Memorie inutili/Parte seconda/Capitolo XLIX

Capitolo XLIX

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CAPITOLO XLIX

Storia del mio terzo amore, che quantunque sia storia, do licenza

alle femmine di considerarla favola.

Giunto a Venezia, non occorre ch’io narri gli avvenimenti che ho narrati con tutta la sinceritá nelle Memorie della mia vita sino all’anno 1780 in cui scrivo; ma siccome ho promesso di dare la storia pontuale de’ miei amori, fo la pubblica confessione anche del terzo mio amore, che fu l’ultimo de’ miei essenziali e considerabili amori e in cui la mia romanzesca metafisica e la delicatezza del mio cuore averebbero giurato, senza timore di giurare falsamente, d’aver trovata una amante imperdibile e di quel sublime sentimento che bramavano. Il Boccaccio averebbe potuto formare una buona novella del mio terzo amore. La narrazione di questo sará lunghetta, ma a me sembra che gl’ingredienti e gli aneddoti ch’ella rinchiude meritino de’ lunghi tratti diligenti della mia penna, e meriti della sofferenza ne’ miei lettori.

Da certi stanzini nell’alto della mia abitazione di Venezia, ne’ quali io dormiva e ne’ quali m’occupava ne’ miei frivoli studi quasi le intere giornate, udiva tratto tratto una voce angelica cantare delle ariette e sempre d’armonia flebile e di parole malenconiche. Quella bella voce usciva da una casa divisa da una stretta callicella da’ miei stanzini. Le mie finestre erano in faccia a quelle di quella casa, e doveva nascere l’accidente ch’io vedessi un giorno l’oggetto dalla bella voce seduto appresso una delle sue finestre cucire de’ pannilini.

Appoggiandomi ad una delle mie finestre, eravamo tanto vicini che mi pareva di usare una inciviltá a non salutarla. Ella mi corrispose con una cortese gravitá.

Quella giovine di circa diciassett’anni e maritata aveva tutte le bellezze che può donare la natura. Era di contegno maestoso, bianchissima di carnagione, d’una grandezza mediocre, d’una [p. 178 modifica]guardatura soave e modesta. Non era né pingue né scarna. Il suo seno dinotava acerbezza e soliditá. Le sue braccia erano ritondette e le sue mani bellissime. Una fettuccia «ponsò» le circondava la fronte e terminava con un nastro dietro a’ capelli, folti e lunghissimi. Nella sua fisonomia appariva una rimarcabile continua tetra mestizia.

Con tutte le di lei belle qualitá, ero io ben lontano dall’impegnare il mio cuore metafisico, dopo gli accidenti in amore che m’erano avvenuti e che m’avevano alquanto ammaestrato.

Si sa che avendo una bella giovine cosí vicina, che si guarda volontieri e con frequenza, dopo averla salutata parecchie volte e dopo essere stato corrisposto gentilmente per molti giorni, si passa a qualche grado di confidenza e si lascia fuggire un «Come sta Ella?», ad un «Ha ben riposato questa notte?», a qualche lamento sui tempi sciroccali e piovosi; e si sa che dopo alquanti altri giorni di queste ricerche e di questi discorsi comuni a tutti i sciocchi, nasce brama di non lasciare opinione d’esser sciocchi.

Le chiesi un giorno perché adoperasse la sua bella voce in canzonette sempre lugubri ed una musica sempre languente. Ella mi rispose che il suo temperamento era malenconico, che cantava talora per distrazione e che non trovava sollievo che nella mestizia.

— Ma Ella è giovine — diss’io; — la vedo ben corredata; conosco in lei dello spirito e dell’intelletto; dovrebbe superare gli effetti del suo temperamento con de’ riflessi: e tuttavia, non posso negare, vedo sempre negli occhi suoi e nella sua faccia una mestizia non confacente coll’etá sua, che mi fa stupire. — Ella mi rispose con molta grazia e con un semisorriso da innamorare, che siccome ella non era uomo cosí non poteva sapere qual impressione facessero le vicende di questo mondo sull’animo degli uomini, e che siccome io non era donna non avrei potuto sapere qual impressione potevano fare le vicende di questo mondo sull’animo delle donne.

Questa risposta, che odorava alquanto di filosofia, introdusse qualche puntura nel mio cuore. Il contegno, la decenza, la [p. 179 modifica]serietá, la onestá, l’educazione di quella giovine veneziana me la rappresentavano infinitamente diversa dalle donne dalmatine de’ miei primi errori; e devesi aggiungere a queste doti la gioventú e la bellezza.

Incominciai a lusingarmi di poter considerare che forse potesse esser quella l’amica virtuosa delizia al mio cuore metafisico, romanzesco e delicato.

Una folla di riflessi vennero in mio soccorso. Mi contentai di lodare la sua risposta e cominciai a scarseggiare nelle occasioni di vederla e di favellare con lei.

Convien dire ch’ella avesse molti lavori da condurre a fine, perché ogni giorno la vedeva seduta vicina alla solita finestra a lavorare con una malenconica serietá.

Benché fuggissi io possibilmente il cimento di favellare con lei per difendere il mio povero cuore, al mio povero cuore sembrava una inciviltá a non piú dirle parola, e qualche rara volta seguiva tra lei e me de’ brevi dialoghetti. I nostri discorsi erano sempre filosofici-morali sopra le stravaganze, sopra la costituzione della umanitá e sul costume; ed io m’ingegnava a mantenere un modo di ragionare faceto con qualche sale e qualche lecita lepidezza per scuoterla dalla mestizia in cui la vedeva sprofondata, ma appena mi riesciva di vedere la sua bella bocca ridente.

Le sue risposte erano sempre assennate, morigerate, ingegnose ed acute, e nel dibattimento controverso sopra a qualche parere ella si dimenticava di lavorare: lasciava piantato l’ago, mi guardava fiso, ascoltava le mie risposte, come s’ella studiasse un libro che la obbligasse alla applicazione. Delle lusinghe m’assediavano. Voleva ammorzarle e scarseggiava ancor piú il cimento de’ colloqui.

Era scorso piú d’un mese di queste interrotte, dilettevoli, oneste, brevi conversazioncelle, quando ripigliandone una, vidi la giovane guardarmi e arrossire alquanto, senza ch’io potessi intendere la cagione di quel rossore. Corsero parecchie indifferenti parole al solito; ma scorgeva quella creatura inquieta e smaniosa, come se le dispiacesse che i miei discorsi stessero sui generali e non le dicessi qualche cosa ch’ella attendeva. [p. 180 modifica]

Io non capiva e non poteva capir nulla. Avrei potuto giudicare ch’ella attendesse una dichiarazione d’amore; ma ella non mi pareva giovane da ciò, ed io non era né presuntuoso né volonteroso di far una tale dichiarazione. Era ben altro la cagione de’ suoi movimenti. Mi risolvei a dirle che scorgendo io nella di lei mente de’ pensieri, non voleva tenerla a tedio. La salutai in atto di partire.

— Si fermi di grazia — diss’ella affannata e levandosi dalla sedia. — Non ha Ella ricevuto due giorni sono un mio viglietto di risposta ad un suo ed un ritrattino? — Che viglietto? che risposta? che ritrattino? — rispos’io attonito. — Non so niente di ciò. — Dice da vero? — diss’ella impallidendo. — La assicurai sul mio onore che niente sapeva di quanto mi ricercava. — O Dio! — diss’ella con un sospiro e abbandonandosi nella sua sedia, mezza svenuta. — Me infelice! sono tradita. — Ma che è? che fu? — diceva io basso dalla finestra, afflitto di non poterla soccorrere.

Finalmente dopo una pausa di profondo dolore, levandosi mi disse che nel caso suo aveva un’estrema necessitá di consiglio; ch’ella aveva ottenuta permissione dal marito di andare quel giorno dopo pranzo a visitare una sua zia monaca alla Giudecca; e che però mi portassi alle ore ventuna nel sottoportico al Ponte storto a Sant’Apollinare, che averei veduta o ferma o giugnere una gondola con un fazzoletto bianco fuori da uno de’ finestrini; che entrassi francamente in quella gondola, in cui ella sarebbe. — Ella sentirá un caso in cui la imprudenza m’ha ravvolta — diss’ella sempre agitata. — Non posso ricorrere che a lei per consiglio. Se merito la sua compassione, non manchi. La credo assai saggio per potermi affidare. — Detto ciò, salutommi involandosi rapidamente.

