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212 | SCRITTI DI RENATO SERRA |
e non si è mai certi se lo schema sarà osservato anche in seguito, se agli alessandrini non seguirà un ottonario, se le rime non diventeranno assonanze; e talora non si vorrebbe badare, si vorrebbe leggere alla buona, abbandonandosi alla corrente, e pur non si può fare a meno di vigilare come in un gioco di pazienza, in cui si sospetta sempre che qualche cosa vi sfugga. Non parliamo poi del caso di aver contato leggendo, oppure soppresso una e contro l’intenzione del poeta, in modo da fermare per es. alla misura di un novenario, quello che è invece un alessandrino, costretti poi a tornare indietro per riprendere il modo giusto; non parliamo della rima riconosciuta quasi in uno strascico del suono, o peggio ancora, colla coda dell’occhio, quando era già passata, e gravante poi sul resto della lettura come un sospetto vago e una voglia dispettosa, che si potrà sfogare in insulti verso me stesso, beota e filisteo inetto a sentire la poesia che passa, o si rifarà finalmente sopra lo scrittore che mi costringe a questo sforzo inutile e ingiustificato: chi sa che banalità diventerebbero quei versi, se fossero stampati come tutti gli altri, si vorrebbe dire; e non si ha neanche questo conforto, perchè si sente che non è vero, e ci si arrabbia anche di più.
Non mi arrabbierò adesso. Provo una certa soddisfazione nell’accostarmi a questa roba, senza antipatia oramai, ripetendomi ben chiaro e ben forte che tutto quel fastidio di ogni novità e libertà un po’ ostentata, quella fedeltà alle forme classiche e comuni erano più che altro un atto di orgoglio. Potrei sviluppare fino a domani le ragioni della superiorità, così dal punto di vista della natura come da quello del mestiere, che è nelle forme fisse di fronte alle cosidette libere;