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del tuo cuore supplirá, spero, e alla scarsitá delle prove mie e alla mancanza di virtú nei cittadini nostri infelici e non liberi. Troppo ben sai, o Traiano, che la pubblica virtú suole, e deve essere della restituita libertá piú figlia che madre.
III
Né altra ragione posso io far precedere a questa: che la cosa, essendo grande in se stessa, degna ella è di Traiano. Al principe nessuna altra cosa da acquistarsi rimane, se non chiara fama. Il rimanente tutto in copia possiede e soverchia a lui forse. Da quell’abbondanza stessa il fastidio e la cagion per lo piú che nel seno di torpido ozio, di se medesimo immemore, egli perde ogni amore di gloria; o che, dalla sazietá stimolato, di acquistarla procura per vie fallaci, non ragionevoli e al pubblico dannose non men che a se stesso. A Traiano una comune gloria non può bastar mai; ed ogni gloria è comune fra i principi, fuorché la inaudita finora, di essere i fondatori o restitutori di libertá.
Ed in fatti, se tu, benché vincitore dei Daci, e rinnovatore in Roma dell’antica sua militar disciplina, dalle egregie vittorie tue la fama di chiaro capitano ti aspetti, non ne avrai però tanta giammai che a Cesare, non che superarlo, ti agguagli: se dal comporre in un sopore di pace la cittá, dal farvi ad un tempo le molli arti, le non vere lettere e il servaggio fiorire, e cosí gli snervati animi dei cittadini da ogni turbolenza distôrre; (ove tal funesta e timida politica presso ad uomini giá liberi partorir fama potesse) certo in tal arte che esser pur mai non potrebbe la tua, di gran tratto superato saresti dal pacifico lunghissimo regno d’Augusto; se da una certa molle benignitá, che molto pure si valuta nel principe allorché, tacendo le leggi, egli solo le interpreta, Tito te ne ha, preoccupandola, intercetta la via. Degli altri romani principi non ardirò pure proferirtene il nome; ch’io troppo ben so, che Traiano, assunto appena all’impero, altro piú caldo desiderio in petto ed in mente non