Ringraziamento a una Ballata di Paul Fort

Renato Serra

Giuseppe De Robertis/Alfredo Grilli Indice:Serra - Scritti, Le Monnier, 1938, I.djvu Critica letteraria Letteratura Ringraziamento a una Ballata di Paul Fort Intestazione 14 gennaio 2024 100% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Scritti (Serra)


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RINGRAZIAMENTO

A UNA BALLATA DI PAUL FORT

Che cosa cercavo nel volume nuovo arrivato, Choix de Ballades Françaises?

Penso a quello che ci trovai; e non lo so distaccare da ciò che recavo prima con me e che deposi sfogliando le pagine. Mi pare di dover risvegliare tutta la lunga mattina e il suo peso e la mia debolezza, per poterla sciogliere ancora una volta in questo minuto di gioia: non sarebbe così luminoso, se non fosse impregnato anche dell’ombra precedente.

Noia della domenica mattina, aprile scialbo e freddoloso sotto la pioggia. La ghiaia del giardinetto scolastico, che bisogna attraversare per giungere alla casa dei libri, sgrigliola e geme tenace sotto i passi, fra i rivoletti giallastri e le pozzanghere picchierellate di gocce: acqua cruda e smorta, senza un riflesso o un lividore di luce, senza un petalo di fiore o un filo d’erba che galleggi tenero e dica la primavera. Piove da tanto tempo che l’acqua ha lavato e portato via ogni [p. 204 modifica]cosa: tutto è grigio: ribrezzo buio che soffia dal cielo stretto sopra il terriccio di queste aiuole nude, desolate attraverso le cornici di filo metallico, con le punte a triangolo che stillano pure acqua. L’erba è rara e scura come d’inverno; le foglioline nuove, tutte immollate e stinte, sembrano ritagli di carta verdiccia che il vento abbia appiccicato ai rami lisci come tubi, neri e grondanti.

Mi fermo per abitudine, quasi a cercar qualche cosa, prima d’entrare; qualche cosa ch’io possa portarmi dentro, fra le mura chiuse. Dov’è l’argento d’aprile e l’odore delle cose vegetanti e brillanti sotto la frusta dell’acqua vivace?

Ho d’intorno il rumore interminabile della pioggia e il gocciolar della fronda e lo scivolar delle nubi: gonfie e violette laggiù come il buzzo che sta per crepare; biancastre e molli e stracciate per tutto il cielo come se dovessero colare e gravare in eterno. E poi un sentore aspro della fanghiglia rimossa dalle scarpe, che tocca quasi le dita intirizzite; il gelo che si rapprende ai capelli corti sulla nuca, l’umido che sale pungente per le narici e prende il gusto dolciastro del raffreddore. Cose disperse che non riesco a raccogliere: pezzi di un mondo staccato da me.

Quel che mi resta è soltanto il caldo cattivo delle guance che si tuffano e non si rinfrescano nell’aria ghiaccia, il ronzio lontano del sangue e il bruciore pesante delle palpebre che sento spiccarsi dagli occhi stanchi, da troppo tempo aperti sull’universo non mio.

È già tanto che dura questo giorno. Mi pare che ore e ore lunghissime mi dividano dalla prima alba che mi svegliò, improvvisa e squallida, attraverso i vetri di una camera d’albergo, a tanta [p. 205 modifica]distanza di qui; e il vento correva sui lastroni della piazza ancor vuota, levando fra le rughe del sasso bigio e scoperto l’arida polvere che precede la pioggia.

Mi sono alzato, son partito, e alla fine sono venuto; l’uggia del sonno perso e lo squallore del mattino brutto mi hanno sempre accompagnato. mentre i chilometri della ferrovia succedevano ai chilometri, e si sentiva la strada fuggire attraverso il monotono cigolìo del vagone, come mia rigatura infinita di fremiti e tremiti scorrenti sull’immobile fondo.

Delle ore trascorse col viso inchiodato al finestrino e lo sguardo sulla campagna, m’è rimasta solo l’impressione del telaio duro a cui s’appoggiava la fronte; e il peso sordo del tempo, peso senza ricordo, monotono e immobile peso del capo nè dormente nè sveglio; sussultante allo scossone delle fermate e sporgentesi allo sportello, con vano desiderio, verso la musica fina della primavera velata di pioggia. Quante cose da fare; e che rammarico vago delle ultime corolle dei ciliegi, biancheggianti fra un sospetto di ruggine e lacrimanti così candide e lievi sull’acquitrino azzurro dei grani; isolette dei peschi di un rosa gonfio e tenero sul cielo livido, e cascate schiumanti di biancospino amarognolo: ultime querce brulle e tutto il resto delle cose, che avrei dovuto cercare e guardare e seguire nel loro dialogo con la luce fresca: e non vedrò più forse, non farò più in tempo a guardare.

Scorreva il mondo sulle pupille intente quasi per obbligo, e il pensiero si profondava nella sua finzione.

Una e un’altra, e un’altra, e le tre sono solo una: non son più nulla, se le mie ciglia battono. E [p. 206 modifica]poi il nulla torna a esser corpo, sostanza di silenzio e di fugacità, visione mobile e labile come le cose che appaiono tra il vetro e l’ombra, ferme fin che l’occhio sta fermo; e a ogni tremar delle palpebre si disperdono in tremole lame dentro la trasparenza.

Come cerchio da cerchio e suono da suono, sorgono l’uno dall’altro piccoli drammi dentro la mente e si dissolvono e tornano a formarsi intorno al punto che mai non muta. Quella che aspetto o quella che ho scordato, quella in cui mi riposo o quella a cui non voglio pensare o quella che è ritornata improvvisa attraverso il buio del sonno? Passano a una a una, e ognuna è la prima e la sola. Il pensiero si attacca a quel punto unico, come la bocca alla bocca; guarda la faccia e ode le parole, ripete l’incontro e ricomincia il dialogo, lo ripete e lo ricomincia, lo tenta e lo moltiplica, lo abbandona e lo sopprime e poi lo ritrova e lo rinnova tante volte, fin che l’incanto è esaurito; si scioglie, si rompe, si disfà come una bolla d’aria scolorata; e non ne resta più niente, è distrutto; è soltanto la contentezza vaga e amara che sia distrutto; la contentezza così intenta e così fissa che a poco a poco lo torna a creare....

Una e un’altra e un’altra.... Quale è la gioia e quale è la pena, quale è la vera, quale è la mia? Tutto è uguale, avere e perdere, sperare e temere; godere e soffrire. Ma ch’io guardi, ch’io senta, ch’io pensi; ch’io abbia dinanzi a me un riso un viso un profumo, qualche cosa che mi attiri o che mi fugga, qualche cosa a cui mi possa attaccare colla carne con l’anima, qualche cosa che mi faccia sentire, nel bene o nel male, attraverso l’inquietudine e al di sopra del piacere, la vita. La febbre, il sogno.... [p. 207 modifica]

Tutto mi piace ugualmente e non rinunzio a nulla. Una stessa avidità di passione curiosa e irrequieta assorbe il dolore e il tormento e scambia il passato con l’avvenire; le pene somigliano alle illusioni e le speranze ai ricordi, e tutto è desiderio che passa e non si consuma nel mio cuore, dolcezza ambigua e perpetua sulla mia bocca; carezza dei capelli sfiorati e disciolti, urto di carne ribelle, odore di ignoto, soffio irritante e fuggente. Sorgono una dopo l’altra le forme leggere, come se ogni battito del sangue dentro le tempie ne creasse a ogni attimo una, a cui correre incontro senza lasciare l’altra nè l’altra; e tutte si sciolgono, sono presenti insieme, sospese sull’anima come il miraggio che sempre si dilata, tutte premono e mormorano e vanno nella corrente silenziosa e dolce.

