Panegirico di Plinio a Traiano (Alfieri, 1927)/Panegirico
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PANEGIRICO
di Plinio a Traiano
Nobile e generoso incarco da voi, o padri coscritti, mi viene in questo giorno affidato, poiché lodi vere ad un ottimo principe potrò io dare, senza arrossire; ed egli, spero, senza arrossire riceverle. E giorno veramente questo di eterna memoria sará, men lusingo, se io, di romano console la maestá lungamente per la tristizia de’ tempi obbliata riassumendo, saprò dalla sublimitá del soggetto e dalla opportunitá dei tempi, trar cose degne d’essere da voi ascoltate, da me dette, e da te, o Traiano, con quella tua finora mostrata benignitá, approvate.
Ma alla splendida, difficile e per l’addietro pericolosa, impresa di liberamente parlare al principe, piú ragionevole e santo incominciamento non potrei dare che invocando favorevoli i Numi.
Tu dunque, o massimo Giove, che dal celeste tuo seggio per tanti e tanti anni degnasti col tuo benigno sguardo proteggere ed innalzare questa romana repubblica; tu, che in essa tante patrie virtú, tanto coraggio, tante sublimi anime, quasi raggi della tua divinitá, con piena mano spandesti; tu, che poscia, pe’ vizi nostri alle virtú sottentrati, con noi lungamente sdegnato, in preda ci lasciasti meritamente ai Tiberi, ai Neroni, ai Domiziani; tu in somma, che ora impietosito dei continui, feroci ed orribili mali nostri, largo segno della tua risorta pietá cominciasti a mostrarne, concedendo Nerva per imperatore al popolo romano, e piú largo ancora nell’inspirare a Nerva l’adozione di Traiano; tu, Giove eterno, se gl’incensi, le lagrime, i voti nostri nel Campidoglio a te sacro, ti sono dopo sí lunga ira a grado oramai ritornati, inspirami in questo istante sovrumani lumi e piú che mortale eloquenza, per cui mi venga fatto d’indurre questo umanissimo principe, opera in tutto tua, ad eseguire tal magnanima impresa, che nessuna mai eguale finora non siasi, non che eseguita, né pure pensata; tale che a quanti ne verran dopo maravigliosa ammirazion ne rimanga, coll’impossibilitá d’imitarla.
Io, cittadino romano, a principe nato cittadino parlo. Quindi, se meno che liberi (salva però la reciproca convenienza) fossero i detti miei, tu primo, o Traiano, e con ragione, offeso te ne terresti; quasi io malignamente volessi far credere che chi al cospetto parla di giusto signore l’ingiusto sdegno temerne potesse giammai. Avvilirei in oltre non poco me stesso, mostrandomi, col timido e dubbio favellare, piú degno di adulare i passati reissimi principi, che di altamente parlare in nome del romano senato a quest’ottimo; e, non fedele interprete di Roma, di cui la migliore e la piú sana parte in questo augusto consesso rimiro, farei del consolato mio una trista e lagrimevole epoca per la repubblica, se, trascorsa una preziosissima occasione di ricuperarle legittima libertá, o ad altri ne cedessi lo splendido assunto, o coll’averla per infingardaggine negletta, o per timore non ben proseguita, o per poca abilitá senza rimedio perduta, facessi il senato pentire dell’onore affidatomi, e a me, con vergogna ed obbrobrio eterno mio, rincrescere di averlo accettato.
I
Romana repubblica è il nome con cui fino ad ora questo popolo viene appellato. Ma a te, Traiano, a te stesso, e alla presenza di Roma, e attestandone i sommi dèi, domando: dov’è questa nostra repubblica? L’augusto tuo aspetto, la illimitata nostra venerazione, il tuo e l’universale silenzio, appien mi rispondono che la repubblica è in te; in te solo: e che in te, per favore speciale dei numi, degnamente sta tutta. Ma tu, uomo sei e mortale. Pur troppo (e sia pur lungi tal giorno! ma per quanto sia lungi, sempre affrettato sará per questa inferma repubblica) verrá, pur troppo, quel lagrimevole giorno che noi di un benigno padre, ed il mondo intero del maggior suo splendore, privando, a calamitosi tempi, a vicende terribili di varia fortuna di nuovo esponendoci, tanto piú dolorosa e irreparabile fará la rovina nostra, quanto questo breve respiro che sotto il principato tuo gustato si era, ridestate avea in molti le lusinghiere speranze di piú prospero, tranquillo, libero e sicuro stato. Se in te solo omai dunque sta la repubblica tutta; se il poterla fare infelice, anzi il disfarla, e da’ fondamenti sottosopra rivolgerla, è stato sventuratamente concesso agli iniqui predecessori tuoi; tu mostrare, convincer tu déi Roma tutta che piú nel ben fare che nel nuocere, la immensa imperatoria possanza si estende. E se dimostrato ci viene che i mali cagionati da quei mostri, benché infiniti, e di conseguenza lagrimosa e lunghissima, pure per la successione di Nerva, e tua, poterono divenir passaggeri, a te si aspetta (e di te solo è degna la impresa) il far sí che i beni cagionati da te durevoli ed eterni rimangano. Né ciò altrimenti ottener tu potrai che col fermamente ordinare per sempre in tal maniera lo stato, che alla illimitata e perpetua autoritá non pervengano dopo te, né i cattivi principi, per non sovvertere gli ottimi provvedimenti da te fatti, né i buoni, poiché a ben regolata repubblica necessari non sono ed, esistendovi pure, impedire non possono che ad essi poi molti altri non buoni ne succedano.
Che uno stato libero, elettive e passeggere dignitá, nessuna preemimenza se non quella che dá la virtú, nessuna potenza se non quella delle giuste leggi, giovino maggiormente a far grande, temuto e rispettato al di fuori, lieto e felice al di dentro ogni popolo, credo, che parlando io ad un principe che fu cittadino, non ne abbisognino prove. Né tu, né io, né questi venerabili senatori veduto abbiamo vera repubblica; ma non sono cosí lontani i tempi che vera e viva memoria non ne rimanga fra noi. Di padre in figlio la dolorosa tradizione delle nostre passate glorie, giunta colla funesta serie dei recenti nostri timori, pericoli, danni e avvilimenti, troppo fra loro manifestamente contrastano, perché ogni buono, spaventato dai moderni tempi, ammiratore non sia e adorator degli antichi. E chi piú di te, principe incomparabile? che, degli antichi emulator virtuoso, a maggior gloria, volendola, riserbato sei dalle calamitá stesse dei tempi; a gloria maggiore, e d’assai, (senza adulare, ad alta voce io tel dico) poiché di gran lunga avanza i piú chiari difensori della libertá colui che volontariamente restitutore se ne fa, potendo egli pure senza contrasto veruno la signoria mantenersi.
Ed oltre la propria gloria, un’altra immensa gliene ridonda poi nel progresso dei secoli da tutte le altrui virtú, che figlie della restituita libertá, come da vivo e puro fonte, dalla gloria e virtú del restitutore si emanano. Né io finora le a te dovute lodi per le tue tante passate magnanime imprese ti ho date; perché lode di gran lunga maggiore, e di te assai piú degna, mi pare averti tacitamente data da che ti favello, o Traiano, nel reputarti capace di quest’una eseguire, cui solamente il tentare piú gloria ti procaccerebbe che l’aver l’altre tutte a fine condotte.
Ma vane parole, e di senno e ragion quasi vuote, mi avverrebbe di spandere al vento se io, prevenendo, per quanto il debole mio ingegno il può, le obbiezioni e difficoltá tutte che in cosí straordinaria rivoluzione s’incontrerebbero, non dimostrassi e le ragioni per cui tu déi farla, ed i mezzi di perfettamente eseguirla e gli ottimi effetti che di necessitá derivar ne dovrebbero.
II
E dalle ragioni incominciando, per cui a rifar la repubblica e disfare ad un tempo la signoria indurre ti voglio, o Traiano, non mi pare inopportuno, benché cosa a tutti noi nota, di brevemente toccar le ragioni per cui, parte dal loro mal animo, parte dalla necessitá e corruzione dei tempi, furono i primi fondatori della tirannide nostra indotti a distruggere la repubblica; tanto in ciò piú crudeli, che, quasi a scherno dei miseri cittadini, lasciando le apparenze ed i nomi di libero governo, afflissero poi la cittá di tutti gli orribili flagelli che ai piú vili e servi uomini toccato sia di sopportare pur mai.
