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iii. panegirico
 



cominciasti a mostrarne, concedendo Nerva per imperatore al popolo romano, e piú largo ancora nell’inspirare a Nerva l’adozione di Traiano; tu, Giove eterno, se gl’incensi, le lagrime, i voti nostri nel Campidoglio a te sacro, ti sono dopo sí lunga ira a grado oramai ritornati, inspirami in questo istante sovrumani lumi e piú che mortale eloquenza, per cui mi venga fatto d’indurre questo umanissimo principe, opera in tutto tua, ad eseguire tal magnanima impresa, che nessuna mai eguale finora non siasi, non che eseguita, né pure pensata; tale che a quanti ne verran dopo maravigliosa ammirazion ne rimanga, coll’impossibilitá d’imitarla.

Io, cittadino romano, a principe nato cittadino parlo. Quindi, se meno che liberi (salva però la reciproca convenienza) fossero i detti miei, tu primo, o Traiano, e con ragione, offeso te ne terresti; quasi io malignamente volessi far credere che chi al cospetto parla di giusto signore l’ingiusto sdegno temerne potesse giammai. Avvilirei in oltre non poco me stesso, mostrandomi, col timido e dubbio favellare, piú degno di adulare i passati reissimi principi, che di altamente parlare in nome del romano senato a quest’ottimo; e, non fedele interprete di Roma, di cui la migliore e la piú sana parte in questo augusto consesso rimiro, farei del consolato mio una trista e lagrimevole epoca per la repubblica, se, trascorsa una preziosissima occasione di ricuperarle legittima libertá, o ad altri ne cedessi lo splendido assunto, o coll’averla per infingardaggine negletta, o per timore non ben proseguita, o per poca abilitá senza rimedio perduta, facessi il senato pentire dell’onore affidatomi, e a me, con vergogna ed obbrobrio eterno mio, rincrescere di averlo accettato.

I

Romana repubblica è il nome con cui fino ad ora questo popolo viene appellato. Ma a te, Traiano, a te stesso, e alla presenza di Roma, e attestandone i sommi dèi, domando: dov’è questa nostra repubblica? L’augusto tuo aspetto, la illimitata