Passano le ore, i giorni, gli anni: non so più da quando. Ci devono essere tante cose dietro di me, che mi aspettano forse; pendono e ondeggiano nella memoria come i brandelli di una tela non compiuta. Ma tutto è interrotto, sospeso, disciolto nella dolcezza del vivere, così uguale e così piana nel suo liquido velo, che alla fine non ne resta nulla fra le mani che vorrebbero stringerla. Mi resta lo sbattimento vago e doloroso degli occhi che devono ingranarsi con la realtà, e il vuoto e la stanchezza di questo minuto.

Stanco di esser contento. Stanco di lasciarmi trasportare da questa dolcezza irresistibile e stupida, che sorge senza ragione e mi trasporta senza mutamento e mi fa godere di tutto, anche del mio male, e mi impedisce di conoscerlo e di averlo per me. Mi impedisce perfino di essere triste; mi concede solo questo peso amaro e vano, che conserva un gusto di cenere e di piacere, questo bruciore [p. 208 modifica]arido in cui la noia si dissecca, così come si asciuga il gelo delle piccole gocce di pioggia sopra le guance calde.

Ma anche la stanchezza è inutile e la noia e ogni cosa. Inutile fermarsi come un bambino a contemplare la pioggia e a cercare una primavera, che se anche ci fosse non avrebbe nulla da dirmi. Tutto è eguale. E gli occhi che si son provati per un momento a interrogare l’universo, tornano con meccanica rassegnazione alla strada di tutti, scrutando le zone di ghiaia più asciutta fra le pozzanghere gialle; e ogni cosa riprende il suo posto, un passo dietro l’altro, fin che il giardino è finito di traversare, e tutte le incertezze si quetano davanti alla porta. Alta, pesante, scura; con l’aria deserta che hanno le vecchie porte nelle mattine di domenica, nei luoghi dove la gente non passa, e i battenti che sono stati spalancati tutta la settimana si raccostano e sembrano aderire l’uno all’altro col vischio della grossa vernice brunastra.

L’imposta cede lenta alla mano e si apre sul silenzio vuoto, nel buio. Si apre con un lungo e consolato sospiro, finalmente, sulla mattina della mia volontà, sul vuoto e sul silenzio che è mio, perchè l’ho cercato. C’è dell’amicizia, per me, al di là di quel buio. È il mio luogo, il mio carcere, il mio destino. Qualche cosa di freddo e arido, infinitamente migliore di tutto il piacere e di tutta l’agitazione per una bellezza, che non potrò mai possedere del tutto. Ma, l’angustia e la rinunzia, nessuno me la può togliere. Non penso a niente di preciso: ci sono dei libri che mi aspettano e qualcuno forse è pieno di cose nuove e di dubbi; c’è anche il lavoro, quello che la gente chiama lavoro. il mucchio di carta sporca e indifferente, a cui io non voglio chiedere nè soddisfazione nè mi[p. 209 modifica]glioramento interno, nè illusione nè interesse nè gioia superficiale, niente altro che il senso delle ore consumate inutilmente e volontariamente; so che c’è, pronto su un tavolino, e basterà ch’io mi sieda per ritrovare nell’impressione del punto in cui mi son fermato il motivo di riprendere, come una macchina che si rimette in moto quando si tocca la leva. Questo non m’interessa di più che il corridoio di mattoni polverosi e consunti e la camera stretta che tutti i giorni è quella.

L’importante è di esser venuto e di sentirmi qui, solo. Il resto verrà da sè; una cosa alla volta. Posso concedermi anche un po’ di pigrizia, con tanto tempo davanti, tutto per me e per un lavoro che importa così poco, alla fine.

Ed eccomi col libro in mano, col libro nuovo arrivato, Choix de Ballades Françaises.

Paul Fort. So di che si tratta. Il suono del nome e l’aspetto del libro convengono alla mia stanchezza. Non è un libro caro, uno degli amici umani ed eterni delle mie ore mortali, quando la tristezza e la gioia vera vogliono placarsi nel ritmo di una parola benefica e conosciuta.... Mi sono cantato tante volte queste litanie, che adesso mi vien fatto di chiedere se ci siano veramente ore e amici così. Non me ne ricordo troppo bene stamattina. E avrei quasi la tentazione di pensare che si tratti di una di quelle solite mezze illusioni e mezze viltà di una malinconia retorica.

Paul Fort è reale e vicino.

Egli è uno di quegli autori di cui ho da anni una conoscenza generica e approssimativa, fatta [p. 210 modifica]di scorse rapide sulla scrivania del libraio, di principi di strofa sorpresi difficilmente nella piega del foglio non ancor tagliato, di citazioni e di frasi raccattate attraverso gli articoli critici e le recensioni con una firma ignota; con quell’accomodamento sommario che si fa tra i giudizi entusiastici di una critica, che si sa quanto valga, e l’impressione dei pezzi citati o interrotti, che bastano per abitudine a ricostruire, press’a poco, la qualità della poesia.

Mi accosto dunque, con calma, al volume che la posta mi portò ieri sera e che mi invita moderatamente; non è certo il turbamento quasi misto di rancura e di durezza, con cui mi sentii tirato verso Rimbaud; o il sorriso di delizia con cui mi piegai verso le opere di Verlaine, indugiando prima di leggere. C’è nella mia tranquillità un poco di rassegnazione, come il preludio di un successo di stima, disposto a subire parecchie cosette antipatiche. Meritano di esser subite; ma se non ci fossero, sarebbe pur meglio.

Lasciamo stare che egli sia un poeta ancora un po’ raro e lontano dal comune; non dico una proprietà degli snobs, ma dei competenti, dei conoscitori, degli scopritori di valori, della gente. che vuole avere delle ammirazioni per conto proprio, più intelligenti e più fine, e onora la genialità, la purezza, il lirismo, tutte le moralità poltrone e le intenzioni sfiancate — invece della bellezza, che è di tutti, colla sua aria bête. Non c’è molta di questa roba da onorare in Paul Fort; che del resto non è più una novità nè una scoperta, e non si è mai prestato alle rivoluzioni morali, nella sua maestria sottile e precisa di artista vero. Pure anche lui ama un poco l’eccezione; si è lasciato eleggere principe dei poeti [p. 211 modifica]e s’è messo a capo della guerra delle due rive, in nome della poesia contro la letteratura che è arrivata e che fa soldi. Non si contenta di essere un poeta libero, insomma; ne fa anche professione, senza molto buon gusto. E il resto che so delle sue abitudini un po’ gagliarde, delle sue pose pittoresche e moschettiere, non è punto fatto per riconciliarmi con lui: e mi fa lo stesso effetto la mescolanza nello scrivere del popolare e dell’ermetico, della finezza letteraria e della posa ispirata, onde lo studio di lingua, l’abilità saporita, la virtuosità metrica e stilistica di un mestiere eccellente si dissimulano nella bizzarria tipografica dei versi stampati come prosa. Questo è più duro da inghiottire. La poesia come prosa, senza distinzione di verso e di rima; e poi anche il verso senza certezza prosodica e senza obbligo fisso, il verso che talora è verso perfetto e talora è aspirazione o noncuranza o capriccio. Sapete bene, la poesia come dono, come movimento spontaneo, come articolazione musicale senza spezzature e senza distacchi, al di fuori di ogni artificio tradizionale.