Le inimicizie tra la plebe e il senato, cagioni ad un tempo della nostra crescente virtú e grandezza, furono poi, oltre la mole troppa della potenza nostra, la cagion principale della rovina. Mario e Silla, funesti nomi alla romana grandezza e felicitá, furono quelli che delle forze romane, terrore giá un dí degl’inimici di Roma, si valsero a spaventare, stravolgere, insanguinare e distruggere Roma stessa. Cagione glien diedero i nostri vizi ed i loro; pretesto, le inimicizie nostre e fazioni; mezzo, i numerosi eserciti che a cosí sterminato imperio difendere necessari erano divenuti pur troppo. Ma questi eserciti erano pure composti altre volte di cittadini romani; e tali furono finché, scellerati disegni nell’animo dei lor capitani non entrando, li vollero soltanto a Roma fedeli, ed ai nemici terribili.
Pure la spirante repubblica un bello e magnanimo esempio di romana grandezza vide ancora ed ammirò, in quel Silla stesso che l’avea di lutto, di tremore e di sangue riempiuta. La dittatura rinunziata e la cittadinanza (benché superbamente) ripresa collocarono Silla, e tuttora lo lasciano, infra i tiranni tutti il piú grande. Un assoluto imperio legittimo (se legittimo v’ha) rinunziato spontaneamente; un popolo ricondotto a costumi, a splendore, a virtú, a libertá, assegneranno al ristauratore di essa, e al distruttore della propria tirannide, il primo luogo, non che fra i principi, ma fra gli uomini tutti i piú liberi, i piú virtuosi, i piú magnanimi. Di Cesare non parlo; maturo era allora il nostro servire, e dovendo pur Roma per poco tempo esser serva, nol potea con minore infamia, che a Cesare. Degno era forse Pompeo di difenderla, se tenuto il mondo intero non avesse in un dubbio, niente per lui onorevole, qual cosa anteponesse egli, la repubblica o se stesso.
La trista successione poscia di principi tali che i non furibondi chiamaronsi buoni, andò struggendo il libero e maschio pensare; i virtuosi fatti, e la memoria perfino di essi indebolí e nascose: ma, consumò ad un tempo, se non tutti, gran parte di quegli umori perversi che alla rovina della libertá contribuito aveano. Nelle spesse e lunghe civili guerre, estinte e rinnovate le legioni giá use a donare e toglier l’impero; agguerriti gli eserciti nostri, tanto piú che romani a romani combattere maggior virtú richiedeasi; facilmente poscia nei brevi respiri dalle domestiche dissensioni passarono a respingere i nemici, ad assicurare ed estendere i confini del romano impero. I romani finalmente, atterriti ed attoniti dai mali in cui precipitati gli aveano i vizi loro e, per la incessante tirannide di quei mostruosi principi, purgata e vuota la cittá dei piú ricchi e potenti e soverchianti cittadini; questo gran corpo, debole sì, attenuato ed infermo, ma non estinto, rimase.
I pochi anni dell’impero di Nerva e del tuo a noi tutti insegnarono che, tacendo il timore, potea riparlar la virtú. Rinsaviti noi dai nostri passati mali, e il vizio perdendo oramai gli infami suoi premi, si andò per se stesso consumando nella dovuta sua oscuritá e bassezza; ovvero, se l’audace fronte osò egli pure di tempo in tempo innalzare, la meritata pena la ammoní che il principato pendeva in repubblica. Oggi dunque, mentre io a te parlo, o Traiano, Roma, dagli esempi tuoi generosi al ben fare invitata, ha dentro di sé in assai minor numero i rei; ed i buoni, ora che senza pericolo tali manifestare si possono, molti piú che da credere non sarebbe dopo sí lunga tempesta, o vi si manifestano o rinascono; o anche, dalla necessitá traviati finora, al sentier di virtú, benedicendo te come loro infallibile e magnanima scorta, pieni di nobile invidia ritornano; tanto piú caldi settatori di essa, quanto la macchia dei loro passati falli piú acerbamente gli stimola a tôrsela.
Se dunque dimostrato ti ho che in Roma sorgea la tirannide perché tutto preparato era per riceverla e meritarla; ancorché non ti potessi io dare cosí evidenti prove che il tutto oramai preparato vi sia per ricevere e meritar libertá, l’altezza del tuo cuore supplirá, spero, e alla scarsitá delle prove mie e alla mancanza di virtú nei cittadini nostri infelici e non liberi. Troppo ben sai, o Traiano, che la pubblica virtú suole, e deve essere della restituita libertá piú figlia che madre.
III
Né altra ragione posso io far precedere a questa: che la cosa, essendo grande in se stessa, degna ella è di Traiano. Al principe nessuna altra cosa da acquistarsi rimane, se non chiara fama. Il rimanente tutto in copia possiede e soverchia a lui forse. Da quell’abbondanza stessa il fastidio e la cagion per lo piú che nel seno di torpido ozio, di se medesimo immemore, egli perde ogni amore di gloria; o che, dalla sazietá stimolato, di acquistarla procura per vie fallaci, non ragionevoli e al pubblico dannose non men che a se stesso. A Traiano una comune gloria non può bastar mai; ed ogni gloria è comune fra i principi, fuorché la inaudita finora, di essere i fondatori o restitutori di libertá.
Ed in fatti, se tu, benché vincitore dei Daci, e rinnovatore in Roma dell’antica sua militar disciplina, dalle egregie vittorie tue la fama di chiaro capitano ti aspetti, non ne avrai però tanta giammai che a Cesare, non che superarlo, ti agguagli: se dal comporre in un sopore di pace la cittá, dal farvi ad un tempo le molli arti, le non vere lettere e il servaggio fiorire, e cosí gli snervati animi dei cittadini da ogni turbolenza distôrre; (ove tal funesta e timida politica presso ad uomini giá liberi partorir fama potesse) certo in tal arte che esser pur mai non potrebbe la tua, di gran tratto superato saresti dal pacifico lunghissimo regno d’Augusto; se da una certa molle benignitá, che molto pure si valuta nel principe allorché, tacendo le leggi, egli solo le interpreta, Tito te ne ha, preoccupandola, intercetta la via. Degli altri romani principi non ardirò pure proferirtene il nome; ch’io troppo ben so, che Traiano, assunto appena all’impero, altro piú caldo desiderio in petto ed in mente non accolse che di farne per sempre la memoria puranco obliare. E migliore e piú certo e piú efficace mezzo ad ottener tale intento sceglier tu mai non potresti che di tua autoritá, giusta benché illimitata, servendoti, per invariabilmente stabilir libertá; la quale per se stessa poscia i Neroni, i Tiberi e i lor simili non che ammettere all’imperio degli uomini, neppur soffre, direi, che vengano da natura generati tai mostri; o, nati appena, sotto il peso delle leggi e della uguaglianza, nel proprio seno gli estingue.
