La libertà (Mill)/Capitolo II

II. La libertà di pensiero e di discussione

../Capitolo I ../Capitolo III IncludiIntestazione 8 settembre 2024 75% Da definire

John Stuart Mill - La libertà (1859)
Traduzione dall'inglese di Arnaldo Agnelli (1911)
II. La libertà di pensiero e di discussione
Capitolo I Capitolo III

[p. 21 modifica]

CAPITOLO SECONDO




LA LIBERTÀ DI PENSIERO E DI DISCUSSIONE.

È lecito sperare che sia trascorso il tempo in cui sarebbe stato necessario difendere la libertà di stampa come una guarentigia contro un governo corrotto o tirannico; oggi, io penso, non c’è più bisogno d’eccitare gli uomini alla ribellione contro qualunque potere, legislativo o esecutivo, i cui interessi non fossero identificati con quelli del popolo e che pretendesse di prescrivergli delle opinioni e di stabilire quali dottrine o quali argomenti gli sia permesso di sentire. D’altra parte, questo aspetto della questione è stato già così spesso trattato, e in modo così splendido, che qui non occorre d’insistervi più specialmente. Sebbene la legge inglese sulla stampa sia oggi così servile come lo era al tempo dei Tudor, pure v’è ben poco pericolo che oggi se ne faccia uso contro la discussione politica, salvo che durante qualche panico passeggiero, quando il timor della insurrezione trascina ministri e giudici fuori del loro stato normale1. In generale, non v’è a temere, in un paese costituzionale, che il governo (sia esso o no pienamente responsabile di fronte al popolo) tenti spesso di sorvegliare l’espressione delle opinioni, eccettuato il caso in cui, così agendo, esso divien l’organo della generale intolleranza del pubblico. [p. 22 modifica]

Supponiamo dunque che il governo non sia che una cosa col popolo, e non pensi in alcun modo ad esercitare alcun potere di coercizione, ammenochè non sia d’accordo con quello ch’esso considera la voce del popolo: ebbene, io nego al popolo il diritto di esercitare una tale coercizione, sia da sè, sia per mezzo del suo governo: questo poter di coercizione è illegittimo. Il migliore dei governi non vi ha più diritto del peggiore; un tal potere è altrettanto ed anche più dannoso quando lo si esercita d’accordo con l’opinione pubblica, di quando lo si esercita in opposizione con essa. Se tutta la specie umana, salvo una persona, fosse di un parere, e una persona soltanto fosse del parere contrario, la specie umana non sarebbe per nulla più giustificabile imponendo silenzio a tale persona di quello che questa lo sarebbe se, potendo, imponesse silenzio alla specie umana. Se una opinione non fosse che una personale proprietà, e non avesse valore che pel possessore; se l’esser turbati in questo possesso fosse un danno puramente personale, vi sarebbe qualche differenza tra l’essere il danno inflitto a poche persone o a molte. Ma questo vi ha di specialmente dannoso nell’imporre silenzio all’espressione d’una opinione: che si defrauda la specie, la posterità come la generazione esistente, quelli che si allontanano da una tale opinione ancora più di quelli che la sostengono. Se questa opinione è giusta, sono privati di un mezzo di lasciar l’errore per la verità; se è sbagliata, essi perdono un beneficio quasi altrettanto importante: la percezione più chiara e l’impressione più viva della verità, prodotta dal suo cozzo con l’errore.

E necessario di considerare separatamente queste ipotesi, a ciascuna delle quali corrisponde un ramo distinto dell’argomentazione. Noi non possiamo mai essere sicuri che l’opinione che noi cerchiamo di sopprimere sia falsa; e, lo fossimo pure, il sopprimerla sarebbe ancora un male.

E, anzitutto, l’opinione che si cerca sopprimere d’autorità può benissimo esser vera; quelli che desiderano sopprimerla, naturalmente, contestano la sua verità: ma essi non sono infallibili, non hanno il potere di decidere la questione per tutto il genere umano, e di rifiutare agli altri i mezzi di giudicare.

Non lasciar conoscere una opinione perchè si è sicuri della sua falsità è affermare che si possiede la certezza assoluta. Tutte le volte che si tronca una discussione, si afferma, soltanto con questo, la propria infallibilità: e la condanna di un tal modo di procedere si potrebbe benissimo basare su questo solo argomento.

Disgraziatamente pel buon senso degli uomini, il fatto della loro fallibilità è lungi dall’avere, nel loro giudizio pratico, l’importanza che essi gli accordano in teoria. In [p. 23 modifica]realtà, mentre ciascuno di essi sa benissimo d’esser fallibile, un piccolo numero d’uomini soltanto trovano necessario di prendere delle precauzioni a questo riguardo, e di ammettere l’ipotesi che una opinione di cui essi si sentano certi possa servire ad esempio dell’errore a cui si riconoscono soggetti.

I principi assoluti, o altre persone avvezze a una deferenza illimitata, hanno di solito questa piena fiducia nelle loro opinioni in quasi tutti gli argomenti; gli uomini aventi una posizione fortunata, che tentano talvolta discutere le loro opinioni e che non hanno del tutto perduto l’abitudine di essere corretti quando s’ingannano, pongono la stessa fiducia senza limiti in quelle loro opinioni a cui partecipano quelli che li circondano o quelli pei quali essi hanno una deferenza abituale; poichè in proporzione della mancanza di fiducia dell’uomo nel suo personale giudizio, egli presta una fede più cieca all’infallibilità del mondo in generale. E il mondo è, per ciascun individuo, la parte di mondo colla quale egli è a contatto: il suo partito, la sua setta, la sua chiesa, la sua classe sociale; e, comparativamente, si può dire di un uomo che ha uno spirito largo e liberale, quando questa parola mondo significa per lui il suo paese o il suo secolo. La fede dell’uomo in questa autorità collettiva non è scossa nè punto nè poco, per quanto egli sappia che altri secoli, altri paesi, altre sette, altre chiese, altri partiti hanno pensato e pensano esattamente il contrario.

Esso incarica il suo proprio mondo d’aver ragione contro i mondi dissidenti degli altri uomini e non si turba mai alla idea che il puro caso ha deciso quale di questi mondi numerosi dovesse possedere la sua fiducia, e che le stesse cause che fanno di lui un cristiano a Londra ne avrebbero fatto un buddista a Pekino. Tuttavia la cosa in sè è tanto evidente, che tutti gli argomenti la potrebbero provare. I secoli non sono più infallibili degli individui: ciascun secolo ha professato molte opinioni che i secoli seguenti hanno ritenuto non solamente false, ma assurde; ed è ugualmente certo che molte opinioni oggi da tutti professate saranno abbandonate dai secoli venturi, come molte opinioni in altri tempi comuni sono abbandonate dal secolo presente. L’obbiezione che probabilmente si farà a questo argomento potrebbe forse prendere la forma seguente. Non c’è una pretesa più grande d’infallibilità nell’ostacolo posto alla propagazione dell’errore che in qualunque altro atto dell’autorità. Il giudizio è dato all’umanità, perché essa ne faccia uso; perchè se ne può fare un uso cattivo, bisogna dire agli uomini ch’essi non se ne dovrebbero servire del tutto? Nel proibire quel ch’essi credono dannoso essi non pretendono d’essere esenti d’errore, essi non fanno che adempire il [p. 24 modifica]dovere, per essi imprescindibile (sebbene siano fallibili) di agire secondo la loro convinzione coscienziosa. Se noi non dovessimo mai agire secondo le nostre opinioni, perche le nostre opinioni possono essere false, noi trascureremmo di curare tutti i nostri interessi, di compiere tutti i nostri doveri; un’obbiezione applicabile a qualunque condotta in generale, non può essere un’obbiezione forte contro una data condotta in particolare. Dovere dei governi e degli individui è di formarsi le opinioni più vicine al vero che sia possibile, di formarsele accuratamente, di non imporle agli altri senza essere perfettamente sicuri di aver ragione. Ma quando essi ne sono sicuri (così parlano i nostri avversari) non sarebbe coscienziosità ma poltroneria il non agire secondo la propria opinione e lasciar propagarsi liberamente delle dottrine che in coscienza si trovano pericolose al benessere della umanità, sia in questa, sia nella vita futura; e tutto questo perchè altri popoli, in tempi meno illuminati, hanno perseguitato delle opinioni che oggidì si credono vere.

I nostri avversari aggiungono: ci si dirà, guardiamoci dal cadere nello stesso errore. Ma i governi e le nazioni hanno commesso degli errori a proposito di altre cose sulle quali si ritiene che possa senza alcun inconveniente essere esercitata l’autorità pubblica; essi hanno levato delle imposte cattive, hanno fatto delle guerre ingiuste. E noi dovremo per questo non levar più alcuna imposta e non far più delle guerre, non ostante qualunque provocazione? Gli uomini e i governi debbono agire meglio che possono; la certezza assoluta non c’è, ma ce n’è a sufficienza pei bisogni della vita; e noi possiamo e dobbiamo affermare che la nostra opinione è vera per la direzione della nostra condotta e non affermiamo nulla di più coll’impedire che si pervertisca la società colla propagazione di opinioni che noi riteniamo false e perniciose.

Io rispondo che così si afferma ben di più. C’è una grandissima differenza tra il presumere che una opinione sia vera, perchè, con tutti i mezzi d’esser confutata, essa non ha potuto esserlo, e l’affermare la sua verità allo scopo di non permetterne la confutazione. La libertà completa di contraddire e di disapprovare la nostra opinione è la condizione appunto che ci permette di affermare la sua verità da un punto di vista pratico; un essere umano non può avere in altro modo l’assicurazione razionale di esser nel vero.

Quando noi consideriamo, vuoi la storia dell’opinione, vuoi la condotta ordinaria della vita umana, a che si può attribuire se l’una e l’altra non sono peggiori di quel che sono? Non certamente alla forza inerente all’intelligenza umana, poichè su qualunque soggetto che non sia per sè stesso evidente, una sola persona su cento sarà capace di [p. 25 modifica]giudicare. Ancora: la capacità di questa unica persona non è che relativa; poichè la maggioranza degli uomini eminenti di ciascuna generazione passata ha sostenuto molte opinioni oggidì ritenute erronee, e fatte od approvate molte cose che nessuno oggidì giustificherebbe.

Come avviene dunque che, dopo tutto, nella specie umana, c’è una preponderanza di opinioni e di condotta razionali: Se questa preponderanza esiste davvero ed è quanto dev’essere, a meno che gli affari umani non siano e non siano stati sempre in uno stato quasi disperato essa è dovuta ad una qualità dello spirito umano, la sorgente di tutto quanto vi ha di rispettabile nell’uomo, sia come essere intellettuale, sia come essere morale: la possibilità di correggere i propri errori. L’uomo è capace di correggere i suoi sbagli con la discussione e l’esperienza. E non con la sola esperienza: occorre la discussione per vedere come quella si deva interpretare.

Le opinioni ed i costumi falsi cedono gradualmente davanti al fatto e all’argomento; ma perché i fatti e gli argomenti producano qualche impressione sullo spirito, e necessario che gli vengano presentati. Pochissimi fatti possono dire la loro storia essi stessi, senza commenti che ne spieghino il significato. Poichè dunque tutta la forza e tutto il valore del giudizio dell’uomo poggiano su questa proprietà ch’egli possiede, di poter essere corretto quando è fuor di strada, non è permesso di porre in esso qualche fiducia se non quando si hanno ben sotto mano i mezzi di raddrizzarlo.