Rimasi come un uomo di stucco, col cervello che mulinava, senza poter indovinar nulla, ma determinatissimo di andare al sottoportico al Ponte storto e alla gondola.

Pranzai in fretta quasi affogandomi, e adducendo che aveva un interesse di somma premura volai al Ponte storto. Viddi la gondola pontuale, col fazzoletto bianco esposto, ferma ad una [p. 181 modifica]riva. V’entrai frettoloso, non saprei dire se condotto dalla brama d’essere vicino alla bella giovine o dalla curiositá d’intendere la rischiarazione de’ viglietti e del ritrattino.

Trovai quella bellezza risplendere sotto un nero zendale e con molte gemme di prezzo alle orecchie, al collo e alle dita, seduta; che facendomi luogo mi fece sedere appresso di lei, comandando al gondoliere di chiudere la cortina e d’avviarsi verso la Giudecca al tal convento di monache.

Ella cominciò co’ modi i piú soavi dal chiedermi scusa dell’incomodo che s’era presa l’ardire di darmi e dal pregarmi di non formare nessuna sinistra opinione del suo carattere per avermi fatto quell’invito, il quale aveva tutto l’aspetto d’un invito non lecito a una donna d’onore e maritata, aggiungendo ch’ella mi confessava d’aver formata una assai vantaggiosa stima della mia saviezza, prudenza, morigeratezza e delle mie riflessioni.

Mi disse d’essere in una grande agitazione di spirito per un imbarazzo in cui si trovava. Mi chiese s’io conoscessi una donna ed un uomo, marito e moglie poveri, i quali il di lei marito teneva in casa, concedendo loro una stanza e una cucina a pian terreno.

Risposi colla franchezza dettata dalla veritá, di non avere la menoma conoscenza delle persone che mi accennava, e anzi di non sapere non solo che abitassero nella sua casa, ma nemmeno che abitassero il mondo.

Alla mia risposta la giovine chiuse gli occhi e le labbra con un atto di dolore, indi mi disse: — Eppure quell’uomo mi assicurò di conoscerla perfettamente e d’aver secolei tutta la confidenza, e anzi egli mi recò per sua parte con molta secretezza questo viglietto ch’Ella può leggere e conoscere. — Detto ciò si trasse dal seno il viglietto e me lo porse.

Io dicervellava. L’apersi con stupore e conobbi tosto che non era mio, come non doveva essere. Lo lessi e trovai un’affettazione da Caloandro sviscerato, piena d’elogi alle bellezze della signora, d’un’adulazione stomachevole e con qualche verso del Metastasio. Mi sono quasi abbandonato alle risa. La morale [p. 182 modifica]concludente di quel foglio era che essendo io (che non era io) estremamente innamorato di lei e prevedendo una impossibilitá di poter esserle appresso, se avessi almeno potuto avere un suo ritratto da contemplare e da tenere vicino al mio cuore lacerato da Cupido, ciò sarebbe stato un gran refrigerio alla mia intensa passione.

— E potrá darsi, signora — diss’io, — ch’Ella abbia concepita della inclinazione gentile verso me a cagione della mia saviezza, della mia prudenza, della mia morigeratezza e delle mie riflessioni, e ch’abbia poscia potuto credere mio questo viglietto, ridicola e stolida frascheria?

— Tant’è — rispose ella. — Noi donne non possiamo spogliarsi in tutto da una certa vanitá che ci fa sciocche e cieche. In aggiunta al viglietto, le parole che mi disse per suo conto colui che me l’ha recato m’indussero ad una imprudenza ch’io temo che m’abbia a costare molte lagrime. Risposi al viglietto con qualche sentimento civile, ma anche cordiale; e siccome aveva appresso di me un mio ritrattino in miniatura gioiellato, fattomi fare dal marito mio, lo consegnai col viglietto a quell’uomo da recare a lei, ben certa che qualora fossi stata in necessitá di farlo vedere al marito, Ella me lo avrebbe dato. Adunque non ebbe né viglietto né ritratto?

— Come! — diss’io — e può Ella essere ancora in dubbio ch’io sia capace di questa azione? — No, no — rispose ella; — vedo purtroppo che lei non è capace. Me meschina, a che mai mi vedo esposta! Un viglietto di mio pugno... quel ritratto... nelle mani di quell’uomo!... Mio marito!... Mi consigli per caritá. — Ella si abbandonò a piangere.

Dovei rimanere maravigliato della arguta sottigliezza del ladro. Proccurai di calmarla possibilmente; quindi le dissi che per darle consiglio conveniva che mi desse una diligente e sincera informazione delle due persone, moglie e marito, che teneva in casa e con qual domestichezza ella vivesse con quelle.

Mi rispose che il marito pareva buon uomo e che faceva qualche guadagno con un suo battello da trasporti. — La moglie poi — proseguí ella — è ottima povera creatura e divota [p. 183 modifica]cristiana. Sono due anni ch’io sono maritata, e la trovai in casa. Ella mi s’è affezionata ed io mi sono affezionata a lei. Mi tiene compagnia con frequenza. L’ho soccorsa molte volte nella sua povertá e si mostra gratissima. Si sa che tra donne ci confidiamo degli aneddoti che agli uomini non si confidano. Ella è a parte di qualche mia sventura, che a lei non dico, e mi commisera. Ella m’udi discorrere dalla finestra con lei e scherzò meco su questo proposito. Le palesai la mia inclinazione, aggiungendo però ch’io sapeva i doveri d’una maritata e che averei superata una illecita debolezza. Ella mi derise e mi diede anzi del coraggio su questo punto. Questo è quanto posso dirle con ingenuitá, e le averò detto anche troppo — disse la giovane abbassando gli occhi.

— Ella non m’ha detto abbastanza — diss’io. — Quella ottima donna divota cristiana sua confidente ha mai veduto il suo ritrattino gioiellato?

— Oh sí, glielo feci vedere molte volte — rispose la giovane.

— Or bene — diss’io, — la buona donna cristiana divota ha palesato ogni cosa all’ottimo marito, e in concerto con quello fu macchinata la ingegnosissima trufferia col viglietto per ghermirle il ritrattino gioiellato. Il peggio è che quella eccellente coppia ha seco qualche forfante secretario, scrittore nel conciliabolo iniquo.

— Possibile! — gridò la giovane incantata. — Ella sia piú che certa — diss’io, — e fra non molto Ella verrá in chiaro di questa infallibile veritá. — Ma che posso fare? — diss’ella. — Mi dia un cenno sul carattere del di lei marito e de’ modi co’ quali è da lui trattata — diss’io.

— Mio marito m’adora — rispostila. — Vive con me di buonissima fede. È austero, e non vuol visite domestiche per casa; ma qualunque volta gli chiedo licenza di andar io a visitare parenti o amiche, egli mi concede la permissione senza alcuna difficoltá.

— Non nego — diss’io — che la sua facile incautela non l’abbia fatta cadere in una circostanza delicata e pericolosa. [p. 184 modifica]Tuttavia le darò il consiglio ch’io credo l’unico nel suo caso scabroso. La buona donna cristiana divota sua confidente sa forse che oggi io doveva essere con lei in questa gondola?

— Nonsignore — rispose la giovane, — perch’ella era fuori di casa.