Ed in prova, osserva, ottimo principe, come a poco a poco la scellerata baldanza, e la inumana stoltezza crescesse in quei regnatori; come il valore di Cesare appianasse la strade alla pusillanimitá d’Augusto; come la lenta, mite e coperta tirannide d’Augusto generasse poi l’astuta e crudele di Tiberio; come da questa finalmente prorompesse poi, senza limiti conoscer piú, la furibonda di Caligola, di Nerone, di Domiziano. E circa a quest’ultimo, osserva che il breve intervallo dell’umano governo di Vespasiano e di Tito, non fu però bastante a togliergli o a menomargli i mezzi di riassumere una intera, sfrenata ed inaudita tirannide. Tristo, orribile e recentissimo esempio che ti avverte, o Traiano, che alla tua bontá, umanitá, giustizia e moderazione, può tra pochi anni sottentrare con intera nostra rovina un mostro niente minore dei sopra nomati. E le crudeltá, le violenze, le rapine, l’onte, le stragi, i mali tutti in somma da quel mostruoso futuro principe fatti, non meno che a lui autore di essi, a te imputati verranno, pur troppo: alla fama tua ne verrá minoramento grandissimo; al tuo stesso nome e memoria grand’odio; poiché potendo, per l’autoritá a te affidata dagli dèi e dal rinascente genio della romana repubblica, restituir libertá e togliere con efficaci leggi e con ingegnosi mezzi per sempre i tiranni, eseguito pure non l’hai. Chi perdonare può a Tito l’essersi lasciato succedere Domiziano? Gli era fratello; ma Roma gli era, o essere doveagli, piú che figlia. Nol poté, nol volle forse egli spegnere, benché quello scellerato contro lui congiurasse; magnanimo in ciò era Tito, ma come privato, non come principe; che se le proprie ingiurie perdonar pur volea, possente ritegno alla inopportuna clemenza gli doveano essere tuttavia le tante e sí atroci ingiurie che ben prevedea doversi poi fare alla desolata repubblica, da Domiziano in possanza salito. Una fraterna inopportuna pietade era dunque cagione dell’ultimo e quasi intero eccidio di Roma. Felice te, o Traiano, che congiunti non hai! che figli, parenti, ogni piú cara cosa, nella sola repubblica conti! Nessuna ingiustizia, nessuna crudeltá ti fa d’uopo per isgombrar questo soglio. Ciò che dal divino Nerva, non come parente suo, non come amico, non come laudatore, ma come ottimo fra i buoni, per l’avvedutissimo suo discernimento, ottenesti, tu rendere il puoi a chi spetta; tu, col cessare di comandare assolutamente ad uomini nati tuoi pari, incominciar potrai oggi a farti veramente, e per sempre, maggior di loro in chiarezza, in fama, in virtú. Né dubitar tu potresti di non avere pur molto accresciuto il tuo lustro, e migliorato il tuo essere; poiché, libero cittadino facendoti, tanto piú in pregio e la tua e la nostra libertá ti dev’essere, quanto ne sarai stato tu stesso, tu solo, tu primo, il verace magnanimo creatore; e, se in Roma non è spenta del tutto la memoria di Roma, ognun di noi sa che libero, cittadino, e romano, tre nomi sono a cui nulla si agguaglia, nulla si aggiunge; e che al posseditore di essi l’odioso nome o possanza di re, infamia bensí e vergogna e pericoli e danni può procacciare, ma non gloria mai né splendore. Quanto piú a grado ti riuscirá la venerazione nostra, l’obbedienza, l’amore, la gratitudine, se tu pervieni a disgombrar la tua mente da quel funesto pensiero che, infino che l’assoluto comando tu serbi, dubitar sempre e giustamente ti lascia, se a te, o alla potenza tua, ossequio sí sterminato tributasi! Ad alta, ma a certa prova tu metti e Roma e te stesso.
Né io, per consigliarti un cosí magnanimo atto, alcuna particolar gloria a me stesso procaccio; né un atomo pure della tua ne detraggo. Il mio pensiero è il pensiero di tutti; l’ardirtelo esporre non è del mio coraggio la prova, ma della virtú di Traiano sublime. Un principe a cui si osa proporre di estirpar da radice il principato, assai apertamente e generosamente pur debbe essersi giá manifestato aver egli di cittadino vero, e non di principe, l’animo. Tale tu sei, o egregio Traiano; tal ti mostrasti, ed in pubblico a Roma, ed a’ tuoi ben affetti, tra’ quali me non disdegni, in privato. Tuo primo e solo e piú intenso desiderio egli è il far Roma felice, grande, tranquilla e sicura; ciò chiaramente, in una sola parola vuol dire il farla per sempre «libera». Interprete io a te dei tuoi stessi pensieri, non ti richieggo giá di compiacere a noi tutti, ma di soddisfar pienamente a te stesso. Cagione dunque primiera di far sí grand’atto, parmi averti dimostrato chiaramente essere non meno che la tua vera grandezza, la tua possanza e gloria. Né giá perché io creda che alla repubblica te stesso anteponessi tu mai, ti ho voluto assegnare per prima cagione l’utile privato tuo; ma per dimostrarti alla faccia di Roma, che tale e tanto è l’affetto che da essa acquistato nel governarla ti sei, che Roma nessuna felicitá sua in conto alcuno terrebbe, se, prima che ad essa, vantaggio, grandezza ed eterna fama ridondare non ne dovesse a Traiano.
IV
Dai meriti nostri vive cagioni ritrarre, per cui indurre ti debbi a restituirne libertá, non mi sará cosí lieve. Ma pure, prima, e potentissima cagione sia, e da bastar quasi sola, il desiderarla ardentemente noi tutti; possente ragione per meritarla. E non creder tu giá che io, nel dir libertá, altro intendere presuma fuorché di sempre obbedire a Traiano, cioè alle leggi, di cui egli sará osservatore e difensore; ma che, cessando egli poi, possono nella persona di un altro, potente quant’esso, un sovvertitore incontrare. Gli animi nostri adunque prontissimi sono a libertá ricevere ed, ottenuta, a difenderla. Di ciò ti facciano piena fede le tante e sí spesse congiure contro i passati principi; le tante volontarie morti di chiari e potenti cittadini, di vita sfuggiti soltanto per involarsi alla insopportabil tirannide; l’acerbo odio del nome di re da ogni romano, fino ai dí nostri, succhiato col latte ed oramai trasferito ad ogni illimitata ed ingiusta possanza, che anche sotto altro meno insultante nome si eserciti. Grande tu per te stesso sei troppo, ed io libero troppo mostrare mi debbo per non parere indegno della causa ch’io tratto, perché a tacerti io abbia che il nome d’imperatore, i mali tutti di quello di re in se stesso adunando oramai, odioso non meno che quello di re ad ogni romano si è fatto. Tacer non ti posso, che in te si amano, si adorano le doti, l’animo, le virtú di Traiano; ma che in te si abborrisce la possanza, la dignitá e il nome d’imperator re, di cui con ragione si trema. Ad animo generoso quale il tuo, ardisco io esporre, come il primo dei meriti nostri, ciò che ad altro volgare principe ogni maligno e vile delatore esporrebbe come il primo dei tradimenti. Sì, Traiano, i cittadini di Roma, pe’ loro lunghi mali, per le orribili passate tirannidi, ed in ultimo piú efficacemente ancora, pe’ brevi felici anni del tuo impero, rientrati in se stessi, e ritornati romani, ogni qualunque freno abborriscono che può loro impedire di essere e di mostrarsi romani; lo abborriscono ed osano dirtelo per bocca mia. Ma, dove pur tanta altezza di pensieri dispiacer mai potesse a chi ne diede gli esempi ed i mezzi, te stesso ne incolpa, o Traiano che, lasciando respirar la cittá, hai fatto nei cittadini rivivere la calda memoria dei loro antichi e sacri diritti; cagione ad un tempo ed effetto della passata loro libertá e grandezza. A voler essere imperator tu di nome e di fatti, dovevi adunque colle solite imperatorie crudeltá incutere nei cittadini tremore, e alla oppressa virtú imporre eterno silenzio. Cosí almeno il meritato odio acquistando, gl’iniqui frutti raccolto ne avresti. Ma poiché di libero governo piaceati l’apparenza mostrarci, perché, col toglier la tirannide affatto, non assicurarne oramai in eterno la base? Beneficar puossi un popolo a mezzo? Il sollevarlo dalla oppressione, affinché altri poi di nuovo riopprimer lo possa, piú crudeltá che vera pietade sarebbe.
Ma tu, pietoso, umano, giusto e sagace, hai forse in pensiero di adoperare tai mezzi, per cui il principato d’ora in poi sia per essere mite sempre, e fra limiti, e non contrario a virtú? Né tu ciò credi, né noi. Un uomo nella repubblica saravvi, il quale, o per adozione di principe, o per sognata ereditá, o per elezion di soldati, o anche, se vuolsi, per irriflessiva elezione del popolo intero, salirá in dignitá primaria, sola, perpetua, non frenata, non impedita e avvalorata anzi da molti e possenti eserciti? costui sará, (né altrimenti Roma appellarlo mai puote) sará un tiranno costui. Forse mite, forse giusto, forse buono, anche ottimo forse; ma odiosissimo pur sempre a liberi cittadini, e un mostruoso ente da essi a ragion riputato; perché stará in lui, ed in lui solamente, il non essere né mite né giusto né buono. Un popolo che, in tal guisa pensando, non ha del tutto ancora sovvertite le idee del retto, e che legittima autoritá quella sola egli stima, che data, e con limiti, da chi poté darla può togliersi; un tal popolo, parmi, merita ancor libertá. E tale, o Traiano, egli è pur questo popolo che tu colle leggi governi; ed a cui provvedere tu déi (se ti cale la sua gloria e salvezza) che altri mai, fuorché le sacre leggi, governare d’ora innanzi no ’l possa. Dall’odio dell’autoritá tua e dall’amore immenso di te, che moderatamente la eserciti, puoi dunque vieppiú imparare a conoscere ed apprezzare e il popolo tuo e te stesso. A principe maggior del suo impero non altrimenti da un libero cittadino si parla.