Come ha fatto un uomo il cui giudizio merita realmente fiducia? Egli ha posto attenzione a tutte le critiche sulla sua opinione e sulla sua condotta, ha avuto per abitudine d’ascoltare tutto quello che si poteva dire contro di lui, di trarne profitto in quanto era giusto, e d’esporre a sè stesso ed agli altri, all’occasione, la falsità di ciò che non era se non un sofisma; egli ha compreso che il solo mezzo col quale un essere umano possa giungere alfine a conoscere a fondo un soggetto è quello di ascoltare ciò che ne possono dire delle persone di tutte le opinioni, e di studiare tutti i modi onde esso può esser lumeggiato dalle diverse intelligenze. Mai alcun saggio acquistò diversamente la sua saggezza, e non è nella natura dell’intelligenza umana il divenir saggio in altro modo. La costante abitudine di correggere e di completare la propria opinione, paragonandola con quella degli altri, lungi dal cagionare dubbio ed esitazione nel metterla in pratica, è il solo fondamento stabile di una giusta fiducia in questa opinione.

In realtà, poichè l’uomo saggio conosce tutto quello che, secondo probabilità, si può dire contro di lui, ed ha assicurato la sua posizione contro qualunque avversario, [p. 26 modifica]sapendo che, lungi dall’evitare le obbiezioni e le difficolta, egli è andato a cercarle e non ha rinunciato ad alcun modo di lumeggiare il soggetto, quest’uomo ha diritto di pensare che il suo giudizio val meglio che quello di non importa qual persona o quale moltitudine, la quale non abbia usati gli stessi mezzi.

Non è un pretendere troppo l’imporre al pubblico, a quest’accolta variopinta di pochi saggi e di molti sciocchi, le stesse condizioni che gli uomini più sapienti, quelli che hanno più ragione di fidarsi del loro giudizio, considerano garanzie necessarie alla loro fiducia in loro stessi. La più intollerante delle chiese, la chiesa romana cattolica, anche quando trattasi della canonizzazione di un santo, ammette ed ascolta pazientemente un avvocato del diavolo; sembra che i più santi fra gli uomini non possano essere ammessi ai postumi onori se non quando sia noto e ben ponderato quanto il diavolo può dire contro di essi.

Se non fosse stato permesso di porre in dubbio la filosofia di Newton, la specie umana non potrebbe con tutta certezza tenerla per vera. Le credenze per le quali noi abbiamo le maggiori garanzie non poggiano se non su di una protezione: l’invito costante al mondo intiero di dimostrare la loro falsità. Se la sfida non è accettata, o se essa è accettata e la prova non riesce, noi siamo ancora abbastanza lungi dalla certezza, ma abbiamo fatto tutto quello che lo stato presente della ragione umana ci permette di fare; noi non abbiamo trascurato nulla di ciò che poteva fornirci un mezzo di raggiungere la verità. E, restando il campo sempre aperto, noi possiamo sperare che, se esiste una verità migliore, la si troverà quando lo spirito umano sarà capace di accoglierla; e, nell’attesa, possiamo esser certi di esserci avvicinati alla verità di quanto era possibile nel tempo nostro. Ecco tutta la certezza a cui possa arrivare un essere fallibile, ed ecco la sola strada per arrivarci.

È strano che gli uomini riconoscano il valore degli argomenti in favore della libera discussione, ma che non vogliano saperne di portar questi argomenti alle ultime conseguenze, non vedendo che, se queste ragioni non servono anche per un caso estremo, esse non hanno alcun valore. Altra cosa bizzarra: essi non credono di darsi l'aria d’infallibili, quando riconoscono che la discussione deve essere libera su tutti i soggetti i quali possano essere dubbiosi, e pensano, nello stesso tempo, che al di sopra della discussione si dovrebbe porre una dottrina, un punto particolare, perchè esso è così certo... che è quanto dire perchè essi sono così certi che è certo! Tenere una cosa per certa, finchè esiste un essere umano pronto a negarne la certezza, se lo potesse, ma a cui lo si impedisce, è affermare che noi, e quelli che seguono la nostra opinione, siamo i [p. 27 modifica]giudici della certezza, e giudichiamo senza sentir tutte e due le campane.

Nel nostro secolo, che si è rappresentato come privo di fede ma come pauroso dello scetticismo, poichè gli uomini si sentono assicurati non tanto dalla verità delle loro opinioni quanto dalla loro necessità, i diritti di un’opinione ad esser protetta contro un pubblico assalto riposano sulla sua importanza per la società, piuttosto che sulla sua verità. Vi sono — si va dicendo — certe credenze così utili, per non dire indispensabili al benessere, che i governi hanno dovere di proteggerle quanto di proteggere qualunque altro degli interessi della società. In un caso di necessità così assoluta, che fa parte così evidente del loro dovere, si sostiene che anche qualcosa di meno dell’infallibilità può permettere ai governi ed anche obbligarli ad agire secondo la loro opinione, confermata dall’opinione generale della umanità. Si dice pure spesso, e anche più spesso si pensa questo: nessuno, salvo un uomo vizioso, vorrebbe indebolire tali salutari credenze, e nulla ci può essere di male a raffrenare degli uomini viziosi ed a proibire ciò ch’essi soli vorrebbero fare. Questo modo di pensare fa, della giustificazione delle restrizioni che alla discussione s’impongono, una questione non di verità, ma di utilità, e si lusinga di sottrarsi in questo modo alla responsabilità della pretesa d’essere infallibile. Ma quelli che si contentano di così poco non si accorgono che la pretesa all’infallibilità è semplicemente spostata da un punto ad un altro. L’utilità stessa di una opinione è affare di opinione; essa si presta alla discussione, e la richiede altrettanto che l’opinione stessa.

C’è lo stesso bisogno di un giudice infallibile di opinioni per decidere che una opinione è dannosa, come per decidere ch’essa è falsa, quando l’opinione condannata non abbia tutta la facilità di difendersi. Ed è inutile dire che si può permettere ad un eretico di sostenere l’utilità o l’innocenza della sua opinione, sebbene gli s’impedisca di sostenerne la verità: la verità d’una opinione fa parte della sua utilità: quando noi vogliamo sapere se sia o no desiderabile che un’opinione sia creduta, è mai possibile d’escludere la considerazione della sua verità o della sua falsità?

Nell’opinione, non degli uomini viziosi, ma dei migliori, nessuna credenza contraria alla verità può essere realmente utile; e potete voi impedire a costoro di fare una tale apologia, quando siano perseguitati per aver negato qualche dottrina che loro si dice esser utile, ma ch’essi credono falsa? Quelli che seguono le opinioni già ammesse non trascurano mai di trarre tutto il profitto possibile da questa scusa; voi non li trovate mai a trattare la questione dell’utilità, come se la si potesse separare completamente dalla questione della verità. Al contrario, è sopratutto perchè la [p. 28 modifica]loro dottrina è la verità, che è indispensabile di conoscerla o di crederci. Non vi può essere discussione leale sulla questione di utilità, quando una soltanto delle parti può far uso di un argomento così vitale. E in linea di fatto, quando la legge o il sentimento pubblico non permettono di discutere la verità d’un’opinione, mostrano la stessa tolleranza verso chi negasse la sua utilità: tutto quello che essi permettono è un’attenuazione della sua necessità assoluta o del delitto positivo di negarla.

Per mostrare più chiaramente quanto male si faccia col rifiutar d’ascoltare delle opinioni perché noi le abbiamo condannate in anticipazione nel nostro proprio giudizio, sarebbe desiderabile stabilire la discussione su di un caso determinato. Io scelgo di preferenza i casi che mi sono meno favorevoli, quelli nei quali l’argomento contro la libertà di opinione, e dal punto di vista della verità, e dal punto di vista della utilità, è considerato come il più forte.

Poniamo che le opinioni combattute siano la credenza in Dio e in una vita futura o non importa qual altra fra le dottrine di morale generalmente accettate. Dar battaglia su questo terreno è come offrire un gran vantaggio a un avversario di mala fede, poichè esso dirà sicuramente (e con lui molte persone che non desiderano punto d’essere in mala fede): Queste sono dunque dottrine che voi non ritenete abbastanza certe per esser poste sotto la protezione della legge? La credenza in Dio è una di quelle opinioni di cui non si può sentirsi sicuro, senza pretendere all’infallibilita?

Ma io domando che mi si permetta di notare come il sentirsi certo di una dottrina, qualunque essa sia, non è ciò che io dico pretendere all’«infallibilità». Io, con questo, intendo il mettersi a decidere una tale questione anche per conto degli altri, senza permetter loro di sentire ciò che si può obiettare dall’altro canto. Io non denuncio e non biasimo meno questa pretesa, se essa si fa innanzi per sostenere le mie più solenni convinzioni. Un uomo ha un bell’essere positivamente convinto, non soltanto della falsità, ma anche delle conseguenze perniciose, non soltanto delle conseguenze perniciose, ma anche (per adoperar delle espressioni che io pienamente condanno dell’immoralità e della empietà di un’opinione; se nondimeno, in conseguenza di questo giudizio personale (ed anche quando sia pure sostenuto dal giudizio pubblico del suo paese o dei suoi contemporanei), egli impedisca a questa opinione di parlare in propria difesa, egli afferma la propria infallibilità. E questa affermazione è ben lungi dall’essere meno pericolosa o meno biasimevole perchè l’opinione è detta immorale od empia; al contrario, questo è il caso più fatale di tutti.

Queste sono precisamente le occasioni in cui gli uomini commettono quegli spaventevoli errori che eccitano la [p. 29 modifica]stupefazione e l’orrore della posterità. Noi ne troviamo degli esempi memorabili nella storia, quando vediamo il braccio della legge occupato a distruggere gli uomini migliori e le più nobili dottrine: — e questo, pur troppo con grande successo quanto agli uomini; quanto alle dottrine, parecchie hanno sopravvissuto, per essere proprio (quasi per derisione) invocate in difesa di una simile condotta verso di quelli che non le accettavano, o che ne rifiutavano la interpretazione comune.

Non si può ricordare abbastanza sovente alla specie umana che vi è stato un uomo, il quale si chiamò Socrate, e che vi fu un memorabile conflitto tra quest’uomo da una parte e le autorità legali e l’opinione pubblica dall’altra. Egli era nato in un secolo e in un paese ricchi di grandezze individuali; la sua memoria ci è stata trasmessa da quelli che conoscono meglio lui e l’età che fu sua, come la memoria dell’uomo più virtuoso del suo tempo. Noi lo conosciamo al tempo istesso come il caposcuola e il prototipo di tutti quei grandi maestri di virtù che vennero dopo di lui, attraverso la sorgente e dell’inspirazione di Platone e del giudizioso utilitarismo di Aristotele, «i maestri di color che sanno», i due creatori di qualunque filosofia, etica e non etica. Questo maestro riconosciuto da tutti i pensatori eminenti a lui posteriori; quest’uomo la cui gloria sempre crescente da più che duemila anni supera quella di tutti gli altri nomi che resero illustre la sua città natale, fu mandato a morte dai suoi concittadini, dopo una condanna legale, come colpevole d’empietà e d’immoralità. Empietà, perchè negava gli dei riconosciuti dallo Stato; a vero dire il suo accusatore affermava ch’egli non credeva in alcuno (vedi l’Apologia). Immoralità, perchè corrompeva la gioventù con le sue dottrine e coi suoi insegnamenti. Si hanno tutte le ragioni per credere che il tribunale lo abbia trovato, in coscienza, colpevole di questi delitti; ed esso condannò ad esser mandato a morte come un volgare malfattore l’uomo che fra i suoi contemporanei era probabilmente il più benemerito verso la specie umana.

