. Fisic. 2 p. 469, 470, 473 della vers. ital. dà la temperatura media di Milano in 12,81 gradi C., aggiungendo che un po’ maggiore è a Brescia ed a Verona. Siccome la nostra città non può scostarsi di molto dalle condizioni climatologiche della vicina Brescia, così crediamo che il calcolo di 13 gradi C. ci dia una media pienamente accettabile anche per l’epoca della quale ora ci occupiamo.
155. Hällström, che profondamente e con accuratezza studiò la legge di dilatazione dell’acqua da 0 a 30 gradi centigradi, ne porge altresì una Tavola nella quale grado per grado è segnato questo accrescimento di volume: essa è data da Pouillet, Élémens de Physique, 1 p. 288, e fu riprodotta con alcune correzioni dal Belli, Corso di Fisica, 2 p. 248 § 623. Il Despretz ha riveduto gli studi precedenti: ha verificato che si commette un errore incalcolabile prendendo l’acqua a 4 gradi C. come al suo massimo di densità (Annales de Chimie et de Physique, 63 p. 296; 70 p. 5), ed ha costrutto al pari di Hällström una tavola di dilatazione dell’acqua a diverse temperature. Nel nostro ragguaglio ci siamo attenuti ai risultati di Despretz che attribuiscono al litro d’acqua distillata a 13 gradi C. il volume di 1,00059.
156. Tavole di Ragguaglio della Rep. Ital. p. 272. V. Appendice I. Noteremo qui soltanto a conferma di questo ragguaglio, che la nostra libbra grossa essendo formata da libbre sottili 2 1/2, le quali derivano dall’antica libbra romana, quando questa avesse mantenuto esattamente il peso normale corrispondente a grammi 327,453, quella pure avrebbe dovuto risultare di grammi 818,6325. La differenza non è grande quando si pensi quanti secoli abbia dovuto attraversare questo nostro peso: anzi possiamo dire che rappresenti ancora fin nelle più minute frazioni il valore della libbra nella decadenza dell’Impero romano. Infatti, per fare questo computo sui pesi citati in Nota 26, quelli di serpentino del Museo di Napoli ci avrebbero dato una libbra grossa di grammi 821,25, gr. 815, gr. 814,5, gr. 808; quelli di Cuenca in Spagna gram. 813,5 e gram. 812,65; la libbra dell’epoca di Teodosio gram. 810 e quella dell’epoca di Giustiniano gram. 808,775. Questi sono i limiti estremi entro i quali sta la nostra libbra grossa, e conseguentemente la sottile, che ne è il fondamento, e i quali confermano pienamente quel ragguaglio. Quando poi il Cristiani (delle. Misure ant. e mod. p. 119) attribuisce alla nostra libbra piccola Grani parig. 5685, ed alla grossa Grani parig. 14212, o prese errore ne’ suoi computi, o ricevette men che schiette informazioni, perchè all’una verrebbe ad attribuire grammi 301,96, all’altra grammi 754,89: il che non può stare, perchè il ragguaglio della Commissione del 1801Fonte/commento: Pagina:Sextarius Pergami saggio di ricerche metrologiche.djvu/256 è troppo vicino a quello del Cristiani per credere che nel periodo di circa 40 anni i nostri pesi abbiano subita questa sì notevole alterazione. Quindi si dovrà ammettere per la libbra sottile il peso di Grani parig. 6121, e per la grossa di Grani parig. 15303. V. anche Nota 116.
157. Selmi, Encicl. chim. 8 p. 322 seg.
158. Stat. an. 1331, 8 § 48.
159. Lo Statuto qui ha trium invece di octo, e questo errore è comune a tutti gli Statuti fino a quello del 1422, nel quale sta scritto trium, corretto poi in octo. Non fa bisogno tuttavia di dimostrare, non solo che una Marca da tre once non ha mai esistito, nè da noi, nè altrove, ma anche che, onde 364 once formassero Marche 45 1/2 (e lo stesso si dica per tutte le altre misure) era necessario che la Marca fosse di 8 once. Lo Statuto del 1453 (1 § 191) ha giustamente octo.