Mi è noto, e nol niego, che sí nella plebe che fra i patrizi, moltissimi uomini vi ha, che, dai passati governi nelle reitá e nelle brutture travolti, d’essere romani non sanno; e un tal numero forse, ove pur non soverchi, agguagliasi al numero almeno di chi caldamente il rimembra. Ma che per ciò? Tralascierá mai l’ottimo principe, il padre di tutti, di giovare a tutti, perché gran parte nol merita? La virtú in pregio tornata, le severe ben eseguite leggi, e piú d’ogni cosa, il chiaro e sublime esempio possono in pochi anni i guasti a mezzo soltanto far rinsanire e rivivere; ed i putridi corrotti membri della repubblica, per la salvezza dei rimanenti, estirpare. Anche al cacciar che Roma facea dei Tarquini, molti partigiani della tirannide, molti rei, molti vili, molti traditori entro il suo nuovo e ancor vacillante stato acchiudeva: ma che? lo splendido esempio d’un Bruto nei figli, le tante e sí alte virtú dalla stessa necessitá procreate, tutto, in breve, contribuiva a far nascere quella Roma libera, alla cui gloria e possanza era poscia angusto termine il mondo. I cittadini tutti dividendo io dunque in due parti, dico che ai buoni déi restituir libertá, perché degni ne sono, ai cattivi affinché, per mezzo di quella, di esserlo cessino.
V
Dei mezzi poi di eseguire una cosí magnanima impresa, ora che, per quanto io seppi, dimostrato ti ho che per te stesso non men che per noi la déi fare, colla libertá stessa, e con vero amore della patria di te e del retto discorrerò; non per insegnarteli, no, che piú che a me ti son noti; ma per convincere pubblicamente i piú tiepidi amatori di libertá, che facilissimi sono tai mezzi, mentre i piú li reputano impossibili; ma facili sono, imperante Traiano, ed impossibili pur troppo sotto ogni passato principe erano e, se tu non provvedi, da ora in poi saran tali per sempre.
La legittima autoritá in Roma libera stava nella plebe e nel senato. Questi ne rivestivano a vicenda, ed a tempo, i consoli, i tribuni, i dittatori. Cose note, notissime, ma da gran tempo, in questo senato non piú mai, e con sommessa voce fuor di questo consesso, tremando, rammemorate. Piacemi qui, col rammentarle altamente e col parlarne io in non dubbie né oscure parole, manifestare a Roma che sotto Traiano non è delitto il ricordarsi di Roma, l’investigarne la vera grandezza e libertá, il desiderarla e il provvedere al rinascimento di essa.
Il console, che d’un anno d’impero appagavasi, dopo essersi mostrato ai nemici di Roma soldato, ed ai propri soldati cittadino, fra le patrie mura pieno di verace gloria e di patrie virtú ritornato, nulla perdeva nel perdere la elettiva sua dignitá: anzi, aggiunte alle dolci prerogative di libero cittadino le dolcissime lusinghe di una chiara e meritata fama, un piú nobile e piú durevole impero ritenea; quello che la conosciuta e verace virtú dá necessariamente sopra chi n’è ammiratore ed amante. Quindi si componea di consolari uomini quel venerabil senato, che per tanti secoli era dei re della terra l’ammirazione ad un tempo e il terrore. Le lontane e troppe guerre costrinsero poi Roma a moltiplicare gli eserciti e i capitani; e con somma imprudenza ne lasciò ella troppo lungamente il comando ad alcuni suoi cittadini, che tosto cessarono d’esserlo. I soldati allora non piú dal cuore di Roma, o dall’Italia almeno, ma dalle piú rimote provincie estraendosi, barbari quasi di costumi e di civiltá, Roma o niente o mal conoscendo, di sangue giá ad essa nemico procreati, di libertá vera ignari; costoro la repubblica nel lor capitano riposero, ogni volta che con illustri e spesse vittorie di molte ricche prede saziandoli, in fomentare i lor vizi piú che in accrescere la lor disciplina e valore, quel capitano, vie men romano di loro, si adoperava. Cesare ebbe primo la vile e crudele baldanza di farsi tacitamente de’ suoi soldati re, per farsi poi della sua cittá apertamente tiranno. Non eran piú cittadini que’ suoi soldati; e dal cessare essi d’esserlo, al cessar la cittá non fu, né esser potea, lungo il frattempo; quindi un civile moderato governo tosto cangiossi in un militare e violento. Furono da quel punto in poi il senato nostro, le pretoriane coorti; i nostri tribuni del popolo, i centurioni; i sacri consoli, l’imperatore perpetuo ed unico, e quale! —
O Roma, dello stesso tuo nome appellarti potesti, e cosí cangiata, cosí vilipesa, cosí straziata, tutto soffrire e tacerti? — Ma il tempo è al fine pur giunto; sì, il tempo, in cui, da medica sovrana mano ristorate le tue acerbissime piaghe, ti rifarai piú bella e non men grande e piú saggia. L’imperatore tuo unico console e cittadino vero vuol farsi. Gli eserciti numerosi e superbi da cui egli ricevuto l’impero non ha, ma che da lui novella e veramente romana disciplina riceveano; gli eserciti che sotto le gloriose sue insegne imparato hanno non meno a sconfiggere e debellare i nemici che a rispettare, conoscere e adorar la repubblica; gli eserciti in somma, che lo aman temendolo, cesseranno, per gli umani suoi giusti provvedimenti, di essere il flagello e il terrore della loro propria cittá. Niuno imperatore finora dirsi potea signor del suo esercito, da cui riconosceva il proprio impero, nella cui forza per esercitarlo affidavasi, della cui mobilitá e baldanza ad ogni ora e momento ei tremava. Traiano, de’ suoi soldati imperator veramente e non schiavo, a fare dell’autoritá sua un uso ben degno si appresta, nel fare i soldati suoi ridivenir cittadini; gran parte distribuendone, o tutti, nelle tante desolate contrade sí della Italia che dell’altre provincie dell’impero, le quali, d’uomini esauste, novelli cittadini richieggono, e aspettano che in esse il commercio, le arti, la santa agricoltura, la felicitá ne riportino. E Traiano, a cui tutto è possibile, i cittadini finora pacifici, avviliti, oziosi e dai propri soldati atterriti, fará ridivenir soldati essi stessi, per la conservazione della verace rifatta repubblica; e terribili soldati e veri e romani saranno, quelli che, liberi e non oppressi al di dentro, contro i soli e veri nemici di Roma, sotto consoli o capitani a tempo, per la propria salvezza combatteranno. Da questa lodevole, necessaria e beata antica mescolanza di nomi, per cui indistinti sono il cittadino e il soldato, ogni odiosa differenza, ogni soverchiante possanza, ogni insidia alla libertá viene impedita e tolta e distrutta. Cittadino, in libera contrada, vuol dire libero e sicuro posseditore dell’aver suo, dell’onor suo, delle mogli, dei figli e di se medesimo. Ogni uomo tale è soldato, e feroce e tremendo soldato ei suol essere, per la difesa di queste veramente sue cose. Non è soldato, no, per la malvagia ambizione del capitano; non per la rea cupidigia di un non saggio senato. Roma oramai conquistato ha, se non troppo, abbastanza: spandasi pe’ vasti confini del suo impero la libertá vera, ed il maschio pensare de’ nostri maggiori, e Roma per se stessa bastantemente è difesa.
