Novelle (Bandello, 1853, III)/Parte II/Novella XL
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di maniera che mai non vorresti essermi venuto a le mani. Va con la benedizione di messer Domenedio e mia, e non peccar più. – Già aveva prete Elia fatto dar congedo a la concubina fuora de la casa, facendole intendere che più dinanzi non gli andasse. Andò dunque a casa e cominciò a cambiar vita e costumi, vivendo da buon sacerdote e mostrando che di core era pentito. La concubina, che voleva tornar a vivere a l’ombra del campanile, tentò molte vie di tirar il prete al primo zambello, ma non vi fu ordine già mai. Onde poi che la misera vide che indarno s’affaticava e che il prete più non voleva sua pratica, o che ella fosse di lui innamorata, o che se ne fosse cagione, si disperò e deliberò non voler più vivere. Era un giorno andato prete Elia a portare il preziosissimo e sagratissimo corpo del nostro Salvatore messer Giesu Cristo a un paesano assai lungi da la parrocchial chiesa, il quale era in termine di morte. Il che sentendo la disperata femina, se n’andò a la casa del prete, e come quella che v’era dimorata circa dicenove anni e sapeva tutti i luoghi, entrò dentro, ed aperta la camera con suoi ingegni, ad un trave di quella con la fune del pozzo per la gola s’appiccò e si ruppe l’osso del collo. Tornò il prete, e, volendo con alquanti entrar in camera, vide il misero spetacolo. Vi concorsero molti ed il romore fu grande, e la trista, come meritava, fu tratta ne la sepoltura degli asini. Io v’andai mandato dal vescovo, e la vidi appiccata, e ci furono di quelli che testificarono che, andando il prete con il Corpus Domini, videro la sciagurata andar in fretta verso quella casa.
Quanti e quanto varii, molto nobile e valorosa madama, siamo gli accidenti che ogni giorno occorrono negli affari de l’amore, chi considera quanto differenti e diversi si veggiono gli ingegni e quanto varii gli appetiti e voglie degli uomini e de le donne, potrà di leggero conoscere. E ben che Amore adoperi le divine ed invisibili sue forze di maniera che molte volte si vede trasformar l’amante ne l’amato e totalmente cangiar natura e costumi, divenendo altri da quello che prima era, nondimeno quasi ordinariamente amore opera in un colerico d’una guisa e in un malinconico d’un’altra. Vedemo altresì diverse l’operazioni del flemmatico da quelle del sanguigno, ogni volta che l’amore nei petti loro alberga, imperò che egli non può tanto con le sue forze e focose fiamme ardere, cimentare e trasmutare l’uomo, e nei continovi ed ardentissimi incendi affinarlo, che l’anima per lo più de le volte non vada per il suo natural camino seguitando le passioni del corpo. Il perchè non è meraviglia se quell’amante si vede sempre star in festa e gioia, ed ancora che la sua donna lo sprezzi e se gli scopra ritrosa, non accettando la servitù di quello, egli per tutto ciò non si dispera, ma quanto vede e quanto soffre tanto prende in grado, perchè la sua natia disposizione è tale. Quell’altro da l’idolo suo terrestre accarezzato, e che per soverchia contentezza tocca il cielo col dito, sta pure di continovo tutto ingombrato d’amorosa passione, ed in un mare d’allegrezza piange e sospira, sempre pieno e colmo di gelate paure. Altri ora ride, ora lagrima, ora sta sospeso tra due, e così, al viso di colei che ama, si cangia, si governa e regge come il navigante ne le fortunose tempeste al gelato segno de la tramontana. Indi assai variamente si gusta il piacere e la doglia si disprezza e il viver si fugge ed aborre, e spesso la morte si brama e cerca dai felici e dagli sfortunati amanti, secondo che i temperamenti di questi e di quelli sono varii. Ma di queste differenze d’uomini e varietà d’amori per ora non voglio ragionare, imperò che altro luogo a puntalmente questionarne, e più grande spazio d’aringo saria di bisogno a voler il tutto discorrere; ed io non mi mossi, madama mia onoranda, a scrivervi al presente per voler de le questioni dei filosofanti disputare, ma per farvi conoscere che ogni dì ne l’ampio regno d’Amore nascono nuovi accidenti. E sì come gli amanti sono d’appetiti, di natura, di costumi e di lunga consuetudine, che a lungo andare si fa un’altra natura, e d’azioni, difformi, così veggiamo ogni ora ciò che s’adopera esser a l’operante simile. Può bene l’educazione e la libera volontà nostra cangiar queste passioni corporee, ma io parlo di ciò che per l’ordinario si costuma. Ora se a questa nostra età gli uomini si dilettassero di scriver tutte quelle segnalate ed eccellenti cose che a la giornata accadono e che d’eterna memoria sono meritevoli, oltra che farebbero opera di loro degna, sariano ancora cagione d’ammaestrar coloro che gli scritti loro leggessero, e il tempo che il più de le volte in parlari inutili si consuma e si perde in ciancie che non montano una frulla, si dispensarebbe in legger cose dilettevoli e di profitto, ed assai sovente si fuggiriano molte occasioni di male. Nè saria da dubitare che soggetti e materie da scrivere loro mancassero già mai, perciò che essendo il regno d’Amore senza misura grande, ed avendo egli servidori infiniti e di varie disposizioni, è necessario che ogni dì nascano diversi effetti; i quali, essendo buoni ed onorati, invitano l’uomo ad operar bene e vertuosamente, e conoscendosi tristi e biasimevoli, sono proprio un freno a frenar gli appetiti disordinati e non lasciare che si precipiti strabocchevolmente in simili errori. Ritrovandosi adunque in Lombardia, già alcuni anni sono, una molto onorata e gentil compagnia, per via di diporto, in un amenissimo giardino, sotto un pergolato d’odoriferi gelsomini, a sedere su la minuta, verde e fresca erbetta, dipinta da mille varietà di vaghi e odoriferi fiori, dove erano alcune cortesi e valorose donne ed alquanti costumati e vertuosi giovini, dopo molti ragionamenti s’entrò a metter in campo il parlar d’amore, come soave e dolcissimo condimento di tutti i parlari che tra liete brigate si fanno. Quivi essendo messer Luca Valenzano, uomo di buone lettere e ne le compagnie lieto e festevole e dicitore soavissimo, fu da alcuni pregato, se aveva cosa veruna per le mani che loro devesse porger diletto, a fine che il tempo piacevolmente si passasse, la volesse dire. Egli che cortese era e gran servidore di donne, narrò un pietoso caso che non molto innanzi era avvenuto. Piacque assai a tutti, per quello che mostrarono, il favellare del Valenzano, e tutti insiememente m’astrinsero a volerlo scrivere ed al numero de l’altre mie novelle porre; il perchè tale qual fu la cosa narrata, l’ho io a parte per parte scritta. Ora volendo io le mie sparse novelle ridur in uno per metterle l’ultima mano, ho trovata questa; e, devendo con l’altre esser veduta e letta, m’è paruto necessario non la mandar fuori senza il suo scudo tutelare, come a tutte l’altre dar soglio, a ciò che contra questi critici riprensori e fieri morditori de le cose altrui si possa coprire. È bene perciò vero che se per mio conseglio si reggerà, ella e l’altre compagne non si lasceranno vedere a patto nessuno a questi che così hanno domate e sottoposte le loro passioni ed in modo macerati e vinti gli appetiti, come si fanno a credere, che vanamente si gloriano non far cosa alcuna senza governo de la ragione, e che il senso non ha parte ne l’azioni loro. Questi tali voglio io che le mie novelle schifino come il morbo e le lascino stare a tutto lor potere, imperò che elle sarebbero schernite ed io senza fine biasimato e sciocco tenuto. Ma elle anderanno solamente ne le mani di quegli uomini e di quelle donne che, essendo di carne umana, non stimano esser loro tanto disdicevole lasciarsi a le volte vincer da le passioni amorose, e quelle temperatamente, più che si può, reggere. Con costoro vorrò io che elle se ne stiano giorno e notte; e che non se ne partano già mai. E se pur talora le bisognasse altrove di mostrarsi, ho voluto che questa del chiaro e valoroso vostro nome vertuosamente armata si veggia comparire, a ciò che la riverenza e riputazione di quello da questi superstiziosi ippocriti sicura la mantenga. Chè, in vero, quel generoso nome vostro tale seco apporta valore, che ella può in ogni luogo senza tèma d’esser morsa lasciarsi vedere. Nè deve, madama, a voi, che sì gran dama sète, parer di strano che io, uomo basso e di poca stima, tanto presuma di potermi valer di voi, non v’avendo più che una volta fatto riverenza, quando in compagnia de l’illustrissimo e reverendissimo monsignore cardinale d’Armignac, uomo da esser sempre prefazione d’onore nomato, veniste a Bassens ed alloggiaste in casa de l’illustrissima eroina madama Gostanza Rangona Fregosa, mia padrona e signora. Qui adunque ove io a le muse ed a me stesso vivo, tal ora ci donaste saggio de l’umanità, gentilezza e cortesia vostra, che io posso ragionevolmente pensare, senza esser ripreso nè ricever biasimo alcuno, di prevalermi in questo del vertuoso e chiaro vostro nome. Ma che debbio io temere, avendo continovamente in memoria le larghe e cortesissime vostre offerte che, non le avendo io meritate, degnaste al partir vostro di qui sì graziosamente con sì onorate parole farmi? La fama poi che del vostro valore per tutto suona, e ciò che de la conversazione e costumi vostri tutto il dì, da chi domesticamente vi conosce, onoratissimamente si predica, mi fanno credere che se ben io non v’ho mai fatto servigio, che questa novella mia non vi sarà discara, anzi porto ferma openione che cara l’averete. Mi sono anco mosso a donarvela e scriverla al nome vostro, perchè in questi sei anni che di continovo sono dimorato in questo regno di Francia, ancora non ho veduto donna alcuna che più di voi si diletti de la lingua italiana nè che più volentieri oda legger le cose in quella scritte. Il che pienamente dimostraste alora che con intenta attenzione alcune mie novelle che lessi ascoltaste, e, che non picciola cosa mi parve, si vide qual fosse il giudicio vostro quando giudiziosamente sceglievate il buono ed il meglio. Questa adunque novella vi mando e al vostro nome consacro, essendo certissimo che da voi, la vostra mercè, sarà graziosamente accettata. Feliciti il nostro signor Iddio tutti i vostri pensieri. State sana.
Dapoi che per vertù di quei begli occhi che furono il mio vero e nodritivo sole in terra cominciai a sentir le fiamme amorose e con evidentissimo effetto provar le lor divine forze, ho tenuto sempre per fermo che non sia cosa al mondo, quantunque perigliosa, grave e difficile che si truovi, che ad un gentile, elevato e nobile spirito, e dal purgativo caldo de l’amore arso e cimentato, non paia a metter in essecuzione, sicura, leggera e molto facile. Ed io per me tutto il resto ho riputato niente, salvo che compiacer in ogni cosa a la persona che veramente s’ama, e tanto più quanto che si conosce l’amore esser in parte ricambiato, ancora che bisognasse de la propria vita, non che dei beni de la fortuna, esser cortese e largo anzi prodigo donatore. Onde se a le volte si vede uomo o donna per soverchio amore, o vero per vedersi privar de la persona che più ama, correre ingordamente a’ precipizii, a l’acque, a fuoco, a ferro, a fune ed al veleno, e di se stesso divenir micidiale, io giudico che il caso sia più degno di pietà e compassione che di biasimo o di castigo, e che debbia ciascuno da questi disperati accidenti prender essempio di governarsi saggiamente, e di non allargar tanto a’ nostri poco regolati appetiti il freno, che poi, occorrendo il bisogno, noi non lo possiamo a noi ritogliere e col compasso de la maestra ragione governarci. Ora quelli che a piena bocca predicano che fanno d’amore come loro aggrada e ponno amare e disamare a lor voglia, penso io, ed il mio pensiero se si disputasse non è senza fondamento di ragione, che amato non abbiano nè mai sentito per prova che cosa sia aprir il petto a le fiamme amorose, perciò che se chiunque ama col tempo si potrà sciogliere da’ lacci d’amore, ove conosca la sua servitù non esser gradita, essendo il tempo d’ogni creata cosa consumatore, mi persuado che molto pochi saranno così aventurosi che, perfettamente amando, possano in un repente, ancor che si veggiano da le donne loro sprezzati e scherniti, smorzar le fiamme amorose ed in breve tempo di servi d’amore diventar liberi. E chi è de le sue passioni e degli affetti così signore che ad ogni sua voglia possa disporre com’ei vuole, questo tale veramente io non dirò che sia puro uomo terreno, ma affermerò che assai più tenga del celeste e divino che del terrestre ed umano. Ora ben che per molti essempi io potessi provar questa mia openione esser in molti e da molti messa ad effetto, nondimeno voglio venir a la narrazione d’un caso avvenuto nuovamente in una città di Lombardia, il quale meritarebbe esser divolgato da più onorata e dotta bocca che la mia pena bastevole a dir quanto ch’è seguìto, non che d’ornare con leggiadro stile quelle parti di questo nobilissimo accidente, che meritevolmente da la faconda e dolcissima eloquenzia del divino Boccaccio deveriano esser celebrate e commendate. Qui si vederà che una vertuosa giovane ha più tosto per elezione voluto perder la vita che l’amore del suo signore, e si toccherà con mano che con lieto e meglior viso e con più saldo ed allegro core ella ha bevuto il mortifero veleno, che non averebbe il peregrino da longo e faticoso viaggio stracco e da l’arsura del sole nel mezzo giorno secco, quando arrivava sotto alcun’ombra, le dolci e limpide acque d’una fresca e chiara fontana, che fuor del vivo sasso sorge e con grato mormorio per le verdi erbette se ne va fuggendo. E questo ha ella fatto perchè fuor di misura amava e più stima faceva del suo amante che de la vita propria. Qui anco vederete quanto possa l’ignorante malignità ed il poco cervello d’una rea femina, la quale, non pensando ad altro che a l’utile ed a sodisfar a’ suoi poco onesti pensieri, nè d’onore nè di vergogna nè di danno che seguir le ne potesse mostrò curarsi. Ma perchè mai il biasimar le donne non mi piacque, e per riverenza di quella che mentre visse fu mia tramontana stella, tutte le donne voglio aver in onore, e deve ciascuno onorarle; e per non tenervi più a bada, venendo al