Al mio odio antico e categorico contro questa retorica a rovescio, si aggiunge il ricordo fastidioso e particolare; l’esperienza delle strofe che trovai la prima volta nel Mercure, mi pare, l’impressione quasi materiale di quei blocchetti di caratteri da stampa, da cui bisognava cavar fuori dei versi, con una incertezza irritante e contratta negli occhi fissi. È ben vero che i versi, quando ci sono, si fanno sentir subito, molto naturalmente; ma appunto per questo cresce l’irritazione, di quello stare attenti, quasi senza bisogno. E poi tutti i piccoli guai della lettura così a tentoni, quando non si sa da prima lo schema della strofa, [p. 212 modifica]e non si è mai certi se lo schema sarà osservato anche in seguito, se agli alessandrini non seguirà un ottonario, se le rime non diventeranno assonanze; e talora non si vorrebbe badare, si vorrebbe leggere alla buona, abbandonandosi alla corrente, e pur non si può fare a meno di vigilare come in un gioco di pazienza, in cui si sospetta sempre che qualche cosa vi sfugga. Non parliamo poi del caso di aver contato leggendo, oppure soppresso una e contro l’intenzione del poeta, in modo da fermare per es. alla misura di un novenario, quello che è invece un alessandrino, costretti poi a tornare indietro per riprendere il modo giusto; non parliamo della rima riconosciuta quasi in uno strascico del suono, o peggio ancora, colla coda dell’occhio, quando era già passata, e gravante poi sul resto della lettura come un sospetto vago e una voglia dispettosa, che si potrà sfogare in insulti verso me stesso, beota e filisteo inetto a sentire la poesia che passa, o si rifarà finalmente sopra lo scrittore che mi costringe a questo sforzo inutile e ingiustificato: chi sa che banalità diventerebbero quei versi, se fossero stampati come tutti gli altri, si vorrebbe dire; e non si ha neanche questo conforto, perchè si sente che non è vero, e ci si arrabbia anche di più.

Non mi arrabbierò adesso. Provo una certa soddisfazione nell’accostarmi a questa roba, senza antipatia oramai, ripetendomi ben chiaro e ben forte che tutto quel fastidio di ogni novità e libertà un po’ ostentata, quella fedeltà alle forme classiche e comuni erano più che altro un atto di orgoglio. Potrei sviluppare fino a domani le ragioni della superiorità, così dal punto di vista della natura come da quello del mestiere, che è nelle forme fisse di fronte alle cosidette libere; [p. 213 modifica]la tendenza necessaria alla semplificazione, alla ripetizione, allo schema come principio musicale, la virtù dell’accento individuale che ha saputo e voluto accettare la legge, e si è purificato senza perdersi nella contraddizione, e tutte le altre storie, per cui si trova che la libertà è identica alla tradizione, salvo il rumore e l’insolenza. Tutto ciò non toglie di dover ammettere che accanto alle canzoni e ai sonetti c’è posto per il verso bianco e per ogni sorta di cose libere; non solo, ma oggi queste ultime rappresentano un valore e quasi un progresso di sensibilità tecnica sopra le forme classiche. E la mia fedeltà era una vanità di adolescente letterato, che si illude di possedere una certa forza per difendere le sue amicizie e i suoi gusti; era una licenza, che io concedevo a me solo, di crearmi una fede e di confessarla con un piacere arbitrario. Era un lusso insomma ed è ora che io vi rinunzi. Sono così stanco di tutto, fuor che della verità!

Mi dispiace quasi che in Paul Fort io debba rinunziare a ben poco dei miei gusti vecchi. In lui non c’è presso che nulla di nuovo, che possa urtarmi, al di fuori di quel sacrificio abbastanza inutile, che egli ha voluto fare materialmente dei suoi libri a un pregiudizio tecnico. Poichè è bene un pregiudizio, in uno che scrive come lui, quella legge di stampare tutto a un modo, sopprimendo ogni punto di ritrovo o di riposo per l’occhio e per l’orecchio. Ciò allontana il piacere, ma non ne muta la qualità: che è sempre la solita, alla fine. Quando torniamo indietro, quando, dopo aver riletto e tentato e scrutato, quello che pareva incerto e fluido diventa a poco a poco solido e fermo nella sua cadenza esatta, e i versi si spiccano a uno a uno, schietti e flessibili, dalla compagine [p. 214 modifica]confusa, allora noi troviamo che questi versi sono perfettamente simili a tutti gli altri misurati e stampati secondo le regole. E si pensa che non valeva la pena dopo averli fatti, di nasconderli a codesta maniera.

Perchè poi son anni che Fort ha rinunciato quasi a ogni altra singolarità. Ha lasciato da parte la mescolanza di versi regolari e irregolari, l’ondeggiamento fra verso e prosa, che aveva per scopo di riprodurre la poesia nel suo nascere capriccioso, come un’ebbrezza musicale che penetra a mano a mano le sillabe del discorso comune, le empie di agitazione e di tripudio, le dilata e le esalta crescendo, fin che vien meno e si dilegua, come un soffio sull’acqua.

Ciò era perfettamente legittimo come principio, e ha dato luogo qualche volta a episodi non volgari. Ma obbediva a una preoccupazione teorica piuttosto che a una necessità di natura. Paul Fort era un artista troppo coscienzioso, in fondo, per non sentire che la realtà non è già il ditirambo, ma l’uomo che con delle parole e dell’inchiostro e una punta di acciaio si travaglia per fermare sulla carta un momento che gli sfugge da ogni parte: sì che sorge naturalmente nel suo lavoro un bisogno di conservare, con la ripetizione, l’unità e la risonanza del primo accento. I capricci, che paion così naturali, sono una convenzione; così come gli abbandoni e le bizzarrie si possono confondere con la pigrizia.

Un po’ di difficoltà è necessaria a certi artisti, che vi trovano una pietra di paragone per l’ispirazione. Così se ne sono andate, mi pare, anche le variazioni dentro lo stesso componimento, i passaggi dalla strofa regolare alla serie libera, la mescolanza di misure e di combinazioni secondo [p. 215 modifica]l’opportunità. Oggi Paul Fort si contenta di versi e di strofe perfettamente regolari, che osservano, con una prosodia solo in apparenza libertaria, i modi più semplici come i più rari della poesia francese, dall’alessandrino discorsivo alla strofetta della Pleiade: quando si permette dei capricci, quelli sono difficili.

D’altronde egli non cerca di dissimulare il suo amore per il mestiere fino, per la bella materia e per gli accordi ricchi; ha studiato i nuovi e i vecchi, Moréas e Verlaine come Villon e Ronsard e Rabelais; e si compiace di rimare con una disinvoltura e con un gioco di assonanze delizioso, con un sapore di lingua e una sveltezza di scorci, che m’ha fatto trasalir di piacere anche nelle minuzie.

Non è lui che ha trovato, assai prima di me, quella piccola correzione, che mi fu tante volte opportuna, «ma pure Hélène, — je dis au pur visage», che basterebbe sola a mostrar la sua razza?