— Ciò mi piace — diss’io. — Eccole il mio consiglio. Si scordi affatto il suo ritrattino gioiellato, come se mai lo avesse avuto, e porti con pazienza una tal perdita, perché a questa non v’è piú rimedio. S’Ella volesse cercar conto, l’iniquo truffatore ingegnoso, scoperto, unito alla divota di lui moglie ed al secretario, potrebbe cagionarle delle sciagure grandissime. Se al marito venisse brama di vedere il ritratto, a una donna non deve mancar l’astuzia di cercarlo, di non trovarlo, di mostrarsi disperata e di colorire un furto. Non si lasci piú vedere alla solita sua finestra a favellare con me, e anzi a quella buona donna sua confidente faccia intendere di voler soggiogare una inclinazione inopportuna. Tratti co’ modi soliti di benevolenza que’ due scellerati, e guardi bene di non mostrar loro il menomo sospetto e il menomo raffreddamento.

Quando avvenisse caso che quel forfante portatore di viglietti infantati le recasse qualche altro viglietto colla solita secretezza, il che succederá certamente, riceva il viglietto e lo trattenga; ma dica a quell’uomo iniquo con tutta la dolcezza ch’Ella non vuol dare risposta, e lo preghi anzi a dirmi per parte sua ch’io cessi d’importunarla co’ miei viglietti, che ha fatti de’ sani riflessi, che s’è ravveduta conoscendo il dovere verso al marito d’una moglie onorata. Aggiunga a colui d’aver saputo ch’io sono un giovane discolo d’un pessimo carattere e che si pente d’avermi affidato il suo ritrattino.

Faccia di me con quel forfante una obbrobriosa pittura, ch’io gliela concedo; e se quel briccone s’ingegnasse a battere per giustificarmi e difendermi, per volerla sedurre, come fará, si mostri costante e ferma nel suo proposito, senza mostrare mai nessuna collera verso lui e pregandolo sempre di voler troncare il filo ad una tale molestia. Se occorre, sacrifichi anche qualche [p. 185 modifica]ducato con quel manigoldo, purch’egli le prometta di non ricevere piú da me né parole né viglietti. Questo è il consiglio ch’io posso darle, ch’io credo l’unico nel suo caso di sommo pericolo all’onor suo e che deve eseguire con avvedutezza e maestria, perocché la sua riputazione è tra mani diaboliche, capaci di annerirla col di lei marito per la propria difesa. Mi lusingo che tra pochi giorni Ella deva conoscere che il mio consiglio non fu cattivo.

La giovane si mostrò persuasa e penetrata dal mio consiglio. Promise di eseguirlo a puntino. Mi giurò che la sua stima per me era divenuta maggiore; e perché eravamo giunti alla Giudecca dov’ella doveva arrivare, mi strinse modestamente una mano con una delle sue mani, morbidissima, ringraziandomi del disturbo ch’io m’era preso a suo riguardo, pregandomi a tener viva la mia amicizia verso lei e protestando che certamente dal canto suo, ne’ confini dell’onestá, avrebbe coltivata cotesta amicizia mia come una sua grandissima ventura.

Io smontai da quella gondola passando a Venezia in un’altra, alquanto piú innamorato e colla mente confusa e travagliata tra l’amore e il caso che aveva udito.

Erano passati otto e piú giorni ch’io non vedeva la giovane e tuttavia bramava di vederla e di sapere come fosse passata la sua faccenda con que’ truffatori. Un giorno finalmente la vidi nella sua stanza da lavoro; e perché la mia finestra era aperta, vedendomi ella passare, mi scagliò una cartuccia legata ad un sassolino e disparve.

Raccolsi la carta e lessi che dovendo ella visitare una di lei amica dopo pranzo con la permissione del marito, mi pregava ad essere alla solita ora al solito Ponte storto, che avrei veduta la gondola col solito segno del fazzoletto bianco: ch’entrassi, perché aveva una gran necessitá di parlarmi.

Vi andai e trovai la giovane ancor piú bella per una certa insolita ilaritá ch’ella aveva sul volto. Ella commise al gondoliere, il quale non era quello della prima volta, che facesse un giro per il gran canale e poscia la conducesse nel tal rio a Santa Margherita. [p. 186 modifica]

Disse a me ch’io era un indovino da farne gran conto. Si trasse dal seno un altro viglietto, me lo porse, ed io lessi.

Il carattere era lo stesso del primo. Le caricature amorose dello stile medesimo. Io, che non era io, la ringraziava del ritratto giurandole che lo teneva sempre o sotto agli occhi o appoggiato al mio cuore. Io, che non era io, mi lagnava altamente di non vederla piú alla consueta finestra e d’essere afflittissimo, che tuttavia giudicava per mio conforto che ciò avvenisse per i di lei prudenti riguardi. Io, che non era io, non dubitava però della sua costante amicizia: tanto era vero quanto, attendendo una cambiale per supplire ad un pagamento e che non era ancora giunta, io, che non era io, la pregava d’una prestanza di venti zecchini per non mancare di pontualitá, ché dentro a quel mese averei fatta la restituzione religiosamente; che poteva consegnarli al latore del mio viglietto, persona da me conosciuta e fidatissima, eccetera.

Ebbi qualche sdegno su quella lettura. La giovine si pose a ridere del mio sdegno. — Come s’è Ella diretta con quel furfante? — diss’io. — Appunto com’Ella m’ha consigliata — rispose la giovine, seguendo: — Mi perdoni, ma ho detto del gran male di lei a colui. Il furbo rimase sorpreso e voleva insistere, ma vedendomi risoluta tacque mortificato. Gli commisi di non piú parlarmi di lei e di non ricevere piú né parole né viglietti. Gli ho regalato un zecchino col patto fermo che non mi ragionasse molto né poco di lei, non volendo piú la menoma relazione con lei; la qual relazione è poi troncata, com’Ella vede ora in questa gondola, e terminerá soltanto allorquando Ella abborrisca la mia amicizia, la qual cosa sarebbe per me una sciagura grande, le giuro.

— Devo dirle anche un evento favorevole — proseguí ella. — Mio marito ha sorpreso quel forfante nell’atto che gli rubava alcuni ducati ch’erano nel ripostiglio del suo scrittoio. Gli ha comandato di sloggiare tosto colla moglie, minacciandolo di farlo porre prigione se non partiva.

— Ella avrá avuta l’arte di dimostrare un gran dispiacere per que’ poveri ladri scacciati — diss’io. [p. 187 modifica]

— Mi sono ingegnata — rispos’ella — a dimostrare un dispiacere grandissimo; anzi ho fatto creder loro di aver proccurato di calmare il marito con le preghiere piú ferventi, ma che lo aveva trovato irremovibile. Donai loro qualche elemosina, e da tre giorni sono sloggiati.

— Bravissima! — diss’io; — la cosa va a maraviglia. Ora se anche il marito chiedesse di vedere il ritratto, è facile il fargli credere il furto senza far peccato, perché infatti que’ due ladroni glielo hanno ghermito.

— Ah, perché non poss’io — seguí ella — avere in casa la domestica conversazione frequente d’un amico com’Ella è! Quanti sollievi avrebbe il mio spirito oppresso e quanto minore sarebbe la mia mestizia! Ciò non è possibile. Mio marito è troppo rigido su questo punto, e però devo sbandire un tal desiderio. Ella tuttavia mi voglia bene e creda che il mio sentimento per lei oltrepassa il sentimento di stima. Può star certo ch’io cercherò de’ momenti con tutta la cautela d’esser con lei, se però questi momenti non le sono di noia. La sua modestia e la sua rattenutezza mi fanno ardita, e dovrá sempre credere ch’io so i doveri d’un matrimonio e che morrei prima di contaminarli.

Eravamo arrivati al luogo determinato a Santa Margherita. Ella teneva stretta una delle mie mani colla piú bella mano che donna avesse. Volli baciar quella mano: ella la trasse a sé. S’umiliò a voler baciare la mia, ch’io trassi a me.

Uscii dalla gondola tordo impaniato e balordo. La giovane passò a fare la sua visita.

Una tal bellezza di diciassett’anni eroina aveva accesa una gran fiamma nel mio cuore, donchisciottesco sull’argomento amoroso e cuore d’intorno a vent’anni.

— Sarebbe un delitto — diceva tra me — il difendere lo spirito dal non abbandonarsi ad amare questa specie di Lucrezia, tanto confacente a’ modi miei di pensare. Ecco, ecco la fenice che il mio cuore cercava.

