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RINGRAZIAMENTO A UNA BALLATA DI P. FORT 217

sento forse, insieme con la poesia, l’intenzione di esser poetico? Quel mettersi là fin dal principio a bere col corpo il vento di primavera mi rappresenta quasi una tesi, l’obbligo, per riuscir poeta perfetto, di dissolversi interamente in questa sensazione, di diventar primavera con tutta la carne e in tutti i punti e con perfezione di contentezza. Mi ricordo che la citazione seguitava con uno sviluppo sottile e un po’ confuso, senza impreveduto. Era lo sviluppo del tema, troppo chiaro fin dall’inizio, nella sua mescolanza di sensitività e di analisi. E basterebbe a farla sentire solo quel neologismo, assai felice del resto, quel m’infinise (come un altro virginisé, dell’aere) così astratto e sensibile insieme, che rivela tutta l’eredità del simbolismo e di certi programmi di rinnovazione del linguaggio poetico, che non hanno oltrepassato le più volte qualche ricercatezza grammaticale e qualche sottilità pseudo-filosofica. Anche Fort non rimane indietro in questo genere; egli ha tutta una teoria del poeta come visionario e della visione come creazione, e poi del poeta-Dio e di ogni cosa-Dio, che gli fornisce dei temi eccellenti e insoliti. Ma sono temi, finalmente; non sono molto originali come metafisica, e nemmeno come poesia. Mi pare che nascano, piuttosto che da una necessità o da una simpatia di natura, dal desiderio di realizzare quel concetto della poesia assoluta, che è stato fabbricato da una certa cultura.

Non bisogna prendere molto sul serio questi tentativi di lirismo creatore, che possono interessare più che altro per l’invenzione dei particolari e per una certa mobilità di fantasia. Ma serietà è misurata dal confronto di certi altri momenti o fraseologie, se volete (non è ancora Fort che ha