160. Abbiamo dato il brano quale si trova nello Statuto del 1391 (1 § 67 fol. 14 r.), perchè in quello del 1353 si trovano alcune varianti, una delle quali assai essenziale. In esso si legge (8 § 11): item quod sedecim Bozzole seu sedecim Claudi dicte aque (Vazeni) eciam cuiuslibet aque faciunt et sunt unum Quartarium. Lo Statuto del 1353 in generale (quale ora lo possediamo in un unico testo) è pieno di scorrezioni (v. sopra Nota 137), per cui è difficile a definirsi se l’aggiunta, eciam cuiuslibet aque, sia, per così esprimerci, officiale, o se invece non sia che una semplice chiosa passata nel testo di questo esemplare. Questa sembra la cosa più certa, perchè quella osservazione sarebbe in contraddizione con tutto il resto dell’ordinanza, dove non si parla ancora che di acqua del Vasine. Il silenzio di tutti gli Statuti posteriori viene in conferma di questa induzione. Tuttavia si comprende che s’era introdotto l’uso di verificare le misure anche con altra acqua, che non fosse quella del Vasine, perchè in effetto era quasi impossibile che, coi mezzi impiegati in quel tempo, si trovasse una appariscente differenza di peso fra le acque della nostra città. E questo si conferma con altri argomenti. Lo Statuto del 1353, ora posseduto dalla Civica Biblioteca, fu trascritto nel secolo decimoquinto: ora si vede che in questo secolo la prescrizione dello Statuto sull’impiego dell’acqua del Vasine per la verifica delle misure dovea essere poco meno che lettera morta. Infatti nello Statuto dei Dazii del 1431 è ordinato che il Claudus sit mensure solum onziarum viginti et quartorum trium (Stat. Dat. fol. 38 v.), ma non si aggiunge punto se questo peso sia in acqua, od in vino, e meno ancora fra le acque quale debba essere la prescelta. Ma questo non basta: nello Statuto del 1493 troviamo espressamente ordinato (7 c. 135) quod iustificantes praedictas mensuras teneantur eas justificare cum dicta aqua Vazeni pura, et non cum alia aqua, dal che si vede che, malgrado l’insistenza della legislazione su questo punto, era omai entrata l’abitudine di lasciar da parte l’acqua del Vasine in siffatta operazione, appigliandosi a qualunque altra: la chiosa introdotta nello Statuto del 1353 riceve da questi fatti una piena conferma. Dobbiamo notare inoltre che in questo Statuto era stata ommessa la osservazione et propterea non est habitum (respectus) ad pondus cet. certo per dimenticanza del copista, poichè l’aggiunta sembra della stessa mano, sebbene l’inchiostro sia più chiaro e il carattere più minuto. Altra inesattezza propria di questo Statuto è quella di attribuire alla Brenta il peso di once II centum octuaginta quatuor invece di II mille centum octuaginta quatuor, come d’altra parte è comune a tutti gli Statuti l’errore troppo evidente di far corrispondere queste once a Marche 263, anzichè a Marche 273.
161. Lo Statuto del 1331 determina in 64 Bozzole la contenenza del Sextarius, in 32 quella della Mina, in 16 quella del Quartarius: la Bozzola poi deve avere il peso di once dell’argento 22 3/4, o, che è lo stesso, di marchi 2 once 6 3/4. Ora il 22 3/4 moltiplicato per 64, 32, 16 dà appunto 182, 91, 45 1/2 Marchi da 8 once; la Brenta poi, che comprende 96 Bozzole, contiene esattamente in peso once 2184 o marchi 273, il che torna a dire che gli Statuti posteriori a quello del 1331 ripetono sotto altri termini ciò che era già stato detto in quello Statuto.
162. Moys. Pergam. vv. 245 seg. Mosè del Brolo narra, naturalmente a suo modo, come i Galli raccogliessero quest’acqua, e la conducessero a sboccare nel luogo che si vede tuttodì (ibid. vv. 205-262). Ivi era un vasto bacino ove gli abitanti dei contorni andavano ad attingerla con brevi corde e coi loro secchi: questo bacino restava coperto dalle mura cittadine, che qui erano fatte ad arco (v. le mie Indicaz. sulla Topogr. di Berg. p. 93 seg.). Ancora nel secolo seguente l’aspetto di questo nostro fonte non dovea essere mutato, poichè lo Statuto del 1204-48 (10 § 11) dispone che sulla fronte di esso sia messa una cancellata (sprangata, così venivasi a chiudere un arco della mura cittadina) con porta a chiave, più sieno posti in opera quattro verricelli (curli) con altrettante secchie (situle), probabilmente di rame, per attingere l’acqua. Identiche ordinanze erano fatte anche pel vicino fonte del Lantro (ibid. § 16), ma questi bacini così aperti erano esposti certamente agli sconci dispetti di ogni malnato. È bensì vero che si voleva che il custode di questo fonte fosse della stessa contrada del Vasine: che il cancello si chiudesse la sera e non si aprisse che al mattino: che ivi non si lavassero panni e che fino alla distanza di un Cavezzo (Metri 2,627) non si ponessero immondezze (ibid. § 11): ma già fino dai tempi Mosè del Brolo mandre di pecore e di veloci destrieri fuggivano le correnti acque per dissetarsi a questo fonte (Moys. vv. 229 seg.): e non era certo con tal mezzo che potessero venir conservate limpide e pure queste tanto decantate acque. Quando abolisse l’incommodo e non sempre conveniente sistema dei secchi del Comune: quando venissero chiusi questi bacini e provveduti di una bocchetta a chiave, è fatto sì piccolo nella vita di una città, che è già molto se noi possiamo con tutta sicurezza stabilire che ciò sia avvenuto sul principiare del decimoquarto secolo, che anzi, da una frase dello Statuto del 1331, appare che intorno a quest’anno si mandasse ad effetto una così utile innovazione. Un primo indizio di questo fatto sta in ciò, che quello Statuto non ripete più la ordinanza, nè riguardo ai verricelli, nè riguardo alle secchie, alla cancellata e così via: che lascia già supporre un cambiamento nel modo di estrazione dell’acqua da questi serbatoi. In secondo luogo vi hanno queste dirette testimonianze; Stat. cit. 15 § 32: quod nulla persona rumpat vel guastet seu deterioret aliquo modo aliquem ex ipsis fontibus neque aliquod guastum vasum caniculum vel aqueductum vel bochetas vel aliqua instrumenta vel utensilia ipsorum fontium; § 39: item statutum et ordinatum fuit quod postquam fuerint conzate fontes civitatis Pergami et bochete que ordinate fuerunt debere fieri et conzari pro Comuni Pergami et ad expensas Comunis Pergami designentur ipsi fontes et bochete consulibus Civitatis et Suburbiorum Pergami in quibus sunt ipsi fontes. Et quod ipsi Vicini debeant ipsos fontes seu ipsas bochetas perpetuo tenere et manutenere suis expensis. La bocchetta, com’è naturale, perchè desse sempre acqua dovea essere portata a livello, o quasi, del fondo del bacino; ed ecco quindi che la discesa al luogo, ove ora si cava l’acqua del Vasine sotto un arco dell’antica mura cittadina, deve risalire al 1331, cioè all’epoca in cui furono introdotte le bocchette a chiave ed in cui fu abolito l’uso di attinger l’acqua direttamente colle secchie del Comune. Non abbiamo creduto fuor di proposito l’indugiarci alquanto su questo nostro fonte, che ha tanta parte nella nostra legislazione, come nelle nostre tradizioni.
163. Infatti, se in due vasi di identica capacità ad un peso, supponiamo, di 100 di acqua del Vasine si faceva corrispondere il peso di 133 di altr’acqua, o bisogna supporre che per far risaltare l’eccellenza di quella si ponessero a confronto acque al tutto diverse certamente da quelle, che con tanta cura erano state condotte entro la città dai nostri avi, o bisogna supporre che il nostro poeta abbia lasciato libero il freno alla sua fantasia, punto preoccupato delle incongruenze alle quali andava incontro l’entusiastico suo racconto. Queste asserzioni però servono a spiegare chiaramente perchè, circa due secoli dopo, siasi presa l’acqua del Vasine come base delle nostre misure di capacità del vino.
164. Stat. an. 1353, 8 § 11; Stat. an. 1391, 1 § 67, fol. 14 r. ecc.
165. Stat. Datior. fol. 58 v.: quod vinum, acetum vel stalathia intelligatur esse venditum vel vendita ad minutum cum fuerit ad Claudum et Claudinum vel etiam ad maiorem mensuram tenentem usque ad Claudos septem. Le identiche misure servivano adunque pel vino, per l’aceto e per la Stalathia, che non sappiamo che fosse.
166. Stat. an. 1331, 8 § 48 e così tutti i posteriori Statuti.
167. Questo Statuto chiama già Statutum vetus (8 § 34) quello del 1263, sibbene non fosse compilato più di sessant’otto anni innanzi, per cui si vede che anche l’arrecata espressione con molta verisimiglianza non può rimandarci ad una grande distanza di tempo. E si deve ascrivere alla più decisiva ingerenza che la città esercitava sul contado, e non all’essersi soltanto allora introdotte le nuove misure, negli Statuti di Vertova del 1308 è prescritto che il giorno di S. Giovanni si faccia giurare ogni uomo che non comprerà vino se non misurato sulla misura di Bergamo (Rosa, Stat. di Vert. p. 46). Ciò è tanto vero, che solo cinque anni prima era ordinato che non si comprasse biada o vendesse fieno se non alla misura del Comune (Rosa, o. c. p. 45).
168. Se lo Statuto del 1331 avesse tolto questi suoi dati sul peso d’acqua delle nostre misure di capacità da uno Statuto antecedente, p. e. da quello del 1263, non l’avrebbe taciuto, come non lo tace in altre circostanze, p. e. 2 § 52; 8 § 34 ecc.
169. V. le mie Indicaz. sulla Top. di Berg. p. 141. Si aggiunga che nel secolo decimoquinto le verificazioni non si facevano quasi più neppure coll’acqua del Vasine (v. Nota 160), e quest’uso sarà andato prevalendo, malgrado la legislazione tentasse di porvi un argine.