Passiamo all’altro, unico esempio d’iniquità giudiziaria per ricordare il quale, dopo la morte di Socrate, non si deva scendere un gradino più basso. Noi alludiamo all’avvenimento che si compì sul Calvario, più che diciotto secoli or sono. L’uomo che lasciò in tutti quelli che l’avevano veduto e sentito una tale impressione della sua grandezza morale, che diciotto secoli hanno reso omaggio a lui come all’Onnipotente, fu condannato a morte ignominiosa. Perchè? Come bestemmiatore. Non soltanto gli uomini non riconobbero punto il loro benefattore, ma lo presero pel contrario esatto di quello ch’egli era, e lo trattarono come un prodigio d’empietà. Ed ora son ritenuti essi come tali, [p. 30 modifica]a cagione del modo con cui lo trattarono. I sentimenti che animano oggi la specie umana a proposito di questi dolorosi avvenimenti, la rendono estremamente ingiusta nel loro giudizio sugli sciagurati attori.

Questi, secondo ogni apparenza, non erano peggiori della generalità degli uomini: erano all’incontro uomini che possedevano in modo completo, più che completo forse, sentimenti religiosi, morali e patriotici del loro tempo e del loro paese; di quegli uomini insomma che sono fatti in ogni tempo, compreso il nostro, per traversar la vita rispettati e senza macchia. Quando il gran sacerdote si stracciò gli abiti sentendo pronunciar le parole che, secondo le idee del suo paese, costituivano il più nero dei delitti, la sua indignazione e il suo orrore erano probabilmente così sinceri, come oggi i sentimenti morali e religiosi professati dalla generalità delle persone pie e rispettabili. E molti di quelli che ora fremono della sua condotta, avrebbero agito esattamente allo stesso modo, se avessero vissuto in quell’epoca, e fossero stati ebrei. I cristiani ortodossi che son tentati a credere uomini assai peggiori di loro quelli che lapidarono i primi martiri, dovrebbero ricordarsi che san Paolo fu tra questi persecutori.

Aggiungiamo ancora un esempio: quello che colpisce più di tutti, se è vero che l’errore fa tanto maggiore impressione quanto più grande è la saggezza e la virtù di chi lo commette. Se mai un monarca ebbe ragione di credersi migliore e più illuminato di chiunque fra i suoi contemporanei, fu l’imperatore Marco Aurelio. Padrone assoluto di tutto il mondo civile, egli dimostrò per tutta la vita non solo la più pura giustizia, ma anche ciò che meno si sarebbe atteso dalla sua educazione stoica il cuore più tenero.

I pochi errori che gli si attribuiscono vengono tutti dalla sua indulgenza, mentre i suoi scritti, le più elevate produzioni morali dell’antichità, differiscono appena, se pure ne differiscono, dai più caratteristici insegnamenti di Cristo. Quest’uomo, miglior cristiano in tutto, tranne che nel senso dogmatico della parola, della maggior parte dei sovrani ostensibilmente cristiani che regnarono poi, perseguitò il cristianesimo. Padrone di tutte le precedenti conquiste dell’umanità, dotato d’una intelligenza aperta e libera e d’un carattere che lo portava a compenetrare nei suoi scritti morali l’ideale cristiano, egli tuttavia non vide che il cristianesimo, coi doveri di cui era così profondamente penetrato, era un bene e non un male pel mondo.

Egli sapeva che la società d’allora era in uno stato deplorevole. Ma per deplorevole che fosse, egli vedeva o credeva di vedere ch’essa non si poteva con sicurezza salvare da uno stato anche peggiore, se non colla fede e col rispetto per gli dei tradizionali. Come sovrano egli si [p. 31 modifica]credeva in dovere di non lasciare che la società si dissolvesse e non vedeva come, se si toglievano i legami esistenti, se ne sarebbero potuti formare degli altri capaci di rattenerla. La nuova religione mirava apertamente a spezzar questi legami; dunque, a meno che non fosse suo dovere di adottar questa religione, sembrava che fosse suo dovere di distruggerla. Dal momento che la teologia del cristianesimo non gli sembrava vera nè d’origine divina, dal momento che egli non poteva credere a questa strana istoria d’un Dio crocifisso, nè prevedere che un sistema riposante su di una simile base avesse l’influenza rinnovatrice che si sa, il più dolce e il più amabile dei filosofi e dei sovrani, guidato da un solenne sentimento del dovere, fu costretto a permettere la persecuzione del Cristianesimo.

A mio vedere, è questo uno dei fatti più tragici della storia. E triste di pensare come avrebbe potuto esser diverso il nostro cristianesimo, se la fede cristiana fosse stata adottata come religione dell’Impero da Marco Aurelio invece che da Costantino. Ma sarebbe ingiustizia e falsità ad un tempo il negare che Marco Aurelio, per punire come fece la propaganda cristiana, abbia avuto dalla sua tutte le scuse che si possono addurre per punire le dottrine anti-cristiane. Un cristiano crede fermamente che l’ateismo sia un errore e un principio di dissoluzione sociale; ma Marco Aurelio pensava lo stesso del Cristianesimo: egli, che di tutti i viventi allora si sarebbe potuto credere il più capace di apprezzarlo. Dunque, ogni avversario della libertà di discussione si astenga dall’affermare, ad un tempo, l’infallibilità propria e quella della moltitudine, come fece con sì miser risultati il grande Antonino, se non si lusinga d’essere più saggio e più buono di Marco Aurelio, più profondamente versato nella sapienza del proprio tempo, d’uno spirito che meglio di quello si elevi sull’ambiente, di maggior buona fede nella ricerca della verità o di più sincero attaccamento alla verità una volta trovata.

Riconoscendo l’impossibilità di difendere le persecuzioni religiose con argomenti che non bastano a giustificare un Marco Aurelio, i nemici della libertà religiosa accettano talvolta, quando sono messi proprio alle strette, questa conseguenza; e dicono col dottor Johnson che i persecutori del cristianesimo erano nel vero, che la persecuzione è una prova cui la verità deve attraversare e attraversa e sempre con successo, dappoichè, alla fin dei conti, le penalità legali sono senza forza contro la verità, sebbene siano talvolta utili contro errori dannosi. Questa forma dell’argomento in favore dell’intolleranza religiosa è notevole abbastanza perchè ci si trattenga un momento.

Una teoria la quale sostiene che è lecito perseguitare la verità, perchè la persecuzione non le fe danno, non si può [p. 32 modifica]accusare d’essere a priori ostile all’accoglimento di verità nuove; ma noi non possiamo lodare la generosità del suo modo d’agire verso le persone a cui la specie umana deve la scoperta di queste verità. Rivelare al mondo qualcosa che lo interessa profondamente e ch’esso fino allora ignorava, provargli ch’esso s’è ingannato su qualche punto vitale del suo interesse temporale o spirituale: ecco il servigio più importante che un essere umano possa rendere a’ suoi simili; e in certi casi, come quello dei primi cristiani o dei riformatori, i seguaci dell’opinione del dottor Johnson credono che si trattasse del dono più prezioso che si potesse fare all’umanità.

Ebbene: secondo una tal teoria, trattare come i più vili delinquenti gli autori di così grandi benefici e ricompensarli col martirio non è un errore e una deplorevole sciagura di cui l’umanità debba fare penitenza col sacco e con la cenere, ma bensì uno stato di cose normale e perfettamente giustificato.

Colui che propone una verità nuova dovrebbe, secondo questa dottrina, presentarsi come faceva presso i Locresi colui che proponeva una nuova legge: con una corda al collo, che si stringeva se per caso la pubblica assemblea, dopo aver sentite le sue ragioni, non adottava immediatamente la proposta. Non si può supporre che le persone che difendono questo modo di trattare i benefattori diano un gran valore al beneficio. Ed io credo che questa maniera di lumeggiar l’argomento appartenga quasi unicamente a gente persuasa che di verità nuove si poteva aver desiderio in altri tempi, ma che ora noi ne abbiamo abbastanza.

Ma sicuramente quest’affermazione che la verità trionfa sempre sulla persecuzione è una di quelle comode bugie che gli uomini si ripetono gli uni agli altri finchè siano passate in luoghi comuni, ma che qualunque esperienza può confutare.

La storia ci mostra costantemente la verità ridotta al silenzio dalla persecuzione; se essa non è soppressa per sempre, può essere ricacciata indietro di secoli.

Per non parlar che di opinioni religiose, la riforma tentò di scoppiare per lo meno venti volte prima di Lutero, e fu ridotta al silenzio. Arnaldo da Brescia, fra Dolcino, Girolamo Savonarola subirono l’estremo supplizio; gli Albigesi, i Valdesi, i Lollardisti, gli Hussiti furono distrutti; anche dopo Lutero, dovunque si seppe persistere nella persecuzione, questa fu vittoriosa; in Ispagna, in Italia, in Fiandra, in Austria il protestantesimo fu estirpato; e probabilissimamente sarebbe accaduto lo stesso in Inghilterra, se la regina Maria avesse vissuto di più, o se la regina Elisabetta fosse morta prima. La persecuzione raggiunse sempre lo scopo, tranne dove gli eretici formavano un partito [p. 33 modifica]troppo potente per essere perseguitato con efficacia. Il cristianesimo — nessuna persona ragionevole può dubitarne — avrebbe potuto essere estirpato dall’impero romano; e se esso si diffuse e divenne predominante fu perché le persecuzioni erano solamente accidentali, non duravano che poco tempo, ed erano separate da lunghi intervalli di propaganda, possiamo dire libera. È pura retorica il dire che la verità, unicamente come tale, possiede una forza intima, che l’errore non ha, di prevalere contro le prigioni e il rogo; gli uomini non hanno più zelo per la verità di quello che, spesso, abbiano per l’errore; ed una sufficiente applicazione di penalità legali o anche soltanto sociali riuscirà il più delle volte ad arrestare il propagarsi sia dell’una sia dell’altro. Il vantaggio reale che la verità possiede consiste in questo: che, quando un’opinione è vera, si può ben soffocarla più volte; essa riappare di continuo nel corso dei secoli, fin quando una delle sue riapparizioni cade in un’epoca in cui, per una serie di circostanze favorevoli, essa sfugge alla persecuzione, per tanto tempo almeno, quanto le basti ad acquistare la forza di poterle resistere più tardi.

Ci si dirà che noi ora non condanniamo più a morte quelli che introducono delle nuove opinioni; non siamo come i nostri padri, che massacravano i profeti: anzi, fabbrichiamo loro dei sepolcri. È vero, noi non mettiamo a morte gli eretici, e tutte le pene che il sentimento moderno potrebbe tollerare, anche contro le opinioni più odiose, non basterebbero ad estirparle. Ma non ci lusinghiamo di essere già sfuggiti all’onta della persecuzione legale! La legge permette ancora delle penalità contro le opinioni o per lo meno contro la loro espressione, e l’applicazione di queste penalità non è una cosa talmente senza esempio che si possa far conto con certezza di non vederle mai rivivere in tutto il loro vigore.