fatto, così a novellare cominciar mi piace. Vi dico adunque che in una città di Lombardia fu, ed ancora è, un gentiluomo il quale alcuni di voi conoscono, che dei beni de la natura e de la fortuna è onestamente dotato, e ne l’amore assai felice, essendo naturalmente molto inclinato a darsi in preda a le donne, il cui nome è Camillo. Questi, presa familiar domestichezza d’una giovane assai appariscente e vertuosa, la quale di sonar arpicordi era molto eccellente, non guari con lei ebbe praticato che quella domestica conversazione si convertì ne la specie di quel buon amore che voleva Calandrino che il suo sozio Bruno dicesse a la Nicolosa. Dilettavasi altresì Camillo molto de la musica, di maniera ch’essendo ogni dì in casa de la giovane, che Cinzia si chiamava, egli di lei e di lui ella non mezzanamente s’accesero. Ne la casa di Cinzia sempre v’erano di molti gentiluomini, e spezialmente i vertuosi de la città, perchè quivi si sonava, si cantava e sempre v’era alcun piacevol ragionamento. Ora facendo Cinzia e Camillo insieme, come si costuma dire, a l’amore, non vi fu molta difficultà a dar compimento ai lor amori e godersi amorosamente, perchè trovandosi la giovane senza tèma di marito, che per alcuni misfatti era bandito de la città, lasciato ogn’altro amore, tutta in poter di Camillo si diede; del che il padre e la madre di lei furono consapevoli. Onde astretti da la povertà e da Camillo traendo gran profitto, che quasi d’ogni cosa provedeva largamente ai bisogni de la casa, lasciavano liberamente che egli, ogni volta che gli piaceva, e di giorno e di notte, stesse con la figliuola loro. Ella, come già dissi, d’altri più non si curando, Camillo ferventissimamente amava e tutta dal voler di quello dipendeva. Onde non dopo molto ella ingravidò d’una bella figliuola, come dopoi il parto al tempo suo fece manifesto. Amava Camillo la sua vertuosa Cinzia molto fervidamente, e nulla le lasciava mancare; il perchè, a ciò che quella non avesse il fastidio di dar le poppe a la figliuola, e che con maggior commodità potesse attender a’ suoi piaceri, e sonar e cantare quante volte l’era a grado, egli le provide d’una balia molto giovane, la quale era baldanzosa più che non se le conveniva, e non troppo schifevole d’ingravidare e far figliuoli senza marito, nè mai sapeva stare che uno o dui lavoratori non avesse, con i quali il suo orticello teneva inacquato. E perchè era di buon aspetto, avveniva anco che talora alcuno gentiluomo si mischiava seco. Venivano per il continovo molti a sentir sonar Cinzia, e spesso Camillo assai ve ne conduceva, e massimamente se alcun gentiluomo o signore ne la città veniva, di modo che di rado la casa si trovava senza gente; onde la buona balia si cominciò a domesticare ora con uno ed ora con un altro dei servidori di quei gentiluomini che in casa praticavano, provando talora qual più di loro pesasse e fosse più valente. Del che agramente Cinzia la garrì, non per altro se non per dubbio che ella guastasse il latte a la figliuola. La balia, per non perder la pastura che aveva, andava pure imaginandosi che modo deveva tenere a fine che si facesse Cinzia domestica, tanto che di lei a voglia sua potesse disporre. Ella era pure alquanto maliziosetta, e pensò con questo mezzo ottener l’intento suo; onde tentò alcuni giovini, e si sforzò a persuadergli e indurgli e ricercar Cinzia d’amore, mostrando loro che l’impresa sarebbe assai facile e che ella gli aiuteria in tutto quello che per lei si potesse, a ciò che, quando Cinzia compiacesse ad altri che a Camillo, ella sempre le tenesse le mani nei capegli e l’avesse di continovo pieghevole a le voglie sue, e non temesse poi da lei esser garrita nè ripresa, se voleva darsi piacer amoroso con chi più le fosse stato a grado. Ed avendo molti giovini tentati, la cosa non le venne fatta, perciò che nessuno fu oso di porsi al rischio di questa impresa, sì per riverenza di Camillo, come per tèma che egli non facesse dar loro de le busse a buona derrata. Veggendo la balia questa via non le riuscire, e non essendo dal suo proponimento punto smossa, pensò provarne un’altra, come a mano a mano io vi narrerò, se pazientemente m’ascoltarete. Aveva Camillo un suo più che fratello chiamato Giulio, giovine in quella città di famiglia nobilissima e d’animo sovra modo elevato e grande, col quale egli communicava ogni segreto, e di tal maniera era tra lor dui cresciuta la fratellevol domestichezza, e così stretto il nodo de l’amicizia loro, che nel vero dir si poteva esser una sola anima che dui corpi' 'informasse. Stavano eglino la più parte del tempo insieme, e l’uno senza l’altro pareva che viver non sapesse. Si dilettava de la musica Giulio meravigliosamente, e la sua parte molto sicuro «a libro» cantava, e sonava altresì d’alcuni stormenti. Per queste cagioni era divenuto tanto domestico di Cinzia che, o vi fosse Camillo o non, se ne stava esso Giulio di giorno e di notte senza rispetto veruno a ragionar con lei, e per rispetto del suo amico Camillo l’amava come propria sorella. La balia veggendo questa amorevol domestichezza, deliberò tra se stessa far ogni cosa a fine che Giulio amorosamente prendesse piacer con Cinzia. Fatta cotesta deliberazione, trovò su l’ora del merigge che Giulio stava ad una finestra vagheggiando per piacere e da scherzo una fanciulla che dirimpetto a l’albergo di Cinzia dimorava, ed a lui avvicinatasi, così, ridendo gli disse: – Deh, Giulio, io non so che dirmi de’ casi tuoi. Tu stai qui a beccarti i getti con questa fanciulla, che tanto è garzona che mai non ne verrai a capo, e tanto meno quanto suo fratello n’ha estrema cura e con guardia solennissima la tiene, ed una sua zia mai non l’abbandonava di vista, come chiaramente veder tu poi. Quanto sarebbe meglio che tu, lasciata costei, ti rivolgessi altrove ed amassi chi t’ama e sommamente desidera compiacerti, ogni volta che s’avveggia che tu voglia amare sì come ella ama te. – E chi è costei, – rispose Giulio, – di cui tu mi parli? chi è ella? – Ella, – soggiunse la balia, – è Cinzia mia padrona, che assai più t’ama che se stessa, ed io te ne posso render verissimo testimonio, perchè ella più volte s’è scoperta meco. Ma ella non ardisce dirloti per tèma che tu a Camillo talora non ne facessi motto. – Giulio che in altra parte aveva fermati i suoi pensieri, e che talora per passare il tempo mostrava esser invaghito di quella garzona, e prima averebbe sofferto di morire che far sì fatto torto al suo Camillo, disse a la balia: – Io non penso che Cinzia abbia in capo simili pensieri di me, sapendo ch’io l’amo da sorella, e la riverenza ch’io porto a Camillo non comporterebbe che da me simil impresa si sentisse. Ella può ben esser sicura ch’io farei ogni cosa possibile per amor di lei, pure che non v’intravenisse l’offesa di Camillo. – Volendo poi chiarirsi de l’animo di Cinzia e del tutto avvertirne Camillo, disse: – Vedi, balia, io non penso a coteste favole per infiniti rispetti; ma se pur Cinzia vorrà niente da me, ella lo mi dirà, potendo a suo piacer, ogni volta che vuole, comodamente parlar meco senza interprete. – La falsa balia, che il tutto aveva ordito di sua fantasia senza saputa di Cinzia, non volle per questo primo tratto entrar più avanti, avendo trovato il terreno troppo duro; ma, pigliata poi l’oportunità, una sera che essa Cinzia si spogliava per corcarsi, e che Camillo quella notte non ci deveva essere, dopo alcune favole, l’entrò su ragionamenti amorosi, e d’uno in altro parlar travarcando le disse: – Io so, padrona mia, per certo che Giulio v’ama più che l’anima propria, e grandemente brama che voi li comandiate, perchè sempre lo trovarete prestissimo a servirvi. – Bene, – disse Cinzia. – Io so molto bene ch’egli di core m’ama per rispetto di Camillo, ed io altresì amo lui come se mi fosse fratello. – Non dico, – rispose la balia, – a questa guisa, ma dico ch’egli v’ama di quell’amore che generalmente gli uomini portano a le donne per giacersi con loro. Così Giulio ama voi per goder questa vostra persona, e già me n’ha detto alquante parole, e di più pregatami che io volessi esser mezzana ad indurvi a compiacergli, ogni volta che la comodità ci sia, la quale sempre ci sarà che voi vorrete. – Questo non credo io, – rispose Cinzia, – perchè non istimo Giulio così sleale e di poco cervello che volesse far questa ingiuria tanto enorme a Camillo. – Io non so tante istorie, – disse la disonesta balia, – ma so bene che egli è innamorato di voi, e che volentieri si giacerebbe amorosamente con voi per potervi a piacer suo tenervi in braccio e godervi. E voi sète una pazza se non lo fate. E che diavolo pensate voi di fare? Egli è giovine e di core v’ama, e sempre vi resterà servidore: perchè dunque non devete compiacergli? Sète voi sì melensa e sciocca che pensate che Camillo resti contento di voi sola e dei vostri baci ed abbracciamenti amorosi? A la fè di Dio che voi sète errata se questa cosa credete. Io so ben io la vita che tiene e ciò che si fa. Egli ogni dì va procacciando nuove pratiche e non è mai contento d’una o due. E quando non ha dove a suo modo andare e che le date poste gli mancano, se ne viene qui ad asso fermo. Ma sète voi sì ceca che non ve ne avveggiate? In fè di Dio che gli orbi se n’avvederebbero! Se egli adunque la fede non vi serba, perchè volete voi serbarla a lui? Sovvengavi che ai dì passati egli non vi seppe negare che con una certa donna la notte non fusse giaciuto. A chi me la fa una volta, se posso, gliela rifaccio a doppio, e se non posso, me la tengo a mente, e venuta l’oportunità mi vendico. Io vi ricordo che tutte le lasciate son perdute. Datevi buon tempo fin che sète giovine e non aspettate la vecchiezza, che sapete bene ciò che si costuma dire proverbialmente, che è tale: «A le donne giovani i buoni bocconi, e a le vecchie gli strangoglioni». Voi avete altre volte a molti de la persona vostra compiaciuto che non sono da esser a Giulio agguagliati, ed ora volete far santa Cita e mostrarvi schifevole dei piaceri che devereste con ogni diligenza cercare? A me pare aver detto a bastanza ed avervi ricordato il vostro profitto: fate mò voi quello che vi pare. Se voi de l’opera mia averete bisogno, e in questo e in altro sempre mi trovarete prontissima ai vostri servigi. – Udendo Cinzia la balia di questa maniera ragionare, la giudicò che devesse esser una sofficiente ruffiana sua pari e che più d’un paio di donne avesse contaminato. E stando fra due, se deveva credere ciò che detto le era per parte di Giulio o non, in questa guisa a la balia disse: – Sia qui fine ai tuoi parlari, e di coteste favole non me ne far più motto. Se Giulio è tale qual detto m’hai e che io non credo, egli, ragionando meco tutte l’ore, mi saperà ben dir il caso suo. – E volendo la balia dir non so che, Cinzia: – Or via, – disse, – taci e fa che più non ti senta. – Parve a la balia che Cinzia fosse più ritrosetta di quello che ella pensava; nondimeno per questo non stette che a Giulio e a Cinzia non desse dui o tre assalti, ma sempre con agre rampogne fu ributtata. Aveva deliberato Giulio del tutto avvertir Camillo, e quasi fu vicino a dirgli il fatto come stava. Ma si rimase, non essendo ben chiaro che quanto la balia detto aveva fosse di mente di Cinzia, ed a Cinzia non ardiva farlene motto per non farle pensar quello che non era e metterle un grillo in testa. Da l’altro canto Cinzia medesimamente stava in dubio di ciò che far si devesse, d’avvertirne Camillo o non, e non si sapeva risolvere, sempre temendo, o questo o quello che si facesse, di fallire. Ma la malvagia balia, veggendo che dava incenso a’ morti, dubitò che la sua trama fosse scoperta e conosciuti gli inganni suoi. Per questo, deliberata di pigliar l’avantaggio e mostrarsi ben zelante e tenera de l’onore di Camillo, a ciò che a lui almeno restasse in grazia, fece per uno dei servidori di lui intendergli che ella era ricercata da certi giovini a lasciar la notte l’uscio de la casa aperto, con promessa d’aver buona somma di danari, ma che ella mai non farebbe simil cosa; e perciò che lo faceva avvertito, a fine che talora Cinzia non fosse corrotta da alcuno, praticando ognora molta gente seco, e di nascoso di lui introducesse chi più le fosse a grado. Camillo, intendendo cotesta favola e credendola, per saper che molte donne risparmiano alcuna volta quello di casa assai volentieri e cercano logorar l’altrui, parendo sempre le cose dei vicini più saporose che le proprie, fece dir a la balia ch’ella s’accordasse con alcuno e ve lo facesse venire, e poi a lui lasciasse la cura del rimanente. Ma la falsa meretrice, allegando nuove cagioni, mai non ne fece venir nessuno, imperò che, come poi si seppe, la cosa stava tutta al contrario di quello che aveva fatto dipingere a Camillo. Aveva ella tentatone alcuni e promesso loro di lasciar la porta aperta, essortandogli a venir dentro la notte, e che Cinzia non sarebbe stata ritrosa. E questo faceva ella per dir poi che con ordine di Cinzia erano venuti, ed anco perchè voleva far venir alcun suo lavoratore de l’orto, dei quali n’aveva una mandria, ma non vi fu chi ardisse avventurarsi, per tèma di Camillo che ivi vicino abitava. Il perchè veggendo che questa trama non succedeva, fece dir a Camillo che bisognava che parlasse con lui di cosa di credenza e di non picciola importanza. Venuto Camillo, fece vista di voler veder la balia con la figliuola, ed essendo Cinzia in compagnia di molta gente, egli a trovar la balia a la sua camera se n’andò; onde trovandosi con lei, ella in questa guisa gli parlò: – Signor mio, avendomi voi data vostra figliuola in governo, io mi fo a credere esser debitrice di manifestarvi tutte quelle cose ch’io veggio dannose a l’onor vostro. Iersera, non essendo voi qui in casa, Giulio sul tardi ci venne e vi stette fin passate le tre ore de la notte. E perchè egli ha in usanza starvi de l’altre volte, ancora che voi non ci siate, e ben che sia del mese di giugno, che per la brevità de la notte la stagion richiede che l’uomo a buon’ora se ne vada a dormire, io nondimeno, veggendo esservi sì caro vostro compagno, e che voi più d’una volta, se v’occorreva quindi partire, il pregavate ch’egli rimanesse con Cinzia, non ci