Pochi giorni dopo la vidi scagliarmi la carta legata col sassolino nella mia finestra. Lo scritto conteneva Ponte storto, [p. 188 modifica]gondola e visita a una cugina in puerperio. Chi avrebbe mancato? V’andai.

Non sono esprimibili il giubilo, la vivacitá e la grazia con le quali quella ragazza m’accoglieva. La nostra conversazione era gaia, affettuosa, un commercio di sentimenti e de’ tratti di spirito.

Tutte le nostre carezze consistevano in un tenersi per la mano, in un stringersi la mano reciprocamente a qualche detto arguto che ci piaceva. Non v’era pericolo ch’ella esprimesse una parola smoderata o mi desse il piú picciolo indizio di immodestia. Eravamo due innamorati morti, rispettosissimi l’uno per l’altro, e tuttavia paghi de’ nostri rapimenti d’affetto.

La carta col sassolino, il Ponte storto e la gondola erano spesso a campo. Io non so quanti e quali pretesti di visite trovasse quella giovine col marito, ma in vero la maggior parte di queste visite s’erano ridotte in un passare uniti alla Giudecca o a Murano, dove ci fosse un orto e qualche casupola solitaria, in cui mangiavamo un’insalatina, alcune fette di prosciutto o altro, sempre scherzando, sempre ridendo, sempre giurando che ci volevamo un gran bene, sempre modesti e sempre sospirando nel separarsi.

Notava che in quelle frequenti nostre oneste contraffazioni ella aveva ogni volta cambiata gondola e gondoliere. Ciò era per una di lei giudiziosa cautela.

Eravamo giunti ad una perfetta e sempre innocente amicizia. Parlo quanto all’esterno, ché de’ lavori interni della fantasia e de’ desidèri non fo alcuna fede. Il «lei» s’era cambiato nel «voi» e il «voi» s’era cambiato nel «tu», e tuttavia i nostri amori consistevano nell’esser vicini l’uno all’altro, nella delizia delle espressioni vocali, nel tenersi presi l’un l’altro per le mani, in qualche stringimento di mano e nell’appoggiarsi reciprocamente talora le nostre mani a’ nostri cuori che pulsavano come martelli.

Un giorno le chiesi la storia del suo matrimonio. Ella mi rispose scherzando: — Tu riderai, ma sappi ch’io sono una contessa. Mio padre, ch’è il tal conte, aveva me e un’altra mia sorella uniche figlie. Egli è un scialacquatore che ha consunto [p. 189 modifica]tutto il suo patrimonio ne’ vizi. Non avendo modo di dotare le figlie die’ in moglie la mia sorella maggiore ad un mercante di biade. Un assai agiato commerciante, in etá di cinquant’anni circa, s’è invaghito di me, e mio padre me gli concesse per moglie senza un soldo di dote. Aveva io in quel tempo quindici anni, e sono due anni che sono moglie d’un marito, il quale, salva l’austeritá dell’antico costume, è ottimo uomo, mi fa vivere nella dovizia e m’idolatra.

Io sapeva benissimo chi era quel conte suo padre desolato da’ vizi, e tal quale ella me lo aveva dipinto.

— E in due anni che sei maritata — diss’io — non facesti mai figli?

Parve che la giovane sentisse con dispiacere questa ricerca. Il suo viso si fece color di rosa arrossendo, e rispose con una seria sostenutezza: — Tu t’inoltri un po’ troppo colle tue curiositá.

La sua serietá mi trafisse. Tacqui mortificato, chiedendole scusa dell’aver fatta quella domanda, quantunque a me paresse che la mia ricerca non fosse offensiva. Chi ama teme soverchiamente.

Ella si commosse alla mia mortificazione e stringendomi una mano seguí dicendo: — Ad un amico qual sei tu non devo tener occulta una sciagura ch’io soffro volontieri, ma per la quale averai veduta della mestizia negli occhi miei. Sappi, il mio povero marito è tisico dichiarato, sempre febbricitante e impossente del tutto. Egli piange amaramente quasi le notti intere, chiedendomi perdono d’avermi legata ad un sacrifizio. Le sue parole sono tanto ingenue e cordiali che fanno piangere anche me, piú per la sua che per la mia sventura. Cerco di confortarlo e di lusingarlo di guarigione. T’assicuro che se il mio sangue potesse giovare, lo darei tutto per ricuperarlo.

Egli ha voluto farmi una scritta confessionale d’aver avuto da me ottomila ducati in dote. Cerca di non farsi abborrire da me, con de’ doni quasi giornalieri. Or mi getta nel grembo gruppi di ducati, or di zecchini, or di grosse medaglie d’oro, or di qualche anello o d’altro lavoro di brillanti; or mi reca de’ tagli [p. 190 modifica]d’abiti, or de’ gran fardelli di finissime biancherie, e sempre dicendomi: — Metti in serbo, cara la mia figlia. Presto rimarrai vedova. Desidero che tu possa nell’avvenire condurre de’ giorni piú felici di quelli che ora t’annodano ad un matrimonio fatale.

Eccoti la storia fedele del mio matrimonio e la mia circostanza che hai voluto sapere. Io temo — seguí ella guardandomi con della sostenutezza — che da questa mia confessione, che mi strappasti, tu possa formare qualche immagine indecente di me. Non ti lasciar sorprendere da un malizioso sospetto ch’io abbia accolta la tua amicizia per cercare de’ turpi risarcimenti. Se scoprissi il menomo indizio in te che sei capace di concepire un cosí ingiurioso lordo sospetto sulla mia persona, perderei tosto quel sentimento che mi ti fa amare, e la nostra amicizia sarebbe tronca per sempre.

L’aver trovata Penelope che mi amava era per il mio cuore metafisico una specie d’estasi soavissima.

Questo cosiffatto amore e queste nostre gite erano durate ben sei mesi. Gli affetti in iscambio di calmarsi bollivano ognor piú. Qualche sonettino platonico e tenero, ch’io componeva diretto a lei e ch’ella intendeva benissimo e assaporava, era per lei una gemma. Me lo strappava di mano e lo metteva nel suo bel seno, piú gemma del mio sonetto.

Le scriveva qualche affettuosa canzonetta d’un metro che calzasse bene sulla musica ch’ella sapeva. Ella la apparava a memoria e me la faceva sentire, cantandola dalla sua abitazione senza ch’io la vedessi, vincendo colla sensibilitá delle aspirazioni e co’ sospiri la piú famosa sirena teatrale dell’opera.

Temo che i miei lettori sieno annoiati di questo lungo mio amore semiplatonico, e credo che gran parte di questi mi chiamino scimunito e non vedano l’ora di leggere che il platonismo sia terminato.

Sono al punto di confessare la degenerazione di questo amore. Bramo ancora che non si fosse degenerato, a costo d’esser giudicato scimunito da’ sensuali, perché il mio spirito non avrebbe sofferto per un lungo tempo il crudele martirio che narrerò. [p. 191 modifica]

Mi rattristo di dover solleticare de’ brutali colla narrazione d’un errore, ma gli storici devono essere fedeli.

Convien ammettere la impossibilitá che in una giovine di diciassett’anni e in un giovane di vent’anni, amanti sviscerati, possa resistere perpetuamente la rigida virtú.

Un giorno, col solito invito, entrai nella gondola. Correva il mese d’aprile, mese che mi restò fitto nella memoria. L’idoletto mio era vestito con una mirabile negligenza in un manto color di rosa. Credo che un pittore avrebbe dipinta la piú bella Venere dipingendo la sua figura.

Passammo a Murano in un orto a capo del quale v’era un casino ben addobbato, in cui si davano delle merende a chi le chiedeva. Chiedemmo la nostra colezione. Mangiammo e bevemmo facendoci l’un l’altro de’ brindisi vivacemente affettuosi.

Aveva io in quel giorno della insolita loquacitá, non so come, e m’uscirono parecchie arguzie facete che fecero molto ridere la mia compagna.