L’anno 1857, alle Assise d’estate della Contea di Cornovaglia, un uomo disgraziato ma di condotta irriprovevole, si dice, in tutte le relazioni della vita fu condannato a venti mesi di carcere per aver pronunciato e scritto su di una porta alcune parole offensive pel cristianesimo2. Un mese dopo, a Old-Bailey, due persone in due occasioni separate, furono rifiutate come giurati3 ed una di esse fu grossolanamente insultata dal giudice e da uno degli avvocati, perchè dichiarò onestamente di non aver alcuna fede religiosa. Per la stessa ragione si rifiutò a una terza [p. 34 modifica]persona, uno straniero4, di fargli giustizia contro un ladro. Questo rifiuto di riparazione ebbe luogo in virtù della dottrina legale che una persona la quale non crede in Dio (non importa in qual Dio) e in una vita futura non può esser ammessa a prestare testimonianza in giudizio; ciò è quanto dichiarare che queste persone sono fuori della legge, private della protezione dei tribunali, e che non soltanto si può farne impunemente la vittima di furti o di vie di fatto, se esse non hanno altri testimoni che sè stessi o gente della loro opinione; ma che anche tutto il mondo deve subire di questi attentati, dal momento che la prova dipende unicamente dalla loro testimonianza. Questo é fondato sulla presunzione che il giuramento di una persona che non crede a una vita futura è senza valore; proposizione che mostra una ignoranza grande della storia in quelli che lo ammettono (poichè è storicamente provato che a tutte le epoche una grande quantità di miscredenti furono uomini di rara integrità ed onorabilità); e per sostener la quale bisognerebbe non sapere neppur lontanamente quante persone riputate nel mondo per le loro virtù e pel loro ingegno siano ben conosciute, almeno dai loro intimi amici, come non aventi alcuna credenza. Questa regola inoltre si distrugge da sè; sotto pretesto che gli atei debbono essere mentitori, essa ammette la testimonianza di tutti gli atei capaci di mentire, e rifiuta soltanto quelli che sfidano la disgrazia di confessare pubblicamente una opinione detestata piuttosto che affermare una menzogna.

Una regola che si abbatte così da sè, dal punto di vista dello scopo che si propone, non può essere mantenuta che come un tributo d’odio, un resto di persecuzione: con questa particolarità, che la ragione per incorrervi è la prova ben certa che non la si merita punto. Questa regola e la teoria ch’essa implica non sono meno offensive per i credenti che pei miscredenti; poichè se colui che non crede ad una vita futura è necessariamente un mentitore, naturalmente quelli che ci credono non sono trattenuti dal mentire — se pure lo sono — che dal timore dell’inferno. Noi non faremo agli autori e ai seguaci di questa regola l’ingiuria di supporre che l’idea ch’essi si sono formata della virtù cristiana sia tratta dalla loro propria coscienza.

In verità, questi non sono che dei lembi e dei resti di persecuzione e si può considerarli non come un indizio del desiderio di perseguitare, ma piuttosto come esempi di una infermità molto frequente negli spiriti inglesi, che fa provare ad essi un piacere assurdo ad affermare un cattivo [p. 35 modifica]principio, anche quando non siano più abbastanza malvagi per desiderare realmente di metterlo in pratica. Ma pur troppo non si può esser sicuri se continuerà o no, nello stato dello spirito pubblico, questa sospensione delle più odiose forme di persecuzione legale, che dura da circa sessant’anni nel nostro secolo, la quieta superficie della routine è turbata da tentativi fatti altrettanto spesso per risuscitare dei mali passati che per introdurre dei beni nuovi.

Quello di cui ora ci si vanta come del rinascere della religione, è sempre almeno altrettanto, negli spiriti angusti ed incolti, il rinascere del fanatismo; e quando c’è nel sentimento di un popolo il lievito permanente e potente d’intolleranza che fermentò in ogni tempo in mezzo alle classi medie del nostro paese, non occorre molto per sospingerlo a perseguitare attivamente quelli ch’essi non hanno mai cessato di considerare degni di persecuzione5.

Poichè sono proprio le opinioni dagli uomini professate e i sentimenti ch’essi nutrono a proposito dei dissidenti, quanto alle credenze stimate importanti, che fanno di questo paese un luogo dove la libertà del pensiero non esiste. Già da molto tempo, l’unico torto delle penalità legali è quello di sostenere e di rafforzare lo stigmate sociale. [p. 36 modifica]Questo stigmate soltanto è veramente efficace; e lo è talmente, che in Inghilterra assai meno di frequente si professano le opinioni messe al bando della società, di quello che in altri paesi si confessino le opinioni che portano per conseguenza punizioni legali. Per tutte le persone, eccettuate quelle che la fortuna ha reso indipendenti dal giudizio degli altri, l’opinione è su questo soggetto altrettanto efficace quanto la legge: gli uomini potrebbero allo stesso modo essere imprigionati che privati dei mezzi di guadagnarsi il pane. Coloro che hanno il pane assicurato, e che non attendono il favore, nè degli uomini al potere, né di alcun corpo, nè del pubblico, non hanno nulla a temere per una dichiarazione franca di non importa quale opinione — salvo che di essere un po’ bistrattati nel pensiero e nelle parole degli altri: per sopportar la qual cosa non occorre loro un grande eroismo: non c’è alcun appello ad misericordiam in favore di tali persone. Ma, sebbene noi non infliggiamo dei mali cosi grandi come un tempo a quelli che come noi non pensano, pure danneggiamo noi stessi come, forse, non abbiamo mai fatto, col nostro modo di trattarli. Socrate fu condannato a morte, ma la sua filosofia si elevò come il sole nei cieli e diffuse la sua luce per tutto il firmamento intellettuale; i cristiani furono dati in pasto a’ leoni, ma la chiesa cristiana divenne un albero magnifico, che superò gli alberi più vecchî e meno vigorosi e li soffocò dell'ombra sua. La nostra intolleranza, puramente sociale, non uccide alcuno, non estirpa alcuna opinione, ma costringe gli uomini a nascondere le loro opinioni o ad astenersi da qualunque sforzo efficace per diffonderle.

Con noi, le opinioni eretiche non guadagnano e neppure perdono molto terreno a ciascuna decade o a ciascuna generazione; ma non brillano mai di vivo splendore, e continuano a covare in quella ristretta cerchia di pensatori e sapienti d’onde esse sono uscite, senza mai projettare sulle cose umane una luce, sia vera, sia falsa. E così si mantiene uno stato di cose soddisfacentissimo per una certa qualità di spiriti, perchè esso conserva tutte le opinioni preponderanti in una calma apparente, senza la spiacevole formalità di condannare alcuno alla multa o alla prigione, mentre non proibisce assolutamente l’uso della ragione ai dissidenti afflitti dalla malattia del pensiero: sistema ottimo per mantener la pace nel mondo intellettuale, e per lasciar che le cose vadano press’a poco col: cosi faceva mio padre. Ma il prezzo di questo modo di pacificazione è il sacrificio completo di tutto il coraggio morale dello spirito umano: uno stato di cose in conseguenza del quale la maggior parte degli spiriti attivi ed investigatori trovano utile di tenere per sè i veri motivi delle loro convinzioni, e si sforzano, parlando in pubblico, di adattare quel che [p. 37 modifica]possono del loro modo di pensare a premesse che, nel loro interno, essi negano, non può produrre di quei caratteri franchi e arditi, di quelle intelligenze logiche e sode che in altri tempi ornarono il mondo dei pensatori. La specie d’uomini che si può attendere sotto questo regime presenta o dei semplici schiavi del luogo comune o dei servitori guardinghi della verità, i cui argomenti sopra tutti i grandi soggetti sono proporzionati al foro uditorio, e non sono quelli di cui essi stessi si appaghino. Gli uomini che evitano questa alternativa ci riescono limitando il loro pensiero è il loro interessamento a quelle cose di cui si può parlare senza arrischiarsi nella region dei principi; cioè ad un piccolo numero di materie pratiche che riescirebbero a grandi cose per sè stesse, se l'intelligenza umana acquistasse forza e vastità, e che non vi riusciranno mai fintanto che quello che rafforzerebbe ed estenderebbe lo spirito umano — un libero ed audace esame dei soggetti più elevati — è lasciato in abbandono.

Gli uomini agli occhi dei quali questo silenzio degli eretici non è un male dovrebbero considerare anzitutto che, in conseguenza di un tal silenzio, le opinioni eterodosse non sono mai discusse e approfondite in modo leale, cosicchè quelle fra esse che non potrebbero sostenere una tale discussione non iscompajono, per quanto forse s’impedisca ad esse di estendersi. Ma non è allo spirito degli eretici che nuoce di più la proibizione di tutte le ricerche le cui conclusioni non sono ortodosse; quelli che ne soffrono di più sono gli ortodossi stessi, il cui sviluppo intellettuale è impacciato e la cui ragione è raffrenata dal timor dell’eresia. Chi può calcolare tutto ciò che il mondo perde con una tale quantità di belle intelligenze alleate a caratteri timidi, che non osano abbandonarsi a un modo di pensare ardito, vigoroso, indipendente, per paura di giungere ad una conclusione irreligiosa o immorale agli occhi di qualcuno? E voi vedete qualche volta un uomo profondamente coscienzioso, d’un’intelligenza sottile e raffinata, che passa la vita a sofisticare colla intelligenza, che egli non può ridurre al silenzio, e che esaurisce tutte le qualità dello spirito per conciliare le inspirazioni della sua coscienza e della sua ragione con l’ortodossia, cosa a cui, dopo tutto, egli forse non riesce.

Nessuno può essere grande pensatore se non considera come suo primo dovere, in qualità di pensatore, di seguire la sua intelligenza dovunque essa lo possa condurre; la società guadagna sempre di più anche dagli errori d’un uomo il quale, dopo lo studio e la preparazione voluta, pensa con la sua testa, che dalle opinioni giuste di quelli che le professano soltanto perchè non si permettono di pensare. Non già che la libertà di pensiero sia necessaria [p. 38 modifica]unicamente o principalmente per formare dei grandi pensatori; anzi, essa è altrettanto ed anche più indispensabile per rendere la media degli uomini capace di raggiungere l’altezza intellettuale che la loro attitudine comporta. Ci sono stati, ci potranno essere ancora dei grandi pensatori individuali in un’atmosfera di generale schiavitù dell’intelligenza; ma non c’è mai stato e non ci sarà mai, in questa atmosfera, un popolo intellettualmente attivo.