Chiaro è che gli eserciti moltiplicati, immensi, perpetui, sfrenati e cupidi, frutto di corrotta e troppo grande repubblica, ne furono il sovvertimento, gli oppressori ne sono, e i distruttori ne saranno, rimanendo. Ma, di ciascuno individuo che un esercito compone, chi a parte a parte l’animo e i pensieri e i desideri ne spiasse, non in migliaia uno ne troverebbe nemico veramente del civile vivere. Uomini sono; per quanto rozzi e dissoluti e corrotti; uomini sono, alla cui piena felicitá, poca terra, quieto e sicuro vivere, con moglie e figli e libertá, basterebbero. Ecco dunque, che ciascuno d’essi, o piú o men buono, può essere però ancora cittadino; or donde mai, donde nasce che, riuniti, costoro il contrario divengano d’ogni viver civile? Lieve cosa è le ragioni assegnarne. Erranti sempre, non conoscono patria; privi delle domestiche dolcezze, non conoscono quei potentissimi affetti di padre e marito, che la umana ferocia pur tanto rattemprano, e che delle altrui sventure compassionevoli cotanto ci fanno; avvezzi alle rapine e alle prede, scialacquatori facilmente delle mal acquistate ricchezze si fanno; a continua e dura obbedienza costretti, quella repressa lor rabbia con fierissima inumanitá poi disfogano contro i piú deboli di loro; delle loro armi in somma vivendo, ogni ragione, ogni speranza, ogni ordine, ogni loro cittadinanza nelle armi sole ripongono. Tali sono i soldati pur troppo, romani giá non dirò né di Roma, ma i soldati che da Roma nutriti, han Roma distrutta. E tali esser debbono e sempre saranno, i soldati che cittadini non sono; che colla stessa mano la spada e la marra a vicenda non trattano; e che, non diventando mai padri, cessano d’esser figli di vera repubblica. Ma cotai mostri, la di cui pestifera realtá nella loro sola riunione consiste, divisi, dispersi, umanamente trattati, uomini ridivengono e cittadini, a un solo cenno che Traiano ne faccia. Sì, ottimo principe, ad un solo tuo cenno, migliaia e migliaia di cittadini rinascono; e, con doppio guadagno per la oppressa repubblica, migliaia e migliaia di nemici, di oppressori, di distruttori di essa spariscono. Ed era dagli immortali dèi un tanto prodigio riserbato ai tuoi tempi.
Cessato appena nei veri cittadini il terrore che a loro giustamente cagionano questi superbi eserciti, le virtú, da prima e principalmente pel tuo sublime esempio, poi per se stesse e per le creatrici libertá, in folla si vedranno rinascere. Traiano, tu allora godrai di un bene ignoto sempre a chi impera, di un bene infinito, inesplicabile, e sommo per un core ben fatto e magnanimo; il trovar emuli nella virtú.
VI
Ma i lusinghieri beni, e tanti e sí grandi che dalla soppression degli eserciti ne debbono a te ridondare ed a noi, annoverar non degg’io, prima di avere circa alla possibilitá di ciò fare dissipato ogni dubbio. Che alcuni ancora, e non pochi, io qui dintorno rimiro, col loro tacito dubitare inquieti e tremanti per la sicurezza dell’imperio, ogniqualvolta distrutti saranno i soldati; e dalla novitá delle cose che tutte si debbono sconvolgere a tal mutazione, e dagli ostacoli, che solo vedono e assai maggiori del vero ritraggono costoro infinito timore e perplessitá. Pensate, o romani, e pesate qual fine vi si propone da questi sconvolgimenti: la libertá; qual fine dall’addormentarci nel seno di passeggera fallace calma: la total distruzione. E sia vero (che non è) che dispersi appena i soldati, da ogni parte i nemici di Roma ne invadano l’impero; e poniamo puranco che, senza difesa trovandolo, fino alle mura di Roma pervengano, vi nuoceranno quelli maggiormente o quanto vi nocquero i feroci eserciti vostri da Cesare, da Galba, da Ottone, da Vitellio contra voi stessi condotti? vi nuoceranno mai codesti nemici quanto vi nocquero, senza neppure il velo di guerra, sotto Tiberio, Caio, Claudio, Nerone e Domiziano, in Roma stessa le pretoriane loro insolenti coorti? Dai Galli assediatori del Campidoglio si riscattava Roma coll’oro; ma libera rimaneva; e vincitrice indi a non molto tornava. Da questi crudeli imperatori di romani eserciti, da questi vili pacifici signori di satelliti e schiavi, Roma saccheggiata, arsa, profanata, avvilita e distrutta, neppure col sangue si riscattava; ed oppressa e vinta e doma ed annichilata rimaneasi. Contro ai veri estremi nemici, nella libertá, nella virtú che n’è figlia, nella disperazione stessa e nella necessitá si ritrovano armi e coraggio; ma contro agli oppressori domestici che, prima di opprimerci, corrotti necessariamente ed avviliti ci hanno, niun’arme si trova da opporre se non lagrime, pazienza e viltá. E se Roma finir pur dovesse, qual fine sarebbe il piú degno di lei? Coll’armi in mano, superati, ma non vinti, generosamente i suoi cittadini fra le proprie mura in difesa di essa morendo; ovvero, come vil gregge, senza né pure attentarsi di piangere, ad uno ad uno svenati da un novello Nerone, che di tal vista si piglierebbe infame diletto?
Ma cessi il gran Giove, conservatore di Roma, ch’ella a nessuna di tali vicende soggiaccia. I cittadini resi liberi e fatti felici, soldati ai confini dell’impero diventino; condotti siano da elettivi consoli e proconsoli a tempo; si deponga ogni pensiero di ulteriore conquista; si conosca meglio la vera grandezza di Roma consistere nell’esser libera e costumata, non nella immensitá dell’impero che i vizi allargando, la virtú rinserra e costringe; si ripetano in somma in tutto gli antichi princípi che potente l’han fatta e felice; e quelli, con la saggia e lieve mutazione che i mutati tempi richiedono, la ritorneranno felice e potente. L’autoritá di Traiano ad ottenere un sí magnanimo fine le vaglia. Felice Roma che in lui il censore, il riordinatore, il custode ritrova! Felice Traiano che tanta autoritá nelle sue mani vedendosi, cosí nobile, umano, inaudito e memorabile uso può farne! Riordinare i comizi, estirpare la venalitá, dalla confusione in cui giacciono rimettere in chiaro e in vigore le prerogative e i doveri di ciascuna dignitá, sopra i nomi in somma, che quasi nude ossa della estinta repubblica rimangono, riannestarne una nuova, simile per quanto si può all’antica; raffrenare il lusso sterminato, rimettere in piena osservanza le leggi, e, per magnanimo esempio, sottoporvisi primo egli stesso; son queste le generose cure, a cui riserbata è l’altezza dell’animo di Traiano: son questi gli obblighi immensi, che a cotanto principe avrá Roma; è questa la via per cui gli onori della tua divinitá (ove, per l’abuso di essi, finor profanati non si fossero) meritamente poscia ne verrebbero a Traiano solo accordati. Ma, se laida adulazione, incredibile viltá, oblio totale di lor decoro e di se stessi, fece dai maggiori nostri nomare e venerar come dèi, Cesare, Augusto, ed altri imperatori piú crudeli e men grandi di questi; dopo una lunga vita che i veri dèi non negheranno a Traiano, poiché a far rinascere Roma il sortivano, sacro sará per se stesso e memorando e divino ed eternamente venerato il nome di «Traiano uomo», che ad uomini oppressi e non liberi, spontaneamente restituiva, piú preziosa assai che la vita, la libertá.
Gli ostacoli che a una cosí magnanima impresa incontrare ei potesse, (fra cui, superato il primo della milizia, gli altri tutti per se stessi si appianano) se ad esser vinti richiederanno violenza, Roma ne’ suoi diritti rientrata adoprerá contro que’ rei cittadini che cittadini non sono, la forza; se abbisognerá senno, sagacitá, previdenza e vivi esempi di rara virtú, Roma con occhi pietosi rivolgerassi allora a Traiano. Qualunque sia la dignitá ch’egli a se medesimo riserbi, in quella le altre tutte staranno; e s’anco non ne volesse il suo grande animo alcuna serbare, Traiano privato, Traiano cittadino, sarebbe pur sempre Traiano tribuno, console, dittatore, e se maggior cosa può esservi in Roma. Tanto piú bello, e piú lieto allora, e piú puro l’imperar suo, che tutto alla propria virtú, al libero e verace amore de’ suoi cittadini il dovrebbe; non all’altezza del grado, non alla insolente baldanza degli eserciti, non al terrore de’ suoi eguali.
E, per appresentarti finalmente, o virtuoso egregio uomo, il piú alto e ad un tempo il piú dolce termine della tua gloria, avverrá forse anco che la invidia, peste non estirpabile mai, tenterá di lacerarti e di nuocerti. Tu forse, ridivenuto privato, ti udrai con irriverenza licenziosamente biasimare; ma all’ombra delle leggi, per te in forza e venerazione tornate, godrai tu tranquillo della inesplicabile gioia di essere uomo fra uomini: e da quei pochi, liberi, aperti e non tremanti nemici, verrai a conoscere ed accertarti che i molti ammiratori, veneratori ed amici tuoi, mentiti oramai piú non sono. Tutti in somma, ed in te e per sempre in tutti, annullando tu stesso le funeste prerogative dell’assoluto potere, cui dá e mantiene la forza, tutte, ed in numero infinito, a riacquistar tu verrai quelle tante, e sí dolci, e sí grandi, cui sola può dare e mantener la uguaglianza. Privato nascesti, ma in disastrosi tempi, e non liberi. D’uomo, nel suo intero, esercitarne l’ufficio non ti fu dato finora; non quando eri privato, perché cittadino mostrarsi niun uomo allora attentavasi; non quando eri assoluto principe, perché uguali non avendo, cittadin non puoi essere; ma il primo fra gli uomini e stati e futuri diventi tu, da quel giorno stesso, in cui dall’impero a vera cittadinanza ascendendo, teco i concittadini tuoi, da un reo e lungo servaggio a libertá promuovi ed innalzi.