metteva mente. Ma parendomi iersera aver veduto non so che, che non mi piaceva, e udite certe parole che egli a Cinzia disse, che non erano, a dir il vero, nè belle nè buone, mi cadde ne l’animo quello che poi ho trovato col effetto esser così, cioè che Cinzia, quando n’ha l’agio, si prenda con Giulio amoroso giacere e del corpo gli compiaccia. Io vi so dire, padrone, che ancora mi veggiate giovine, ch’io so come la va, e non posso così di leggero esser ingannata. Basta che volendomi io chiarire del vero, e, come si dice, trovar la gallina su l’ovo, finsi andarmene a letto; e stata alquanto, me ne venni poi fuori chetamente e me n’andai così tentone, a piedi scalzi, a l’uscio de la camera ove Cinzia dorme, e trovai bene che era chiuso, ma non già fermato col chiavistello: onde tanto destramente un poco lo spinsi che non fui sentita, e chiaro m’avvidi, ancora che avessero il lume, che la notte in camera arde, posto di dietro a le cortine, ch’eglino erano sovra il letto trastullandosi amorosamente insieme. Del che il romor del letto e le mózze parole con gli interrotti sospiri indizio manifestissimo ne davano. Io vi dimorai buona pezza e sentii pur alcune parolette amorose che in quei piaceri usavano, e i replicati baci si facevano pur udire, con molte altre cosette che, come sapete, si costumano in simili casi di fare. Ora parendomi in effetto esser chiara in quello che facevano, me ne ritornai con silenzio a la mia camera. Fingendo poi che la lucerna, che per bisogni de la figliuola tengo di continovo la notte allumata, si fosse spenta, uscii di camera facendo strepito con i piedi e me n’andai a la camera di Cinzia, ove trovai che l’uscio era stato aperto e il lume rimesso al suo luogo, ed eglino erano sovra il letto postisi a sedere, che, disseguale e disconcio, dava segno di ciò che su v’era fatto. E, riacceso il mio lume, me ne tornai in camera. Sallo Dio quanto poco questa notte ho dormito, e quanto mi duole e mi rincresce d’avervi a dar simili nove, perchè io amava e riveriva Giulio per vostro conto. Ma io vi son troppo tenuta e non debbo mancare d’avvisarvi quello che a l’onor vostro appartiene. Bene vi prego a tenermi celata, per i molti rispetti che potete imaginarvi, a ciò che Giulio non facesse farmi dispiacere. – Nè contenta la scelerata balia di questo tradimento, per meglio incarnar il suo falso dissegno, narrò a molti questa favola, a ciò che per altra bocca a l’orecchie di Camillo fosse rapportata; e successele troppo bene, imperò che la madre, fratelli ed altri propinqui di Camillo lo garrirono troppo agramente di questa cosa, e volevano astringerlo a distorsi da la pratica di Cinzia, dicendogli che non solamente ella si mischiava con Giulio, ma gli affermarono anco ch’ad altri faceva di sè copia, e che il fatto era di tal maniera certo che non bisognava altra certezza. Nasceva questa credenza perchè la balia aveva bucinato non so che d’alcuni altri giovini, che dicevano aver goduto molte fiate Cinzia. Parve a Camillo, sentendo queste trame sì bene ordite e credendole esser vere, che la terra gli mancasse sotto i piedi, e di sì fatta maniera stordì che non sapeva che farsi. Amava egli sommamente Cinzia, sì perchè credeva da lei esser amato e si vedeva amorosamente accarezzato, ed altresì per le vertuti e buone parti che in quella erano, che molto amabile la rendevano. Ora sentir egli che ella altrui si fosse data in preda, troppo altamente l’affliggeva, e pareva che si sentisse schiantare per viva forza le radici del core. Ma quello che vie più d’ogni altra cosa lo trafiggeva e miseramente tormentava, era che così caro amico, come ei teneva Giulio, gli avesse fatto cotanto oltraggio e sì enorme torto; e di tal guisa questa doglia al core se gli impresse, che fu per gravissimamente infermarsi. Egli ne perdette il sonno ed il cibo, ed altro non faceva che pensare, chimerizzare e farneticare, ora una cosa deliberando ed ora un’altra. Come gli sovveniva de l’intrinseco amore e cordial amicizia che era tra lui e Giulio, parevagli impossibile che esso Giulio mai gli avesse fatto così grande ingiuria e vergogna; ed ancora che veduto l’avesse, non lo voleva credere. Da l’altra parte poi, ricordandosi de le parole de la balia, e veracissime riputandole, era astretto a credere che, se pure effetto veruno d’amore era seguìto tra Giulio e Cinzia, che ella ne fosse cagione ed avessevi tirato Giulio per forza. E tuttavia con questo, troppo duro gli era a sofferire che da un sì caro amico si trovasse di cotal guisa offeso. Sogliono ordinariamente tutte l’ingiurie a chi le riceve esser noiose e gravi a sopportare; nondimeno gran differenza mi pare che sia da la offesa che ti fa il tuo nemico, a par di quella che da l’amico si riceve. Fa l’inimico il suo ufficio quando il suo avversario offende; ma che colui che tu amico tuo credevi ti si volga incontra e sotto la fede de l’amicizia ti faccia nocumento, perciò che cotestui manca del debito, troppo altamente cotal impresa il suo velenoso dardo nel cor imprime e si rende a sopportar difficile. Nondimeno la prudenza de l’uomo, se vuole, a tali accidenti sa provedere e fa che la ragione domina. Ora parendo troppo duro a Camillo che l’amico suo di questo modo concio l’avesse, poi che v’ebbe pensato e ripensato, essendo già alquanti anni che egli aveva la pratica di Cinzia, essendone ogni dì con agre riprensioni da’ suoi ripigliato, ed il vescovo de la città, uomo di santa vita, avendolo più volte fatto pregare che omai finisse simil pratica, che oltra la offesa di Dio gli era di danno e disonore, gli parve che questa occasione fosse convenevol mezzo a mettersi in libertà, e si deliberò più tosto perder la conversazione di Cinzia che l’amicizia di Giulio. Onde a Cinzia scrisse una lettera di questo tenore: – «Cinzia, non pensare con la tua ingorda ed insaziabil libidine poter mai esser da tanto ch’io debbia abbandonar un gentiluomo, mio amico e più che fratello, tirato a forza da le tue false lusinghe e puttaneschi modi e da la sfrenata tua rabbia a giacersi teco. Io voglio ch’ei sia più mio che mai, e l’amerò e riverirò come strumento divino de la mia ricuperata libertà, conoscendo ora l’indegnità de la mia servitù. E qual io mi sia, non pensar più a’ casi miei, nè far più sopra di me per l’avenire alcun fondamento. Ora sei in tua libertà, e puoi di notte e di dì far venir a giacersi teco chiunque tu vuoi. Ed ancor ch’io potessi con giusta ragione grandemente dolermi e rammaricarmi di te, nol vo’ fare. Bastimi che a te mi toglio ed eternamente ti lascio, con pensata deliberazione mossa da certi e convenevoli rispetti». – Finita questa lettera, per un servidore a Cinzia la mandò. Ella, avuta che l’ebbe e con infinito dolore letta, di tal maniera per buono spazio restò stordita, che più tosto a statua di marmo che a donna viva rassembrava; poi ricordandosi de le parole de la balia, subito s’imaginò che quanto Camillo le scriveva tutto era per opera di quella, e che d’altri non intendeva se non di Giulio. E quello mandato a dimandare, tutta piena di lagrime e di sospiri l’attendeva che venisse. Andò a lei Giulio e, trovatola così di mala voglia, le domandò la cagione de la presente sua mala contentezza. Ella alora gli mostrò quanto Camillo scritto le aveva: Giulio da non pensata e grave ferita offeso, poi che buona pezza stette sovra di sè, celando più che poteva l’interna ed infinita pena che di questa calunnia sentiva, dopo alcuni ragionamenti, avendosi l’un l’altro detto ciò che la balia dinanzi separatamente aveva ragionato con loro, concorsero in questa openione, che ella fosse stata l’inventrice del tutto, e con sue favole avesse fatto credere a Camillo ciò che non era. Poi, con buone parole consolatala a la meglio che puotè, ed affermandole che la verità a la fine sarebbe conosciuta, da lei si partì ed andò a trovar un suo amico, che anco era molto domestico e familiare di Camillo, e si chiamava Delio. E quello trovato che alcune lettere scriveva, dopo l’usitate salutazioni gli disse: – Io so, Delio mio, che tu ti meravigli de la mia venuta così a buon’ora, non essendo ancora il sole a pena spuntato fuori d’oriente. Ma molto più ti meraviglierai quando ti dirò la cagione del mio venire. Tu sai l’amicizia che è tra Camillo e me, nè bisogna che io te ne informi, perciò che tu chiaramente hai in molte cose veduto che io da lui a’ miei fratelli carnali non faccio differenza, perchè certamente io l’amo come la vita mia propria. So anco che conosci quanto a mal mio grado, essendo io nodrito in corte di Roma, e avendo fatto lunga dimora a le corti de la Francia e de la Spagna, e praticato in molti luoghi di quei regni, io me ne stia in questa mia patria, ov’è un viver molto alieno da la mia natura e da la maniera del conversar dei luoghi ov’io son creato e lungo tempo vivuto. Per questo mi vedi di rado aver pratica con questi cittadini, perchè niente tengono del cortegiano; ed il viver loro è molto difforme da la conversazione che io desiderarei veder ne la patria mia. Onde la vita mia faceva con Camillo ed uno o dui altri, i quali sono stati ancora eglino fuori, ed hanno appreso mille belle maniere di vivere e di costumi gentili e di festeggiar gli stranieri ed onorargli. Hanno poi questi cittadini universalmente questa boria in capo, che vogliono essere tenuti i primi de la città, i quali se caminano per la strada, gli vedi andare gonfii e pettoruti, rimirando quinci e quindi chi fa loro di berretta, chi se gli inchina, chi gli saluta, chi gli cede il luogo più onorato e chi da loro in tutto e per tutto dipende, come se essi fossero ben gran conti e cavalieri e signori de la città. Io porto ferma openione che non sia gente in Italia che più s’appaghi di titoli onorevoli, come di marchese, di conte e di cavaliero, come fanno costoro, i quali godeno meravigliosamente esser con simil nomi domandati, se ben le facultà non sono di maniera che si possa viver cavallerescamente. Ora, io sono un di quelli a cui queste fumose grandezze e titoli vani sono più a noia che il morbo, e più m’apprezzo de l’oneste facultà che a’ miei fratelli ed a me gli avi nostri per antica eredità ci hanno lasciate, che d’esser chiamato nè cavaliero nè conte. Chè a dir il vero, io vorrei de l’arrosto e non del fumo, perchè l’arrosto nodrisse e il fumo ci soffoca e fa morire. Ma perchè molte fiate di questo abbia insieme ragionato e con vere ragioni biasimato il modo del viver di questa terra, e desiderato, ben che indarno, che ci fossero quelle oneste e lodevoli domestichezze che sono molte altre città di Lombardia, di questo non dirò altro se non che, essendo scioperato, e non sapendo alcuna volta ove ridurmi, andava assai sovente a la stanza de la Cinzia, ove sonando, cantando, scherzando e favoleggiando me ne passava il tempo. V’andava anco e più degli altri vi faceva dimora,' 'per quel rispetto del quale a Camillo e a te so che n’ho più di due e tre volte ragionato. Ora io non so ciò che sia o che dir mi debbia. Questa matina a buonissima ora Cinzia ha mandato per me, la quale ho ritrovata che in pianti e gemiti miseramente e senza voler ricever alcuna sorte di consolazione si consumava. Ella, come fui arrivato, mi diede questa lettera che Camillo le ha scritto. Vedila e leggila. – E così Giulio essa lettera a Delio porse, che la prese e subito lesse. Come Delio l’ebbe letta, così Giulio il suo parlar ripigliò e disse: – A Camillo, come tu puoi considerare, è uno strano grillo entrato ne la testa, nè so con qual fondamento, che io sia fuor d’ogni convenevolezza e debito divenuto possessor di Cinzia, la quale sallo Dio che io sempre ho amata come propria e cara sorella. E prego di core Iddio che di me faccia ogni strazio, se mai io ebbi pensiero di venir ad atto nessuno meno che onesto con lei. Ora per il tenor de la lettera sua che letta hai, io mi fo a credere che d’altro che di me non può dire, perciò che altri che io non ci è che pratichi in quella casa, che sia di quel nodo d’amicizia unito seco, come sono sempre stato io. Vorrei mò che tu mi porgessi aita e mi consegliassi come debbia in questo caso governarmi, perchè, essendo in effetto innocente, non vorrei per tutto l’oro del mondo che Camillo restasse con simil scropolo e mala openione di me, che prima desiderarei di morire che commetter una tal follia contra un mio così caro amico. Io non so già qual maggior ingiuria di questa se gli possa fare. E per dir una parola che m’avanza, io, se pur devessi esser infamato, e che la mia innocenzia appo il publico non si potesse giustificare, penserei esser minor male aver almeno gustato quel poco piacere che restar con infamia senza cagione. Tuttavia per parlar sul saldo, quando uno non ha errato e sente che altri a torto il biasima, poco si cura dei suoi detrattori, quando si conosce esser senza colpa. Ma tornando al caso mio, io non sarò contento già mai mentre penserò che Camillo abbia quest’ombra di me. Egli e tu sapete pure ove i miei pensieri sono collocati e se io lealmente amo, persuadendomi esser amato. E veramente fin che morte chiuda quest’occhi, io persevererò ne la mia fedel servitù, e con quella sincerità la serberò che desidero esser a me mantenuta, pensando ch’io deverei chiamarmi il più disonorato gentiluomo del mondo, se per qualunque donna che si truovi, io, lasciata la mia padrona, con altra mi mettessi, chè nel vero confessarei meritar ogni accerbissimo castigo. Penserà adunque Camillo che io a lui dopoi facessi questo torto? Tolga Iddio da me che mai per nessun tempo in simil errore trabocchi! Sì che, Delio mio, io son qui ne le tue mani per conseglio e per aita, non sapendo altrove che a te ricorrere, perchè so che m’ami. – Delio, poi che ebbe attentamente udita questa nuova e fastidiosa istoria, pieno d’ammirazione stette alquanto sovra di sè, varie cose, ne l’animo suo ravvolgendo; onde essendo consapevole quanto Camillo amasse Giulio e come n’era ottimamente da Giulio ricambiato, non gli pareva a modo nessuno dover sofferire che una sì leale fratellanza si guastasse. E conoscendo per lunga esperienza, (perchè era uomo assai attempato, e che molto del mondo in Italia e fuori aveva visto, e praticato in diverse corti con vari principi), quanta fosse difficultà a trovar un amico che veramente amico chiamar si potesse, troppo altamente gli doleva di questa rodente ruggine venuta nel core a Camillo contra di Giulio. Per questo egli deliberò, mentre la ruggine ancor non era troppo abbarbicata, usar ogni opera per sbarbarla e diradicarla in tutto. E perchè aveva ferma credenza che Giulio del detto caso colpevole non fosse, tanto più volentieri vi si voleva affaticare. Indi, dopo molte parole, venne in questa conchiusione: d’andar con Giulio a trovar Camillo, e a tutti i modi possibili levargli la impressa openione del capo. E così tutti dui dopo desinare v’andarono e trovarono Camillo che era in camera.' 