Consumata la merenda, un morbido pulito soffá ci invitava a sedere, e vi sedemmo presi per mano. Fummo muti per un momento, e vidi quella bellezza impallidire, indi accendersi in viso. Non so dire s’io fossi pallido o rosso, ma il mio sangue era in rivolta. Ella volle levarsi e staccarsi da me. La trattenni con poca fatica. Ella ricadde sopra al soffá con un profondo sospiro appresso di me.

Fosse effetto d’un cocente amore, d’una gioventú fervida, del mese d’aprile o d’un’attrazione omai resa insuperabile, si trovammo ad un tratto impetuosamente con le nostre labbra unite, lambendo lo spirito l’uno dell’altro, strettamente abbracciati e abbandonati dalla ragione e dalla virtú.

Degl’impeti naturali dell’avida voluttá; un «no» spossato, ch’era il piú bel «sí» che s’udisse mai; un misto di pudore, di trasporti, di sospiri, de’ ratti inesprimibili e infine un reciproco soave languore posero il termine ad un virtuoso platonismo di sei mesi.

La giovine si rimise a sedere ricomponendosi, e tutta vergognosa con gli occhi bassi mi disse: — O amico, son io la [p. 192 modifica]colpevole d’aver sedotta la tua virtú: perdonami. Non scemare la tua stima per me. — No, mia cara — risposi, — son io il malfattore che ha sedotta la tua. Non m’odiare.

Ella voleva esser la rea ed io voleva essere il reo. Sembravamo Sofronia ed Olindo in Gerusalemme sulle accuse del sacro furto.

Gli eroici bei contrasti sull’errore commesso non fecero altro che innamorarci, inebriarci maggiormente e farci cadere in una replica dell’errore con una dolcezza piú assaporata e piú contemplativa, la qual delizia non è intesa da’ carnalacci viziosi, privi di lume per contemplarla e indegni di assaporarla.

A sei mesi di platonico amore furono sostituiti altri sei mesi di abbandonato cieco amore sensuale. La gondola, Murano, l’orto, il casino, la colezione, il morbido soffá dagli errori erano con frequenza la nostra consolazione.

Avrei dovuto estendere la mia cortina e non dipingere tanto vivamente i miei errori con quella giovane. Mi rimasero cosí fitti nell’animo che non seppi trattenere la penna rammentandoli. Mi costarono poscia tanto dolore che gli ha puniti e possono servir di scuola alla gioventú, se leggeranno il fine impensato d’un amore che a me pareva interminabile. Anche gli errori possono essere istruttivi.

Un giorno vidi l’amica mia assai malenconica dalla finestra. Le chiesi che avesse. Ella mi disse con voce bassa che aveva delle gran cose da confidarmi e che non mancassi d’essere al Ponte storto e alla gondola. Non altro mi disse e partí.

Tremai immaginando ch’ella volesse confidarmi d’aver scoperto d’essere prolificatrice. Con un marito tisico, impossente e austero, l’imbroglio era ben grande. Il mio sospetto era falso.

Ella mi narrò d’essere afflitta perché il di lei marito stava assai male e che, consigliato da’ medici a recarsi nell’aria temperata di Padova e sotto la medicatura de’ professori di quella universitá, era partito piangendo, lasciandola sola con una vecchia serva dormigliona.

M’increbbe la causa della sua mestizia, ma mi sarebbe molto piú incresciuto che la causa fosse stata quella ch’io sospettava. [p. 193 modifica]

Dopo aver ella esagerato sul dolore che provava sulla funesta circostanza e sull’allontanamento del marito, anche con gli occhi molli di lagrimette, si ridusse a farmi un discorso serio, che fu una miscellanea di giudizioso, d’affettuoso e d’artifizioso.

— Amico — diss’ella, — è inevitabile la mia vedovanza tra pochi giorni. Una giovine vedova dell’etá mia non può per prudenza vivere isolata e in balía di se stessa. Nel caso lugubre non averei altro asilo decente che quello di mio padre. Egli è un uomo rotto; ché tra i debiti che lo assediano e i scialacqui che sono il suo vizio, colla soggezione ch’io dovrei avere d’un padre, le mie sostanze sarebbero presto consumate e rimarrei giovine, vedova e miserabile.

Non ho persona a questo mondo a cui possa fidarmi a chius’occhi fuor che alla tua, in cui ho depositato il mio cuore, la mia virtú e la mia riputazione.

Ho in serbo nel mio armadio una somma di danari non picciola, molte gioie, degli ori e degli argenti; voglio che tu riceva tutto e tenga tutto in diposito appresso di te, perché al caso della mia disgrazia ch’io vedo vicina, mio padre, che colla facoltá di padre volerá a por gli artigli sopra a quanto possedo con aria di padre assistente e zelante, sono certa che in capo a due mesi avrá fatto volare ogni cosa.

Non mi negherai giá questo favore. Poco a poco porterò meco con cautela quanto possiedo, e tu mi porrai tutto in salvezza. Ti consegnerò anche la carta autentica di confessione dotale, che non è nota a mio padre, e all’amara perdita del mio marito, col consiglio ed aiuto di qualche tuo forense, farai que’ passi che vagliano a preservare la mia sussistenza. Tu m’ami e condiscenderai a quanto ti chiedo nella mia circostanza dolorosa.

Vidi chiaramente in questo suo discorso ch’ella cercava in me una sostituzione di marito senza dirlo. Io era alienissimo da un matrimonio, perché ho sempre abborrita una indissolubile catena e perché aveva de’ fratelli ammogliati con molti figli, e sentiva del ribrezzo a pregiudicarli, obbligando il mio patrimonio ad una dote e facendo nascere de’ nuovi figli, procreando un drappello di cugini Gozzi tutti poveri. [p. 194 modifica]

Nulla ostante amava assai quella giovane, aveva per lei una cordiale gratitudine e, ad onta degli errori giovanili ch’erano avvenuti tra lei e me, la credeva virtuosa e capace d’essermi fedele e ottima moglie. Il cuor mio si andava assoggettando in secreto e superava l’avversione ad un nodo matrimoniale.

Un avvenimento stranissimo, ch’io narrerò e che averò maraviglia se i miei lettori non maraviglieranno sulla lettura, venne a sciogliere la mia gratitudine, la mia secreta condiscendenza e a farmi quasi scoppiare con una sorpresa dolorosa.

Calmai possibilmente quella bellezza afflitta, lusingandola che forse la infermitá del marito non era al grado ch’ella temeva. Ricusai con risolutezza di ricevere i suoi capitali in diposito, prima perché io non aveva in casa un opportuno ripostiglio secreto e sicuro da poterli tener celati, poscia perché l’amava troppo per aderire ad una tal sua brama incauta, adducendo che il marito ancora in vita averebbe potuto un giorno voler fare un esame sul di lei stato e sopra que’ mobili ch’ erano a lui noti; il che averebbe posto a cimento la sua e la mia riputazione. La ringraziai della buona fede che aveva in me e le giurai che al caso della sua disgrazia averebbe trovato in me quel vigile assistente, quell’amico e infine quell’uomo che ella avesse desiderato. Ella rimase persuasa, e i nostri soliti abbandonati affetti la calmarono interamente.

Non è spiegabile la fiamma del nostro amore, che cresceva ognor piú in iscambio di diminuirsi, come suol succedere naturalmente dopo i sfoghi sensuali.

La giovane era perfettamente bellissima. Aveva una miniera di grazie e di tratti novelli. Nelle cadute medesime conservava sempre un certo pudore che sembrava dall’amor soggiogato; ingrediente che inebbriava il mio spirito. I suoi riflessetti saggi, il suo abbassar gli occhi vergognosetta, i suoi timori ragionevoli, che terminavano con una procella di baci dolcissimi, avrebbero innamorato Catone.

Vorrei essermi sostenuto nella delizia di sei mesi d’amor platonico e non esser giammai caduto nel sensuale, perché all’inaspettato caso, che ha troncato ad un punto il platonico e il [p. 195 modifica]sensuale, non averei provato un acerbissimo laceramento di spirito per qualche mese.