VII
Ma sempre, malgrado mio, mentre io mi propongo di esporre i mezzi di annullar la tirannide, non so qual nume, con irresistibile forza mi tragge ad esporre e descrivere i divini effetti, che dalla estirpazione di essa ridonderebbero; e, senza avvedermene quasi, ad enumerarli pur sempre trascorro. Cedasi dunque all’impetuoso sovrano genio della libertá; ch’egli è certamente l’inspirator de’ miei sensi; e col ragionar degli effetti diversi di essa, in tal maniera l’animo di Traiano si accenda a restituir libertá, e quello dei romani a, desiderandola, meritarla, che dalla perfetta concorde ed intera volontá di chi ardentemente la brama, e di chi umanamente ad accordarla si appresta, vengano ad un tempo, ed a facilitarsene i mezzi e ad annullarsi gli ostacoli.
Giá tanti e tali mi si affollano alla mente i preziosi beni, che dalla riacquistata libertá ridondar si vedrebbero, che io, ripieno il core di una dolce emozione, turbato l’animo, accesa e trasportata la fantasia dai cosí diversi, e tutti lieti e tutti vasti pensieri, non so qual prima qual dopo ne narri; qual debba accennare, su quale estendermi, di quale tacere; onde, per la soverchia voglia di esprimere, non con premeditata eloquenza, che un cosí alto soggetto la sdegna, ma con semplicitá e calore, ciò che l’animo tutto mi accende, invade e consuma, io temo di poter dir tanto meno, quanto piú sento che termine al dire giammai non porrei. Disordinati accenti, come il cuore e la fantasia li dettano, interrotti fors’anche da lagrime e sospiri di gioia verace; saranno questi gli encomi della libertá, e de’ suoi dolcissimi frutti, che or dal mio labro si udiranno prorompere.
Giá giá mi si squarcia dagli occhi quel tenebroso velo, che la caligine dei passati e futuri secoli involvendo, il pensier nostro nell’angusto termine dei presenti tempi confina. Io veggo, sì, e d’un solo rapidissimo sguardo, io veggo Roma qual era ne’ suoi felicissimi tempi, qual ella è nei nostri, quale, con novella prosperitá e grandezza, nell’avvenir potrá essere. Le venerabili ombre dei Catoni, degli Emilii, dei Bruti, dei Regoli e di tanti altri illustri romani mi si appresentano in lieto aspetto; e magnanima scorta mi si offrono a farmi conoscere quella Roma che essi abitavano. A gara mi narrano quali virtú, qual forza, quanta felicitá in quei loro concittadini lasciassero; qual santitá e severa osservanza di leggi; qual plebe, qual senato, quali eserciti; quanta costanza nell’avversa, quanta modestia nella prospera fortuna; qual religione e culto degli dèi; quanto in somma d’inaudito e di grande la bene ordinata repubblica, per la prosperitá dei suoi cittadini, radunato si avesse. E tutto, quanto quei generosi spirti con sí nobile trasporto mi svelano agli occhi, tutto diverso, tutto per l’appunto contrario esser veggo a ciò che la presente Roma rinserra.
Prima virtú di quegli ottimi, conosco essere stata il sapere e osservare le leggi; nostra, pur troppo! da gran tempo si è fatta, il sovverterle, trasgredirle, deluderle ed ignorarle; e quegli piú grande fra noi, con incredibile cecitá di giudizio, fu reputato, che con piú rovina nostra e disdoro, maggiormente seppe sopra le inermi ammutolite leggi innalzarsi. La forza dei romani animi con maravigliosi esempi mostravasi, nel tollerare le militari fatiche, nell’affrontare pericoli per la repubblica, nel correre lieti e volontari alla morte, dove dal cessare dei loro individui ne fosse al pubblico ridondato gloria e vantaggio; la forza dei moderni animi, con eterno vituperio nostro, manifestavasi finora nel sopportare, tremando e tacendo, ogni ingiustizia, ogni rapina, ogni oltraggio; o se qualche scintilla di romana fortezza in alcun romano di tempo in tempo si andava pure mostrando, all’uscire volontariamente di vita per isfuggir la tirannide, consecrata era soltanto. E dove per lo addietro l’immolarsi i Deci, i Curzi e tanti altri, in pubblico onore ed utile ritornava, l’uccidersi fra noi quei pochissimi che al servire anteponeano la morte, in pubblico danno tornava; poiché un buon cittadino meno, dove giá pochi ne sono, è irreparabile perdita; ed in pubblica vergogna ed infamia tornava; poiché la generosa morte di quelli dimostrazione vivissima era pur troppo della viltá di quegli altri tutti, che i forti non vendicavano e non imitavano.
Felicitá somma ed unica, un dí era in Roma la sicurezza e l’uguaglianza; donde i costumi, le domestiche virtú, le vere amicizie, la fede, la parsimonia nascevano; felicitá era il vedere ogni uomo felice; e niuno dalla rovina del congiunto, dell’emulo, del nemico, o dell’amico stesso pur troppo, la propria sicurtá e grandezza ne traeva. Oimè! qual pianto mi accora se narrare mi è forza quale sia stata la felicitá dei tempi nostri finora! Pubblica, non ve n’è stata mai niuna, se non se nei brevissimi intervalli, o momenti in cui si videro dall’usurpato soglio precipitare quei mostri, che fatto aveano fede essere in noi maggiore di gran lunga l’indegna sofferenza e viltá, che non in essi la crudeltá efferata. Nerone, Caio, Ottone, Vitellio, Domiziano: trucidati tutti, vittime dei loro delitti e del tardo furore di pochi cadendo, faceano col morir loro conoscere e gustare ai presenti romani un’ombra vana di passeggera felicitá; ma tosto in lagrime di sangue dal barbaro lor successore scontar si facea la stolta gioia di Roma. Privata felicitá, (apparente e non vera) in questi orribili tempi la goderono soltanto quei pochi infami che delle libidini, delle estorsioni, delle uccisioni fatte dai principi creandosi esecutori e ministri, dell’altrui sangue impinguati, dell’altrui pianto pasciuti, infra le rovine pubbliche con baldanzosa insoffribile inumanitá e impudenza, d’ogni ricchezza e d’ogni vizio satolli, fra le universali tacite grida, nella propria non meno che nella principesca reitá securi viveano. Sante, sacrosante erano allora le leggi, a cui quella vera Roma obbediva, appunto perché Roma le facea; osservate, venerate, temute elle erano, perché ciascun cittadino rispettava in esse i suoi concittadini e se stesso. Inique, trasgredite, vilipese, e gravose le nostre, perché fatte da «uno». E dall’uno create, dall’altro distrutte, rinvigorite da questi, riannullate da quelli; le perpetue loro rapide e risibili vicende ben larga prova ne fanno che non dal ben pubblico, ma dal privato interesse, dall’assoluto capriccio, dalla stoliditá e dalla insania stessa peranco, dettate elle sono.
Era il romano popolo in quei felici tempi sagace conoscitor de’ suoi dritti, difensore acerrimo d’essi, generoso emulatore delle patrizie virtú, ferocissimo in guerra, in pace mitissimo, religioso osservator degli dèi, parco nel vivere, operante sempre, ed amator della gloria; ma, con avveduto discernimento, ogni gloria riponea nella libertá della patria. Il popolo che ora di romano si gode, non meritandolo, il nome soltanto, in ogni crapola nei piú sozzi vizi ed eccessi ingolfato, novelli dritti creatisi ha, immemore in tutto degli antichi: non libero, divertito ei vuol essere: le ricchezze, giá dai tiranni rapite ai cittadini tremanti, vuole che fra esso con prodiga mano ritornino in giuochi, in conviti, in bagordi. Un tal popolo non è piú soldato; dei propri soldati egli trema; i nemici dell’impero piú non conosce; dei patrizi è nemico e non emulo; sagrilego disprezzator degli dèi, e ad un tempo di timide e vili superstizioni pienissimo: è questo, è questo pur troppo quel popolo che giá degnamente figlio di Marte s’intitolava.