Non è a questo tuttavia che penso di più. Paul Fort m’ha lasciato sopra tutto un ricordo di sensazioni e di musiche e di luci. Particolari della campagna e della primavera cercata amorosamente: aurore, selve, fiori, acque, piccole città dai nomi belli, il cielo dell’Isola-di-Francia: sensazioni di natura, a tratti diretti, sottili, vivi, che non rientrano in nessun cliché della poesia già conosciuta, simbolista o romantica.

Cosa personale, dunque. Direi quasi, per quanto ho potuto cogliere a volo, anche troppo. Sensazione o, come io dico, sensazionismo?

Freschezza e spontaneità del sentire, contemplazione e delizia delle cose, hanno un non so che di scolorito e leggermente comune; come se fossero effetto di una maniera prestabilita. [p. 216 modifica]

È una impressione che si collega in me a molte altre, della nuova arte francese; animata, dal simbolismo in poi, da spiriti profondi e generosi, tendente a una purezza di ispirazione e a una sincerità di lirismo, che appare inattaccabile dal punto di vista teorico. Soltanto vien fatto di domandarsi se non si tratti di una purificazione teorica appunto e morale meglio che artistica....

Penso, fra gli altri, a Romain Rolland; in cui ho trovato un sentimento così serio dell’arte, uno sforzo così assiduo di realizzare la vita nella sua interezza, fondendo i drammi del pensiero e della verità nell’orchestra delle passioni; e tutto questo rimane nella sua pagina in uno stato, per dir così, elementare, come uno schema stimabile e alquanto scarno. Rolland mi ha preso, attraverso la sua povertà, con una forza differente. Non so se ce ne sia altrettanta in Fort; sebbene la natura di costui sembra più fina, più inventiva, più genialmente artistica. Ma non è natura creatrice. Nulla si è staccato per forza propria e definitiva dalle strofe che mi son passate sotto gli occhi; fuor che delle impressioni un po’ generiche, per quanto non banali, di malinconia, di musica, di leggerezza e sopra tutto di sensibilità abbastanza diffusa e vivace da permettere ai critici giovani di chiamarlo, con dei nomi sottili, fauno, silvano démone familiare della terra di Francia.

Due versi mi si sono stampati nella memoria, e riassumono perfettamente questa impressione:

Tout mon corps est poreux au vent frais du printemps....
Partout je m’infinise et partout suis content.

Bellissimi versi, prima di tutto; tanto è vero che non li ho saputi mai più scordare. Ma non ci [p. 217 modifica]sento forse, insieme con la poesia, l’intenzione di esser poetico? Quel mettersi là fin dal principio a bere col corpo il vento di primavera mi rappresenta quasi una tesi, l’obbligo, per riuscir poeta perfetto, di dissolversi interamente in questa sensazione, di diventar primavera con tutta la carne e in tutti i punti e con perfezione di contentezza. Mi ricordo che la citazione seguitava con uno sviluppo sottile e un po’ confuso, senza impreveduto. Era lo sviluppo del tema, troppo chiaro fin dall’inizio, nella sua mescolanza di sensitività e di analisi. E basterebbe a farla sentire solo quel neologismo, assai felice del resto, quel m’infinise (come un altro virginisé, dell’aere) così astratto e sensibile insieme, che rivela tutta l’eredità del simbolismo e di certi programmi di rinnovazione del linguaggio poetico, che non hanno oltrepassato le più volte qualche ricercatezza grammaticale e qualche sottilità pseudo-filosofica. Anche Fort non rimane indietro in questo genere; egli ha tutta una teoria del poeta come visionario e della visione come creazione, e poi del poeta-Dio e di ogni cosa-Dio, che gli fornisce dei temi eccellenti e insoliti. Ma sono temi, finalmente; non sono molto originali come metafisica, e nemmeno come poesia. Mi pare che nascano, piuttosto che da una necessità o da una simpatia di natura, dal desiderio di realizzare quel concetto della poesia assoluta, che è stato fabbricato da una certa cultura.

Non bisogna prendere molto sul serio questi tentativi di lirismo creatore, che possono interessare più che altro per l’invenzione dei particolari e per una certa mobilità di fantasia. Ma serietà è misurata dal confronto di certi altri momenti o fraseologie, se volete (non è ancora Fort che ha [p. 218 modifica]detto di sè stesso: «Recréateur, ô visionnaire, si vous êtes l’esclave noir de l’Orient de vos symboles, vous êtes le germain, le maître blanc de vos paroles»?). E poi accanto alla metafisica e alla delizia sensitiva o sentimentale, voi troverete nelle Ballate Francesi tutti quanti i generi e le forme dell’universo poetico, esemplate a una a una con una ricchezza che potrà essere ingegnosa ma non è certo naturale e necessaria: c’è dell’arcaismo e del pittoresco, la storia di Francia e la mitologia classica, inni e idilli e canzoni per tutti gli argomenti. Il creazionismo non esclude un po’ di retorica. La materia di quei tanti volumi di ballate che a scorrer solo le tavole, come ho potuto far io, pare infinita come il cielo, — ogni titolo una stella, — si deve ridurre in parte a un repertorio di motivi meglio che di invenzioni poetiche.

A ogni modo, bisogna vedere. Malgrado tutte le riserve e lo scetticismo, sento bene che c’è qualche cosa in questo poeta, anzi in ognuna delle strofe chiuse nel volume, il cui valore non è affatto esaurito dalla mia impressione generica. Mi figuro che cosa possa essere, ma solo fino a un certo punto. Ciò mi stimola a entrare più avanti, fino a trovare, almeno quanto è il mio potere, il fondo.

Per altro, non è già stamattina ch’io mi metterò a leggere con lo scrupolo preciso dell’uomo, che soddisfa un debito della sua coscienza, verso un altro uomo, che egli ha giudicato, prima di averlo conosciuto: o peggio, con la serietà di chi si pone un problema intellettuale. Potrò anche prendere questi abiti, un’altra volta; poichè tutto è possibile. Ma adesso non cerco molto più che una distrazione, nella forma più comune; un poco di svago e di piacere per i miei sensi smussati. [p. 219 modifica]

Le ballate si presteranno bene a questo fine, mi pare; ricche di ombre e di luci e di paesi, di fragranze amorose e di sensazioni limpide e gaie, non così profonde da gonfiarmi il cuore di desiderio e di violenza, ma abbastanza vivaci da sfiorarmi col loro riflesso fuggitivo e da rendere agli occhi che bruciano e allo spirito affaticato quel ristoro di freschezza, che non ho saputo cavare dalle cose vere. Medicina che è nelle immagini dell’inchiostro, medicina un po’ vile....

Così comincio a sfogliare il volume, con l’occhio ai titoli e ai capoversi, qua e là. Non son gli inni nè i poemi antichi, che mi fermeranno: ma hanno l’aria di un compito che il poeta abbia voluto assolvere, portando la sua novità e il suo lirismo anche in quegli argomenti obbligati e vecchi e solenni; in realtà, non ci ha portato forse di nuovo altro che qualche raffinatezza di colore o qualche bonomia di linguaggio. Le canzoni e i poemi marini? No, è una musicalità semplice, troppo semplice, a cui bisogna essere più disposti per comprenderla nell’anima vaga, per distinguere quel che è puro da quel che è povero.

E io non cerco musica; ma cose, che mi incantino i sensi. Lascio da parte via via anche le elegie, e il romanzo di Luigi XI che è troppo pittoresco e letterario e composito, i romanzi sentimentali, di cui l’unità e il motivo umano mi sfuggirebbe.