Dovunque un popolo ha posseduto temporaneamente questa attività, ciò avvenne perchè il timore delle speculazioni eterodosse era, per qualche poco, sospeso; ma dove è sottinteso tacitamente che i principi non devono essere discussi, dove la discussione delle più grandi questioni che possano occupare l’umanità è considerata come chiusa, non si può certo aspettarsi di trovare quel livello elevato d’attività intellettuale che ha reso così notevoli certe epoche della storia. Mai lo spirito di un popolo fu rinnovato fino dai fondamenti, mai fu dato l’impulso che eleva anche gli uomini dell’intelligenza più ordinaria alla dignità di esseri pensanti, là dove la discussione evitava gli argomenti vasti ed importanti abbastanza per suscitar l’entusiasmo. L’Europa ne ha viste parecchie, di queste epoche brillanti: la prima, subito dopo la Riforma; un’altra, sebbene limitata al continente ed alla classe più colta, durante il movimento speculativo della seconda metà del secolo decimottavo, ed una terza, di durata ancora più corta, nel fermento intellettuale di Germania, al tempo di Goethe e di Fichte. Queste tre epoche differiscono enormemente quanto alle opinioni particolari ch’esse svilupparono, ma si rassomigliano in questo: che, durante tutte e tre, il giogo dell’autorità fu spezzato; durante ciascuna di esse, un vecchio dispotismo intellettuale era stato detronizzato e non era ancora stato sostituito da uno nuovo. L’impulso dato da ciascuna di queste tre epoche ha fatto dell’Europa ciò ch’essa è ora; qualunque progresso si è prodotto, sia nello spirito, sia nelle instituzioni umane, risale in modo evidente all’una o all’altra di queste epoche; ma tutto, da qualche tempo, accenna a dimostrare che questi tre impulsi hanno quasi perduta la forza loro e che noi non possiamo attenderci un nuovo slancio, prima di aver di bel nuovo conquistata la nostra libertà intellettuale.

Passiamo ora alla seconda parte dell’argomento. Abbandonando l’ipotesi che le opinioni comunemente accettate possano essere false, ammettiamo ch’esse siano vere, ed esaminiamo che cosa valga la maniera in cui probabilmente saranno professate, se la loro verità non è liberamente ed apertamente combattuta.

Per quante difficoltà abbia una persona a riconoscere la possibilità che un’opinione a cui essa è fortemente [p. 39 modifica]attaccata sia falsa, dovrebbe però esser colpita dall’idea che, per vera che sia quest’opinione, la si considererà come un dogma morto e non come una verità viva e vitale, se non la si può discutere completamente, arditamente e di spesso.

C’è una classe di persone (fortunatamente non proprio così numerosa come un tempo) a cui basta che gli altri si schierino fra i loro seguaci, anche quando essi non conoscano punto i motivi di questa opinione e siano incapaci di difenderla contro le obbiezioni più superficiali. Quando tali persone sono giunte a far insegnare dall’autorità il loro credo, esse pensano naturalmente che dal permetterne la discussione non può derivare che male. Dovunque domina la loro influenza, rendono quasi impossibile di confutare con saggezza e cognizione di causa l’opinione comune, sebbene si possa ancora confutarla inconsideratamente e con ignoranza, poichè impedire completamente la discussione è impossibile; e se essa giunge a farsi strada, alcune credenze che non sono fondate sulla persuasione cederanno facilmente davanti alla più leggiera parvenza d’argomento. Ora, pure escludendo anche questa possibilità, pure ammettendo che l’opinione vera rimanga nello spirito; se essa vi rimane allo stato di pregiudizio, di credenza che non iscaturisce da un’argomentazione nè dalla prova di una argomentazione, non è questo il modo con cui un essere ragionevole deve professare la verità. La verità così professata non è che una superstizione di più che per caso si appiccica a parole enuncianti una verità.

Se l’intelligenza e il giudizio della specie umana debbono essere coltivati — una cosa che almeno i protestanti non negano — queste facoltà non si possono meglio esercitare che su argomenti i quali interessano l’uomo tanto da vicino, da ritenersi necessario per lui di avere delle opinioni in proposito. Se la coltura del nostro giudizio deve preferire l’una piuttosto che l’altra cosa, preferirà sopratutto di conoscere i motivi delle nostre opinioni. Tutto quel che pensa sopra argomenti intorno ai quali il pensar giusto è della massima importanza, si dovrebbe almeno saper difendere contro le obbiezioni comuni. Qualcuno per altro ci dirà forse: «S’insegnino pure agli uomini i motivi delle loro opinioni. Poichè non si sono mai sentite discutere, non se ne può dedurre che esse saranno nella memoria soltanto e non nell’intelligenza. Coloro che imparano la geometria non fanno che imparare i teoremi, ma comprendono ed imparano al tempo istesso le dimostrazioni: e sarebbe assurdo dire che essi rimangono ignoranti dei principi delle verità geometriche perchè non li sentono mai negati e neppure discussi.» Senza dubbio alcuno, un insegnamento di questo genere basta per un argomento come le scienze matematiche, in cui nulla affatto vi è a [p. 40 modifica]dire sul lato falso della questione. Quello che ha di particolare l’evidenza delle verità matematiche è che gli argomenti sono tutti da una parte: non v’è obbiezioni, non v’è risposta alle obbiezioni. Ma in qualunque soggetto sul quale è possibile una divergenza di opinioni, la verità esce da un equilibrio, che si dee conservare, tra due sistemi di ragioni contraddittorie. Anche nella filosofia naturale c’è sempre qualche diversa spiegazione possibile dei medesimi fatti: qualche teoria geocentrica in luogo di una teoria eliocentrica, la teoria del flogistico in luogo della teoria dell’ossigeno; e bisogna dimostrare perchè quest’altra teoria non possa esser la buona, e, finché non sappiamo come ciò si dimostri, noi non intendiamo i motivi della nostra opinione. Ma se poi ci volgiamo a soggetti infinitamente più complicati, alla morale, alla religione, alla politica, alle relazioni sociali e agli affari della vita — tre quarti degli argomenti in favore di ciascuna opinione discussa consistono nel distruggere le apparenze che militano per l’opinione opposta. Secondo la sua testimonianza, il secondo fra i grandi oratori dell’antichità studiava sempre la causa del suo avversario con attenzione uguale, se non maggiore, di quella con cui studiava la propria: ciò che Cicerone faceva per ottenere un successo nel foro, deve essere imitato da quanti studiano un argomento, a fine di arrivare alla verità. L’uomo che non conosce se non il suo proprio parere, conosce ben poco; le sue ragioni possono anche esser buone, e può darsi che nessuno sia capace di confutarle: ma se egli è ugualmente incapace di confutare le ragioni della parte avversaria, s’egli non le conosce neppure, non ha motivo per preferire un’opinione all’altra. La sola cosa razionale che quest’uomo possa fare è di sospendere il suo giudizio; ove non si contenti di questo, egli o è guidato dall’autorità, o adotta, come accade in generale, la parte verso cui si sente più inclinato. E non basta che un uomo ascolti gli argomenti dei suoi avversari dalla bocca de propri maestri, presentati e posti come vogliono costoro e accompagnati da ciò ch’essi danno per confutazione; non è questo il modo di dar buon giuoco a questi argomenti o di mettere il proprio spirito in vero contatto con essi. Si devono ascoltare dalla bocca di quelle stesse persone che ci credono, che li difendono in buona fede e con tutte le loro forze si devono conoscere sotto le loro forme più plausibili e più persuasive; si deve sentire in tutta la sua forza la difficoltà che rende complicato, arruffato il soggetto messo in tutta la sua luce. Altrimenti facendo, mai un uomo possiederà quella parte di vero che sola è capace di affrontare e vincere le difficoltà.

Il novanta per cento dei così detti uomini colti, anche di quelli che possono correntemente discutere delle loro [p. 41 modifica]idee, si trovano in questa bizzarra condizione. La loro conclusione può esser vera, ma potrebbe anche esser falsa senza ch’essi lo sospettassero; essi non si sono messi mai nella posizione mentale di quelli che pensano altrimenti da loro e non hanno mai meditato ciò che tali persone avrebbero a dire di conseguenza essi non conoscono, nel vero senso di questa parola, la dottrina che professano; non conoscono le parti della loro dottrina che spiegano e giustificano il resto, le considerazioni che mostrano come due fatti in apparenza contraddittori siano conciliabili, o come di due ragioni che sembrano fortissime ambedue, l’una debba esser preferita all’altra. Tali uomini sono estranei a tutta quella parte di verità che, per uno spirito davvero illuminato, è quella che grava sulla bilancia e decide il giudizio. Del resto, quelli soltanto conoscono realmente che hanno ascoltato le due parti con imparzialità e che si son provati a vederne le ragioni sotto la forma più evidente. Questa disciplina è tanto essenziale ad una giusta comprensione dei soggetti morali ed umani, che, se per le verità importanti non esistono avversari, si devono imaginare e fornir loro gli argomenti più forti che mai possa trovare il più abile «avvocato del diavolo».

Per diminuire la forza di queste considerazioni, forse un nemico della libera discussione dirà: «Non è necessario per l'umanità in generale di conoscere e di comprendere tutto quello che può esser detto pro e contro le sue opinioni dai filosofi e dai teologi; non è indispensabile per la comune degli uomini di poter confutare tutti gli errori e tutti i sofismi d’un abile avversario: basta che vi sia sempre qualcuno capace di rispondere affinchè sia confutato tutto quello che potrebbe ingannare le persone incolte. Gli spiriti ordinari, conoscendo i principi evidenti delle verità ch’essi professano, possono, pel resto, fidarsi dell’autorità; essi non hanno punto e lo sanno bene la scienza e l’ingegno necessari a risolvere tutte le difficoltà che si potrebbero elevare: e la sicurezza che queste possono esser risolte da coloro che se ne occupano di proposito deve bastare alla loro tranquillità.» Anche accordando a questo modo di pensare tutto quello che in suo favore possono domandare coloro a cui non è gran sacrificio credere la verità senza comprenderla perfettamente, i diritti dell’uomo alla libera discussione non ne sono per nulla indeboliti; poichè, secondo questa stessa dottrina, l’umanità dovrebbe avere la ragionevole sicurezza che a tutte le obbiezioni si è risposto in modo soddisfacente. Ora, come si può ad esse rispondere, se non se ne deve parlare? O come si può sapere che la risposta è soddisfacente, se coloro che sollevano obbiezioni non hanno potuto dire che essa non lo era? I filosofi e i teologi che debbono [p. 42 modifica]risolvere le difficoltà, se non il pubblico, dovranno prendere dimestichezza con tali difficoltà sotto la loro forma più terribile, e per questo occorre che le si possano esporre liberamente e mostrare sotto il loro aspetto più vantaggioso.

La Chiesa cattolica tratta a suo modo questo imbarazzante problema: tracciando una linea di demarcazione bene spiccata tra quelli che debbono accettare le sue dottrine come materia di fede e quelli che le possono adottare per convinzione. In realtà, essa non permette ad alcuno di fare una scelta di ciò che egli accetterà; ma il clero, là almeno ov’esso merita la sua piena fiducia, ha licenza, ed anzi si fa un merito, col prender conoscenza degli argomenti degli avversari affine di rispondere ad essi: può per conseguenza leggere i libri eretici: i laici non lo possono senza uno speciale permesso, ottenuto assai difficilmente. Questa disciplina considera come utile agli insegnanti di conoscere la causa avversa, dando così all’élite più coltura di spirito, se non maggiore libertà, che alla massa. Con questo mezzo, essa riesce ad ottenere quella specie di superiorità intellettuale che a raggiungere il suo scopo si richiede; poichè, sebbene la coltura senza la libertà non abbia mai fatto uno spirito vasto e liberale, pure si può ottenere un abile nisi prius avvocato d’una causa. Ma questo vantaggio è negato ai paesi che professano il protestantesimo, poiche i protestanti sostengono, in teoria almeno, che la responsabilità della scelta di una religione deve pesare su ogni individuo, e non può essere rigettata sugl’insegnanti. Del resto, nello stato presente del mondo, è praticamente impossibile che le opere lette dalle persone colte siano ignorate dagli altri. Se gl’institutori dell’umanità devono essere competenti su tutto quello ch’essi son tenuti a sapere, deve essere anche permesso di tutto scrivere e di tutto pubblicare liberamente.