'Quivi entrati, videro ch’ei leggeva un certo libro. Salutato che l’ebbero e rese da lui le debite risalutazioni, volendo Delio cominciar a parlargli, egli, toltali la parola di bocca e a Giulio rivolto, in questa maniera gli disse: – Io ho piacer grandissimo, Giulio mio, che Delio nostro ora qui teco si ritruovi, imperò che, essendo amico com’è ad ambi noi, voglio per sodisfazion tua e mia ch’eternamente sia testimonio di quanto intendo dirti. E per non consumar il tempo indarno, ti dico ch’io son chiaro che Cinzia compiace di se stessa amorosamente a altri che a me, e so che tu con lei giaciuto più volte ti sei. Di lei so ben io ciò che far ne debbio, e quanto in mente n’ho deliberato è già a lei fatto intendere. E perchè stimo molto più un peluzzo de la tua barba che non faccio quante pari di Cinzia sono al mondo, ti dico ed affermo che per questo non sono io già mai per averti men caro di quello che sempre t’ho avuto, anzi se da te non mancherà, voglio che l’amicizia nostra sia com’era prima. Onde occorrendo che tu voglia far isperienza di me, così ne la vita come ne la roba, tu troverai che non hai uomo, sia chi si voglia, del quale tu possa tanto disporre quanto sempre di me farai ad ogni tua voglia, e provandomi conoscerai che gli effetti saranno conformi a queste mie parole. E di ciò che detto io t’ho, siami il nostro signor Iddio testimonio in cielo e Delio qui in terra. Io non voglio che sia in potere d’una trista e falsa femina di romper l’amicizia nostra antica, da’ nostri primi anni cominciata e sempre fin qui indissolubilmente cresciuta. E così prego Iddio che tu del caso occorso tanto ti ricordi quanto farò io, che già gettato me l’ho dietro le spalle ed hollo sepellito in eterno oblio. Lasciamo queste malvage e ree femine vivere da lor pari e col malanno che Dio le doni, e noi attendiamo insiememente a starsi in piacere ed allegrezza. Io era schiavo di questa trista, credendomi che fosse altra donna di quello che è; ma ella è pur di quelle ribalde che non attendeno se non a far tutto quello che loro vien ne la mente, o buono o tristo che si sia. Faccia ella, chè ora sarà in libertà, e potrà di giorno e di notte starsi con chi più l’aggradirà. – E qui tacendo Camillo, così a quello Giulio rispose: – Duolmi assai, più di quello che tu ti pensi, Camillo mio, che tra noi nata sia sì malvagia occasione di scioglier il nodo de la nostra più che fratellevol amicizia, perciò che io sono più che certo che, restandoti impresso de la fantasia ch’io sia stato sì poco fedele e mi sia con Cinzia amorosamente mischiato, esser non potrà che sempre tu non mi tenga per disleale e poco conoscitore di quello che importi l’amicizia di dui compagni, tra i quali bene sta che ogni altra cosa sia commune, eccetto le donne. Io da me stesso faccio il giudicio, e dommi ad intendere che ciascuno sia di questo animo, imperò che non averei piacere che nè tu nè altri andasse trescando con quella persona che io amo ed amerò fin che io viva. Tu puoi ben dire che dietro le spalle t’hai gettato questo fatto, come detto hai; ma io ti ricordo che queste sono cose molto facili a dire, ma a metterle in essecuzione sono troppo più difficili che l’uomo non pensa. Ed io per me crederei sempre che chi simile ingiuria riceve, come tu pensi che io fatta t’abbia, sempre l’ha innanzi agli occhi e non se la oblia già mai. Voglio adunque che se ne venga a la prova che si può, perciò che io sono presto a chiarirti che io mai non pensai starmi altramente con Cinzia, se non come con una de le mie sorelle, non che io sia venuto a nessun atto meno che onesto. E vivi sicuro che s’io ti lasciassi con questo scropolo in mente, che mai non viverei contento, nè mai più mi potria entrar in testa nè essermi persuaso che tu mi fossi quel leal amico che fin qui stato mi sei. Chi dubita esser impossibile che tu sempre mi tenessi uomo perfidissimo e di poco onore? Io non ti conosco di sì poco ingegno nè di così mal animo che tu volessi amare chi, secondo il tuo credere, disonorato t’avesse, ed esser mostro dal volgo a dito come un caprone e persona che tenga poco' 'conto de la riputazione ed onor suo. Camillo mio, io sono gentiluomo ed uomo d’onore, e prima morir vorrei che commetter una sì fatta sceleratezza contra te. Poi non sai tu se io amo colei che del mio core è donna, a cui io unicamente e con ogni riverenza servo ed onoro? E ben che lontano da lei ora mi trovi, nondimeno tu puoi pur esser chiaro se con altra donna ho voluto domesticarmi già mai. Ed ora vorrai che io sia divenuto sì pazzo ch’io abbia commesso questa follia? Tolga Iddio da me che mai ci pensi! Sì che delibera farne la prova, per assicurarti che Giulio t’è vero e fedelissimo amico. Ma chi t’ha detto che io abbia fatto cotesto fallo? – A me lo disse, – rispose Camillo, – la balia. – Dunque quella lupa de la balia, – disse Giulio, – t’ha piantata questa carota? Ella è una trista ubriaca nè sa quello che si dica. Se ella fosse uomo sì come è donna, io le cavarei gli occhi e vorrei col parangone de l’arme farla mentire di quanto ha detto, come una bugiarda che ella è. – Camillo, che pure teneva per fermo la faccenda essere come la traditora balia gli aveva divisato, ed ancora che sommamente l’atto gli fosse stato di grandissima noia, nondimeno egli non voleva perder l’amico, in questa guisa a Giulio disse: – Io te l’ho detto e di nuovo te lo ridico, che, sia come si voglia, io stimo più te che non faccio quante Cinzie si trovino, e sono per esserti sempre quel fratello ed amico che stato ti sono, se da te non rimarrà. E, di grazia, non parliamo più di questo fatto. A me basta slegarmi da costei, poi che ella così vuole. Ora per risponderti ad una parte che detta hai, ti dico, ancor che alcuno intendesse che tu con Cinzia mischiato ti fossi, quando vederanno che noi siamo amici e come di prima conversiamo insieme, non crederanno a le ciancie tra loro seminate. Che io poi tenga in core memoria di questa cosa, non lo credere, e levati questa fantasia di capo, perchè io spero in Dio che non passerà un mese che io metterò Cinzia e tutto ciò che a lei appartiene in eterno oblio. – Delio, a cui a modo veruno non piaceva che il fatto rimanesse in questa confusione, preso per mano Camillo che si levava per uscir fuor di camera, in questo modo, facendolo sedere, gli disse: – Camillo, io sono sicuro che tu parli di core, e non dubito punto che tu non sia per esser con Giulio come discorso hai. Ma, per Dio, leva un poco dagli occhi tuoi questo folto velo di passione che alquanto la vista del giudizio t’annebbia ed offosca, e giudicherai se Giulio deve restar di questa maniera così confuso in questo inestricabile labirinto. Tu parli nel vero da gentiluomo e vuoi che egli ed io tocchiamo con mano che, ancora ch’ei ti avesse fatto questo oltraggio, con tutto questo tu lo vuoi per amico e fratello. Ma il fatto non sta bene. Chè, se tu brami mostrar la grandezza de l’animo tuo, mostrala in altro, e non volere con dimostrarti magnanimo e generoso far che Giulio sia tenuto disleale e villano e tu di poco giudizio, che per elezione ti pigli uno per amico che, avendo commesso ciò che si dice, non merita che tu punto l’apprezzi e meno che tu l’ami, nè abbi caro. E chi sarà poi che, sapendo che tu sia da lui ingiuriato, non dica che tu averai voluto strafare ed operar più di quello che a gentiluomo si convenisse, che altresì Giulio non sia accennato con l’infame dito di mezzo per un tristo discortese, e da tutti schernito e vituperato? Ma dimmi, per Dio: com’esser potrà già mai che tu non stimi che Giulio sia il più villano e traditor gentiluomo del mondo, se questa fantasia ti resta in capo ch’ei sia divenuto di Cinzia possessore? Che tu dica ch’il tutto con perpetuo oblio porrai dopo le spalle, tu lo puoi ben dire, ma bisogna che tu trovi chi te lo creda. Tu sei uomo di carne e d’ossa come gli altri, ed hai sì bene le passioni com’io, le quali io ti ricordo che sì tosto domar non si ponno che non facciano il loro ufficio. Ora, perchè questi primi movimenti de l’animo allegato al corpo non sono ordinariamente in poter nostro, e questa tua piaga ancora gitta sangue, e troppo fresca e' 'profonda si vede, non voglio per adesso dirti altro, imperò che la tua ferita non riceveria medicamento alcuno che profittevole le fosse. Questo solo ti dico, che tu pensi chi è Giulio, e consideri la qualità di chi male te n’ha detto, e che tu ti metta in suo luogo; e poi dimane, con più agio e meno còlera, saremo insieme, e forse ti troverò più capace a ricever compenso e rimedio che ora non sei. Io so bene che se tu ci pensi, oggi e questa notte che viene, suso, e metti lo sdegno da canto, che farai quel giudicio di così fatto caso che a la tua prudenza si conviene. – Finito questo ragionamento, Delio e Giulio si partirono, e andando per la città a diporto, e varie cose insieme di quanto s’era con Camillo detto ragionando, disse Giulio a la fine: – Io mi trovo, Delio mio, nel maggior travaglio del mondo, nè mi sovviene che già mai in me, per accidente avverso che avvenuto mi sia, fosse tanta confusione di mente quanta ora vi conosco essere, e sono assai più irresoluto e dubbioso che prima, e tanti e sì diversi pensieri mi combattono che io non so che mi fare. Veggio Camillo aver ferma credenza che io gli abbia fatto questo torto, ed ancora che tenga detto che vuole essermi amico com’era, io non so, secondo che detto gli hai, quanto questo sia possibile. A me pare, ed il parer mio è su la ragione fondato, che sempre che gli sovverrà di questa cosa, e sovverragliene ogni ora, che mai non mi guarderà con dritto occhio, e pensando che io l’abbia assassinato, averà di continovo questo umore su lo stomaco, che mai riposar non lo permetterà, anzi, se prestamente non si purga, anderà di dì in dì facendosi maggiore. Vorrei adunque pregarti che tu prendessi questo carico di riparlargli e indurlo per ogni modo a volersi far chiaro del fatto com’è, e non voler prestar tanta fede ad una sfacciataccia puttana. – Promise Delio di far ogn’opera a lui possibile, ma che gli pareva buono di star ancora tre o quattro giorni, a fine che, cessate quelle prime passioni, ritrovasse Camillo più atto che prima a lasciarsi persuadere il vero. Piacque a Giulio il parer di Delio, e dopo, finiti i lor parlari, andarono ciascuno a far quello che più gli piacque. Il seguente giorno fu astretto da alcuni gentiluomini Camillo andar a trovar Cinzia, e seco ebbe assai lungo ragionamento circa di questa pratica. Ella che era innocente e a cui troppo altamente rincresceva, senza sua colpa, di perder il suo caro padrone, de l’innocenzia sua fece quegli scongiuri che ella seppe i maggiori, e sempre, ragionando, di calde ed amare lagrime il volto si rigava. Camillo in questo ragionamento la risolse che d’altro uomo si provedesse e che dove ei potesse farle piacere, che di buon core sempre lo farebbe, pur che seco non avesse più pratica d’amore. E con questa determinazione da quella prese congedo e se ne tornò a casa. Parlò Delio seco due e tre volte, nè altro mai puotè da lui cavare, se non che voleva esser amico di Giulio: che se aveva animo d’affrontarsi con la balia, che la farebbe venir in parangone. Ora quali fossero i pensieri di Cinzia, quali le sparse lagrime, quali le dolenti parole, quali le vigilate notti, quali i digiunati giorni e quali e quanti gli ardentissimi sospiri, chi ad uno ad uno raccontar volesse, averebbe troppo che fare, e così di leggero non ne verrebbe a capo. La misera giovane, perdutone il sonno e non si cibando, venne pallidissima, magra, e pareva una fantasima, nè altro sapeva fare che piangere e miseramente lamentarsi, e di tal maniera era il suo dirotto pianto che averia mosso a pietà una tigre ircana. Medesimamente Camillo, ancora che si sforzasse di voler mostrare che questa cosa non gli dolesse, nondimeno ei si vedeva, cangiato il nativo colore del viso, esser afflitto e pallido e quasi di continovo pieno d’ardentissimi sospiri che facevano fede de l’interna doglia. Giulio altresì non trovava riposo, non si potendo dar pace che fosse in poter d’una rea femina di fargli perder così buon amico come teneva Camillo, e sempre astringeva Delio a far che si venisse a' 'tutte quelle chiarezze che si potessero imaginare. Delio, che più volte aveva tentato Camillo, e lo trovava sempre d’un tenore, aveva grandissima noia di questa pratica; e non gli piaceva punto che con la balia si venisse a parangone: onde a Giulio disse: – Io vorrei pur saper ciò che tu farai venendo a volto a volto con la balia, e che ella, come senza dubio farà, perseveri ne la sua ostinazione, raffermando quanto già ha detto. Non sai che non è pertinacia nè ostinazione al mondo uguale a quella d’una indiavolata femina? Ella, per mio giudizio, prima eleggerà di morire che disdirsi già mai, ed accrescerà menzogne a menzogne. Se dirà che sei giaciuto in letto con Cinzia e che t’ha veduto, che dirai tu? Quanto più tu lo negherai, ella tanto più animosamente l’affermerà. Vorrai tu venir al cimento de l’armi e combattere con una meretrice? – Stavasi Giulio mezzo stordito e quasi fuor di se stesso, conoscendo che Delio diceva la verità; pure, essendo bramoso d’uscir di cotanto fastidio in quanto si trovava, disse: – Io conosco molto bene che tu dici il vero, e che se questa malvagia femina vorrà ostinarsi e perseverare nelle sue bugie, ch’io non potrò per testimonii riprovarla già mai e che saremo a peggio che prima. Ma a me par che Camillo deverebbe dar molto maggior fede a le mie verissime