Ondeggio fra le Odi e «odelettes», che m’attirano con tanti episodi contemplativi e fantastici e nomi belli di luoghi, Senlis, Nemours, Jonesse; Gélizy: «Repos de l’âme au bois de l’Hautil», «Naissance du Printemps à la Ferté-Milon». E mi fermo finalmente sulle Fantasie «à la Gauloise»: tornano gli stessi nomi e altri non meno [p. 220 modifica]belli, Pisse fontaine e Coucy e Mortcerf, ma con quel titolo sopra, quel «gauloise» in grassetto sul margine alto, come un pennacchio di bizzarria che accenna e invita. Qui è quel che cerco.

Leggo: un pezzo qui, un pezzo là; avanti, indietro, senza regola. Il corpo è immobile sulla sedia e gli occhi scorrono sulla pagina; ma la mente è ancora lontana, attratta dalle cose che le hanno fatto compagnia tutta mattina, e se ne sono andate e non sono perdute ancora, come resta un’ombra di noia dopo che il male è scordato. Le parole passano, lettera a lettera, e le immagini si formano come le bollicine della schiuma sulla superficie dell’acqua nel canale accanto alla strada, così lento e gonfio e piano che par faccia il coppo sui margini: non hanno fatto tempo ad affiorare che già son dileguate senza un soffio, senza vestigio. E poi quella stampa è così minuta, nericcia; le righe ballano davanti agli occhi e si disfanno.

Poche parole semplici sui «nomi belli» intorno a Mortcerf, mi pare, son le prime che si facciano leggere distintamente; del resto, è una impressione chiara e innocente, senza nessun residuo. Dopo, c’è la foresta di Crécy. Ecco qualche cosa che comincio a sentire, a travedere; tunnel di verzura, odor di mente calpestate, la coda dello scoiattolo che frulla, il martellino dei picchi nel bosco, dei conigli in un lago di margherite, e Mortcerf a mezzacosta, brillante nei vapori del mezzogiorno....

Leggo adagio, per seguire la cadenza dell’alessandrino, vivo ed elastico come il passo di un fanciullo. Ma scivolo e tiro via, sui tratti che non riescono a compormi un quadro: colpa mia, for[p. 221 modifica]se: ci tornerò. Intanto vo innanzi, verso Mortcerf, e poi torno indietro a Gonesse, al castello del sire di Coucy; vedo così di fuga le nozze della Senna e dell’Oise, Pisse fontaine, il dio del tempo bello, la costa di Chanteloup; poesie brevi, che si confondono un poco, come fiori, che li vai odorando uno dopo l’altro, e non riesci più a discernerli; e più ne odori, più ne odoreresti; vigne, dolcezze, rugiade, sole, susurri, riflessi che mi attirano e non arrivano a prendermi; un’orgia leggera e fugace di sensazioni, di allegrezza e di limpidità, che finisce a stancarmi senza contentarmi. Ma seguito a sfogliare, a cercare, a leggicchiare, persuaso di non poter far altro che accrescere più e più l’irritazione di questo piacere troppo superficiale, e pure incapace di resistere alla lusinga.

Trovo la visita a una vecchia dama; passo oltre per istinto; non voglio cose tristi, solo del piacere. Ecco dei cavallucci di legno, che riposan sull’erba una vigilia di festa al villaggio, con una malinconia un po’ insipida (non sono non sono i «bons chevaux de bois»); una celia sui pittori e su non so che chiome, con poco interesse; e poi un bel titolo: Reconnaissance matinale de la ville.

Corro coll’occhio al fondo della pagina, per un assaggio; e l’ultima strofa («Du moulin d’eau sur l’Ourcq tremble le blanc crépi. Un souple pont traverse et canal et rivière — en deux bonds — mais sans bruit — tel ces souples chats gris que voit bondir la lune en l’argent des gouttières») mi trattiene con un istante di incertezza ritmica, fra secondo e terzo verso; appena un istante; attraverso quello, l’ombra del ponte arcuato sull’acqua del canale, e quel fuso di gatto bigio allungato sul tetto che deve brillar d’ardesia alla luna un [p. 222 modifica]po’ rannuvolata, scivola e sfuma deliziosamente. Ciò basta per farmi risalire a leggere dal principio. La prima la seconda la terza strofa passano rapidamente come nell’attesa di qualche cosa che si forma dentro di me; lagrima o sospiro?

E avviene l’altra strofa, avviene il piccolo miracolo: luce e calma, argento e pace perfetta.

Anch’io sono un altro. Sono un sospiro di felicità che se ne va leggero e sospeso sino al termine, attento solo a non perder nulla, trattenendo il batter delle palpebre e il fiato, perchè il miracolo non si dilegui; e quando ho finito, torno indietro senza fermarmi, e rileggo, passo e ripasso sulla mia commozione e sulla mia gioia come sulle corde che rendono all’arco che va e viene senza staccarsi il suono a ogni volta più largo e più ricco, granito e traboccante e festoso. È un andare e venire, un riprendere e lasciare, strofa a strofa, verso a verso, sillaba a sillaba; far chiaro lo scuro e poi oscuro il chiaro; l’analisi minuta ridiventa corrente e fluente, e torna al suo principio, alla strofa, alla musica, da cui tutte le altre si dilatano, come cerchi propagati l’uno dall’altro sull’acqua, in una continuità silenziosa che si potrà rilassare ma spezzare non si può più. Tutto quello che ho letto e inteso dopo, l’analisi e la conversazione, le limitazioni e le sorprese successive del poeta che ho voluto conoscere, conserva ancora e sempre qualche cosa della vibrazione iniziale, si dispone naturalmente intorno al primo punto con quel rapporto che ha la circonferenza del circolo al centro. Le mie labbra ridicono: «nul bruit....». [p. 223 modifica]

Nul bruit que ce doux chant que zezaie la mésange.
Nul cri d’une hirondelle, et le coq a tout dit....
Va tu donner la ville, ô Dieu du paradis,
sur un plateau d’argent au plus calme des anges?

Giurerò io che questa sia la strofa più bella? Altre se ne posson trovare nel poeta, e forse in questa stessa ballata, più deliziose e più rare. Ma la mia gratitudine è per questa, da quando la lessi, o piuttosto la riconobbi.

Dopo mi son ricordato di averla già veduta, non so in quale recensione: ma così in fretta da non avvertire altro che i frammenti della descrizione e sopra tutto l’effetto un po’ barocco di una città presentata sopra un bacile, con quello sfondo di angeli che sono nelle ballate quasi un cliché a cui Paul Fort pare affezionato singolarmente così per l’impressione o sia suggestione generica del vocabolo, massime in rima, come per l’artificio di introdurre, sostenuti dagli angeli, tanti altri effetti di cielo o di silenzio o di suono: pensate a un Dante che si fosse affezionato a quei suoi angeli sotto la nuvoletta, richiamandoli poi per uso nelle fantasie....

Per adesso, non mi accorgo di aver già letto: se non per un certo rilievo onde le parole si staccano più facilmente dalla pagina e mi vengono incontro, mentre nella mente leggera si formano i leggeri suoni mattutini e fiorisce intorno il silenzio vero dell’alba.