Tralascerò di dire qual fosse allora il senato; non perché un vile timore, favellando io nel novello senato, mi allacci la lingua; ma so che non è fra voi, o padri coscritti, spenta la chiara memoria dei vostri grandi avi, che dai vostri cuori non sono estirpati i preziosi semi delle loro divine virtú, che fino ad ora il campo e la libertá, non il desiderio mai né la capacitá di esercitarle, mancovvi. E so che a generosi e gentili animi troppo è grande castigo la coscienza dei commessi falli, senza che vi si aggiunga l’insopportabile peso della vergogna. Passati sono i piú infelici tempi in cui rimordendo io in senato de’ suoi infami vizi la plebe e la piú vile feccia di Roma, sarei senza volerlo venuto a rimordere i primi fra i senatori. Cancellati sono dai fasti nostri, e dalla memoria nostra per anco, quegli illustri ribaldi che con empie adulazioni, con tradimenti, veleni, concussioni e delitti in somma orribili, d’ogni genere ed infiniti, aveano della patrizia gente contaminato a segno la fama e maestá, che la piú scellerata, la piú disprezzabile, la piú abborrita in Roma non v’avea. Erano quegli, ed esser tali doveano, i senatori che ai Neroni e ai Domiziani toccavano; come voi siete meritamente il senato che di Traiano si fregia.
VIII
Ma, di quanti luttuosi mali dei nostri tempi ho annoverati finora, non mi è giá caduto in pensiero d’incolparne i miseri cittadini. Ah! no; conseguenza necessaria e funesta era quella delle infami ed inique signorie; come necessaria e fausta conseguenza della divina libertá dovean essere, ed erano, le sopra accennate virtú.
E giá io, di baldanzosa speme e di profetico spirto ripieno, antiveggo qual debba fra non molti anni, per la restituita libertá, risorgere la Roma novella, e per infiniti secoli terrore e ammirazione alle genti poi crescere e mantenersi. Piú che convinto oramai è Traiano che il volere sotto il dominio assoluto di un solo continuar la cittá egli è un volerla intieramente distruggere. Non, s’egli eterno vivesse; non, s’egli un altro Traiano a governarci lasciasse; e successivamente, e sempre, altri Traiani assumere si potessero all’impero; non certo allora ridomandare si udrebbe libertá dai romani; poiché, o piena l’avrebbero, o cosí mite sarebbe il servire che, tranne l’altezza e la energia dell’animo, tutti i rimanenti beni della libertá si godrebbero. Ma la impossibilitá di tal cosa, il pericolo estremo che anche l’ottimo principe porta sempre con sé, di essere dalla propria illimitata potenza tradito e corrotto; quel nobile diffidare di se stesso e dei propri lumi, in chi maggiori gli ha piú frequente; tutto, tutto addita a Traiano che la gloria, la sicurezza, e la vita di Roma non si dée né affidare, né riporre in un solo. Traiano sa e vede che il potere uno piú di tutti, senza che tutti, ove egli ingiustamente voglia, contra quell’uno difender si possano, ella è cosa contraria al retto, alla felicitá, al buon ordine, alla natura. Né mai vien creato quest’uno, se non dal delirio di tutti e dal guasto loro animo, o per l’arte e fraude di esso; né mai mantenuto vien egli, se non dal timore di tutti o dei molti, o dalla usurpata eccessiva forza di lui.
Ed in prova, il console, legittimo principe, eletto, ed a tempo, di dodici littori soltanto, piú a pompa che a difesa, muniva la propria persona e dignitá; l’imperatore perpetuo ed unico, creato non mai dal volere di tutti, figlio non delle leggi, ma della forza, l’imperatore munisce e corrobora con gli eserciti interi la illegittima autoritá non ben sua; e dietro essi difende la sua tremante odiosa persona. I consoli, venerati sempre; stimati, se il meritavano; temuti, ma non piú delle leggi; mai non si udiva che uccisi, altro che in battaglia per mano dei nemici, cadessero: gl’imperatori, o barbaramente svenati dagli stessi loro eserciti, o giustamente dagli adirati e oppressi lor cittadini, ben ampia fede ne fanno che l’assoluto e perpetuo potere di un solo, non è mai legittimo, poiché la forza sola il mantiene; e che sopportabile non è lungamente egli mai, poiché il giusto furore che di tempo in tempo negli animi di chi vi soggiace si va riaccendendo, mal grado il timore e la forza, lo abbatte pure e distrugge.
IX
Ecco dunque, ecco al tacer degli eserciti, rivivere, rifiorire la libertá. Ecco disperdersi quelle folte nubi d’armati che Roma ingombrando, incutono pure, ancor che il principe nol voglia, un fiero timore nel cuore dei cittadini; e dal timore virtú nessuna giammai. Ecco Traiano, che d’imperatore fattosi cittadino, le pretoriane coorti in un piú gradito, nobile e dignitoso corteggio ha cangiate. I cittadini in folla lo accerchiano; beato si reputa chi piú lo ha mirato da presso; lui benedicono, lui vero padre con voci di giubilo gridano. Ritorna a poco a poco negli animi lungamente avviliti ed oppressi l’amor della patria, (or che patria può dirsi) il verace valore, l’emulazione al ben fare, l’ardente divino furore di acquistarsi con chiare opere eterna la fama. Incese veggio, incenerite e spianate quelle insultanti moli che sopra il Palatino torreggiano, giá destinate ad albergo di assoluto signore. Traiano è il primo ad abbatterle, ed in privata magion ricovrandosi, di ben altra grandezza ei fa pompa che non quei superbi vili signori, nel fare dei loro immensi edifici orgoglioso velo alla lor nullitá. Quell’alto seggio da cui nel senato ei mi ascolta, egli primo comanda che agli altrui si pareggi; ben certo è Traiano che fra gli altri sedendosi, non sará perciò mai fra gli altri confuso.
Al grido che tosto la rapida rimbombante fama di sí maraviglioso cangiamento fino all’estremitá dell’impero ne porta, in folla da ogni piú rimota parte di esso vengono i sudditi di ogni etá, d’ogni grado, a rimirar co’ loro occhi un uom sí divino, una cosí incredibile ed inaudita virtú; e testimoni poi ne riportano alle loro genti l’ammirazione l’amor di Traiano, della patria, della restituita libertá.
Ogni padre, baciando ed abbracciando i suoi figli, per allegrezza piange, ed esclama: — Figli miei, che tali da oggi soltanto a riputarvi e nomarvi incomincio, figli miei cari, assicurati mi siete da oggi e non prima. Osservando io le sacre leggi, non pavento che la violenza e la crudeltá dai miei lari oramai vi rapisca; da voi in tutta sicurezza e pace gli antichi moribondi occhi miei saran chiusi; voi, legittimi eredi delle sostanze mie, non tremo che spogliati ne siate; né voi, donzellette, dal fianco dei dolci ed amati mariti disvèlte: non l’ossa mie perturbate e disperse: non la mia fama, che assai peggio pur fôra, calunniata e ritolta. —
Lá veggo il ricco, non piú tremante, non piú sollecito nel custodire e nascondere i suoi tesori; che se male acquistati non sono, intatti glieli serberanno le leggi: in vece che i passati principi, non contenti di spogliarnelo affatto, anco la vita e la fama, sotto il velo di apposti delitti, iniquamente gli toglieano.
Qua il povero con innalzata fronte rimiro passeggiarsene pel fòro, dalla oppression dei potenti securo; e dal passato avvilimento e timore nobile sprone all’inacerbito suo core s’è aggiunto, per farsi colla virtú chiaro e in cittadinanza superare chi di ricchezza il soverchia.
Ma il lusso, mortifero fomentatore e principesco padre di ogni vizio e delitto, non raffrenato o sbandito da sontuarie leggi, inutili sempre ad estirpare quell’idra, ma vilipeso bensí dai modesti privati esempli di Traiano; per la cangiata opinion dei romani, con cittadinesco decoro e vantaggio, rivolto è oramai il lusso soltanto alla magnificenza dei pubblici edifizi. Le immense ville, boschetti e giardini, che la Italia tutta occupando, degli utili e robusti abitatori la dispogliavano, al pristino aratro restituiti, di dorate copiose messi fan liete le novelle famiglie dei liberi agricoltori. Giá giá quei luoghi, sí lungamente stati il ricovero d’ogni ozio e mollezza, testimoni ritornano delle antiche domestiche virtú: ossequio ai genitori ne’ figli, verace amore nei padri, modestia e fede nelle mogli, maschia fierezza ne’ giovani alla libertá educati; maturo consiglio, avvedimento provvido e timore nessuno, nei vecchi in libertá ritornati e vissuti; infra i vicini pace, infra i congiunti amorevolezza, parsimonia ed innocente letizia fra tutti.