parole ch’a le menzogne d’una vilissima femina, la quale ei più volte ha trovata esser bugiarda. E chi sa se ella, pentita di quanto falsamente ha straparlato, volesse dir il vero e manifestar a che fine ella s’abbia fatta questa favola? Si potrà forse anco cangiar in volto e dire ad un altro modo, o dar alcun segno, per lo quale Camillo potrebbe di leggero conoscer la mia lealtà e la malignità e perfidia di questa ribalda. Sì che di grazia vedi che si venga a quel cimento che si può, a fine che Camillo manifestamente veggia ch’io non manco, con quelle vie che per me trovar si ponno, di volerlo chiarire de l’innocenzia mia. Vedi adunque, con quelle ragioni che tu saperai dire, indurre Camillo a levarsi fuor di testa questa falsa openione e dar luogo a la verità. – Delio, che trovato aveva Camillo perseverar ne la sua credenza e dar sempre le risposte d’un tenore, non sapeva come governarsi. Ed in vero, in un caso di tal maniera quale era questo, avendo la balia sì ben ordita la sua tela e non vi essendo testimonio che il contrario affermasse, ancora che la balia sola non devesse valer più di Giulio e di Cinzia che il fatto negavano, tuttavia pareva che ciascuno che questa novella sentiva più tosto credesse il male che il bene, onde Delio non sapeva che farsi. Nondimeno essendo da Giulio ogni ora instigato, gli disse che di nuovo proveria ciò che potesse operare, e che portava ferma openione che da se stesso Camillo con un poco di tempo conoscerebbe la verità e che non presteria più fede ad una vil feminuccia che al vero. Ma volendo pur Giulio che con Camillo si parlasse e si venisse a la prova, gli disse Delio: – Poi che deliberato ti sei di voler entrare in steccato con la balia, a me pare che tutti dui ce n’andiamo a trovar Camillo, e intender se in casa sua o vero di Cinzia vuole che con la balia tu ti affronti. – E così se n’andarono a trovar Camillo, ed entrati in questa cosa in ragionamento, Delio gli disse: – Camillo, io più volte t’ho detto che ancora che tu dica di voler aver Giulio nel conto che tu per avanti l’avevi, che a lui, lasciandoti con quella openione che hai, l’animo punto non è quieto. Onde, per veder se è possibile di cavarti questa fantasia di capo, egli è qui presto a fartene tutti quei parangoni che tu saperai imaginarti. – Io non so altro miglior modo, – disse Camillo, – che ridursi a la stanza di Cinzia e far venir la balia, e udir ciò che dirà e quanto le risponderà Giulio. – Con questo tutti tre n’andarono a casa di Cinzia, che era in letto e tuttavia amaramente piangeva, e a torno al letto s’assisero. Onde Camillo a ragionare così cominciò: – Io già aveva deliberato, o Cinzia, che di quanto m’è stato fatto intender esser accaduto tra Giulio e te più non si parlasse,' 'perciò che, quanto a me appartiene, io il tutto aveva sepellito in eterno oblio, ed altresì desiderava che Giulio facesse e che rimanessimo amici e fratelli come prima eravamo. Ma astretto da Delio, al quale niente, quantunque grave che sia, posso negare, siamo qui venuti, e la cagione del nostro venire è che Giulio dice non esser vero quello che di lui e di te la balia di bocca propria m’ha manifestato, e vuole su la faccia sua riprovargliele. – Non aveva a pena le sue parole Camillo finito di dire, quando Cinzia tutta piena di lagrime disse: – Io vorrei che nostro signor Dio degnasse in questo caso essaudirmi e far tal dimostrazione quale fosse a l’innocenzia mia convenevole e manifestatrice de la falsità e bugiarda fizione de la balia, a ciò che dal publico si potesse conoscere chi di noi due merita biasimo e castigo. E di questo ne prego Dio così di core, come di cosa che lo pregassi giammai. Ma se mi lece, Camillo, dir il vero, io credo e tengo certo che tu eri sazio dei fatti miei e che cercavi occasione d’abbandonarmi, e vuoi con questo mezzo dar ad intendere a chi questa cosa saperà, che con giusta cagione mosso ti sei. Ora Iddio te la perdoni. Tu potevi bene per altra via conseguir l’intento tuo e non mi far cotesto disonore, non l’avendo io meritato. Tu eri in tua libertà e potevi molto bene, ogni volta che ti piaceva, lasciarmi e dirmi: – Cinzia, io non voglio più conversar teco, perchè la tua pratica non fa più per me. – Non sapevi tu che io non poteva sforzarti ad amarmi a mal tuo grado nè contra tua voglia? Ma a te non è bastato non voler esser più mio, chè m’hai voluto infamare e farmi tener una trista, dove a fè di Dio non sono, perciò che dopoi che io divenni tua, mai non ti ho mancato o fatto torto. Nè solamente questo t’affermo, ma di più ti dico che pensiero di mancarti non ebbi già mai. E se tu o altri m’avete veduta domestica con Giulio e talora scherzevolmente insieme giocare e motteggiarsi l’un l’altro, non si è per questo potuto vedere, nè comprender cosa meno che onesta e che tra amici non s’usi. Ma, per mia fè, chi me l’ha posto in grazia più di te, che tante volte lodato e predicato me l’hai, affermandomi sempre che il più leale e il più dabbene di lui non avevi mai provato nè sperimentato? Ora io che il primo giorno che divenni tua feci pensiero che in me più non fosse voler alcuno se non quello che tu volevi, conoscendo quanto l’amavi, quanto caro tenevi e desideravi che da me fosse festeggiato, per compiacerti, ed anco perchè vidi che ei lo valeva, me gli feci domestica, ma sempre come con mio fratello. E tanto più volentieri praticava da ogni tempo seco, quanto che io lo trovava tutto tuo, e chiaramente comprendeva che molto più t’ama che i fratelli suoi proprii; ma sia con Dio! In tanto infinito cordoglio in quanto mi trovo, ho pur questo solo poco di conforto, se in tanto mio male cader può sollevamento alcuno: tu con ragione mai non potrai di me dolerti, ma bene potrò io con giusta ragione di te dolermi e querelarmi. – Io non ti mancherò, – diceva Camillo, – di tutto quello che potrò sovvenirti, come per effetto proverai; ma più non voglio che tra noi sia pratica d’amore, essendo ormai tempo ch’io attenda a’ casi miei. Or via, noi siamo qui per confrontar Giulio con la balia e dar fine a questa odiosa pratica. – Venne la balia, ed assicurata che dicesse il vero perchè non le saria fatto nocumento alcuno, narrò con voce bassa ed interrotte parole tutta la finta favola che prima a Camillo narrata aveva, ma non così ordinatamente come a lui disse. E certo egli è una gran cosa a saper sì ben colorir la menzogna che abbia faccia di verità, e ad un modo sempre narrarla. Per questo si dice che bisogna a un bugiardo aver buona memoria. Ora Giulio, tacendo la balia, tutto di còlera e di sdegno ripieno, voltato verso lei, con un mal viso iratamente le disse: – Io non voglio starmi a disputare e questionar teco di questo che ora falsamente dici, imperciò che nulla mi giovarebbe il negare quello che tu disposta sei d’affermare, o bene o male che tu dica, perchè so non esser sotto le stelle ostinazione maggior di quella d’una tua pari. Dico bene che tu non dici punto il vero. Ed ancora che incredibilmente mi doglia restar con questa macchia appo Delio e Camillo, chè non so quello ch’eglino crederanno di questa tua menzogna, pure mi consola in parte la coscienza mia, sapendomi esser di questo fatto innocente, e spero fermamente in Dio che il tempo, ch’è padre de la verità, il tutto farà manifesto secondo che è, e farà conoscer le tue bugie. – Cinzia diceva il medesimo, tuttavia piangendo. La scelerata balia se ne stava con gli occhi a terra chinati, cangiandosi spesso in viso di colore, nè mai a Giulio nè a Cinzia rispose una minima parola. Camillo, dopo molte parole, a Cinzia disse: – Io te l’ho, Cinzia, detto, ed ora te lo ridico, che tu sei libera e puoi a tuo modo provederti e pigliar chi più ti piacerà, procacciandoti d’altri, chè io voglio esser mio e far di me come voglio, nè teco più vo’ domesticarmi. Ma bene dove potrò giovarti farò così che conoscerai che io son gentiluomo. – Poi che pure disposto sei, – disse Cinzia, – non mi voler più esser quello che per lo passato stato mi sei, io ti prego almeno che tu voglia farmi una grazia, che a te niente fia ed a me sarà di grandissima contentezza. – Domanda, – rispose Camillo, – a ciò che essendo cosa di cui ti possa compiacere, io liberamente te la concedo. – Vorrei, – soggiunse ella, – che fosse tuo piacere di lasciarmi la tua e mia picciola figliuolina e mi promettessi di non levarmela. – Questa farò ben io molto volentieri, – disse Camillo, – e tanto più quanto che mi persuado che io in lei non abbia che fare, non la riputando mia, chè, secondo che ora hai del corpo tuo compiaciuto altrui, posso ancora ragionevolmente credere che altre volte tu abbia fatto il medesimo; sì che ella ti resterà. Orsù, non più ciance, chè troppo dette se ne sono. Io ti lascio, nè voglio a patto veruno che si dica che tu sia più mia. Statti con Dio e attendi a darti piacere. – E con questo lasciatala, tutti se ne partirono. La misera e sconsolata giovane, assalita da soverchio dolore, così da quello fu vinta che tramortì, ed ogni segno di vita in lei si spense. La vecchia madre, veggendo la figliuola a sì mal viaggio e termine ridotta, cominciò amaramente piangendo a gridare: – Oimè, misera me, che Cinzia è morta! – Il vecchio padre che si trovò, sentendo la pietosa voce della lagrimante sua moglie, salite le scale ed in camera entrato, anco egli stimando la figliuola esser trapassata, cominciò piangendo a far un grandissimo lamento. La balia altresì di mala voglia essortò i poveri vecchi a porger a la figliuola aita, dicendo che era isvenuta. Onde a la meglio che seppero a torno a Cinzia si misero e, stropicciandole le carni in più luoghi, sì sforzarono con ispruzzar acqua nel viso e con altri argomenti gli smarriti spiriti rivocare. Ora, poi che le poche e deboli forze ne l’afflitto corpo con grandissima fatica furono ridutte, la sconsolata giovane, non possendo ricever consolazione, lungamente pianse e sospirò la sua sciagura. Veggendo poi che indarno s’affaticava, rivolse l’animo a pensare di che maniera ella si potesse di questi sì noiosi affanni liberare e per morte finir così aspra e sconsolata vita. Ma lasciamola un poco in questo suo fiero proponimento, e diamole agio di meglio pensare a’ casi suoi, e ritorniamo a Delio, il quale, mentre stette in camera di Cinzia, non volle mai dir cosa alcuna. Ora, poi che furono di casa di quella usciti, ei così disse a Camillo: – Perchè tutte le cose possibili ponno essere, egli potrebbe la balia aver detta la verità; ma per questo non segue effetto che ella detta l’abbia, perchè dal poter a l’esser è un gran disvario e larga differenza, non si potendo veramente affermare: «Una cosa puote essere, adunque è». Ma sia come si voglia. A me non può egli entrar in capo che se Giulio voleva prendersi carnal diletto con Cinzia, che egli mai avesse lasciata la porta de la camera aperta, massimamente essendo altre volte dimorato in camera seco con l’uscio serrato. Sovvengati, Camillo, quante fiate partendoti da la camera, e non v’essendo dentro altra persona che Giulio e Cinzia, hai serrato l’uscio, che sai che, tirato appresso al muro, da sè s’inchiava. Pertanto io non conosco Giulio sì scemonnito che, volendo un sì fatto mestier fare, avesse lasciata la porta schiavata. Ma io credo che questa trista de la balia s’abbia finta per alcun suo disegno cotesta menzogna. Nè questo ti dico io perchè tu debbia di nuovo ritornar a rimpattumarti con Cinzia, perchè sai bene quante volte per nome di monsignor lo vescovo e da me stesso t’ho essortato a levarti da questa sì poco onorevole pratica, ed ancor adesso te lo conforto; ma detto l’ho chè non vorrei che fra te e Giulio rimanesse la ruggine che tra voi mi par nata, che sarà cagione che più non ci sarà quella vera amicizia che ci era. Poi a quello che ho da la balia udito, che hai veduto come freddamente quasi in insogno ha questa sua favola narrato, io comprendo che non sappia ciò che si dica, e che cotesta sia una trama ordita, non so a che fine. E fommi a credere che, se un’altra volta se le farà narrare, che tu vedrai che o aggiungerà o diminuirà alcuna cosa, e che varierà il parlare. Ben t’affermo che appo me ella ha perduto il credito e che io per me, con quanto mi sapesse dire, non le crederei il vangelo. E se tu ora non avessi gli occhi de la mente dal fiero sdegno velati e che la passione tanto non t’alterasse, che troppo pure ti martella, tu saresti certo de la medesima openione che son io. – Non accade dir altro, – soggiunse Camillo, – avendo io chiaro manifestato l’animo mio così verso Giulio come verso Cinzia. – Finito questo ragionamento, Delio e Giulio si dipartirono. Ora, veggendo Giulio la cosa andar di mal in peggio, e che non era per prender quel fine che si conveniva, disse a Delio: – Io veggio che Camillo ha fisso il chiodo di voler più tosto creder la bugia a quella mascalzona de la balia, che a me la verità. Onde mi son deliberato andarmene per alcuno spazio di tempo fuor de la città, per schivar questi molti fastidii e mordaci cure che mi levano l’intelletto. Forse che il tempo aprirà gli occhi a Camillo, e conoscerà la mia innocenzia e la malvagità de la traditora balia. – Cinzia, che sofferiva passione fierissima, e non le pareva poter viver senza Camillo, mandò a chiamar Flamminio Astemio, il quale era amico di Camillo, di Delio e di Giulio. Egli, udite le ragioni di Cinzia e riputandole vere, parlò più volte con Camillo ma sempre indarno. Il che Cinzia intendendo, e sapendo che a torto era infamata, cadendo ne l’abisso de la disperazione, deliberò non voler più restar in vita, parendole assai minor pena il morire che il viver in cotanti affanni; ma, dubiosa de la guisa del morire, non sapeva con qual morte troncar lo stame de la sua travagliata vita. Ancidersi con le proprie mani per via del ferro, non le dava il core, temendo che la debol e tremante mano non fosse forte a sì fatto ufficio; appendersi con una fune per la gola e di sè dar sì misero spettacolo, non ardiva. Restavale il macerarsi di fame ed a poco a poco consumarsi, o gettarsi da le finestre in terra e fiaccarsi il collo, o buttarsi in un fiume che per la terra passa, e nell’acqua annegarsi; ma nessuna spezie di queste morti le piaceva. Onde, dopo molti pensieri