Venne un mio amico a Venezia condotto da alcune faccende e fu ad alloggiar meco. Egli mi vidde dire qualche parola alla giovine, e incominciò a motteggiarmi sull’amore, lodando molto la mia scelta.

Volli fare il ragazzo serio, esagerando sulla saviezza e sulla modestia della persona ch’io conosceva per accidente dalla finestra come vicina, e protestando ch’io non aveva mai posto piede nella di lei casa, la qual cosa era vera.

L’amico, ch’era assai scaltro e assai gallo sul proposito delle femmine, si mostrò non persuaso della mia asserzione, e volle a forza sostenere ch’io era intrinseco amante di quella bellezza, perocché aveva ciò letto negli occhi dell’uno e dell’altra.

— Tu mi sei vero amico onorato e sincero in tutte le cose — diss’egli, — ma sul fatto de’ tuoi amori non ho mai potuto strapparti il secreto. Tra gli amici niente deve essere occulto, ciò che sa l’uno deve saper l’altro, e mi fai un’ingiuria facendo arcani su queste inezie amorose.

— Non ho assolutamente nessuna di quelle confidenze, che tu da malizioso sospetti, con quella giovine rispettabile — rispos’ io; — ma per farti vedere ch’io sono sincero con gli amici, ti dico che se anche avessi delle confidenze mi lascerei tagliare la lingua piuttosto di palesarle ad un uomo vivente, perché l’onore delle donne è per me una specie di tabernacolo. Sono sincero e fedele amico in tutto ciò che le leggi della amicizia comandano; ma non credo che l’amicizia comandi che si palesi a un amico la fragilitá e la vergogna d’una povera donna, che può aver sacrificata la sua virtú colla fiducia che il suo errore rimanga secreto tra lei e il depositario favorito dal di lei abbandono; né credo che il tener ferma questa secretezza, doverosa persino all’amico, possa offendere questo amico.

Disputammo alquanto pro e contro su questa massima, e tenni sempre illesa la mia proposizione, ch’egli onorò infine delle sue risa, dileggiandomi e dicendo ch’io aveva un’opinione da antico romanzo spagnolo. [p. 196 modifica]

Egli fu attentissimo per vedere la mia diva e per favellare con lei qualche momento dalla finestra. Sentiva che ne’ suoi discorsi, oltre ad un lago di smisurate adulazioni alla di lei bellezza, grazia e saviezza, innestava sempre la grand’amicizia che avevamo stretta lui ed io da parecchi anni e ch’eravamo piú che fratelli. Scorgeva ch’ella cominciava ad ascoltarlo volontieri e a domesticarsi ne’ discorsi con lui. Io mi sentiva morire, ma mi costringeva a mostrare indifferenza.

Conosceva lui per amico onorato, impuntabile e cordialissimo coll’amico, ma sul fatto delle femmine lo conosceva per il maggior pirata, piú attivo e piú sollecito, che solcasse i mari di Venere. Aveva egli maggior etá della mia, era però bell’uomo, facondo, acuto, vivace, risoluto e spacciativo.

Erano passati alcuni giorni di que’ passeggeri dialoghetti, ne’ quali era sempre rammemorata la grand’amicizia e fratellanza che correva tra lui e me, e mancavano tre o quattro giorni alla sua partenza, che in altra circostanza mi sarebbe spiaciuta: in quella era da me ardentemente desiderata.

Un di que’ giorni ho udito ch’egli le narrava d’aver una chiave d’un palchetto nel teatro a San Luca e che andava quella sera alla commedia col suo caro amico. Aggiungeva di scorgere in lei della mestizia, e la consigliava efficacemente a unirsi con noi e a venire a respirare un poco d’aria e a divertirsi al teatro. Ella rifiutava e negava quella unione con de’ modi civili e prudenti. Egli batteva forte su questo punto per persuaderla e mi chiamò perch’io soccorressi la di lui persuasione.

La giovine guardava me quasi dicendo: — Che pare a te? — L’amico mi teneva gli occhi sbarrati addosso per vedere se le faceva qualche cenno che significasse un no.

Io voleva tener celata la mia debolezza ed era imbrogliato. Credei bastante il dire ch’io giudicava la signora prudente, e che s’ella negava, doveva avere delle fondate ragioni per negare, e ch’io non poteva che lodare la sua negativa.

— Come! — gridò l’amico, — tu hai cuore di non animarla a fugare alquanto di quella sua mestizia! Non siamo forse noi due persone oneste con le quali può fidarsi a venire? Rispondi. [p. 197 modifica]

— Ciò non posso negare — rispos’io. — Ebbene — disse la fraschetta e presto con mia sorpresa, — attendo una giovane mia amica, che viene ogni sera a tenermi compagnia e a dormir meco la notte sino che mio marito sta fuori. Veniremo insieme mascherate. Ci aspettino verso le due della notte in capo a questa calle.

— Brava! — esclamò l’amico esultante. — Voglio che stiamo allegri. Dopo la commedia intendo di volere che passiamo in un’osteria ad una cenetta, e vogliamo brillare.

Io non era vivo e non era morto, ma m’ingegnava a sostenere il contegno della indifferenza. — Possibile — diceva tra me — che poche ore bastino a far cadere una giovine che io conobbi cosí virtuosa per un lungo tempo, e che poche ore bastino a involarmi una amante, che tanto apprezzo, che m’ama tanto e che cerca di voler divenire mia moglie?

L’accordo era posto. Detto fatto. All’ora fissata ecco le due mascherette in capo alla calle. L’amico s’avventò come un falcone al braccio del mio bene, ed io rimasi servendo, mal in corpo, l’altra giovine, ch’era una biondina, grassotta, non brutta, ma che in quel punto non mi ricordava nemmeno s’ella fosse femmina o maschio.

Vedeva l’amico dire delle gran cose a voce bassa alle mie viscere senza mai rifinire, e l’udiva tratto tratto esalare de’ gran sospiri. Io sospirava piú di lui e replicava tra me e fuori di me: — E potrá mai avvenire che quella eroina si lasci sedurre? — Entrammo nel teatro e nel palchetto. La biondina si pose ad ascoltare con attenzione la commedia. L’amico non lasciava ascoltar commedia alla mia colonna, e le soffiava continuamente non so quali parole ammaliate nell’orecchio. Io la vedeva accesa e sbalordita. Fremeva internamente, ma fingeva d’ascoltar la commedia, di cui non so dir altro se non che ella mi pareva eterna.

Passammo dopo all’osteria della Luna, e sempre accoppiati, l’amico col mio amore, io colla biondina. Giammai potei intendere una del torrente di parole che l’amico snocciolava nell’orecchio alla compagna. [p. 198 modifica]

Dato l’ordine per la cenetta, ci fu aperta una camera e ci furono posti de’ lumi. L’amico non si stancava mai di fioccare parole basse nell’orecchio alle carni mie, e senza dare una retta al mondo né a me né alla biondina, sempre inchiodato al braccio della mia cara, passeggiava su e giú per la camera con quella. Le vedeva la faccia rossa come una bragia, ed io ardeva piú di lei.

Cosí passeggiando su e giú come due invasati, passarono in una camera contigua all’oscuro, in cui aveva scorto un cattivo letto.

Non li vedeva piú uscire. La mia immaginazione era annuvolata e sconvolta. Caddi a sedere appresso alla biondina senza sapere dov’io mi fossi. La biondina era muta per temperamento: io era muto per il dolore.

La coppia uscí quasi un quarto d’ora dopo entrata in quella maledetta camera e in un disordine che palesava chiaramente il per me terribile avvenimento.

Quella crudele volle venirmi appresso con un atto amichevole. Uno di quegl’impeti ciechi che non si possono frenare me la fece rispingere con un urto tre passi in dietro. Ella rimase mortificata. L’amico rimase sorpreso. La biondina tirava gli occhi e stava con la bocca aperta.