Quello che sento non è suono di parole: ma il cinguettio sospeso in un’aria fresca e rara sulle tegole della città che ancora non si sveglia, l’in[p. 224 modifica]tervallo vuoto fra le ombre del gallicinio e il lustro scoppiettio delle rondini; intervallo di silenzio trattenuto come un respiro del giorno e prolungato fin tanto che lo senti spaziare nei suoni d’argento, e dilatarsi e brillare nella ampiezza del bacile piatto nuovo risonante in mezzo alla pace angelica del cielo. Le onde della vibrazione argentina si trasmettono da assonanza a assonanza, da calma a calma, e si disperdono con un mormorare di aria sonora nelle sillabe della rima, tenuta e dileguata come fruscio proprio, di angeli....

Tutto quello che c’è di più fresco e di più lieve nel mondo che si desta, la purezza del cielo che non è ancora turchino, che è solo luce e novità vuota sopra i colori che dormono in un bagno di trasparenza, la mattina lavata e muta, la bellezza delle cose senza musica e senza ombre, cara come il bacio dell’amore agli occhi viziati dei nottambuli, che si propongono sempre di ritrovarlo e sempre si scordano o differiscono; tutto l’incanto è disceso sulle mie pupille dolenti; non c’è più nè grigio nè freddo fuori, nè bruciore nè stanchezza dentro; c’è solo la mattina.

Chi dovrò ringraziare? Sono tante cose, verso cui mi sento grato, a cominciare da quella piccola mésange, l’uccellino a cui non so più pensare senza un sorriso di fantasia e d’allegrezza, fin dal giorno lontano che l’incontravo nei volumi del vecchio Roman du Renart, quello di Méon, e non sapevo bene se fosse la cincia o la capinera, e pur mi pareva azzurro, ed io ero bambino in letto ammalato.... ma è tutta un’altra storia.

Intanto bisogna ringraziare Paul Fort: in ordine, e con misura. Che cosa ha fatto? Il titolo lo dice, prima di tutto, reconnaissance matinale [p. 225 modifica]de la ville. Egli si è alzato apposta all’aurora, per vedere svegliare la piccola città della Ferté-Milon; ha fatto una passeggiata per le strade, e ne ha cavata una poesia. (Sapete bene di che sia composta: esce, soffiandosi sulle dita per il freddo dell’aria: s’avvia, in mezzo alla calma dell’aurora. La città pare che debba essere offerta agli angeli.... Rumor di fontana, e l’ombra di Racine che vi si specchia. Si vede il canale, il ponte; un falcetto di luna ancor sospeso nel cielo. Le strade vuote, senza ombre; anche l’ombra del poeta è così tenue! Che sia un’anima solo? no, perchè ecco, sternuta. E seguita a camminare; guardando i tetti, le nuvole; attraverso cui forse si può arrivare a Dio. Cammina sui ciottoli ben lavati, della strada che sale a dominar la città: una campanella; la chiesa, il campanile che sale verso il cielo; i tetti che sfilano in fondo alla strada in discesa; i camini, le banderuole: gli alberghi colle loro insegne. Seguita la salita. Ecco improvvisa addosso l’ombra del castello che intercetta la luce e sveglia di soprassalto le case: sotto, tutte le imposte si aprono, sbattono contro il muro, e il poeta anche lui batte le mani).

È uno dei suoi procedimenti favoriti: la passeggiata per guardar delle cose e poi raccontarle (lo stesso motivo, elevato di un grado nell’intenzione, ci dà quel contemplare puro che crea le cose, in un’altra serie di poesie; e sono i due schemi di una gran parte dell’opera). Potrà parere un po’ ingenuo quest’uomo che si porta intorno così superbamente il suo confessato intendimento di trovar della poesia in tutte le cose che vede. Ma è anche onesto: egli non aspetta e non finge le ispirazioni del demone ignoto.

Il dono poetico in lui è qualche cosa di più [p. 226 modifica]famigliare e pur vago, un desiderio sottile che gli fa sempre compagnia e gli fiorisce la strada di episodi, che egli accetta e raccoglie senza distinguere troppo quel che è veramente trovato da ciò che è soltanto cercato. Pare che abbia rinunziato a scegliere e a semplificare. Si contenta di raccontare, con una diffusione che mescola il delizioso al comune, la poesia che avrebbe voluto fare; e che qualche volta gli nasce, in mezzo al racconto, con una freschezza indicibile.

In ogni modo, la parte che si potrebbe dire schematica, introduttiva, il pretesto per arrivare alla poesia pura, è tanto semplice e tanto scoperta in lui, che non dà noia. La si vede e si mette da canto, come un particolare della persona, una di quelle abitudini, che sfuggono al giudizio, perchè fan parte della fisonomia.

È Paul Fort; è ben naturale che vada a spasso e che guardi! D’altronde, questa ballata par composta espressamente per metterci sott’occhio tutti i tratti più caratteristici e più famigliari di quella fisonomia.

Qui sono le sue simpatie; la mattina e la primavera. (Fine d’aprile questa, precisamente, mi sembra cantano le cinciallegre, le rondini son tornate da un pezzo; e si sente la lunghezza di un’alba quasi estiva. Ma l’aria fresca pizzica, e non è impregnata di odori; non è ancor maggio). È curioso che quasi tutte le avventure della poesia di Fort sono in primavera, fra marzo e giugno, direi; e antimeridiane. Egli ha anche delle sere bellissime, e qualche chiaro di luna ammirabile; su delle graminacee, sul mare elettrico, e via via. Ma la sua vera proprietà è l’aurora, la musica della mattina, la calma del mezzogiorno.

Qui sono anche, riassunti o echeggiati, quasi [p. 227 modifica]tutti i suoi, non dico clichés, ma insomma i suoi modi più consueti. C’è, passeggiando per le strade, l’incontro col passato; una fontana fa comparire Racine, che vi rimira la sua pura fronte, senza un gran bisogno; e molta della storia, che popola i versi di Fort, è così fatta, è richiamata da una tenerezza del poeta che sente degli obblighi un po’ confusi e superficiali verso il passato della sua cara Francia, tanto pittoresco e gentile — e che fiorisce poi qualche volta in variazioni e fantasie bellissime, come l’«archerot de la reine» e il meraviglioso «Henri III....».

C’è ancora, che ci riporta a molti altri, un tentativo di elevarsi attraverso la bizzarria fantastica in una regione di lirismo superiore: le sensazioni, imposte turchine, tetti, nuvole, son fatte scala per arrivare a Dio; e l’anima salendo, il corpo pare abbandonato laggiù in basso, disperso nella gioia visiva. Poi si trova una chiesa creata nella sua solidità dalla magia di un rintocco; con quel solito allargamento del processo, che fa crescere il campanile a mano a mano, un po’ forzatamente, verso il cielo, fino a mostrare come un dito il Creatore!

C’è la solita fioritura un po’ oziosa, sui tetti pieni di camini e di banderuole, di angeli colla trombetta in bocca; e i camini sembrano guerrieri. C’è il motteggio, quel pizzico di realtà gauloise in mezzo al lirismo contemplativo, grazioso e sensibile qui, nello sternuto, poniamo, che fa sentire al poeta di non essere un’anima solo, quasi senza ombra — come le anime di Dante — ; grazie a Dio, e a un piccolo vento d’inverno che dev’essere passato di lì!; ma altre volte è spesso un po’ stiracchiato o caricato, tale da diminuire in qualche modo anche il valore di certi momenti li[p. 228 modifica]rici, lasciando loro una grazia quasi d’occasione, e più di colore che di fantasia vera. O se è fantasia, ha qualche cosa di più tenue, non vorrei dire più superficiale, che non sia nei veri poeti schietti. È difficile a dire con precisione; ma insomma, questa, per esempio, è un’aurora; non un’alba, come sarebbe in Rimbaud. Ecco: pensate alla unica Alba, nelle Illuminations; e poi sentirete in questa la diminuzione di intensità, il roseo soffice, quasi carnale....