su questo fatti, <nowiki>perseverando sempre nel fiero proponimento di morire, elesse ultimamente col veleno terminar i giorni suoi ed uscir di affanni. Ahi, giovini incauti e voi semplici donne, cui pare che lo star su la vita amorosa sia un trastullo, guardate a non lasciarvi dal soverchio amore impaniare, di tal maniera che non possiate poi tirarvi a dietro, e sovra il tutto non vi disperate. Vi sia per essempio questa infelice giovane, la quale disperata, non le parendo poter più goder il suo amante, ha eletto avvelenarsi. Ed avendo ne l’animo suo fatta questa deliberazione, [cercava] con qual sorte di veleno si devesse ancidere e con che modo il veleno potesse avere. Praticava in casa di lei il greco da</nowiki>' 'Santa Palma, uomo di palazzo e molto domestico di Camillo. Questo si fece ella domandare e l’interrogò se aveva conoscenza d’un Gerone Sasso che, per quello che per tutta la città suonava, era un famoso ribaldo, e tra l’altre sue sceleratezze aveva fama che in cuocer ed affinar veleni era senza pari. Era ancor pubblica voce che, volendo provar una composizione che fatta aveva di certo veleno, che l’esperimentò in una sua fantesca, che più di venti anni era servente in casa di lui stata, la quale in breve spazio morì. Io mi trovai un dì presente che un gran signore gli disse: – Gerone, tu desti pur quella volta un bon salario a la tua fante che tanti anni t’aveva servito, quando con quattro gocciole d’acqua che tu stilli la mandasti a l’altro mondo. – Non ardì il manigoldo a negarlo, ma sogghignando faceva vista di burlare. Ma torniamo al greco, il quale a Cinzia rispose che lo conosceva familiarmente. – Vorrò, – soggiuns’ella, – un servigio da te, e quando sarà tempo te lo richiederò. – Pensò Cinzia dopoi non voler usar più l’opera del greco, perchè era troppo domestico di Camillo, e sovvenutole poi di Mario Organiero ch’aveva fama anco ei di cuocere e distillare acque mortifere, le quali in due o tre giorni senza segno esteriore a berne nel vino o in altro modo, ammazzavano chi ne beveva, a lui deliberò ricorrere. E perchè Mario era suo amico, ella gli scrisse un bollettino, fingendo certe sue favole, che, astretta da un gentiluomo, era sforzata pregarlo che le volesse dare un cucchiaro de la sua acqua, affermandoli che la cosa sarebbe segretissima e che di questo ella ne guadagnava scudi d’oro. Sapeva Mario che Camillo s’era levato da la pratica di Cinzia, e, veduto la lettera di quella, dubitò che ella forse avvelenar lo volesse; il perchè, trovatolo gli disse: – Io non so chi abbia persuaso nè dato ad intendere che io distilli acque velenose, non essendo mio mestiero. Nè anco vorrei saperlo fare! Che Dio da simile sceleraggine mi guardi. Ma perchè io mi diletto di cuocere e distillar acque odorifere, e far degli ogli odorati, e componere lisci e belletti per donne, alcuni m’hanno data questa mala fama. Che Dio tanto faccia lor tristi quanto desidero io esser buono. Ora vedi ciò che Cinzia mi scrive: chè se ella volesse altra acqua che velenosa, non accaderebbe che mi dicesse d’esser segreta e che ne guadagnerà cinquanta scudi. – Camillo, letta la lettera, giudicò l’openione di Mario esser buona, ma non si poteva persuadere ch’ella a modo nessuno volesse attossicarsi. Di sè non dubitava punto, avendo deliberato più non mangiare nè ber seco. Stava egli dubioso di questa cosa, e non sapeva apporsi a che fine ella ricercasse cotal acqua. Nondimeno, per meglio spiar l’animo di quella, pregò Mario che con belle parole la intertenesse e mostrasse non intendere che acqua ella volesse, e di quanto ella risponderia gliene desse avviso. Onde Mario a Cinzia scrisse che non sapeva di che sorte acqua ella chiedesse; che se voleva acqua da belletti e conciature, per assottigliare e purgar la pelle, farla bianca, colorita e lustra, o per levar via i peli, ch’ei ne aveva; ma che un cucchiaro non era per far effetto buono. Cinzia, avuta questa risposta, come colei che aveva ferma openione che Mario facesse veleni, a quello riscrisse che voleva acqua velenata; il che Mario mostrò a Camillo, e gli domandò ciò che far deveva. Camillo allora disse: – Mai, messer, sì, in bona fè voglio che la serviam come merita. Tu le riscriverai che di cotal acqua tu non ne hai di fatta, ed ancor che sia cosa di grandissima importanza e che a farla sia difficultà incredibile, che tuttavia per amor suo ne farai fra quattro o cinque giorni una ampolla picciolina. Poi quando ella vorrà quest’acqua, non le mandar cosa veruna senza mia saputa; ed allora vorrò che le mandi acqua pura di pozzo, con alcuna mistura di dentro che le dia un poco d’odore, ma che non le possa far nocumento. – In questo mezzo ella, volendo tentar ogni cosa prima che morire, e veder se poteva ricuperar la grazia di Camillo e fargli conoscere che non gli era mai mancata nè fattogli alcun torto, ancora che debolissima fosse, più dal desiderio portata che da le forze, andò a la meglio che puotè a casa del greco, e, trovatolo, entrò con lui in ragionamento, e con gli occhi colmi di lagrime, a quello narrò tutto il successo della cosa seguita tra Camillo e lei, ingegnandosi fargli toccar con mano come dal canto suo mai non era mancata, e che era innocentissima di quello che la balia l’aveva incolpata. Il Greco, desideroso che questa pace si facesse, vi si affaticò assai, ma nulla potè operare; il che intendendo l’afflitta giovane, e non sapendo più che via tentare, o dove volgersi, ritornò a stimolar Mario deliberata per ogni modo di morire. Mentre queste pratiche andavano attorno, la balia, pentita di quanto a Camillo detto avea, mossa dalla verità, e stimolata da non so che, che non la lasciava aver quiete, mandò per Camillo, e in una chiesa a lui solo disse: io non so, messere, quale Dio o avversario dell’inferno mi molesti e tormenti il dì e la notte, che mai non so trovar riposo, e mi par di continovo aver un pungente coltello nel cuore. Non so donde questo possa avvenire, se non che io falsamente ho infamata Cinzia e Giulio di quello che io per me non ne so cosa alcuna, e non vidi già mai: onde tutto quello che io altre volte vi dissi, e vi replicai alla presenza di quei gentiluomini, è una bugia e invenzione che io da me stessa feci, nè altri mai di questo mi fece motto. Io vi chieggio perdono, e vi supplico a donarmi la vita; la quale io conosco aver meritevolmente perduta, essendo stata ardita di commettere così enorme scelleratezza, come con le mie false parole ho fatto. Ecco che ai vostri piedi mi getto, domandandovi umilmente misericordia. Restò Camillo, a questa non sperata voce, pieno d’una infinita allegrezza, veggendo che Giulio non era colpevole; e dopo che una e due volte s’ebbe dalla balia fatto ridire la cosa, le disse: rea femina, certamente io non so qual pena e qual crudel tormento fossero bastanti a darti convenevol castigo, acciò che il supplizio andasse di pari col peccato; imperciocchè, quanto in te fu, ti sei apposta per fare che tra Giulio e me sia nata eterna nimicizia, e seguito altro che parole; ma io non vo’ mettermi con una par tua, e lascerò la cura a nostro Signor Iddio di questa vendetta: che io per me non saprei trovar tormento alcuno a tanta tua scelleraggine uguale. Ora io vorrò che ciò che qui detto e scoperto m'hai., tu lo manifesti alla presenza di Delio e di Giulio, e d’alcuni altri uomini da bene che io menerò meco. Avvertisci poi che di questo fatto tu non faccia motto veruno a Cinzia, nè ad altra persona, sia chi si voglia, se non quanto io t’imporrò. Ella promise far ogni cosa, che da lui le fosse comandata. Scoperta che si fu la malignità della ribalda balia, che udita avete, Camillo subito andò a trovar Delio; e pieno di gioia gli narrò come la balia s’era disdetta dell’infamia imposta a Giulio e Cinzia, e gli disse anco del veleno che ella ricercava; e di più gli mostrò una lettera di lei, per la quale pregasa Camillo a voler una volta sola andar a lei, che voleva dirli alcune cose, che sariano l’ultime parole che mai più gli dicesse, e che fosse contento menar seco Delio, Flaminio, Giulio, il Greco ed alcuni altri; e che io gli avviseria il giorno che doveva far questo. Delio e Camillo tennero per fermo che l’afflitta giovane si volesse, come disperata avvelenare; onde tra loro deliberarono di star a vedere ciò che ella far si volesse. Fece poi Camillo intender a Mario il dì che doveva mandar l’acqua a Cinzia; il perchè Mario a quella scrisse che il tal dì l’acqua sarebbe compita, e che mandasse per essa la mattina, che senza fallo l’avrebbe. Avuta Cinzia questa fermezza, scrisse a Camillo che quell’istesso giorno dopo il desinare l’aspettava con gli amici che scritti gli aveva, perciocchè giunto era il tanto da lei desiderato dì, nel quale ella disegnava chiarir tutto il mondo della innocenza sua, e sperava che si conoscerebbe che ella mai non mancò della fede sua. Camillo con Delio, la sera innanzi al giorno che Cinzia doveva mandar per l’acqua, andò a trovar Mario: e presa una piccolissima ampolletta di vetro, quella empirono di acqua di pozzo, e dentro vi posero un poco di polvere di garofano per darle alquanto d’odore. Venuta poi la mattina, mandò Cinzia a prender l’acqua per una sua fante. Mario le scrisse che astretto dalle calde e vive sue preghiere, le mandava l’acqua, la quale nel vero al proprio padre avrebbe negata; e perciò molto strettamente l’astringeva a non manifestar a quel gentiluomo, a cui ella diceva di darla, che da lui avuta l’avesse; e che bene avvertisse che l’acqua non faria nò dolori nè altro nocumento apparente, se non che dopo che bevuta si fosse, in meno d’una o di due ore al più, faria repentinamente morir colui che la beverebbe, e segno alcuno nel corpo non si vedria; e così diede Mario alla servente l’acqua e la lettera. Cinzia, che era in letto, avuta l’ampolletta dell’acqua, quella di maniera ascose sotto il piumaccio, che essendo turata, non si poteva versare. Essendo poi determinata di far l’ultima prova di ricuperar la grazia di Camillo, e non la ricuperando, morire, attendeva la venuta di quello con gli altri invitati alle funebri nozze. Ora approssimandosi l’ora che Camillo doveva arrivar in casa, cominciò Cinzia a sentir per tutte le membra un gelato freddo, con certe passioni di cuore, che pareva le volesse venir quel tremante freddo della febbre quartana. Come poi ella sentì che gl’invitati salirono le scale: o che fosse la forte e grande imaginazione della propinqua morte, o pur la venuta dell’amante, che era vicino ad entrar in camera, o che se ne fosse cagione, se le sparse addosso un sudor freddissimo come ghiaccio: e cominciò a tremare, ne più ne meno come se di gennaio ella fosse stata nuda in mezzo un cortile, e che gelate nevi addosso le nevicassero: e tuttavia le pareva che il cuore nel petto se l’aprisse, sofferendo certi svenimenti troppo entrarono i compagni in camera, e in letto videro Cinzia tremante e piena di sudore, e la salutarono, domandandole come si sentiva. Ella con bassa voce rispose che stava come a Dio ed a Camillo piaceva. Camillo allora le disse: queste sono ciancie, per le quali noi non siamo qui; ma ci siamo venuti per intender ciò, che tu hai scritto di volerci dire. Dirollo, soggiunse ella, quando ci sarete tutti, ed io qui non veggio Delio nè Giulio; il quale ostinato, a patto nessuno non voleva entrar più in casa di Cinzia. Ora Camillo, perchè la casa di Giulio era vicina, scrisse una cedola a Delio, che per via del mondo non lasciasse che non conducesse Giulio, assicurandolo che intenderebbe cosa di sua grandissima contentezza. Fece tanto Delio, che ve lo menò. Così essendo tutti gl’invitati in camera ridotti, dopo che tutti attorno al letto furono assisi, aspettando ciò che la giovine volesse lor dire, si fece silenzio. Ella, come già s’è detto, che prima aveva deliberato morire che perder l’amante, innanzi che con fatti fortissimamente mandasse in esecuzione il fiero proposto dell’animo suo, volle, alla presenza di quegli amici che quivi erano ragunati, vedere se Camillo voleva distorsi da quella sospizione che aveva di lei e di Giulio, e perseverar seco come prima; e facendolo, restar in vita: quando che no, non rimossa punto dal suo fierissimo proponimento, bere il preparato veleno, e sugli occhi del suo tanto amato Camillo andar all’altra vita, non le parendo poter meglio nè più dolcemente morire, e sgombrarsi di tanto e si aspro cordoglio, che dinanzi a quello che unicamente amava, e per suo Dio terreno teneva. Onde dopo molti sospiri, fatto, alla meglio che potè, buon viso, così a parlar cominciò. Camillo, poichè a Dio e piaciuto che io giunga a questa ora cotanto (dopo che io sono non per mia colpa caduta in tua disgrazia ) da me disiata ed aspettata (e forse l’ultima fia che mai più teco parli nè con altri), vorrei prima saper l’animo tuo verso me quale adesso sia; che se egli sarà, quale deve, non ti avendo io offeso già mai, sarà quello che io sommamente desidero. Se anco tu vorrai perseverare in credere quello di me che mai non fu, io sono per chiederti alcune grazie: poi sarà ciò che Iddio vorrà. A questo rispose Camillo che prima che altra risposta le desse, voleva che la balia in camera venisse, perciocchè aveva da farle alcune domande. Fu chiamata la balia, e venne come fa la biscia all’incanto: a cui Camillo, arrivata che fu, disse: balia, io t’assicuro ed impegno la fede mia, che di quanto tu dirai, non hai da temer persona che qui sia; perchè nessuno ti darà noia, nè ti farà nocumento alcuno; però alla presenza di questi gentiluomini amici miei e fratelli, io vo’ che tu ci dica tutto quello che ultimamente in chiesa mi dicesti. Di’ su, di’ non aver paura. La tristarella e sbigottita feminuccia, non sapendo che si fare, alla fine pure, tremando come foglia al vento, scoperse la sua scelleratezza che da sè ordita aveva, affermando che falsissimo era quello di cui ella da prima accusò ed incolpò Giulio e Cinzia, confessando apertamente che sì vituperosa trama fatta aveva, per tener la mano nei capelli a Cinzia, ed altresì per aver maggior libertà a far di sè copia a chi più le fosse aggradito. Disse medesimamente degli assalti che dati aveva a Giulio ed a Cinzia, e a che fine, come di sovra