170. Vi sono altre avvertenze da fare. Poteva darsi che nella verifica delle misure e persino dello stesso campione municipale, il peso venisse raggiunto mediante il colmo dell’acqua, il quale per quanto insensibile o inavvertito, nullameno è sufficiente, quando si voglia entrare in minutissimo calcolo, a non dare più l’esatto rapporto fra peso e volume. Lo Statuto infatti prescriveva (Stat. an. 1353, 8 § 11): et mensura vini debet esse secundum quod est et ascendit in plenitudine vasorum et impleret et ascenderet aqua Vazeni ad predictas mensuras et pondera. Una delle condizioni perchè succeda il colmo è che il vaso sia bene orizzontato (Belli, Corso di Fis. 1 p. 166 § 255), e questa condizione si sarà sempre procurato di ottenerla nella verifica delle misure di capacità dei liquidi, come in tutti i casi la si richiedeva anche per le misure degli aridi (ipsis mensuris stantibus planis, Stat. an 1204-48, 13 § 43); l’altra delle condizioni, e non meno essenziale, è che gli orli del vaso sieno, per quanto possibile, asciutti (Belli, a. l. c.; Daguin, Traité de Phys. 1 p. 202), e non parci fuor di luogo l’ammettere che anche questa si sarà verificata nel maggior numero dei casi. Ora è provato che il colmo può innalzarsi fino al sessantesimo del totale per l’acqua misurata nel litro di stagno (Martines, Metrol. p. 119). Non vogliamo dire che tutte le volte si sarà raggiunto l’esatto peso mediante il colmo, ma sibbene, che, quando si verificava un’ampia misura come il nostro Sextarius, un colmo, per quanto impercettibile, non avrebbe potuto a meno di recare delle differenze, per cui, quando si ricerchi un esatto ragguaglio non basti solo affidarsi al peso dell’acqua, ma sia necessario procedere alla misura del vaso mediante le regole geometriche: questo fu possibile alla Commissione del 1801 (Tav. di Ragg. della Rep. Ital. p. IV; Istruzione sui nuovi Pesi ecc. (Oriani), p. 68 seg.), la quale procedette nel suo lavoro con questo doppio metodo. Per evitare la influenza del colmo, colla introduzione del sistema metrico si dovette prescrivere che le misure dei liquidi avessero un’altezza doppia del diametro (Istruz. cit. p. 62): e questa prescrizione fu mantenuta anche da noi (Regol. 13 Ottobr. 1861 N. 320 art. 44), è la ragione sta in quanto abbiamo già detto riguardo alle misure della calco nella Nota 94. Quando in Francia si introdusse il nuovo sistema di misure, si trovò che il boisseau valeva litri 13,008: ma questo non fu che un ragguaglio poco più che approssimativo, perchè dovette eseguirsi sopra vasi assai rozzamente costrutti (Saigey, Métrol. p. 113; Martines, Metrol. p. 81). Abbiamo già parlato della influenza che ha la temperatura sul maggiore o minore volume dei corpi (Nota 155); basti dire che, secondo le Tavole di Despretz, alla nostra temperatura media di 13 gradi C. un vaso, che contenesse 100 litri di acqua distillata alla massima densità, dovrebbe aver aumentata di più che mezzo litro la sua capacità perchè potesse contenere la stessa quantità di acqua. Le stesse misure andavano soggette a continue alterazioni all’insaputa di coloro stessi che le usavano. L’Oriani assicura che due o tre campioni di una stessa misura rare volte si trovarono fra loro perfettamente uguali, benchè tutti fossero autenticati col pubblico Bollo (Istruz. sui Pesi e Misure p. 92 seg.). La Mina modenese, unità fondamentale delle misure di capacità degli aridi, dovea avere forma cilindrica ed il diametro uguale all’altezza, cioè di otto once del braccio lineare, ma coll’andare dei secoli rimase sì alterata, che da essa non saprebbesi ritrarre l’antica misura lineare, come colle misure lineari attuali (sebbene non risulti che state in alcuna guisa modificate) non saprebbesi ricostituire l’antica Mina (Malavasi, Metrol. p. 270, 372, 376). L’Oriani poi nota (Istruzione cit. p. 83), che molte volte gli è accaduto di trovare discordanza fra le grandi e le piccole misure di una stessa città. A cagion d’esempio, a Bologna si riteneva generalmente che il Boccale contenesse 40 once, ossia libbre 3 1/3 di acqua; ma il quarto della Corba di vino, ossia la Quarterola composta di 15 Boccali, invece di pesare 50 libbre bolognesi, si trovò che pesava un poco più di 54, e la Commissione ragionevolmente si attenne a quest’ultimo risultato per ricavare il valore della Corba. Le bilance grossolanamente fabbricate: i campioni dei pesi, che difficilmente saranno stati costruiti con quella uniforme precisione e conservati con quella attentissima cura, che sole possono renderli atti alle più sottili esigenze della scienza, sono tutte cause che avranno portato delle differenze da campione a campione, per quanto leggerissime si vogliano immaginare. Nella impossibilità nella quale ci trovammo di avere anche solo in via approssimativa almeno il peso specifico dell’acqua del Vasine, crediamo tuttavia che il ragguaglio da noi dato qui sotto si abbia a ritenere come il più prossimo al vero.