Vedete dal principio:

O justement divinisée, ouvre tes mains
— Aurore aux doigts de rose — et garde tes mitaines:
caresse sur les toits le grésil du matin.
Le froid pique? Hé! voici mon Aurore à la peine.

L’attacco coll’apostrofe retorica par fatto più insipido dal frizzo un po’ troppo voluto, dei mezzi guanti infilati sulle dita di rosa: e tutto il resto è minuto, descrittivo e vivace senza vera fantasia.

Questo ozio alquanto diffuso di descrizione si rivela meglio più sotto, quando il poeta, dal ponte nell’acqua increspata, si volta a quel falcetto di luna che, giusto, pende ancora sulla città, in mezzo al cielo di rosa: e si ferma a ricamare e colorire:

                                   (Oh! la distraite aurore!
Elle a blessé ses doigts au fil d’une faucille
et des roses sanguines s’effeuillent dans l’eau d’or).

C’è del gentile e insieme dell’arcadico in questa immaginazione, dell’Aurora che s’è tagliata le dita al filo del falcetto, e quel roseo piove sull’acqua d’oro: si sente la voglia di dare alla descri[p. 229 modifica]zione comune un tocco più fino, e nella finezza resta il comune, come un po’ di cipria in quella pioggia citerèa. Ma la descrizione non è finita, lo scintillio dei colori sorge come un motivo staccato per la contemplazione,

(Le bleu. le rose, l’or, le rouge d’étincelle,
et l’argent et le gris, qu’en ces vers ils reviennent:
ils sont venus si doux jouer en mes prunelles,
y dormir, y rêver d’une vie éternelle!):

la voce ondulata accarezza i colori e li fa brillare a uno a uno — sentite gli e non più muti nell’enumerazione — senza riuscire a dargli un valore distinto; resta un’espressione a mezz’aria, che non è nè il colore realizzato nei suoi accordi precisi, nè la delizia passeggera; qualche cosa di molle e ricercato, come sarebber le «rose e viole», della nostra poesia accademica, prese sul serio; così questi riflessi vogliono esser qualche cosa di più, acquistare una vita più intima nel raffinamento psicologico, che si accorge quanto sian dolci, e come vengano a riposare nelle pupille e ivi dormire e sognare uno splendore eterno: maniera pura e semplice, prodotto di una certa «arte poetica» moderna, di cui non sarebbe difficile ricostituire il canone e i precetti.

Ma che cosa importa tutto questo alla fine? È un uomo che scrive; non un dio che canta; l’ho già detto e non mi dispiace di ripeterlo. E nell’uomo bisogna far bene la parte necessaria alle debolezze, alle imperfezioni, al mestiere. Dopo, rimane il dono e la grazia. Rimane la canzone. Non bisogna analizzarla; ma ricantarsela, col suo sospiro che sale e che scende.

Comincia così bene, così leggero. Anche la tenuità mi piace, l’invocazione alla vecchia aurora [p. 230 modifica]dei poeti, e poi quel frescolino pungente della mattina, che fa soffiar sulle dita,

                         (.... Aussi je souffle un brin
dans mes doigts. Chaud! Chaud! Chaud! Quelle joie souveraine!
Une mésange bleue chante sur le moulin
de la ville endormie où seul je me promène).

Bisogna rileggere per sentire il valore di quel secondo verso, in cui pare che le sillabe capiscano a pena e conviene star attenti per farcele entrar tutte; no, per riuscire a quel respiro di gioia, che si distende e si divincola melodiosamente nel finale così lieve e così largo — sola una cincia su tutta la città! — e le rime ripetute come una cantilena ci avvertono che siamo proprio al canto; le rime allungate e continuate, con una piccola variazione dentro che accresce la musica.

Di verso in verso tutto vibra più forte; le sillabe prendono un suono pieno, un valore fermo; non ci son più giochetti, niente da elidere, da escamoter; tutto si canta, il sospiro è diventato profondo come un’armonia di orchestra.

Rayons du jour naissant! frâicheur délicieuse

— scandite queste sillabe a una a una per sentir con che gioia si staccano e vibrano —

de cette matinèe! et je vais, clandestin,
m’instruisant d’une ville entre toutes heureuse
et pareille à l’Aurore en son calme destin.

Non ho fatto a tempo ad accorgermi della grazia che è in una parola sottilmente trovata — m’instruisant! — ; perchè c’era qualche cosa, nel finale precedente, di così spiccato come suono e preciso come impressione, che mi bisogna segui[p. 231 modifica]tarne la promessa vibrante fino al termine; ed è la perfezione chiara e solenne di un verso librato ugualmente su tutti i suoi quattro accenti; con un effetto di calma cantante, che si schiarisce nella rima, ma non finisce, e spazia ancora nel silenzio della lunga pausa.

E poi.... la cincia ancora, e l’allegrezza degli angeli. Nul bruit.... Un chiacchierio di paradiso in mezzo alla pace.

Ma non si può restar sempre in paradiso. Ascoltando, il silenzio si determina in un brusio di fontana, di due, di tre fontane; e la musica si restringe, in una parentesi sommessa, intorno a Racine. Le parole riacquistano il loro significato logico. — «Est-ce du bruit cela? (Ses vers en étaient-ils», — e la parentesi si corrusca in una riflessione facile come un gioco di parole, come un gioco di suoni, di cui il susurro si prolunga e s’invola sull’ala di un verso veramente divino,

                              Ses vers en étaient-ils,
à ce disert conteur des plus divins mensonges?
L’eau coule et le vers chante et fluit, tout n’est qu’un songe).
O la Ferté-Milon, bruit n’est que de mésange,
adonc, et je l’ai dit, sans doute pour les anges.

Un verso che non è altro che il prolungamento, nel senso e nel suono, del luogo comune di prima; ma il suono è diventato una meraviglia di leggerezza e il senso pare che renda lo spirito mobile e delizioso di tutta la ballata. La conchiusione del periodo dovrebbe essere, a fil di logica, un compimento necessario, ed è invece un’invenzione, una di quelle aggiunte piccole che mostrano la natura sottile del poeta, con una sveltezza di parole che è una gioia simile al gioco mutato e pur continuato della rima, da mensonges a mésange. [p. 232 modifica]

Piccole cose. Grazie del dire più ancora che del cantare. E Paul Fort, se ritorno a paragonarlo coi suoi anziani, con la musica indimenticabile di Lélian, con l’intensità assoluta del carlopolitano, par quasi un dicitore, un diseur, prima che un poeta. Il suo movimento è discorsivo, fiorito di gentilezze e di giochi; ma il cammino che egli segue, si vede; e la sua agevolezza non rifugge dall’aiuto di un po’ di schema. E anche il ritmo l’aiuta, alla maniera tradizionale. La vecchia forma della quartina — non badiamo alla apparente irregolarità delle rime, intrecciate, baciate, mescolate — gli si presta come una misura fissa, in cui quel dire un po’ fluido si riposa e si disegna; le ripetizioni e le esteriorità dello schema, invece di essere una debolezza, riescono una sorgente di echi e di sorrisi, gli consentono di trovare delle felicità d’occasione, che non avrebbe forse incontrato altrimenti. E poi, tutti i momenti di una sensibilità un po’ prolissa, si trovano collocati, strofa per strofa, con uno stacco che rende sensibile la variazione dei toni, il salire e lo scendere del respiro. Una, due quartine mediocri, colla luna e i colori, e poi una ripresa deliziosa; della passeggiata e della poesia insieme.