vi narrai. Quanto la scellerata e rea femina fosse da tutti, che quivi erano, biasimata, e molto più da Cinzia, ciascuno il può da sè pensare. Giulio tutto pieno di mal talento se ne stava, e tanta era l’ira che l’ingombrava, e lo sdegno che contro la balia lo irritava, che tutto gonfio per troppa pienezza di collera, nulla poteva dire. Ora, mandata la balia fuor di camera, disse Delio: lodato sia Iddio, che noi siamo chiari che questa dista balia aveva troppo bevuto, e ciò che ella insognata s’era, ha narrato come cosa seguita. Che Dio le perdoni, poichè pentita di tanto male, ha il peccato suo confessato. E certamente non se le vuol dare alcun castigo, poichè il fatto è terminato a buon fine, ma lasciarla stare, acciò meglio si riconosca in quanto errore ella sia cascata. Ella si vorria, soggiunse Flaminio pieno d’ira, strozzare o arder viva; io per me so bene, se avesse così parlato di me, come ella ha fatto di Giulio, che io la concerei di tal guisa, che più non faria di queste truffe; e se volesse straparlare, di sè e delle sue pari ìcicateria. Bene dice il vero Flaminio, e parla da uomo di cuore, disse Cinzia, che questa trista si vorrebbe cacciar del mondo, e spegner così maldicente lingua; e se non fosse che la figliuola non vuole poppare altra che si sia se non lei, ella non saria a quest’era in casa; ma l’amore della mia figliuoletta me la fa ritenere. E in somma ciascuno lapidar la voleva, e bandirle la crociata addosso; il perchè Delio allora disse: lasciamo star, per Dio! questa bestiuola, alla quale, poichè Cinzia dice la figliuola non voler poppare altra che lei, egli si conviene averle riguardo; che di leggiero, se ora si garrisse, o se le facesse alcun nocumento, ella potrebbe guastar il latte, che sarebbe cagione della morte della picciola creatura. E che vendetta volete voi pigliar d’una vil femminuccia? Non sapete voi che la natura ed il sesso loro le fanno sicure dagli uomini, e che a noi non sta mai bene ad imbrattarci le mani nel sangue loro? lasciamo far alla giustizia del mondo e a quella di Dio. Bastar ci deve assai per ora che Giulio sia conosciuto per uomo da bene, e Cinzia altresì per donna che a Camillo non sia stata sleale, che in vero io per infiniti rispetti ne ho un estremo piacere, e veggio levata via la strada a molti scandali che nascer potevano. Non avendo a pena finito Delio di parlare, Cinzia, rivolta a Camillo, gli disse che pensi mo di far, Camillo, perchè certo esser puoi ch’io sono innocente, e che da te esser abbandonata non merito? Vuoi tu essermi quello che prima a me eri, o che animo è il tuo"? Vedi, rispose Camillo, io non poteva intender cosa che più grata mi fosse, che esser chiaro della malignità della balia, e conoscer Giulio per quel gentiluomo che sempre l’ho tenuto, come più volte dissi a Delio, allora che la balia si disdisse delle menzogne da lei dette. Quanto poi appartiene al caso tuo, io ti vo’aver sempre per raccomandata, e in quanto potrò nei tuoi bisogni aiutarti; e facendone tu la prova, troverai che gli effetti saranno alle parole conformi. Cinzia allora con pietosa voce soggiunse: adunque oimè! io senza colpa mia debbo perder quella cosa che più amo in questo mondo’? io ti perderò, Camillo, signor mio’? ahi sventurata me! oimè più infelice d’ogni altra infelice! Che fia di questa travagliata e misera vita, se già più bramo il morire, per molto maggior rimedio e minor pena, anzi conforto de’ miei mali, che il vivere; poichè colui che io amo più della luce degli occhi miei, e viepiù d’ogni creata cosa, mi sprezza e senza mia colpa m’abbandona? Chi darà, lassa me! a questi miei occhi larga vena d’amare lagrime, acciò che prestamente consumino questo debol ed infermo corpo, ricettacolo ed albergo d’ogni miseria e calamità, poichè colui, dal quale la vita mia dipende, leva da me le mani della sua pietà, e vuole che senza vita io viva? Ma certamente senza vita non si vive. Ora che dico io? a cui porgo le vane mie preghiere? a cui indirizzo queste dolenti voci, se profitto alcuno recar non mi denno? lo veggio bene che aro il mare, e spargo il seme sull’arena. Sia con Dio: qui ti bisogna Cinzia esser costante, e non ti smover punto dal saldo proponimento che fatto hai. Egli mostrar ti conviene, se tu ami o no. In questo, rasciugati gli occhi, si voltò di nuovo a Camillo, e gli parlò in questa guisa: orsù piacciati almeno, poichè deliberato sei di non voler esser mio, di ([nel modo che io vorrei esser tua, non abbandonar la nostra povera figliuola; la (piale se tu pur vuoi o non vuoi, è tanto tua (pianto mia, e tu sei così il padre, com’io l’ho partorita; che pur sai clic, partorita l’ho..Medesimamente ioti raccomando quegli sfortunati e poveri vecchi, mio padre e mia madre ’lieo che tanto ti sono stati fedeli, amorevoli e continovi servidori; e di cuore ti prego, se mai ti fu per lo passato caia e dolce la mia pratica (che pure mostravi d’amarrai ed avermi cara, e mille effetti di questo me n’hanno l’atto fede), che tu voglia per cortesia tua avergli in protezione, e ciò che a me far dovresti, far a loro: che su da te si troveranno abbandonati, non so come potranno sostentare la sconsolata e misera vita loro. Io te gli raccomando pur assai. Egli mi pare, disse allora Camillo sorridendo, che tu sia per navigare all’isole del mondo nuovo, e mai più non debbi ritornar in queste nostre contrade. Che cosa ò questa? ove vuoi tu andare"? Se tu vuoi far testamento, fa ch’io t’intenda, perchè manderò a chiamar ser Cristoforo, che sai che è notaio famosissimo, e noi altri saremo testimoni. Orsù, vuoi tu ch’io mandi per esso lui? Io son povera giovane, rispose Cinzia, e non ho facoltà nò possessioni da far testamento; e tutti questi mobili che qui in casa sono, sai bene che non sono mici, avendogli tu mandati qui per fornirmi la casa. E secondo che t’ò venuto voglia d’abbandonarmi, e rompermi la fede tante volte a me con sagramenti affermata, che già mai non mi lasceresti; che so io se queste robe a mio padre e a mia madre lascerai? Sicchè io non ho da far testamento, ma bene lascerò che tutto il mondo conosca come a torto abbandonata da te sono, e veggia insiememente l’aspra e fiera tua crudeltà e la poca fede; che sai bene, Camillo, senza che più te lo replichi, quanto altamente mancato mi sei. Ricordati, ricordati di ciò che tante volte detto, promesso e giurato ni’ hai. Io veggio bene e tocco con mano che il vento ne portava le tue parole. Iddio e di sopra, e in lui spero, che, per esser giusto giudice, e che non lascia nessun bene irremunerato, e nessun male impunito, farà le mie vendette; e conoscerai alla fine che tu cagione non avevi di trattarmi ili questa maniera. Ma allora il pentimento tuo nò a te nò a me recherà punto di giovamento. Tuttavia tu avrai sempre intorno al cuore questo rodente e mordace verme che di contioovoti affliggerà, e sempre innanzi agli occhi della mente ti rappresenterà questa crudeltà, che ora senza mia colpa m’usi, non l’avendo io meritata già mai. Perdonatemi voi, miei amici che qui siete, se io dicessi cosa alcuna che vi recasse noia, e perdonate alla mia insopportabile e giusta passione. Io vorrei ora che tutte le incaute e semplici donne fossero qui presenti, perchè io darei loro un consiglio, che per me non ho saputo pigliare cioè che non prestassero fede alle lusinghevoli parole di questi giovini che fingono l’innamorato, e tante ne ingannano, quante aver ne ponno: ed io ne posso render verissimo testimonio. Non accade, disse Camillo, entrar in questi ragionamenti. Oramai mi pare che debba esser tempo che io, compiacendo al debito dell’onor mio e ai miei parenti, attenda ad altro che a queste favole. Tu conosci bene, e sai che tu non puoi maritarti meco, e divenir mia moglie, e che una volta era necessario che a questo passo si venisse. Io «ià non ti lascio, perchè io creda che in te sia colpa di mancamento nessuno. Quello che faccio, facciolo per mettermi a vivere d’un’altra sorte, differente da quella che fin ora vivuto sono; che oggimai non sono più un giovinetto di prima barba, e la vitachu fin qui ho fatta, conosco troppo bene di quanto biasimo mi sia stato cagione, e so le riprensioni che molte volte da amici e parenti ne ho avute. Sì che per l’avvenire tu mi avrai in luogo di fratello, ed io te in luogo di sorella amerò. La figliuola farò come fin qui ho fatto, per mianodrire; e veiiiò di far ritrovar un’altra balia, perchè non vo’ che questa ubriaca più me la nodrisca. Tu di poi potrai, quando ti parrà, tro arti una persona che ti piaccia; chi’ non ti mancheranno giovini belli, ricchi, cortesi e galanti, con i quali potrai darti il mudi >r tempo del mondo, e star di continovo in piacere. Per questo tu non mi sarai men cara; perciocchè se io voglio per l’avvenire viver a mio modo, e far ciò che più a grado mi sia, ragionevole e giusto è che tu facciacciocchè a te più piace; e con. questo ti conciando l’ultima e determinata mia deliberazione e ferma volontà. Questo sentendo Cinzia, dopo l’aver dal profondo delle radici del cuore gittato un grandissimo sospiro, tutta si ascose, ed altamente disse: poichè Camillo per sua, in quella guisa che per addietro stata sono, e che io vorrei ed infinitamente desidero, più non mi vuole, io con quel mezzo che più agevolmente posso, e che m’è concesso, non potendo altro fare, a lui, e 1 anco a me e a tutto il resto del mondo mi toglio, m’involo e mi rubo: che assai meglio m’è morire una volta, che mille l’ora perire. Ecco l’ultimo atto della vita mia. Non ebb’ella a pena finite queste ultime parole, che presa in mano l’ampolla e postasela alla bocca, tutta l’acqua che dentro vera in un sorso inghiottì, e l’ampolla gettò di dietro al letto. Che cosa è questa? che cosa è questa? dissero gli amici che attorno l’erano assisi. Certamente, disse il Greco, costei s’è avvelenata; ed ora mi soviene che, pochi dì sono, mi domandò se io conosceva quel ribaldo di Gerone Sasso; e rispondendole che sì, mi replicò che valeva da lui per mezzo mio un servigio. Per l’anima mia. che ella voleva l’acqua ili quel tristo, la quale per altra via avrà ricuperata! Signori miei, tenete per fermo che ella ha preso il veleno. Sì ah! sì ah! dissero tutti, e levatisi in piede, le domandarono che acqua era quella che tracannata aveva. Cinzia, secondo il parer suo più vicina all’altra vita che a questa, e fermamente credendo aver bevuto veleno, acconciatasi in letto in guisa di voler morire, venuta per l’imaginazione in viso tutta pallida, loro con sommessa voce in questo modo rispose: siate sicuri, cari amici miei, che quell’acqua che veduto m’avete bere, è di sì fatta qualità cotta e distillata, che in meno di due o tre ore farà che il mio travagliato spinto ne anderà nel profondo dell’abisso infernale; imperocchè veggendo io Camillo ostinato a non volermi per quella che avanti gli era, non ho voluto esser più mia, e meno d’altrui. le muoio, e cotanto volentieri e lietamente esco di vita, quanto di grado restata ci sarei, ogni volta che Camillo m’avesse voluto per quella sua serva che prima io gli era. E credetemi ciò che vi dico, perchè vi dico il vero; che mai non mi parve esser tanto contenta in vita mia, quanto sono al presente in questa mia partita, essendo certa che in brevissimo spazio di tempo io uscirò di cotanti noiosi affanni: i quali senza paragone più assai mi tormentavano, che ora non fa la vicina morte. Io aveva di continuo intorno al cuore un acutissimo e pungente stimolo, che giorno e notte non cessava già mai di darmi fierissime punture, e mille volte ogni momento d’ora mi sentiva languire e venir meno, che pareva appunto che il mio cuore fosse di banda in banda in cento luoghi passato. Ora venuta è la (ine d’ogni mio male. E nel vero, amici miei, la morte non mi par così terribile, come molti la fanno; anzi a me par elta molto dolce e cara, e che sia assai meglio a questo modo uscir del inondo che aspettar l’odiosa a’ giovini vecchiezza, e attender che le diverse e gravissime infermità, con tante spezie di morbi, ne facciano sulle piume marcire. Rimanetevi in pace, e Dio vi doni miglior fortuna, che la mia non è stata. Camillo si mostrava in vista il più dolente uomo che fosse, e pareva attonito a sì fiero spettacolo. Ma, come già vi dissi, egli e Delio avevano con Mario messa l’acqua nell’ampolla, e sapevano che non poteva nuocere; e volevano pur vedere se Cinzia era sì pazz;;, che o sè od altrui volesse avvelenare. Fingeva adunque Camillo esser molto di mala voglia, e quasi che gli occhi aveva colmi e pregni d’amare lagrime. Delio aveva sì grande appetito di ridere, che a gran pena si poteva contenere: ma per meglio adornar la favola, auch’egli pareva esser fuor di misura dolente. S’accostò Camillo al letto ove Cinzia giaceva, e tutto in viso e negli atti, come se ingombrato fosse da grandissimo dolore, con voce assai languida le disse: ahimè, Cinzia mia, che Dio ti perdoni! che pensiero è stato questo tuo a commetter sì espressa e crudele pazzia, che di te stessa tu sia voluta divenir micidiale! Come ti ha già mai sofferto il cuore d’avvelenarti"? Ella allora, in atto di pietà inverso lui rivolta, gli disse: nessuno, Camillo, che savio sia, o voglia esser tenuto, non deve nè può con ragione dolersi di quella cosa che da lui è procurata. Dolere si dee di quegli accidenti, che contro il voler nostro contrari ne avvengano. Pertanto non ti mostrar del caso mio esser dolente nè pietoso, avendolo tu voluto; perciocchè se caro e desiderabile t’era ch’io vivessi, tunon dovevi abbandonarmi. Tu eri pure a mille prove sicuro, che io senza te non viverei; perciò serberai questa tua tarda pietà a casi da te non desiderati. Di me piùnon ti caglia, ora che son alla finedei miei travagli. Questo conforto ho io, che meravigliosamente mi fa gioire che a mal tuo grado io muoio tua, e sugli occhi tuoi chiudo i miei. E se in quell’altra vita punto resta di senso, così di là vorrò esser tua, come qui stata sono. In questo disse il Greco: qui non è da badare: su, si vuol dar aita a questa pazza. Egli conviene che i rimedi siano presti, e non si perda tempo. E chi avesse del corno dell’Alicorno, di leggiero se le porgerebbe alcun soccorso, e s’aiuteria; perciocchè per lunghi esperimenti