Tuttavia se, quando le opinioni comunemente accette son vere, l’assenza della libera discussione non cagionasse altro male tranne quello di lasciar gli uomini nella ignoranza dei principi di tali opinioni, si potrebbe considerarla come un male non morale, ma semplicemente intellettuale e che non tocca per niente il valore delle opinioni quanto alla loro influenza sul carattere. Ma la verità è che l’assenza di ogni discussione fa dimenticare non soltanto i principi, ma troppo spesso il senso medesimo dell’opinione; le parole che l’esprimono cessano di suggerire delle idee, o suggeriscono soltanto una piccola parte di quelle che originariamente sapevan fornire. In luogo di una concezion forte e di una credenza vivente, non resta che qualche frase ritenuta per abitudine, o, se si ritiene qualcosa del significato, è soltanto il guscio e la scorza: la più pura intima essenza va perduta. La grande importanza che questo fatto ha nella storia degli uomini non sarà mai troppo seriamente studiata e meditata. [p. 43 modifica]

Lo si vede nella storia di tutte le dottrine morali e di tutte le credenze religiose. Piene di vita e di significato per quelli che le creano e pei, discepoli immediati dei creatori, esse continuano ad esser comprese altrettanto chiaramente, se non più, finchè dura la lotta per dare alla dottrina o alla credenza la supremazia sulle altre. Alla fine, o essa la vince e divien l’opinione dominante, o il suo progresso si arresta: essa conserva il terreno conquistato, ma cessa di estendersi quando l’uno o l’altro di questi due risultati è divenuto evidente, la controversia sul soggetto diminuisce e s’estingue gradualmente. La dottrina ha preso il suo posto, se non come un’opinione accetta all’universale, almeno come una delle sette o delle divisioni d’opinioni tollerate: quelli che la professano l’hanno, in generale, ereditata e non l’hanno adottata; ed essendo divenute allora fatti eccezionali le conversioni da una ad altra dottrina, i loro seguaci si danno ben poca pena per convertire. In luogo d’essere, come da principio, costantemente sul chi vive, sia per difendersi contro il mondo, sia per conquistarlo, essi sono giunti ad una inerte fiducia, e mai, finchè possono, ascoltano degli argomenti contro la loro credenza, nè incalzano i dissidenti (se ve ne sono) con argomenti in favore di essa. Da questo istante si può di solito datare il principio della decadenza del potere vivente di una dottrina.

Noi sentiamo spesso quelli che insegnano le credenze religiose lamentare la difficoltà di far nascere nello spirito dei credenti una concezione viva della verità che essi nominalmente riconoscono, in modo che questa possa influire sui loro sentimenti e avere un reale impero sulla loro condotta. Nessuno si lagna certo di tale difficoltà finchè la credenza lotta ancora per istabilirsi; allora i più deboli combattenti sanno essi pure e sentono lo scopo della lotta, e conoscono il divario che vi è tra le loro dottrine e le altrui. Così pure si può, in quest’epoca in cui la credenza vive, trovare un numero di persone che ne abbiano effettuato i principi fondamentali sotto tutte le forme del pensiero, che li abbiano esaminati e pesati sotto tutti i loro aspetti importanti, e che abbian provato, quanto al carattere, tutto l’effetto che la fede in tale dottrina doveva produrre su di uno spirito profondamente di essa penetrato. Ma quando essa è passata allo stato di credenza ereditaria ed è accettata passivamente e non attivamente, quando lo spirito non è più così strettamente obbligato a concentrare tutte le sue facoltà sulle questioni che la sua credenza gli pone, v’è una tendenza crescente a non ritenere che le formule della credenza stessa o anche a darvi un assenso inerte e indifferente. Si crede che lo accettarla come materia di fede esoneri dal praticarla in coscienza o dal farne la prova colla esperienza personale; e infine viene un momento in cui [p. 44 modifica]ogni rapporto quasi dispare tra questa credenza e la vita interiore dell’essere umano. Allora si vede, ciò che è quasi generale oggi, la credenza religiosa rimanere, per così dire, all’estremo dello spirito, pietrificata oramai contro tutte le altre influenze che s’indirizzano alle parti elevate della nostra natura; essa manifesta il suo potere coll’impedire a qualunque convinzione nuova e vivente di penetrarvi; ma non fa, di per sè, per lo spirito e pel cuore, null’altro che stare di guardia per conservarli vuoti.

Si può vedere fino a qual punto le dottrine in sè capaci di produrre la più profonda impressione sullo spirito possano restarvi allo stato di credenze morte, senza mai essere comprese dall’imaginazione, dal sentimento o dall’intelligenza, quando si esamina come la maggioranza dei credenti professa il cristianesimo. Io intendo qui per cristianesimo ciò che è tenuto per tale da tutte le chiese e da tutte le sette: le massime e i precetti contenuti nel Nuovo Testamento. Tutti i cristiani professanti li considerano come sacri e li accettano come legge; tuttavia, è la pura verità che non c’è forse un cristiano su mille che diriga o giudichi la sua condotta individuale secondo queste leggi: il modello a cui ciascuno d’essi s’inspira è il costume della propria nazione, classe o setta religiosa. E così egli ha, da una parte, una raccolta di massime morali che la divina saggezza, secondo lui, si è degnata di trasmettergli come regola di condotta; e dall’altra un insieme di giudizio e di pratiche abituali che s’accordano abbastanza bene con qualcuna di queste pratiche, meno bene con qualche altra, che sono direttamente opposte ad altre ancora, e che formano insomma un mezzo termine tra la credenza cristiana e gli interessi e le suggestioni della vita del mondo. Al primo di questi modelli il cristiano presta il suo omaggio; al secondo la sua vera obbedienza.

Tutti i cristiani credono che i poveri, gli umili, quanti insomma il mondo bistratta, sono ben felici; ch’è più facile a un camello passare per la cruna d’un ago di quello che sia ad un ricco entrare nel regno de’ cieli; che non devono giudicare per timore d’esser giudicati essi stessi; che non devono giurare; che devono amare il prossimo come sè stessi; che se alcuno si prende il loro mantello, essi devono dargli anche la loro veste; che per essere perfetti devono vendere tutto quello che hanno e darlo ai poveri.

I cristiani non mentono quando dicono di credere a queste cose: vi credono come a cose che hanno sempre sentito lodare e mai sentito discutere. Ma, se per fede vivente s’intende quella che è regola di condotta, essi credono a queste dottrine appunto per quel tanto che si ha l’abitudine di agire seguendole. Le dottrine, nella loro integrità, hanno il loro pregio per lapidare gli avversari, ed è [p. 45 modifica]sottinteso che le si devono citare, per quanto è possibile, come i motivi di tutto quello che gli uomini fanno o credono fare di lodevole: ma chi ricordasse loro che queste massime esigono una quantità di cose che essi non pensano e non penseranno mai di fare, non vi guadagnerebbe che d’esser posto nel novero di quelle persone impopolari che affettano d’essere migliori degli altri. Le dottrine non hanno nessuna presa sui credenti ordinari, nessun potere sui loro spiriti; essi hanno un rispetto abituale pel suono delle dottrine, ma non già il sentimento che dalle parole va al fondo delle cose, costringendo lo spirito a prendere quest’ultime in considerazione, e tenerle come base di condotta.

Tutte le volte che si tratta di condotta, gli uomini si guardano intorno per sapere da A, o da B, fino a che punto essi debbano obbedire a Cristo.

Noi possiamo star sicuri che tutto l’opposto accadeva tra i primi cristiani; se fosse stato allora come oggi, mai il cristianesimo sarebbe divenuto, da setta oscura d’un popolo disprezzato, la religione ufficiale dell’Impero. Quando i loro nemici dicevano: «Vedete come i cristiani si amano gli uni gli altri,» (osservazione che nessuno, evidentemente, oggi farebbe) i cristiani sentivano certo più vivamente la portata della loro credenza di quel che in qualunque tempo dappoi. Ed è senza dubbio per questo che il Cristianesimo fa oggidì così scarsi progressi e si trova, dopo diciotto secoli, press’a poco limitato agli Europei e ai discendenti degli Europei. Accade sovente, anche alle persone rigorosamente religiose, a quelle che prendono le loro dottrine sul serio e che vi attribuiscono maggior significato di quanto in generale si fa, d’aver presente allo spirito in modo attivo solamente quella parte della dottrina, aggiunta da Calvino o da Knox o da qualche altra simile persona d’un carattere più analogo al loro: gli insegnamenti di Cristo coesistono passivamente nel loro spirito, producendovi un effetto appena superiore a quello della meccanica audizione di parole così dolci. Vi sono senza dubbio molte ragioni perchè le dottrine che stanno sulla bandiera d’una setta particolare abbiano una vitalità maggiore di quella delle dottrine comuni a tutte le sette riconosciute, e perchè coloro che tali dottrine insegnano si diano maggior cura per inculcarne tutto il significato; — ma la ragion principale è che queste dottrine sono più discusse, e debbono più spesso difendersi contro aperti avversari.

Dacchè non v’è più nemico a temere, e quelli che insegnano e quelli che imparano possono, al loro posto, addormentarsi.

Lo stesso è vero in generale trattandosi di qualunque dottrina tradizionale: quelle di prudenza e di conoscenza della vita così come quelle di morale o di religione. Tutte [p. 46 modifica]le lingue e tutte le letterature abbondano di osservazioni generali sulla vita e sul modo di comportarvisi; osservazioni che ciascuno conosce, che ciascuno ripete o ascolta pienamente consentendo, che si ritengono assiomatiche, e di cui tuttavia in generale non s’impara il vero significato che quando l’esperienza li trasforma per noi in realtà, e quasi sempre a nostre spese. Quante volte una persona, provando un dolore o un contrattempo, non si ricorda qualche proverbio o qualche motto che glie lo avrebbe risparmiato, s’egli ne avesse sempre così bene compreso il significato! Ad onor del vero, per questo vi sono altre ragioni oltre l’assenza di discussione; vi sono molte verità di cui non si può comprendere il senso che quando l’esperienza personale ce l’ha insegnato. Ma anche di quelle il significato sarebbe stato più o meno compreso, se l’uomo fosse stato avvezzo a sentir discutere il pro e il contro dai competenti. La fatale tendenza della specie umana a lasciar da parte una cosa dacché essa non è più messa in dubbio ha causata la metà dei suoi errori: un autore contemporaneo ha descritto bene il sonno profondo d’un’opinione fatta, e fermata nel suo cammino.

«Ma dunque» ci chiederà qualcuno «l’assenza di unanimità è una condizione indispensabile al vero sapere? È necessario che una parte di umanità persista nell’errore perchè l’altra possa comprendere la verità? È una credenza cessa d’esser vera e vitale non appena generalmente accettata? È una proposizione non è mai completamente compresa e sentita, se non si conserva, a proposito di essa, qualche dubbio? E una verità, insomma, perisce non appena gli uomini l’hanno accettata all’unanimità? Il consentimento sempre più generale ed unanime degli uomini alle verità importanti fu sempre considerato come lo scopo più elevato e come il più notevole progresso dell’intelligenza: questa dunque ha una durata insufficiente ad attinger lo scopo? E proprio la pienezza della vittoria è quella che distrugge i frutti della conquista?»

