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di plinio a traiano
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temute elle erano, perché ciascun cittadino rispettava in esse i suoi concittadini e se stesso. Inique, trasgredite, vilipese, e gravose le nostre, perché fatte da «uno». E dall’uno create, dall’altro distrutte, rinvigorite da questi, riannullate da quelli; le perpetue loro rapide e risibili vicende ben larga prova ne fanno che non dal ben pubblico, ma dal privato interesse, dall’assoluto capriccio, dalla stoliditá e dalla insania stessa peranco, dettate elle sono.

Era il romano popolo in quei felici tempi sagace conoscitor de’ suoi dritti, difensore acerrimo d’essi, generoso emulatore delle patrizie virtú, ferocissimo in guerra, in pace mitissimo, religioso osservator degli dèi, parco nel vivere, operante sempre, ed amator della gloria; ma, con avveduto discernimento, ogni gloria riponea nella libertá della patria. Il popolo che ora di romano si gode, non meritandolo, il nome soltanto, in ogni crapola nei piú sozzi vizi ed eccessi ingolfato, novelli dritti creatisi ha, immemore in tutto degli antichi: non libero, divertito ei vuol essere: le ricchezze, giá dai tiranni rapite ai cittadini tremanti, vuole che fra esso con prodiga mano ritornino in giuochi, in conviti, in bagordi. Un tal popolo non è piú soldato; dei propri soldati egli trema; i nemici dell’impero piú non conosce; dei patrizi è nemico e non emulo; sagrilego disprezzator degli dèi, e ad un tempo di timide e vili superstizioni pienissimo: è questo, è questo pur troppo quel popolo che giá degnamente figlio di Marte s’intitolava.

Tralascerò di dire qual fosse allora il senato; non perché un vile timore, favellando io nel novello senato, mi allacci la lingua; ma so che non è fra voi, o padri coscritti, spenta la chiara memoria dei vostri grandi avi, che dai vostri cuori non sono estirpati i preziosi semi delle loro divine virtú, che fino ad ora il campo e la libertá, non il desiderio mai né la capacitá di esercitarle, mancovvi. E so che a generosi e gentili animi troppo è grande castigo la coscienza dei commessi falli, senza che vi si aggiunga l’insopportabile peso della vergogna. Passati sono i piú infelici tempi in cui rimordendo io in senato de’ suoi infami vizi la plebe e la piú vile feccia di Roma, sarei