171. Saigey (Métrol. p. 23) partì dallo stesso principio nel determinare il peso del talento mediante la capacità del bath degli Ebrei (v. sotto Nota 173).
172. Esattamente lo Stajo del frumento dovrebbe contenere marchi 90 once 0 denari 20 grani 18,065 di acqua distillata: ma possiamo agevolmente ammettere che, trattandosi di acqua comune, il peso sarà stato di alcun poco maggiore.
173. Se poniamo mente ai valori da noi trovati per il Congius del secolo undecimo e per la Brenta dello Statuto del 1331 (Tavola II A, D), vediamo che la differenza di volume fra queste due misure si riduce a ben poca cosa, e che quello supera questa di una quantità inferiore al litro, cioè di litri 0.910. Anche prendendo il semplice peso come un valore assoluto, prescindendo dai liquidi impiegati per la verifica, ma tenendo la sola acqua distillata alle note condizioni di temperatura e di pressione atmosferica, il Congius avrebbe dovuto pesare chilogrammi 65,026, la Brenta chilogrammi 64,154: la differenza si ridurrebbe ancora a chilogrammi 0,872, e quindi inferiore di una quantità inapprezzabile alla differenza tra i volumi: il che conferma anche il metodo da noi seguito per ottenere i valori approssimativi di queste nostre misure (v. sopra §§ 3, 5). La circostanza di questa esigua differenza fra il Congius e la Brenta va notata, perchè è quella che ci spiega, come le misure del secolo undecimo ancora nel 1430 venissero dalla legislazione tollerate di fianco a quelle stabilite sulla fine del secolo decimoterzo (v. sotto § 7): nelle parti più riposte del nostro territorio sopravissero fino ad oggidì (v. sopra Nota 144).
174. Stat. an. 1353, 7 §§ 10, 11; Stat. an. 1391, 1 §§ 66, 67 fol. 14 r.; Stat. an. 1422, 1 §§ 71, 72.
175. Stat. an. 1430 collat. 1 fol. 25 v. Il Codice unico di questo Statuto ha la lezione per aliquod contentum in suprascriptis Statutis. Abbiamo creduto di poterla completare a tutta ragione, perchè più chiara, con tre codici dello Statuto del 1453, il primo dei quali in quei Cataloghi porta erroneamente la data del 1468 (Gabin. Δ fil. VIII. 10) perchè fu finito di trascrivere in quest’anno, il secondo ha la posizione Sala Iª D Fil. 11; il terzo porta la generale indicazione di Statuto del secolo XV° (Sala Iª D Fil. v. 9), sebbene esso pure non sia che una copia di quello del 1453. Parci non sia bisogno di dimostrare come la espressione per aliquod contentum in suprascriptis capitulis alias statutis, essendo la più completa, ed indicando esplicitamente i due capitoli, nei quali si trattava delle misure del vino, sia anche la sola ammissibile.
176. Stat. Datior. fol. 38 v.
177. Non avendo lo Statuto dei Dazii aggiunto altro, è giocoforza ammettere che qui s’intendano le once del marco e non altre. Anche la espressione, et tamen sit mensura solum onziarum cet., accenna direttamente alla mensura che avea due once di più, cioè a quella stabilita nello Statuto del 1331.
178. Le Tavole da noi date in fine di questo scritto dimostrano, che la Bozzola dal secolo XI° alla seconda metà del XIII° avea la capacità di litri 0.508: la Bozzola o Claudus da once 22 3/4 litri 0,668, il Boccale, che durò fino ad oggidì, litri 0,655. Il Claudus da once 20 3/4 dovea avere la capacità di litri 0,6099, che non combina con quella di alcuna delle precedenti e delle susseguenti misure.
179. Il ragguaglio, come vedremo dal seguente prospetto, può dirsi quasi esatto, perchè la differenza tra l’una e l’altra Brenta veniva ad essere di litri 0,494, e quindi circa un mezzo litro. V. Tavola II, D, F. Se altri poi volesse sostenere che la mensura consueta non è quella creata nel secolo undecimo, ma sibbene quella che compare nello Statuto del 1453, che durò fino ad oggi, e la quale è superiore effettivamente di 10 Claudi alla misura data dallo Statuto del 1331 (v. il Prospetto al cap. II § 7), confessiamo che non avremmo nulla ad opporre, perchè, forse per colpa nostra, non sapemmo trovare un argomento che valesse a farci decidere in modo assoluto per l’una piuttosto che per l’altra congettura. Ci trovammo sempre nel campo delle supposizioni, e nulla più, quindi ci fu giocoforza limitarci a dire quello che ci sembrava più probabile.