Io non affermo nulla di questo. A misura che l’umanità progredisce, il numero delle dottrine che non son più soggetto di discussione né di dubbio aumenta costantemente e il benessere della umanità si può quasi commisurare al numero e all’importanza delle verità divenute incontestabili. La cessazione su di un punto, poi su di un altro, di qualunque seria controversia è una delle condizioni necessarie al consolidarsi dell’opinione; una consolidazione altrettanto salutare trattandosi di un’opinione giusta, quanto pericolosa e dannosa trattandosi di opinioni errate. Ma, sebbene questa diminuzione graduale delle divergenze di opinioni sia in tutta la forza della parola, necessaria, dappoiché essa è ad un tempo inevitabile e indispensabile, noi non siamo [p. 47 modifica]obbligati a concluderne che tutte le sue conseguenze debbano essere salutari.

La necessità di spiegare o di difendere costantemente una verità ajuta così bene a comprenderla in tutta la sua forza, che questo vantaggio, se non supera, per lo meno uguaglia quasi quello del riconoscimento universale di questa verità.

Io confesso che vorrei vedere, là dove un tale vantaggio più non esiste, gl’institutori della specie umana cercare di sostituirlo; io vorrei si creasse qualche mezzo di rendere le difficoltà della questione altrettanto presenti allo spirito degli uomini quanto lo farebbe un avversario bramoso di convertirli.

Ma, in luogo di cercare simili mezzi, essi hanno perduto quelli che avevano in altri tempi: uno di tali mezzi era la dialettica di Socrate, di cui Platone ci dà nei suoi dialoghi degli esempi così magnifici.

Era essenzialmente una discussione negativa delle grandi questioni della filosofia e della vita, condotta con una consumata abilità, che si proponeva di mostrare a un uomo il quale avesse adottato semplicemente i luoghi comuni della opinione ammessa, ch’egli non intendeva il soggetto, che non aveva ancora dato alcun senso definito alle dottrine da lui professate; affinchè, illuminato sulla sua ignoranza, egli potesse cercar di farsi una solida credenza, basata su di una concezione netta e del significato e dell’evidenza delle dottrine. Le dispute delle scuole del medio evo avevano uno scopo press’a poco simile. Si voleva con tal mezzo aver la prova che l’allievo comprendeva l’opinione sua propria e (per una necessaria correlazione) l’opinione opposta, e ch’egli sapeva sostenere i motivi dell’una e confutare quelli dell’altra. Queste ultime dispute avevano, in verità, il difetto irrimediabile di trarre le loro premesse non dalla ragione, bensì dall’autorità: e, come disciplina dello spirito, esse erano sotto tutti i rispetti inferiori alla possente dialettica che formò l’intelligenza dei socratici viri; ma lo spirito moderno deve ad ambedue queste scuole assai più di quello ch’egli generalmente voglia riconoscere, e i diversi modi d’educazione d’oggidì non contengono nulla che possa punto punto sostituirsi all’una o all’altra. Una persona che ha ricevuto tutta la sua coltura dai profèssori o dai libri, anche se sfugge alla tentazione solita di contentarsi d’imparare senza comprendere, non è per nulla obbligata a conoscere tutte e due le faccie d’un soggetto. E rarissimo, anche tra i pensatori, che si conosca a questo punto un argomento in ambedue le sue parti; e la parte più debole di quello che ciascuno dice per difendere la sua opinione è quello ch’esso destina come replica a’ suoi avversari. Oggi è di moda sprezzare la logica negativa, quella [p. 48 modifica]che indica i punti deboli in teoria o gli errori in pratica, senza stabilir delle verità positive.

Certo, una tal critica negativa sarebbe triste come risultato finale; ma come mezzo di ottenere una conoscenza positiva o una convinzione veramente degna di questo nome, non si può mai stimarla abbastanza. E finchè gli uomini non vi siano di nuovo sistematicamente avviati vi saranno ben pochi grandi pensatori e il livello medio delle intelligenze sarà poco elevato per tutto ciò che non è matematiche o scienze fisiche. Su qualunque altro soggetto, le opinioni di un uomo non meritano il nome di conoscenze se non in quanto egli abbia seguito, o spontaneamente o per forza, il cammino intellettuale che gli avrebbe fatto seguire un’attiva opposizione degli avversari. Si vede dunque quanta assurdità vi sia nel rinunciare, quando s’offre spontaneamente, a un vantaggio che è cosi indispensabile, ma così difficile a creare quando manchi: se vi sono quindi persone che contestano una opinione ammessa comunemente o che lo faranno se la legge o l’opinione lo permette loro, ringraziamole, ascoltiamole, e rallegriamoci con noi stessi perchè qualcuno fa per noi quello che altrimenti (se noi appena appena diamo qualche importanza alla certezza o alla vitalità delle nostre opinioni) noi stessi dovremmo fare con molto maggiore incomodo.

Ci resta ancora a parlare d’una delle cause principali che rendono vantaggiosa la diversità d’opinioni. Questa causa sussisterà finche l’umanità sia entrata in uno stadio di progresso intellettuale che sembra, per ora, ad una incalcolabile distanza. Noi non abbiamo finora esaminato che due ipotesi: 1.° l’opinione ammessa può essere falsa e, di conseguenza, qualche altra opinione vera; 2.° l’opinione ammessa è vera, e una lotta tra essa e l’errore opposto è indispensabile ad una concezione netta e ad un profondo sentimento della sua verità. Ma accade più spesso ancora che le dottrine in contraddizione, invece d’essere l’una vera e l’altra falsa, si dividano la verità: allora l’opinione dissidente è necessaria per fornire il resto della verità di cui la dottrina comunemente ammessa non possiede che una parte. Le opinioni popolari su qualunque cosa che non cada sotto i sensi sono spesso vere, ma non lo sono quasi mai completamente: esse contengono una parte di verità (talvolta più, talvolta meno rilevante), ma esagerata, sfigurata, e separata dalle verità che la dovrebbero accompagnare e limitare. D’altra parte, le opinioni eretiche contengono generalmente qualcuna di queste verità soppresse e trascurate che, spezzando le loro catene, o cercano di riconciliarsi colla verità convenuta nell’opinione comune, l’affrontano come nemica e di fronte ad essa si elevano, affermandosi in una maniera esclusiva così come la stessa [p. 49 modifica]verità. Il secondo caso è stato fino ad oggi il più frequente perchè lo spirito umano è più generalmente esclusivo che liberale: onde, di consueto, anche nelle rivoluzioni dell’opinione, una parte della verità si oscura mentre ne viene in luce un’altra. Il progresso medesimo che dovrebbe sempre più accrescere il patrimonio della verità non fa, nella maggior parte dei casi, altro se non sostituire una verità parziale ed incompleta ad un’altra; e il miglioramento consiste semplicemente nell’essere il nuovo frammento di verità piu necessario, meglio adatto al bisogno del momento di quello a cui si sostituisce. Tale il carattere parziale delle opinioni dominanti, anche quando riposino su una base giusta: dunque, qualunque opinione che rammenti qualche poco della parte di verità dalla opinione comune trascurata, dev’esser considerata preziosa, per grandi che siano gli errori a cui tale verità può andar congiunta. Nessun uomo sensato si vorrà indignare perchè quelli che ci obbligano a notare delle verità che altrimenti noi avremmo trascurato ne trascurano poi dal canto loro qualcuna di quelle che noi scorgiamo. Egli dirà piuttosto che, dal momento che l’opinione pubblica è così fatta che non vede della verità se non una parte, è desiderabile che le opinioni impopolari siano proclamate da apostoli non meno esclusivi, perché sono di solito i più energici e i più capaci d’attirare, suo malgrado, l’attenzione del pubblico sul frammento di saggezza ch’essi esaltano, come se fosse la saggezza tutta quanta.

È così che nel secolo XVIII i paradossi di Rousseau fecero un’esplosione salutare in mezzo ad una società in cui tutte le classi erano in profonda ammirazione davanti al così detto incivilimento e davanti alle maraviglie della scienza, della letteratura, della filosofia moderna, e non si paragonavano agli antichi che per mettersi al di sopra di loro.

Rousseau rese il servizio di spezzare la massa compatta della cieca opinione e di forzare i suoi elementi a ricostituirsi sotto una forma migliore e con parecchie aggiunte. Non già che le opinioni ammesse fossero, tutto sommato, più lontane dalla verità di quelle di Rousseau; al contrario, esse vi erano più vicine, e contenevano più verità positiva e meno assai di errori. Nulladimeno, c’era nelle dottrine di Rousseau, ed è passato nell’opinione comune, un gran numero appunto di quelle verità di cui l’opinion popolare avea bisogno; e così esse continuarono a sussistere. Le qualità superiori della vita semplice, l’effetto snervante e immorale delle pastoje e delle ipocrisie d’una società artificiale sono idee che, da Rousseau in poi, non hanno mai completamente abbandonato gli spiriti colti; esse produrranno il loro effetto, sebbene, pel momento, abbiano ancora bisogno d’essere proclamate con atti; poichè le parole su questo argomento hanno oramai quasi esaurita la loro potenza. [p. 50 modifica]

D’altra parte, è riconosciuto in politica che un partito d’ordine o di stabilità e un partito di progresso o di riforma sono i due elementi necessari d’uno stato fiorente, finchè l’uno o l’altro dei partiti abbia talmente estesa la sua potenza intellettuale da saper essere ad un tempo partito d’ordine e partito di progresso, conoscendo e distinguendo quel che si deve conservare e quel che si deve distruggere. Ognuna di queste maniere di pensare trae profitto dai difetti dell’altra; ma è principalmente la loro mutua opposizione che le mantiene entro i limiti della sana ragione.

Se non si può esprimere con uguale libertà, sostenere e difendere con uguale ingegno e con uguale energia tutte le opinioni che si contendono il terreno della vita pratica, siano poi esse favorevoli alla democrazia o all’aristocrazia, alla proprietà privata o all’uguaglianza economica, alla cooperazione o alla concorrenza, al lusso o all’astinenza, allo stato o all’individuo, alla libertà o alla disciplina; non v’è alcuna probabilità che i due elementi ottengano ciò che loro è dovuto; è sicuro che uno dei piatti della bilancia traboccherà. La verità, nei grandi interessi pratici della vita, è sopratutto una questione di combinazione e di conciliazione degli estremi; e poichè pochissimi uomini hanno abbastanza criterio ed imparzialità sufficiente per fare questo accomodamento in modo più o meno corretto, così talvolta esso deve compiersi col proceder violento di una lotta tra combattenti sotto bandiere nemiche. Se, a proposito d’una delle grandi questioni che abbiamo enumerato testè, un’opinione ha maggior diritto dell’altra ad essere non soltanto tollerata, ma anche incoraggiata e sostenuta, è la più debole. Ecco l’opinione che, pel momento, rappresenta gl’interessi trascurati, il lato del benessere umano che è in pericolo di ottener meno della parte che gli spetta. Io so che tra noi son tollerate le opinioni più varie sulla maggior parte di tali materie: e ciò prova con esempi numerosi e non equivoci l’universalità di questo fatto: che nello stato attuale dello spirito umano tutta la verità non può farsi strada che traverso la diversità d’opinioni. Quando si trovano delle persone che non partecipano affatto all’apparente unanimità del mondo su di un soggetto, è probabile che, se anche il mondo avesse ragione, questi dissidenti abbiano a dire per altro in loro favore qualcosa che merita d’essere ascoltato, e che pel loro silenzio la verità ci rimetta qualcosa.