Io mi scossi, feci forza a me stesso, pentito d’aver dimostrato sdegno; e come se niente fosse avvenuto, mi lagnai dell’oste che tardava a portare la cena, adducendo che non era decenza il tenere fuori di casa quelle signore ad una notte troppo avvanzata.

M’avvidi che cadeva qualche lacrima dagli occhi della bella sdrucciolata nel delitto.

L’oste venne opportuno a fornire la mensa d’una cenetta da osteria. Sedemmo alla cena, che per me fu la cena di Tieste. Tuttavia m’ingegnava a dir male della commedia ch’io non aveva ascoltata, a dir male dell’oste e delle vivande, inghiottendo qualche morselletto che mi pareva arsenico.

L’amico si mostrava alquanto confuso, ma mangiava senza avversione al cibo. La amica era mesta e si metteva alla bocca qualche bocconcello con la mano tremante. La biondina mangiava con buon appetito e gustava ogni cosa. [p. 199 modifica]

Pagato l’oste, accompagnammo le signore all’uscio loro e le lasciammo coll’augurio della notte felice.

Appena fummo soli, l’amico mi si volse dicendo: — Tuo danno. Tu mi negasti d’aver intrinsichezza amorosa con quella giovine. Se avessi confessata la veritá all’amico, egli avrebbe rispettato il tuo amore. Tuo danno. — Ho detta la veritá — rispos’io; — non ho la confidenza che la tua malizia sospetta con quella giovine, ma soffri ch’io ti dica un’altra veritá. Sono certo che quella giovine venne con noi guardando me e ascoltando la conferma, che tu mi facesti fare, che siamo due oneste persone alle quali poteva affidarsi; né so vedere onestá in un amico che costringe con arte un altro amico a servirgli di ruffiano.

— Eh! che queste sono freddure che tra amici non si pesano colla tua romanzesca bilancia — risposagli. — L’amicizia vera non ha che far nulla co’ diletti passeggeri che si prendiamo con questi diavoletti femmine. Tu hai un’immagine troppo sublime d’un sesso di cui io non fo che un conto solo. Non v’è abachista che potesse sommare il numero delle mie soggiogate. Fredde, calide, prudenti, caste, sul punto della sensualitá le trovai tutte simili, e un poco della mia destrezza fu sufficiente a sconfiggerle tutte. Godo e lascio godere, senza lasciarmi prendere dalla passione faceta di Caloandro fedele.

— Se un montone avesse la favella — rispos’io — e lo interrogassi sul fatto dell’amore colle sue pecore, egli mi risponderebbe co’ tuoi medesimi sentimenti.

— Bene, bene — diss’egli; — tu sei giovine, e coll’andare degli anni comprenderai che, quanto al tuo venerabile bel sesso, io sono miglior filosofo che tu non sei. Quella biondina non mi dispiacque — seguí egli. — Mi sono informato dall’altra dov’ella sta d’abitazione. Domani vado all’assalto della piazza e ti narrerò la mia vittoria.

— Va’ dove vuoi — rispos’io; — ma tu non mi beccherai piú con femmine né alla commedia né all’osteria.

Egli andò a letto e a sognare la biondina; ed io v’andai con un rancore e un combattimento di spirito che non mi lasciarono chiuder occhio. [p. 200 modifica]

La mattina per tempo l’amico se ne uscí di casa, e ad ora del pranzo venne a dirmi con del stupore che la biondina era una tigre spietata e che con tutti i di lui tentativi artifiziosi non aveva potuto espugnarla. — Ella può ringraziare il cielo — seguí egli — che devo partire questa sera. Sono impuntigliato con quella pudica pettegola. Vorrei che non passassero due giorni all’espugnazione e a renderla mia vittima. — Egli partí ed io rimasi roso l’animo dal mio tormento.

Aveva giá fissato di non voler piú vedere colei ch’era stata la mia delizia per il corso d’un anno intero. Si affacciavano poscia agli occhi della mia mente la sua bella effigie, le sue tenerezze, i suoi trasporti, i suoi vezzi, i momenti soavi reciprochi, i pudori, la sua virtú. Il mio cuore s’ammolliva e cominciava a desiderare di sollevarsi col caricarla di rimproveri.

L’immagine dell’atto nefando in cui ella era caduta, posso dire alla mia presenza, veniva in mio soccorso e m’induceva quasi ad odiarla.

Erano scorsi ben dieci giorni che il mio spirito combattendo distruggeva la mia carne, e tuttavia aveva io fuggita ogni occasione di vedere la causa del mio martirio, quando vidi volare per la mia finestra la solita carta legata al sassolino. La raccolsi senza lasciarmi vedere. La lessi, ed ecco il contenuto di quel foglio che, tra i molti altri fogli che ho dati alle fiamme, non ebbi mai cuore di ardere per la nuova e bizzarra giustificazione ch’egli contiene. Salva qualche correzione d’ortografia, egli è l’originale.

Hai ragione, il mio errore non merita perdono. Non pretendo d’averlo espurgato con dieci giorni di lagrime ch’io spargo. Queste mie lagrime sono giustificate dal caso in cui si trova mio marito, giunto da Padova e ridotto agli ultimi estremi della sua vita. Tu vedi che il mio pianto può essere interpretato per ragionevole da chi lo vede. Ah, fosse il mio pianto tutto per il povero mio marito agonizzante! Non posso dirlo, ed ecco in me un doppio delitto che mi fa odiare me stessa.

Tu hai per amico un dimonio che m’ha sbalordita; egli mi fece credere d’essere tanto tuo amico che farei a te un affronto se [p. 201 modifica]non condiscendessi a consolarlo. Non mi credere ciò che sembra incredibile, ma giuro a Dio ch’egli m’ha tanto fatto girare il cervello ch’io stordita m’abbandonai ciecamente, credendo di fare a te una finezza, senza comprendere ciò ch’io mi facessi, né di cadere nel spaventevole abisso in cui mi vidi con orrore appena caduta.

Abbandonami nella mia miseria e fuggimi. Sono indegna di te, lo confesso. Mi merito di morir disperata. Addio... Terribile addio! Addio per sempre.

Io non aveva idea d’una tal sorta di giustificazione, e quantunque non mi persuadesse, leggendo quel foglio il cuor mio si commosse.

Rifletteva alla acerba circostanza di quella giovine col marito moribondo. Pensava che averei potuto fare almeno la parte d’amico senza far piú la parte d’amante; ma il veder quell’oggetto, per cui aveva provato un anno intero di cocente amore, mi faceva tremare del pericolo di ricadere, e a costo della vita non voleva piú affetti con una donna resa antipatica al mio pensare metafisico e alla mia delicatezza d’animo.

Sospettava anche ch’ella caricasse un po’ troppo lo stato di moribondo del marito per ammollirmi. Mi vinsi, e non volli né rispondere né vederla.

Fatto sta ch’io vidi passare sotto alle mie finestre il funerale e il di lei marito sulla bara, e dovei prestar fede al foglio. La immaginazione mi dipingeva quella infelice bellezza desolata senza conforti. Il mio cuore mi spingeva a visitarla ed a esibirmi in quanto potessi. Il timore di riaccendermi mi tratteneva; quando m’incontrai in un prete da me conosciuto, il quale mi disse che andava a fare un dovere di condoglianza con quella giovine rimasta vedova. — Ella dovrebbe venire con me — diss’egli. Si tratta d’un atto di pietá con una sua vicina. — Colsi la congiuntura e m’accoppiai col prete.

La trovai addolorata, pallida e lagrimosa. Appena mi vide abbassò la fronte abbandonandosi al pianto.

— Con la scorta di questo sacerdote — diss’io — sono venuto a condolermi della sua sciagura cordialmente e ad esibirmi con [p. 202 modifica]sinceritá in quanto Ella mi credesse capace di servirla nella sua funesta circostanza.

Ella raddoppiò il suo pianto e, senza mai levare gli occhi a me, rispose: — Io non merito nulla da lei... — Un pianto maggiore e de’ singulti le impedirono di proseguire.

Il mio cuore era intenerito, ma la ragione o la crudeltá lo soccorse; e fatti alquanti de’ consueti riflessi morali che si fanno all’occasione de’ morti, rinnovellando le mie esibizioni, sono partito col prete.