180. Lo Statuto dei Dazii fol. 37 v. ha già la espressione ad brentam Comunis Pergami invece della più antica ad Sextarium Comunis Pergami (v. sopra § 1).
181. Stat. an. 1453, 1 § 190. La lezione, et Claudus facto computo de aqua serena fontis Vazeni est et esse debet onciarum vigintiduarum et quarteriorum trium era importante a stabilirsi, perchè si trattava di decidere se dopo il 1453 la nostra Brenta non abbia più subito alcuna modificazione. Sotto questo rispetto possiamo accertare, che tutti i Codici a penna degli Statuti, che ci fu dato consultare, come i due Statuti a stampa mantengono fermo per il Claudus il peso di once 22 3/4. Quindi in testa a tutti va notato il bel codice di Statuto che in Biblioteca porta l’anno 1453 (Sala I.ª D. Fil. V. 8), due altri che portano la data, l’uno del 1461 (Gabin. M. Fil. 8. 16), l’altro del 1468 (Gabinetto Δ Fil. 8. 10) e i quali non sono che una copia di quello del 1453: altra copia pervenuta alla Biblioteca per dono Camozzi (Sala Iª D. Fil. 5, 11), due altre, una di provenienza Mangili, non ancor posta a catalogo, ed una che nei cataloghi porta la data generica del secolo XV° (Sala Iª. D. Fil. V. 9), altro Codice dello Statuto pure del 1453 pervenuto alla Biblioteca per dono Sozzi (G. 4, 22), ed infine una copia manoscritta dello stesso, che si trova presso di noi. Con questi concordano perfettamente lo Statuto del 1491, edito a Brescia lo stesso anno (5 § 134), e quello corretto nel 1493 ed edito a Bergamo nel 1727, sicchè resta dimostrato che nella nostra legislazione municipale si continuò a considerare il Claudus come un recipiente che contenesse once 22 3/4 di acqua del Vasine. Può darsi, e qui non possiamo contraddire, che corressero dei Claudi abusivi di minore contenenza; ma questo non altera punto le nostre induzioni, perchè dal momento che nella prima metà del secolo decimoquinto la Brenta fu tenuta come la base di tutte l’altre inferiori misure, poteva anche avvenire che il Claudus della prescritta capacità non fosse che una misura di conto e non effettiva: ciò che dovea importare era che la Brenta fosse esatta, ed esatta l’avessero tutti i Comuni del contado (v. sotto Nota 182).
182. Stat. an. 1453, 1 § 22: item quod quodlibet Comune districtus Pergami teneatur et debeat manutenere unam Brentam bullatam — penes Consulem dicti Comunis. — Et quod mensuratio vini quod vendetur non possit mensurari nisi cum Brenta bullata et non cum aliquo Solio (v. sotto § 8).
183. Tavol. di Ragguaglio della Rep. Ital. p. 210.
184. Stat. Datior. fol. 38 v. V. anche sopra II, § 7.
185. Stat. Datior. fol. 38 r.
186. Stat. Datior. fol. 41 r.
187. Stat. an. 1331, 8 § 46: quod quelibet persona vendens vinum ad minutum debeat vendere et mensurure ad iustos Claudos et Claudinos; ibid. § 49: et d. Vicarius inquiri faciat per eius familiam — si Clodi et Clodini — sint justi; Stat. an. 1353, 8 § 42: et nihilominus d. Potestas inquiri faciat — si Claudi et Claudini cet. Di qui si vede che, sebbene lo Statuto del 1331 abbia ragguagliato la Bozzola al Claudus nello stabilire la base delle misure del vino, tuttavia il nome più comunemente usato a quest’epoca era quello di Claudus. Questa parola, con un tale significato, manca in Du Cange.