Sautons très doucement ce ruisseau, car tout dort.
La rue de la Chaussée, que la grand’ rue je nomme
dans sa blancheur rosée de desert insonore
semble avoir oublié jusqu’à l’ombre des hommes.
Tenez, je n’ai pas d’ombre. Hé!, si fait, mais légère,
à peine l’ombre enfuie d’une fumèe dans l’air.

Tutto si sente. Il bisogno istintivo di far piano, muovendo i passi in quel gran silenzio, realizza d’un colpo l’ora della mattina; e il chiaro e il vuoto del giorno nella strada. E non c’è niente [p. 233 modifica]di vano, niente che non sia mobile come una sorpresa e vivo come una musica, in quella voce che passa così naturalmente da una disinvoltura di narrazione (la rue de la Chaussée) a una potenza pronta e piena in cui quel che si direbbe il linguaggio simbolista, di una sensitività un po’ astratta (blancheur.... desert insonore) non ha più peso tecnico, è immagine pura.

L’assenza delle ombre non è un tratto peregrino: ma chi la poteva far sentire con tanta leggerezza di soffio (oublié); e non fermarsi, ma seguitare con un divertimento che sfuma quasi nell’aria insieme con le rime, e poi torna alla terra col soprassalto e il sorriso del piccolo sternuto

(Ne suis-je plus qu’une âme? J’èternue, Dieu merci.
Un petit vent d’hiver a passé par ici).

È inutile andar avanti, con questo sforzo di fissare nei suoi elementi una grazia, di cui l’essenza è la mobilità, la sorpresa, la finezza che si dissimula nella bonarietà o nella disinvoltura del discorso, e poi brilla in una scappata improvvisa.

Il poeta cammina, si ferma, s’incanta, si diverte; e si sente la sua voce, nelle pause e nelle esclamazioni; si vede il viso sospeso, su cui lo stupore della contemplazione ha dei chiaro-scuri rapidi di malizia; si sentono le cose tutt’intorno a lui, colte a volo nella loro rivelazione lieta, le cose nuove, quasi immateriali nella limpidità del mattino, ognuna al suo posto, con la sua brina e il suo silenzio.

Ci sono dei ciottoli di una sonorità e di un’allegrezza infinita, venuti fuori Dio sa come, creati dall’incanto degli occhi che si divertono a guardarli, si fissano a contarli uno per uno: son tutti [p. 234 modifica]lì, quadrati, lavati, brillanti nella via che sale a poco a poco — sicuro, è nel salire che la strada ci viene incontro e si fa guardare!

D’abord rien ne me charme autant que les pavés.
Il y en a bien cent, deux cent, troix cent, dix mille.
Je les admire, tous, (comme il sont bien lavés!)
en gravissant la rue que domine la ville.

E c’è una chiesa che nasce dal suono.... Si fa presto a dire che questo è un trucco alquanto famigliare dello scrittore:

«Ding!» La demie d’une heure? O magie d’un seul son!
De sa vibration est née toute une église.
Eh! oui, c’est Notre-Dame et sa tour en frisson.

Ma qui si sente perfettamente che prima la chiesa non c’era, era tutt’uno con le altre cose, coi tetti, col lastricato, col deserto insonoro; è il tocco della campanella che le restituisce una esistenza visibile e vibrante, colla sua fronte, il rosone, il piccolo campanile che cresce: ogni onda delle molecole sonore crea un fremito e aggiunge un grado alla mole, che è di pietra insieme e di gioia incorporea.

E in fine, la fine! L’ombra del maniero arriva non veduta, e si versa nera sull’uomo che cammina; come una cosa piovuta dall’alto sul terreno nudo, spegnendone tutta la sonorità; e sotto si vedono i tetti fini, le case raggruppate e addossate nello scorcio della salita; e tutto questo si sposta, si muove, scivola e si agita insieme col poeta che sale svelto, e poi si volta sul culmine, resta lì ridendo, a contemplare lo spettacolo che si raccoglie e si riordina ai suoi piedi, a sbatter le mani alle finestre che si aprono: ed ecco il risveglio è [p. 235 modifica]compiuto, la mattina e le città hanno raggiunto il loro destino,

(Vous restez?... Bon, moi seul, j’irai d’un pas joyeux
vous dominer, puis des deux mains vous applaudir,
car, je ne sais pourquoi, mais il fait bien plaisir,
ce bruit sur des murs blancs de tant de volets bleus!)

con questo fracasso di persiane che sbattono giù giù lungo i muri, con questo riflesso di verde e di turchino sulla calce che dà così bene la luce fra le sei e le sette!

La passeggiata è finita, anche per me. Sento che dovrò tornarla a fare un’altra volta, passo passo, con più curiosità, con più minuzia. Ma per adesso son contento;

car, je ne sais pourquoi, mais il fait bien plaisir!

Posso aggiungere, intanto che scrivo, che ci sono parecchie altre cose nella ballata, di quelle che si vedono dopo; difetti, scarsità di linguaggio (fins et légers — Cultivez les lauriers....) su cui la prima lettura è scorsa, effetti secondi di incrocio e d’accordo che si confondono con l’impressione fantastica.... E poi c’è, intorno alla ballata, tutto un Paul Fort simile e diverso, di delizia sensitiva moltiplicata indefinitamente, e anche di malinconia più stringente, di melodia rara, di confessione e di dolcezza e di poesia sempre nuova: il Paul Fort della «folle journée», delle elegie, dei romanzi, come quello dei lieds e delle odelettes; amore e sogno e ricordo di uomo, gioia di spiritelli [p. 236 modifica]che danzano; le ronde e le canzoni del mare, l’«aventure éternelle».

E qualcuno potrebbe pensare di andar dietro a questa poesia in tutti i suoi episodi, o di ridurla a qualità ultima di accento e di contemplazione e contrappunto; potrebbe tentare di realizzarla, fra il principio lirico da cui muove e gli effetti che aggiunge, come essenza semplice; tale forse che la si può ritrovare diffusa in tutti i momenti e concentrata, espressa o celata, in ognuno, in ogni punto magari della prima ballata; o anche esprimere come possibilità pura, come aspettazione della poesia che deve venire, delle «ballades pour me consoler d’être heureux», che io non ho ancor letto, o di quelle altre che Paul Fort non ha ancor fatto.

Io mi contento oggi della mia ballata. Questa è stata il principio e a questa dovevo tornare. Questa mi ha lavato, mi ha liberato gli occhi e l’anima dalla stanchezza, mi ha lasciato quasi nella gioia.

La quale sospirava dentro, mentre già attendevo ad altro, e cresceva e fluiva da me come un bisogno di ringraziare. Così ho fatto, dunque. Tanto umilmente da conservare alle mie parole la loro ingenuità superficiale e sentimentale. Non come un ornamento: come una verità, come una mortificazione. (Ma non bisogna dirlo! se no, non c’è più merito. Dirò anche questo, dunque).