Era scorso ben un mese ch’io non la vedeva, né voleva vederla, per le mie austere riflessioni e per fuggire i pericoli del mio cuore lacerato e combattuto spesso dalle soavi reminiscenze de’ momenti felici.

Aveva dato a una sartorella da fare un mio farsettino, e incontrata cotesta sartorella per la via, ella mi disse che aveva perduta la misura, pregandomi che quella sera nell’andar io a casa andassi da lei per ripigliare quella misura.

V’andai, ed ella mi accennò di entrare in una camera, in cui entrato vidi con sorpresa la mia tiranna vestita d’un raso nero da lutto. Assolutamente Andromaca vedova d’Ettore era men bella di quella vedovetta.

Ella si levò da sedere dicendomi: — Conosco la sua ragionevole sorpresa sull’audacia ch’ebbi di ordire un momento di poter essere con lei. Titubai se dovessi o non dovessi riferirle una cosa. Finalmente credei di mancare se non gliela dicessi.

Un mercante onorato mi esibisce di sposarmi. Lei sa ciò che le ho detto riguardo a mio padre, che pur troppo si affaccenda per strascinarmi appresso di lui colle mie poche facoltá. Cercai questo momento soltanto per poterle giurare sopra a quanto v’è di piú sacro che non v’è fortuna ch’io non rifiutassi per aver quella di morire nel seno d’un amico com’Ella è. So d’essermi demeritata questa fortuna, non saprei dir come e non saprei di chi sia stata la colpa. Non voglio offendere lei né l’artifizioso di lei amico, e voglio essere io sola la colpevole. Ella accetti almeno il mio sincero giuramento e m’abbandoni poi ne’ miei rimorsi afflittivi. — Detto ciò si pose a sedere piangendo. [p. 203 modifica]

Tuttoché la ragione e l’austeritá dell’indole mia mi soccorressero, il discorso, il pianto di quella bellezza e un anno di soavitá che avevamo avuta insieme, mi fecero quasi vacillare.

Me le sedei appresso e prendendo una delle sue belle mani le dissi con tutta la dolcezza: — Non crediate, o cara, che la vostra afflizione non mi penetri sino all’anima. Vi sono obbligato anche del strattagemma che teneste per darmi i ragguagli che m’avete dati. Il vostro tenero discorso contiene non solo la vostra proposizione, ma contiene pure quella risposta che dovrei darvi. Vi ringrazio che m’abbiate levata la pena di darvela.

Lasciamo nel numero degli accidenti che accadono nel mondo, da qualunque fonte sia nato, l’accidente fatale accaduto, di cui non so quanto tempo mi voglia a guarire dal dolore che m’ha cagionato e che mi sta fitto nell’animo. È però vero che, nel modo mio di pensare, non potrei vedervi coll’occhio che vi guardava prima. La nostra unione farebbe di voi e di me due persone infelici. La vostra buona fama è con me in un sacrario. Accettate i consigli che vi dá un giovine che morrá vostro buon amico. Rassodate la mente e state in guardia se vi si avvicinano seduttori. La congiuntura che vi si presenta è ottima. Non tardate a dar la promessa di sposa al mercante onorato che mi diceste, e ponetevi in salvezza.

Non aspettai risposta, e baciandole affettuosamente la mano, con uno sforzo eroico m’involai partendo, senza parlare colla sartorella della misura.

Pochi mesi dopo quel colloquio ella ha sposato il mercante da vero. La vidi per la via alcune volte col marito e sempre bella. Nel vedermi cambiò ognora di colorito le guancie e abbassò gli occhi alla terra.

Questo è quanto posso dire di quella mia terza amante, di cui non volli piú cercar traccia. Seppi tuttavia, senza cercar di saperlo, ch’ella fu morigerata, saggia, esemplare ed ottima moglie di quel marito.

Ad onta dell’aver espresso di non voler piú scrivere capitoli lunghi, le storielle de’ miei amori trattennero la mia penna piú che non avrei voluto. [p. 204 modifica]

Queste tre storielle, ch’io volli narrare minutamente in tutta la loro estensione, mi ammaestrarono sul fatto dell’amore.

Passate le dette vicende amorose in etá di ventun anno, divenni un argo vigilantissimo sui caratteri del bel sesso, e perché il mio cuore era d’una pasta non comune ed aveva provati de’ gran tormenti nelle scoperte d’incostanza e ne’ distacchi dell’indole mia robusta, determinata, risoluta e ferma, mi guardai bene dall’allacciarlo nell’avvenire con intero abbandono dello spirito.

Non lussurioso per istinto e non vizioso per costume, fornito di riflessiva facoltá per frenare gli stimoli naturali, mi piacque bensí la societá delle donne che mi ricrea; ma sino in qualche umana debolezza, non mai di gran conseguenza, in cui sarò certamente caduto nel trascorrere degli anni d’etá virile, fui piú amico ed osservatore che cieco ed appassionato amante.

Parvemi di rilevare colle mie osservazioni che dell’amore dimostrato agli uomini da una gran parte delle femmine sieno i moventi o la vanitá d’avere un corteggio, o un’ambizione di soggiogare de’ cuori e de’ cervelli d’uomini ragguardevoli, per poter dominare, vincere de’ puntigli, de’ tributi, usare delle sopraffazioni e delle ingiustizie; o per allacciare de’ serventi lor schiavi, debili e liberali condottieri a’ teatri, alle feste, a’ casini, a’ stravizzi, alle villeggiature, che suppliscano a tutti gl’infiniti capricci della moda vaneggiatrice, ch’esse non hanno il modo di provvedere, per far eclissare l’appariscenza di tutte le loro simili, per guadagnarsi de’ novelli amanti e per tradire l’amore del medesimo servente corrivo dabbene; o per tendere delle reti che ravviluppino e lor piglino un marito condiscendente d’appoggio.

Io non era nato per corteggiare. Non era ragguardevole per far trionfare una donna colla mia possanza. Non era né ricco né prodigo per appagare i capricci delle donne, per far loro fare di quelle comparse che parecchie femmine, inebbriate dalla vanitá, credono decorose e che sono il bersaglio della satira e de’ libelli. Non voleva rovinarmi nelle sostanze e nella salute. Aveva un pensare sublime e un cuore metafisico sull’argomento dell’amore. Era alienissimo dall’annodarmi ad un matrimonio. Sicché dopo [p. 205 modifica]i miei tre primi abbandonati affetti, trattai il bel sesso piú da filosofo osservatore che da spasimato perduto.

Ebbi familiaritá con molte femmine private e teatrali, vezzose e bellissime, con questi princípi, e le trovai contente de’ modi miei di trattare, onorate, grate ed ottime amiche per lunghissimo tempo costantemente; perocché infine delle stravaganze e delle cadute muliebri la colpa principale è sempre de’ maschi adulatori e tentatori d’una mollezza e d’una leggerezza inseparabili da quel sesso.

Protesto altamente, senza negare d’esser caduto in qualche ben rara e non essenziale debolezza umana passeggera, di non aver giammai guastati cervelli muliebri con de’ sofismi, col distruggere gli elementi delle sane educazioni, col porre in ridicolo i riguardi e i doveri di quel sesso, col vestire la sfrenatezza da lecita libertá, col dare a’ vincoli della religione, de’ nodi coniugali, della modestia, della castitá, del pudore, il titolo di «pregiudizio», rovesciando il vero significato di quel vocabolo, come fanno i dicentisi filosofi contagiosi dell’etá nostra. Ecco la sincera e pubblica confessione de’ miei amori.

Ho narrato la mia nascita, la mia stirpe, la mia educazione, i miei viaggi, le mie amicizie, le mie occupazioni, le mie controversie, i miei accidenti, il mio esterno, il mio interno, i miei amori, guidato dalla pura veritá. Crediamo noi che nessuno bramasse di saperli o brami di leggerli? Nol credo.

Sono inutili ed io li pubblico soltanto per umiltá.