188. Negli Statuti di Taleggio ed Averara del 1487 dove si tratta del bollo delle misure vi ha, c. 67: e de ogni quartino over bochal e de uno mezzo ecc.: dove trattano della vendita del vino al minuto, c. 68: soto pena e bando de Sol. X de mezani de zeschadun giodo (Claudus) over bochal, e soldi V de mezani per cadauno mezo. Quando si introducesse da noi la divisione del Boccale in quattro Zaine, non abbiamo documenti che ce lo dicano. La Zaina si trova nominata sulla fine del secolo decimoquarto in quella ordinanza dello Statuto del 1391 dove è detto (1 § 85): quod nulla persona presumat accipere de aliquo ciato misi denarium unum, nec de aliqua zaina nisi tres medianos. Sebbene il Cyathus fosse la minore delle misure nel sistema grecoromano (v. Hultsch, Metrol. p. 82 seg., 91, 95), tuttavia a quest’epoca non entrava punto nel novero delle nostre misure, sibbene era un recipiente usato ne’ banchetti per bevere il vino, come il nostro bicchiero. Quindi, accennandosi al compimento de’ riti nuziali in un contratto di matrimonio del 1372, troviamo: bibendo ipsa domina Donina de vino qui erat in uno ciato (Ronchetti, Mem. stor. 5 p. 153). Lo stesso deve dirsi anche della zaina, e dalla posizione stessa di questa ordinanza nello Statuto si comprende troppo evidentemente, che qui si tratta del prezzo di questi recipienti, non del valore del vino in essi contenuto.
189. In un inventario del 1342 (Arch. capitol. Filz. Z in GG 3) abbiamo: et duos Flaschonos qui possunt tenere Claudos quatuor. Questo Inventario, che ci ha conservato altri nomi affatto volgari (p. e. et unum vezolum de brentis duabus; v. anche sotto Nota 200), ci dimostra che allora nell’uso comune della bozzola non si faceva più parola (v. Nota 184).
190. Stat. an. 1331 8 § 46: ita quod vinum vadat ultra clodum mensure, e così in tutti gli Statuti posteriori, dove si vede apertissimamente non trattarsi qui della misura, sibbene del segno oltre il quale dovea andare il vino perchè il consumatore non fosse defraudato. Le prescrizioni degli Statuti e due esemplari, che potemmo procurarci, ci permettono di dire quale fosse la forma della Bozzola, del Claudus e del Boccale. Nello Statuto del 1331 abbiamo (a. l. c.): ud iustos Claudos et Claudinos et mensuras consuetas strictas in summitate more solito scilicet quod quatuor digita sufficiant ad introitum summitatis ipsarum mensurarum. Gli Statuti posteriori ripetono questa ordinanza: quello dei Dazii aggiunge: item fiant Claudi et Claudini ad formam hactenus consuetam. forma consueta est et esse debeat talis cet. dove ripetono le identiche prescrizioni dei precedenti Statuti (Stat. Datior. fol. 58 v.): lo Statuto poi del 1453 ridusse l’apertura della Bozzola o Chiodo alla larghezza di tre invece di quattro dita (1 § 189). Si comprende già da questa ordinanza che le nostre misure, colle quali si vendeva il vino al minuto, doveano avere la forma di un tronco di cono, ed infatti tale è la forma di due misure di ferro, che possono appartenere al secolo passato, e che trovammo rappresentare il Boccale ed il mezzo Boccale. Invece del cappello di chiodo, per indicare fin dove avesse a giungere il vino, in queste vi ha un foro triangolare colla base parallela alla base della misura. È caratteristico il fatto che fino al 1431 queste piccole misure doveano essere di legno, poichè nello Statuto dei Dazii di quell’anno (fol. 38 v.) troviamo: qualibet vice qua utetur alla mensura quam Claudo et Claudino ligni suprascripte forme: di legno era pure la galeda, piccola misura del vino e dell’olio sul Comasco, che si usò fin verso la fine dello scorso secolo dai ricchi alle loro mense (Nota in Hist. P. M. 16, 4 col. 353), mentre gli Statuti di Novara del secolo decimoterzo prescrivono già per misure le Pintas vitreas (§ 427 in Hist. P. M. 16, 1 col. 795). Nel nostro Statuto però del 1453 (1 § 189) sono prescritte bozzole capacitatis unius Claudi vel unius Claudini de vitreo vel de stagnio: le bozzole dello Statuto dei Dazii (fol. 40 v.) sono di rame, le bozzole della capacità di un boccale dopo quel tempo si costruirono anche di ferro. Una enumerazione dei vasi nei quali si riponeva, o si trasportava il vino in piccole quantità, la troviamo nello Statuto dei Dazii (fol. 39 r.), dove vi ha: in bochalibus, flasconis, galetis vel zuchis vel aliis vasis vinum exportare, dove si comprende che la galeda o galeta era in uso anche da noi. Non parliamo delle zucche, dalle quali ne traggono tanto profitto tuttodì gli agricoltori per trasportare ne’ campi il vino o l’acqua con che dissetarsi.
191. Stat. Datior. fol. 40 v.: Quod Tabernarii possint mensurare vinum ultra Claudum et Claudinum cum buzolis rami vel vitrii vel cum bochalibus, et debeant habere omnia bochalia et mensuras iusta cuiuscumque capacitatis sint; Stat. an. 1453, 1 § 189; et mensurato vino — possit fundere vinum de ipsis Bozolis in altis Bochalibus vel aliis vasibus etiam non bullatis. Anche questo Statuto ammette pienamente che vi fossero Boccali bollati: cfr. Stat. Datior. fol. 41 r.