s’è vistoche nei morbi pestilenziosi, mali di veleno, e venni di fanciulli, ed in altre infermità è stato esso corno, fattone polvere, e bevuta, di mirabil giovamento; ancor che alcuni dicano die Ippocrate e Galeno non ne facciano menzione. Io avrò di questo corno, disse Camillo; e subito mandò a casa a pigliarlo. Ora tanta fu la forte immaginazione e persuasione di Cinzia d’aversi avvelenata, che si senti tutta ingombrare da un agghiacciato e tremante freddo, e le pareva che tutte l’interiora grandemente le dolessero, e nel ventre se le aggroppassero in mille nodi; di maniera che le vennero gocciole assai di sudor freddo e grosse come un cece. Poi sì sonnolente e gran sonno la occupò, che non poteva a modo veruno tener gli occhi aperti. Camillo e gli altri le erano attorno, e con dolcissime parole la confortavano, esortandola a voler vomitar il veleno, e prepararsi a pigliar alcun rimedio. Eia già messo in ordine un bicchiere d’olio comune, fatto intiepidire acciò che tutto l’inghiottisse, e vomitasse; ma ella, ancora dal sopravvenuto accidente oppressa, non dava orecchie a cosa che se le dicesse. E così stette buona pezza; di mudo che vero è che l’imaginazione fa spesso effetto: Poi, cessalo l’accidente, ella sospirando aprì gli occhi, e di nuovo fu esortata a volersi aiutare, e bevendo l’olio sforzarsi di vomitare: ma egli si cantava a’ sordi. Ella era pure determinata per ogni via di voler morire, nè voleva intendere che di rimedio alcuno se le favellasse: onde non fu mai possibile i persuaderla che volesse ber l’olio. In questo era stato portato il corno dell’Alicorno, del quale alquanto di polvere se ne prese, che con una lima si limò; poi, fatto pigliare il rimanente del corno, si mise dentro un bicchiere, sì ben lavato che pareva di argento, e su vi s’infuse acqua fresca, chiara come cristallo. Delio, preso il bicchiere, andò con quello a Cinzia, e le disse: ecco, Cinzia, il rimedio del veleno che bevuto hai; il quale se tu Inni, sentirai in poco d’ora maraviglioso conforto al tuo male: fa buon animo, e bevi animosamente. Su, non tardar più: mira come quest’acqua bolle, e manda in alto i suoi bollori senza che fuoco la scaldi: che questo fa l’occulta virtù, che la maestra natura lui dato a questo corno. E non facendo ella cenno di voler bere, e a Delio nulla rispondendo, ritornò di nuovo a chiuder gli occhi, ed a sudare e tremare. Tutto questo procedeva dalla grandissima imaginazione d’essersi avvelenata. Fu cavato l’osso del corno fuor dell’acqua, e vi l’i i gettata la polvere dentro; onde prese Camillo il bicchiere in mano, ed accostatosi alla giovane, che, cessato l’accidente, era alquanto in sè rivenuta, le cominciò a dire: Cinzia, guardami, e parla meco, che io sono Camillo: non odi? non senti? ascolta, prego, ciò che ti vo’ dire. Fammi questo piacere, se punto marni, e bevi gagliardamente questa benedetta e salutifera acqua, e non dubitar di niente; anzi sia sicura che ella ti darà la vita, e ne vedrai evidente e chiaro effetto. Che fai? ora tu apri gli occhi, ed ora gli chiudi: egli non è tempo adesso di dormire: leva la testa, ed apri gli occhi; e vedi che noi tutti siamo qui per aitarti e cavarti di periglio. Orsù non tardar più: ecco che io ti porgo di mia mano l’acqua con la polvere dentro: bevi; che fai? eccola. A queste parole la giovane, alzato alquanto il capo, ed aperti gli occhi, e quegli affisando molto pietosamente in volte a Camillo, con languida e bassa voce gli disse: Camillo, cotesti tuoi rimedie soccorsi son tardi, e nulla più giovar mi potranno. Come tu puoi vedere, io sono arrivata al desiato fine di questa mia penosa vita, che nomare certamente posso una viva morte. Io infinitamente allegra mi trovo d’esser giunta a questo ultimo passo, il quale tutto il mondo empie di tremore e di spavento; e me rigioisce egli e conforta, come finimento d’ogni male. Ed ancora che io creda e tenga ferma opinione che tutte le medicine del mondo sieno a questo mio male scarse e troppo tarde, e che nulla possano più recarmi di profitto, avendo già il mortifero veleno tutte le parti del mio corpo infette, ed ammorbato anco il cuore; nondimeno per mostrarti che quello che ho fatto, è solamente stato per non poter viver senza te, e non per altra cagione, io adesso ti dico l’ultima mia volontà, che è questa. Se tu sei disposto, secondo che mostrato hai, di non voler esser mio. come prima eri, tienti quèsti tuoi rimedi, che io non ne vo’ prendere nessuno, e lasciami stare; perciocchè Vie più cara assai m’è la morte che la vita, non dovendo esser tua. Ma se hai animo d’esser mio, io ti contenterò, e farò quanto vorrai, bevendo ciò che mi porgerai. E quantunque giovamento alcuno non me ne seguisse, come io credo, tuttavia il vedermi morire in grazia tua m’apporterà tanto di contentezza, che io ne morrò la più felice ed avventurosa amante, che nel regno dell’amore lieta venisse già mai. Sì che se tu vuoi che io rimedio alcuno prenda, intendimi bene e sanamente, io voglio che adesso alla presenza di questi nòstri amici tu mi dichiari l’animotuo, e con pure parole tu mi dica se vuoi esser mio o no. A questo rispose Camillo che as.-ai chiaro parlato aveva, e che più non accadeva dir altro, avendone per innanzi detto abbastanza; del che, per le allegate da lui ragioni, ella poteva benissimo contentarsi; e qui Camillo si tacque. Sia con Dio! disse la giovane; tu a tuo modo farai, ed io al mio farò. Tu non vuoi esser mio, ed io non vo’ pigliar rimedio che sia; perchè priva di te, tutte le medicine mi sanano pestiferi veleni; e vivendo in tua grazia, il veleno non mi saprehbe dar noia. E dopo queste paiole ella ritornò a chinar il capo a basso sul guanciale, e quivi se ne stava in atto di morire. Ora coloro che quivi erano, veggendo l’ostinazione della donna, e dispiacendo loro che disperata se ne morisse, si misero attorno a Camillo, pregandolo affettuosamente a contentarla, e che pensasse in che termine ella era. Stette alquanto duro Camillo, e non si voleva più a lei obbligare. Alla fine vinto da tanti prieghj, alla giovane in questa maniera [tarlò: Cinzia mia, fa buon animo; bevi quest’acqua con la polvere, la quale se ti rende sana, come si spera, io ti prometto la fede mia di tenerti come prima. Ella a questa voce, tutta lieta, si levò con tutto il corpo in alto, e prese il bicchier di mano di Camillo; ma avanti che alla bocca l’avvicinasse, a quello in questa forma disse: poichè tu, Camillo, signor mio, mi prometti per l’avvenire di voler esser meco quello che per innanzi eri, e la fede tua alla presenza di questi nostri amici lealmente m’hai data, io prenderò questa medicina; la (piale se giovevole mi lia. come tutti voi altri mi dite, e possa più la sua virtù che la malignità del veleno io vivere volentieri, non per voglia ch’io abbia di starmi in vita, ma per viver teco, e vedermi, come sovra ogn’aitro desiderio bramo, esser tua. e che tu sia mio. Se anco ella non mi recherà profitto alcuno, almeno avrò questa contentezza, morendo, che tu e questi nostri amici avrete toccato con le mani, che io non ho pretermesso veruna cosa a fare, per esser tua o viva o morta. E eli più ti ve’ io dire, che se questo rimedio mi salva la vita, e che tugiàmai mi manchi della promessa che ora fatta m’hai, io a me stesso non mancherò, ed animosamente seguirò la deliberazione dell’animo mio; perchè la Dio mercè, chi del veleno al presente mi ha servita, quando vorrò altrettanto me ne darà. Quel medesimo animo poi e la volontà che adesso spinta m’hanno ad avvelenarmi, sempre saranno pronti a far esso effetto che ora fatto hanno. Ecco adunque che l’acqua beverò: e queste parole dette, si pose il bicchiere lietamente alla bocca, e tutta l’acqua in un sorso mandò giù. Dopo questo, Camillo le disse molte buone parole, ripigliandola con bel modo della commessa follìa, e confortandola per l’avvenire ad esser più saggia, e non si porre più a simili rischi; che se una volta il caso va bene, cento ne vanno di mal in peggio; e così buona pezza ragionò seco, facendole di molti vezzi ed amorevoli carezze. Ora, o fosse la fantasia o il credere fermamente che ella aveva d’essersi avvelenata, o che avesse nello stomaco abbondanza di collere e di flemma, e di altre superfluità, che l’acqua con la polvere dell’Alicorno commovesse (avendone bevuto un gran bicchiere) o che che ne fosse cagione, ella travagliò tutto il giorno, non trovando mai riposo. Si lamentava di continuo di dolor di stomaco e di ventre, e che sentiva che di molte e varie fumosità le ascendevano al capo, che la stordivano. Alla fine due e tre volte vomitando di molte materie flemmatiche e colleriche, ella mirabilmente si purgò lo stomaco. A me chi domandasse, onde questa evacuazione procedesse, crederei ben io che l’acqua, aitata fosse dalla virtù occulta del corno, in parte quelle materie commovesse, massimamente in uno stomaco debole, come ella allora aveva; ma terrei per fermo che 1 indubitata credenza che aveva d’aver inghiottito il veleno, fosse la più potente cagione del tutto. Ed oggidì anco, per quanto io ne intendo, ella si crede, fermissimamente d’essersi attossicata, ma che il rimedio dell’Alicorno l’abbia levata fuor di periglio, non essendo paruto a Camillo manifestarle come la bisogna governata si fosse. Essendo poi domandata il dì seguente essa Cinzia dagli amici che iti erano a visitarla, come fosse stata tanto ardita di volontariamente ber il veleno, ella in cotal maniera rispondendo disse: io per ogni modo deliberata m’era, subito che mi vidi abbandonata da Camillo, non voler più rimaner in vita: ma non mi dando l’animo d’ancidermi col ferro, ed avendo discorso molte spezie di morte, elessi questa del veleno, per la più facile e meno fastidiosa a mandar in esecuzione. Mi pareva poi il moriie non mi dover essere molto noioso, morendo alla presenza di colui, per lo cui rispetto io diveniva di me stessa micidiale. E perchè io non faceva mai altro che farneticare e chimerizzare, m’entrò questo capriccio nel capo, che non era possibile che Camillo fosse mai tanto crudo, che veggendomi giunta a sì estremo fine, non si fosse sforzato d’aiutarmi, ed aver di me compassione. Con questa immaginazione di vederlo pietoso del mio male, io appagava tutte le mie pene, e lietamente me ne moriva. Or via, disse Flaminio, non t’avvezzarpiu a questi scherzi, e non ti lasciar venire in capo questi ghiribizzi; ma se vi nascono, lasciali svaporare, che altrimenti tuia farai male, e non ci saia sempre l’Alicorno apparecchiato. Non
tornar più: che se ci torni, tu pagherai questa e quella; e
panai una pazzerella. Rimase adunque Camillo con la sua Cinzia come di prima, godendosi, e vivendo in pace. Ora tra quelli, che come il fatto fosse non sapevano, furono vari i ragionamenti, parlando così delle forze dell’amore (le quali nel vero sono potentissime, e di meravigliosi effetti fanno) come anco dell’animo deliberato d’una donna innamorata. E chi lodava, e chi biasimava quanto Cinzia aveva fatto: chi ardita, chi pazza e chi temeraria e disperata la diceva, secondo che diversi erano i pareri dei ragionanti; i cui parlari per ora non mi pare dover raccontare, per non esser più lungo di quello che stato mi sia; che dubito pur troppo con tante mie ciance non v’aver fastidito; ma certo io non poteva far di meno, volendovi ragguagliare come l’istoria era successa. E per dar fine al mio favellare, vi dica che io per me sempre desiderai, vivendo il mio sole terrestre, tanto esser amato quanto io amava, e che tale la mia padrona e signora fosse verso me, quale io era verso lei. Ma io non vorrei già abbattermi in simili e disperati animi, com’era quello di Cinzia; imperciocchè se di loro stessi sono volontariamente micidiali, crederei con ragione, che ie più tosto sarebbero degli altri, ogni volta che cadesse loro nell’animo un minimo sospetto di non esser amati. Preghiamo adunque Dio che dacotali donne, più tosto disperale che animose, ci difenda; ed attenda ciascuno, se brama esser amato, ad amare; che io in effetto non trovo miglior incantesimo di questo, ancora che a me poco abbia giovalo. E pure il nostro saggio Dante dice che Amor a nullo amato amar perdona. Se poi così tosto non si vede l’amore ricambiato, non si deve perciò l’uomo levare dalla già cominciata impresa, ma con lealtà perseverare; che pure alla fine si vede, o tardi o per tempo, chi ama esser amato.
IL BANDELLO
al molto virtuoso signore
il signor
CARLO BRACCHIETTO
signore di Marignì e consigliere del re cristianissimo
nel suo gran consiglio
Questi dì prossimamente passati, ritornando da Parigi messer Gian Giordano, ove alcuni anni dietro, tutto il dì al gran consiglio, per gli affari ili monsignor lo vescovo d’Agen. si è fruttuosamente adoperato, m’ha fatto intendere (punito officiosamente, non solo nel petto vostro conservate la memoria del nome mio, ma (il che dalla infinita vostra cortesia procede ) anco quanto con onorate ed affettuose parole di me parlate. Questo veramente non ho io per opere mie, o virtù che in me sia, ne per ufficiosa alcuna azione verso voi usata, meritato, non essendosi offerta occasione che voi cosa alcuna comandata m’abbiate, ne io ila me stesso presa l’abbia, non veggendo in che la bassezza mia all’altezza del grado vostro passa giovare. È ben. vero che avendosi riguardo al desiderio dell’animo e voler mio che da poi che io vi conobbi, sempre < stata prontissimo per farvi, quanto per me potuto si fosse, servigio, io merito esser da voi non mezzanamente amato e tinnito nel numero dei più cari, dovendosi molte fiate la volontà in luogo del fatto riputare. Ora essendo nuovamente stata narrata una pietosa novella in una onorata compagnia del magnifico messer Gerardo Boldiero il cavaliere, avendone io già assai buon numero scritto, ho voluto all’altre questa aggiungere. e secondo il mio usato costume, darle un padrone: il perchè quella al nome vostro ho dedicata. Vi piacerà con quell’animo accettarla, con il quale la tutela dei vostri clientuli cìie al vostro fruttuoso e leal patrocinio ricorrono, accettare e difender solete. Xe si meravigli alcuno che io a uomo occupatissimo in pubblici negozi, edaffari importantissimi di così ampio regno, queste mie ciance ardisca