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220 SCRITTI DI RENATO SERRA

belli, Pisse fontaine e Coucy e Mortcerf, ma con quel titolo sopra, quel «gauloise» in grassetto sul margine alto, come un pennacchio di bizzarria che accenna e invita. Qui è quel che cerco.

Leggo: un pezzo qui, un pezzo là; avanti, indietro, senza regola. Il corpo è immobile sulla sedia e gli occhi scorrono sulla pagina; ma la mente è ancora lontana, attratta dalle cose che le hanno fatto compagnia tutta mattina, e se ne sono andate e non sono perdute ancora, come resta un’ombra di noia dopo che il male è scordato. Le parole passano, lettera a lettera, e le immagini si formano come le bollicine della schiuma sulla superficie dell’acqua nel canale accanto alla strada, così lento e gonfio e piano che par faccia il coppo sui margini: non hanno fatto tempo ad affiorare che già son dileguate senza un soffio, senza vestigio. E poi quella stampa è così minuta, nericcia; le righe ballano davanti agli occhi e si disfanno.

Poche parole semplici sui «nomi belli» intorno a Mortcerf, mi pare, son le prime che si facciano leggere distintamente; del resto, è una impressione chiara e innocente, senza nessun residuo. Dopo, c’è la foresta di Crécy. Ecco qualche cosa che comincio a sentire, a travedere; tunnel di verzura, odor di mente calpestate, la coda dello scoiattolo che frulla, il martellino dei picchi nel bosco, dei conigli in un lago di margherite, e Mortcerf a mezzacosta, brillante nei vapori del mezzogiorno....

Leggo adagio, per seguire la cadenza dell’alessandrino, vivo ed elastico come il passo di un fanciullo. Ma scivolo e tiro via, sui tratti che non riescono a compormi un quadro: colpa mia, for-