Le tremule voci ascolto dei vecchi, a cui finora la male spesa, e con fatica serbata vita incresceva, felicitar se stessi d’averla fin qui trascinata, poiché a sí lieto giorno del vedere rinascer repubblica, conservata pur l’hanno. Contenti muoiono: han visto Traiano.
La gioventú baldanzosa, dove per l’addietro nei teatri, nei circhi, negli oscuri conviti e fra gl’infami gladiatori peranco, i giorni interi, con danno espresso della salute, dei costumi e del virile animo, consumava; eccola di bel nuovo discesa nel campo di Marte; lá di feroci destrieri domar la possanza, qui con generosa lotta addestrare a militar fatica le robuste, libere e non piú contaminate sue membra; altrove, di nobil sudore sotto le pesanti armi cospersa, nell’acqua lanciandosi, con forte nuoto soverchiare del Tevere l’onda: e per tutto in somma mostrarsi crescente speme alla repubblica, dolce e verace sollievo a’ suoi genitori, maraviglia e terrore ai nemici.
Giá odo nel fòro risorta quella maschia, libera e veramente romana eloquenza, per cui dalla tribuna tuonando, lá i popolari tribuni, qua i consoli, delle importanti leggi, del muover la guerra, dell’accordar la pace discutono. Oratori veri son quelli, a cui la sublimitá del soggetto materia al ragionar mancar mai non lascia; a cui la libertá, maestra dell’energico parlare primiera, di lodevole ardire, di caldo amor per la patria, e di tenace costanza soccorre. Ma dispersi, avviliti, e confusi, tacciono quegli altri parlatori pur tanti, che nella lunga nostra servitú di oratori il nome usurpavansi; colpa dei tempi, nol niego, ma, colpa di essi non meno; che con sordide adulazioni una cosí nobile arte prostituivano; mentre, se libero non era il parlare, liberissimo era pur sempre il tacersi.
In questo augusto senato, oramai piú non odo, con cosí poca maestá di tal ordine, contendere i giorni interi, per decretar poi a gara mentiti ed infami onori al vizio imperante, non piú conoscere delle concussioni dei proconsoli e questori nelle desolate provincie; non piú le reciproche accuse di lesa maestá; non piú d’esigli, di confische, di morti, di proscrizioni. Il senato di Roma, al suo antico e sacro uffizio riassunto, alla sicurezza dei cittadini veglia e provvede, la pace mantiene, ove con decoro del romano popolo mantenersi ella possa; la guerra ordina; e per mezzo di cittadini soldati e di capitani cittadini, coll’antica virtú e felicitá, ogni guerra piú disastrosa e terribile vince.
La sacra via, che al Campidoglio conduce, un’altra volta di veri romani trionfi si adorna. Non sovra eccelso carro un imperatore, coi nemici (che visti non ha) effeminato ed imbelle; coi propri soldati timido inesperto capitano, coi cittadini suoi crudele, assoluto e feroce; ma un imperator sottoposto alle leggi rimiro tra i veri applausi di libera gioia modestamente ascendere in Campidoglio; e del proprio valore e di quel dei soldati, ascrivere piamente al solo massimo Giove la cagione ed i frutti.
Delle superbe immagini, e marmoree statue che il maggior fòro ed i pubblici edifici non ben dirò se piú adornino o sfregino, gran parte abbattute ne veggo, ben giusto e dovuto scherno alla oltraggiata plebe rimanersi nel fango. Le poche erette a una vera virtú, che in liberi cittadini con manifesto utile della repubblica si mostrasse, rimangono; ovvero, se esse, dallo sfacciato vizio rovesciate, giaceano vilipese, or che a vicenda la virtú ripreso ha l’impero, rialzate, rifatte, riadorate si veggono. E fra queste, sola di chi l’impero assoluto avesse occupato, coronata di fiori, moltiplicata in tutte le parti dell’impero, per tutto accerchiata di prosternati cittadini, torreggia la immagine di Traiano. Ritornato in onore, per la raritá e la scelta, ciò che, per la sterminata quantitá e la prostituzione avea intieramente cessato di esserlo, si riaccenderanno a virtú i cuori dei cittadini; si riudiranno quei generosi magnanimi incredibili sforzi, che per la patria si videro cosí diversi, cosí frequenti in Roma giá libera; e ad ottenere pubbliche statue, a mille a mille gareggeranno i romani in virtú, allorché dimostrato ben sia che non piú mai ottenute, senza essere veramente meritate, verranno.
Le ultime provincie dell’impero, se acquistate sopra liberi popoli sono, in libertá, ma romana, tornate, e della loro pristina memori, null’altro avvedendosi di aver perduto nell’esser vinte da Roma che la loro barbarie; tanto piú diverranno romane, quanto all’ombra di migliori leggi, piú ricche, secure e libere diverranno. A difender se stesse dalle invasioni dei nemici, basteranno i loro popoli, con disciplina romana, da roman capitano condotti; a non mai ribellarsi da Roma, basterá loro la perpetua certezza di non essere da ribaldi, avari, ed assoluti ministri predate, oppresse e sconvolte. Ma, se all’arbitrario potere di un re le avranno sottratte le romane armi, tanto piú lieve sará, di serve divenute compagne, nell’ordine, nella fede, nella felicitá mantenerle. Nella Italia intera non miro oramai né l’ombra pure di un soldato; i cittadini vi moltiplicano in folla; e se Roma ha nemici, soldati son tutti e la salvano; ma se ha Roma un tiranno, cittadini son tutti, e lo spengono.
Giá giá questa Roma seconda, in virtú alla primiera agguagliandosi, nella felicitá e fama l’avanza. E di una tanta virtú, di cosí lieto vivere, di chiarezza sí luminosa, di un nome sí venerando e terribile, piú che il restitutore, il novel creatore è Traiano. Non Romolo col fondar la cittá, poiché libera intieramente non la lasciava; non Bruto col cacciarne i tiranni, poich’egli a se stesso signoria nessuna non ritoglieva, anzi, insieme con la propria e pubblica libertá, eminenza di grado ad un tempo a sé procacciava; non i tanti e tanti altri nostri eroi cittadini col servire, difendere ed accrescere Roma, perché ai doveri di cittadino col latte succhiati soddisfaceano; nessuno, per certo, di questi agguagliare si potrá mai a Traiano: a Traiano, che di assoluto padrone di essa, se ne facea spontaneamente cittadino, che di schiava ch’ella era, in libertá la tornava; che di avvilita grande, di contaminata pura, di viziosa in somma, rea, scellerata, ed infame, la trasmutava in giusta, costumata, e d’ogni alta virtú vivo specchio ed esempio.
Traiano, nato tremante e non libero, sotto all’impero di Claudio; sfuggito per miracoloso volere dei numi alla persecutrice crudeltá dei susseguenti tiranni, e pervenuto finalmente d’impero, avendo egli per propria esperienza, nell’orribile stato di assoluta signoria, conosciuto non meno i timori e l’incertezza e l’impossibilitá di esercitar la virtú in chi serve, che i timori, i rimorsi e la viltá di chi assoluto comanda; Traiano sceglieva, come piú nobile e piú sicura e sola dignitá veramente orrevole d’uomo, di farsi e di essere «cittadino di Roma». E, per esserlo egli con securtá e diletto, un tanto bene a tutti gli uomini del romano imperio viventi, e nei futuri tempi ai piú lontani nepoti, sotto custodia di ben restituite leggi, assicurava.
X
A cosí immensa gloria aggiungerai, o Traiano, un bene non minore, un prezioso dono dai celesti numi accordato soltanto alla virtú ed ai generosi e liberi petti. Ripatriata per te in Roma la finora proscritta santa amicizia, tu, benché stato principe, cittadin divenuto, ne gusterai quella non pria conosciuta reciproca divina dolcezza, di manifestare interamente il tuo cuore, e vedere apertamente l’altrui, di dire il vero e di udirlo.