192. La lieve modificazione delle misure inferiori alla Brenta dovea essere già pienamente compita nel 1613, perchè nella Tariffa dei Bollatori stabilita in quest’anno dal Consiglio Comunale (Calvi, Effem. 1 p. 224 seg.) si vediamo già indicate le misure, che furono in uso fino ad oggidì, la Brenta, la Secchia, il Boccale.
193. Rich. Diz. delle ant. gr. e rom. 1 p. 247 della vers. ital. Si cfr. tuttavia anche Solium ibid. 2 p. 293, 6, e Forcellini s. v.
194. Tiraboschi, Vocab. dei dial. berg. s. v.
195. Stat. an. n. 1353, 8 § 146: de quolibet Solio den. sex, e la stessa tariffa per la Brenta. Evidentemente si dovette trarre questa denominazione dal linguaggio del popolo, perchè non nascessero confusioni collo Stajo del frumento, per la verifica del quale si esigeva un minore diritto, cioè di soli 4 denari. Il nome di solio si trova già in carta bresciana del 1191 ap. Odorici, Stor. Brescian. 5 p. 16: octo sojos de uva fullata — XXXII sojos vini in gratis.
196. Stat. an. 1453, 1 § 22.
197. Oltre a tutti gli Statuti v. Calvi, Effemer. 1 p. 39, 224 seg.
198. I nostri documenti non lo dicono, ma che fosse in uso pienamente in quell’epoca, lo attestano gli Statuti di Como del 1335 ove leggiamo: Brenta, in qua sunt punctata Staria sex (Hist. Pat. M. 16, 1 col. 354). Una prova indiretta di questo fatto ci è fornita dalla stessa Tariffa dei bollatori (Stat. an. 1353, 1 § 146). Mentre infatti le misure dei grani sono tutte soggette al bollo, cioè lo Stajo, la Mina, il Quartario, il Sedecino, per quelle dei liquidi non lo sono che la Brenta, il Solio e il Claudo e Claudino: indizio aperto che la Mina ed il Quartario erano segnati mediante alcune punte nel Solio sì che, colla verifica dell’una misura, restavano implicitamente verificate anche l’altre due. Nella Brenta poi vi saranno stati i segni dei 6 Quartari o Secchie, come si continuò fino ad oggidì, in modo che avendo la legislazione ordinato che la misura del vino si eseguisse mediante la Brenta, riuscì facilissimo a considerar questa come divisa in sei secchie, ed a dimenticare le precedenti divisioni del Sextarius e della Mina. Ed ecco come lo Statuto del 1453 ci indica chiaramente il passaggio dall’antico al nuovo sistema di suddivisione delle nostre misure.
199. Sarebbe infatti strano che, dopochè per secoli si continuò a considerare il Sextarius Pergami come la base delle misure del vino, di esso non fosse rimasta traccia nel secolo decimoquarto e nei susseguenti, sibbene della Mina, che è a tenersi più come una misura di conto, che come una misura effettiva. V. anche cap. I § 3 pag. 25 e cap. Il § 6 pag. 56.
200. Calvi, Eff. 1 p. 224.
201. Le Tavole che noi diamo, dimostrano che tanto il Quartarius che la Secchia dopo la riforma del 1453 venivano ad avere la identica capacità di litri 11,78.
202. Papias Element. s. v. Sicula vas aptum ad vinum vel aquam; altri esempi reca Du Cange, che qui giova riferire, ad indicare l’antichità di questo nome. Lex Alamannor. tit. 22: Servi Ecclesie tributa sua legitime reddant 15 Siclas de cervisa; Capitul. de Villis, c. 9: volumus ut unusquisque judex in suo ministerio mensuram modiorum, Sextariorum, et Siculas per Sextaria octo, et corborum eo tenore habeat, sicut et in palatio habemus. Acta Murensis Monast. p. 59: cum autem venerit tempus vindemiæ — post vindemiationem et uvarum calcationem in cellarium nostrum mustum importare (debet) sextam aut Siculam sibi habera, quae Siculae signatae debent esse ad constitutam mensuram; s. v. Iochus: triginta seglas cervisiae.
203. Archiv. Capit. Filz. Z in GG. 3: una sedella de ramo de media segia, dove è esattamente indicata la contenenza di questa Situla di rame, come si farebbe oggidì.
204. Stat. Novar. § 427 in H. P. M. 16, 1 col. 795. V. anche Stat. Novocom. 2 § 238 ibid. col. 187, dove quasi identiche espressioni vi hanno rispetto alla galeda, che però era di legno: v. Nota 187.