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pure mostrando, all’uscire volontariamente di vita per isfuggir la tirannide, consecrata era soltanto. E dove per lo addietro l’immolarsi i Deci, i Curzi e tanti altri, in pubblico onore ed utile ritornava, l’uccidersi fra noi quei pochissimi che al servire anteponeano la morte, in pubblico danno tornava; poiché un buon cittadino meno, dove giá pochi ne sono, è irreparabile perdita; ed in pubblica vergogna ed infamia tornava; poiché la generosa morte di quelli dimostrazione vivissima era pur troppo della viltá di quegli altri tutti, che i forti non vendicavano e non imitavano.
Felicitá somma ed unica, un dí era in Roma la sicurezza e l’uguaglianza; donde i costumi, le domestiche virtú, le vere amicizie, la fede, la parsimonia nascevano; felicitá era il vedere ogni uomo felice; e niuno dalla rovina del congiunto, dell’emulo, del nemico, o dell’amico stesso pur troppo, la propria sicurtá e grandezza ne traeva. Oimè! qual pianto mi accora se narrare mi è forza quale sia stata la felicitá dei tempi nostri finora! Pubblica, non ve n’è stata mai niuna, se non se nei brevissimi intervalli, o momenti in cui si videro dall’usurpato soglio precipitare quei mostri, che fatto aveano fede essere in noi maggiore di gran lunga l’indegna sofferenza e viltá, che non in essi la crudeltá efferata. Nerone, Caio, Ottone, Vitellio, Domiziano: trucidati tutti, vittime dei loro delitti e del tardo furore di pochi cadendo, faceano col morir loro conoscere e gustare ai presenti romani un’ombra vana di passeggera felicitá; ma tosto in lagrime di sangue dal barbaro lor successore scontar si facea la stolta gioia di Roma. Privata felicitá, (apparente e non vera) in questi orribili tempi la goderono soltanto quei pochi infami che delle libidini, delle estorsioni, delle uccisioni fatte dai principi creandosi esecutori e ministri, dell’altrui sangue impinguati, dell’altrui pianto pasciuti, infra le rovine pubbliche con baldanzosa insoffribile inumanitá e impudenza, d’ogni ricchezza e d’ogni vizio satolli, fra le universali tacite grida, nella propria non meno che nella principesca reitá securi viveano. Sante, sacrosante erano allora le leggi, a cui quella vera Roma obbediva, appunto perché Roma le facea; osservate, venerate,