Si può fare l’obbiezione seguente: «Ma qualcuno dei principi comunemente ammessi, sopratutto sui soggetti più elevati ed essenziali, è qualcosa di meglio d’una mezza verità. La morale cristiana, per esempio, contiene la verità tutta quanta, e se qualcuno insegna una morale diversa, è completamente in errore.» Poichè questo è uno dei casi più importanti in pratica, nulla di meglio per [p. 51 modifica]mettere alla prova la massima generale. Ma, prima di decidere quello che sia o non sia la morale cristiana, sarebbe desiderabile di fissare che cosa per morale cristiana s’intenda. Se s’intende la morale del Nuovo Testamento, io mi meraviglio che qualcuno che trae da questo stesso libro la sua dottrina possa supporre che esso sia stato concepito od annunciato come una dottrina completa di morale. L’Evangelo si riferisce sempre ad una morale preesistente, e limita i suoi precetti ai punti particolari in cui questa morale dev’esser corretta o sostituita da un’altra più vasta ed elevata; inoltre, esso si esprime sempre nei termini più generali, che bene spesso non si possono letteralmente interpretare ed hanno il colore della poesia o dell’eloquenza piuttosto che la precisione della legge. Non si è mai potuto estrarne un corpo di dottrina morale, senza aggiungervi il Testamento Vecchio, un sistema cioè elaborato per dire il vero, ma barbaro sotto molti rapporti, e fatto solamente per un popolo barbaro. San Paolo, nemico dichiarato di questa maniera giudaica d’interpretar la dottrina e di compiere lo schizzo dal suo maestro abbozzato, ammette egli pure una morale preesistente, quella dei Greci e dei Romani, e consiglia ai cristiani di venire con essa quasi ad un accomodamento, fino al punto di sanzionare in apparenza la schiavitù. Quel che si chiama morale cristiana, ma che si dovrebbe piuttosto chiamare morale teologica, non è per nulla opera di Cristo nè degli apostoli: essa ha una data più recente, è stata messa gradatamente insieme dalla Chiesa cristiana dei primi cinque secoli; e, sebbene i moderni e i protestanti non l’abbiano implicitamente accettata, pure essi l’hanno modificata meno di quel che si sarebbe poturo aspettarsi. A vero dire, la maggior parte si è contentata di rintracciare le aggiunte che v’erano state fatte nel medio evo, e ciascuna setta le sostituì con aggiunte nuove, più conformi al suo carattere e alle sue tendenze. Io non pretendo punto di negare tutto quello che la specie umana deve a questa morale e a coloro che pei primi la bandirono; ma oso dire però che essa è in molti punti incompleta ed esclusiva e che, se idee e sentimenti ch’essa non sanziona non avessero contribuito alla formazione della vita e del carattere europeo, le cose umane sarebbero ora a ben peggior partito di quel che sono. La così detta morale cristiana ha tutti i caratteri d’una reazione; è in gran parte una protesta contro il paganesimo. Il suo ideale e negativo piuttosto che positivo, passivo piuttosto che attivo, l’innocenza piuttosto che la grandezza, l’astensione dal male piuttosto che l’energica ricerca del bene; nei suoi precetti, come è stato benissimo osservato, il: tu non farai domina eccessivamente sul: tu farai. Nel suo orrore per la sensualita essa ha fatto un idolo dell’ascetismo, e quindi, per un [p. 52 modifica]compromesso graduale, della legalità; essa considera la speranza del cielo e il timor dell’inferno come le spinte di una vita virtuosa; e restando in questo ben al di sotto dei saggi dell’antichità, fa ciò che può per dare alla morale umana un carattere essenzialmente egoista, separando i sentimenti di dovere presso ciascun uomo dagl’interessi dei suoi simili, tranne che quando un motivo interessato lo conduca ad avervi riguardo. È essenzialmente una dottrina di passiva obbedienza; inculca la sommessione a tutte le autorità costituite; o cioè alle autorità non vuole si obbedisca attivamente quando esse comandino ciò che la religione proibisce; ma non si deve resister loro, meno ancora ribellarsi, per ingiuste ch’esse siano. E mentre nella morale delle migliori nazioni pagane i doveri del cittadino verso lo stato tengono un posto sproporzionato ed usurpano il campo della libertà individuale, nella morale puramente cristiana questa gran parte dei nostri doveri è appena ricordata o riconosciuta. Nel Corano e non nel Nuovo Testamento noi leggiamo questa massima: Un governante che nomina un uomo ad un impiego, quando c’è nei suoi stati un altr’uomo più degno di occuparlo, pecca contro Dio e contro lo Stato. Se l’idea d’obbligo verso il pubblico è giunta a farsi strada nella morale moderna, essa è stata attinta non al Cristianesimo, ma ai Greci ed ai Romani. Allo stesso modo, quello che c’è nella morale privata di magnanimità, di elevazione di spirito, di dignità personale, e direi anche di senso d’onore proviene non dalla parte religiosa, ma dalla parte puramente umana della nostra educazione, e non avrebbe mai potuto essere frutto di una dottrina morale che non riconosce del merito se non nell’obbedienza.

Io sono ben lontano dall’affermare che questi difetti siano necessariamente inerenti alla dottrina cristiana, qualunque sia la forma in cui la si concepisce, o anche dall’affermare che quanto le manca per essere una dottrina completa sia con essa inconciliabile; e tanto meno pretendo d’insinuar questo a proposito delle dottrine e dei precetti di Cristo stesso. Io penso che le parole di Cristo sono chiaramente tutto quello che han voluto essere; ch’esse non sono inconciliabili con nulla di quanto è richiesto da una morale completa; che vi si può far rientrare tutto quanto v’è di eccellente in fatto di dottrine morali senza violentarne il significato più di quello che abbiano fatto quanti hanno tentato di dedurne un qualunque sistema di pratica condotta. Ma credo nello stesso tempo — e non sono con questo in contraddizione — ch’esse non contengano nè volessero contenere se non una parte della verità.

Io credo che, nei suoi precetti, il fondatore del cristianesimo abbia a bello studio trascurati molti elementi [p. 53 modifica]essenziali della più alta morale, che la Chiesa cristiana ha completamente rifiutati, nel sistema di morale ch’essa ha basato su queste stesse istruzioni; e, dato questo, io considero un grande errore quello di voler trovare nella dottrina cristiana una regola completa di condotta che il suo fondatore non ha voluto particolareggiar tutta quanta, ma solamente sanzionare ed appoggiare. Credo anche che questa angusta teoria divenga praticamente un male gravissimo, diminuendo assai il valore della educazione e della istruzione morale che tante persone ben intenzionate si sforzano d’incoraggiare. Temo forte che tentando di formare lo spirito e i sentimenti su di un tipo esclusivamente religioso e lasciando da banda quei modelli secolari (se l’espressione mi è permessa) che stavano a lato della morale cristiana e la integravano mescolando il loro spirito al suo non ne sia per risultare un tipo di carattere basso, abbietto, servile, capace forse di sottomettersi a quello ch’egli crede la volontà divina, ma non di elevarsi alla concezione della divina bontà e di provare per essa un’alta simpatia. Credo che un’altra morale oltre a quella puramente cristiana debba esistere a lato di questa per produrre la rigenerazione morale dello spirito umano; e, secondo me, il sistema cristiano non fa eccezione alla regola generale che, dato uno stato d’imperfezione dello spirito umano, gl’interessi della verità esigono la diversità d’opinioni.

Non è necessario che, cessando d’ignorare le verità morali non contenute nel cristianesimo, gli uomini debbano ignorare qualcuna di quelle che esso contiene. Un tal pregiudizio o un tale errore, quando si verifica, è senza dubbio un male; ma è un male da cui noi non possiamo sperare d’essere sempre esenti, e che deve considerarsi come il prezzo di un bene inestimabile. Si deve protestare contro la pretesa esclusiva che una parte della verità eleva di essere la verità tutta quanta; e se una reazione rendesse ingiusti alla lor volta quelli che protestano, questo acciecamento può, come l’altro, esser deplorato, ma deve esser tollerato.

Se i cristiani volevano insegnare ai pagani ad esser giusti verso il cristianesimo dovevano cominciare essi pei primi ad esser giusti verso il paganesimo. E un rendere dei cattivi servizi alla verità il perder di vista questo fatto, ben noto a quanti hanno la minima nozione di storia letteraria, che una gran parte dell’insegnamento morale più nobile ed elevato è stata l’opera non già d’uomini che non conoscevano, ma di uomini che conoscevano e non accettavano la fede cristiana. Io non sostengo già che l’uso più illimitato della libertà di esprimere tutte le opinioni possibili metterebbe fine ai mali dello spirito settario in religione o in filosofia; tutte le volte che uomini di mente angusta credono in buona fede una verità, si è sicuri di vederli a proclamarla, inculcarla ed [p. 54 modifica]anche spesso agire secondo la loro convinzione, come se al mondo non ci fossero altre verità, o almeno nessun’altra che potesse limitare o modificare la prima. Io riconosco che la più libera discussione non è un ostacolo alla tendenza, che ogni opinione ha, di divenir settaria; che anzi, al contrario, essa spesse volte l’aumenta, la fa più acre; perchè si respinge con violenza tanto maggiore la verità fino allora inavvertita, in quanto essa è proclamata da persone considerate avversarie.

Ma non è sul partigiano appassionato, è sullo spettatore più calmo e disinteressato che questo cozzo delle opinioni produce il suo effetto salutare. Non è la lotta violenta tra le parti diverse della verità il male da temere; bensì la soppressione tranquilla d’una metà del vero. Vi è sempre speranza quando gli uomini sono obbligati ad ascoltare le due parti; è quando essi non s’occupano se non di una che i loro errori si mutano in pregiudizi e la verità esagerata e falsata cessa di aver gli effetti della verità. E poichè nulla in un giudice è tanto raro quanto la facoltà di dare un giudizio sensato in una causa in cui egli non ha sentito perorare che un avvocato, la verità non può sperar di farsi strada che se ogni opinione, la quale racchiuda qualcuna delle sue parti, trovi degli avvocati, e degli avvocati capaci di farsi ascoltare.

Noi abbiamo dunque così riconosciuta la necessità pel benessere intellettuale della specie umana (d’onde dipende il suo benessere morale e materiale) della libertà di opinione e della libertà di discussione: e questo per quattro distinte ragioni che ora brevissimamente riassumeremo: 1.° una opinione che si ridurrebbe al silenzio può benissimo essere vera: negare questo, è quanto affermare la propria infallibilità; 2.° quando anche l’opinione ridotta al silenzio fosse un errore, essa potrebbe, come nella maggior parte dei casi avviene, contenere una parte di verità: e poichè l’opinione generale o dominante su qualsivoglia soggetto è raramente o non mai tutta la verità, non v’e mezzo di conoscerla per intero se non col cozzo delle opinioni avverse; — 3.° anche nel caso in cui l’opinione dominante contenesse la verità e tutta la verità, essa sarà professata come una specie di pregiudizio, senza comprendere o sentire i suoi principi razionali, se non può esser discussa vigorosamente e lealmente; — 4.° il significato stesso della dottrina sarà in pericolo di perdersi o indebolirsi o vedersi privato del suo effetto vitale sul carattere e sulla condotta; poichè il dogma diverrà una semplice formula che, inefficace pel bene, ingombra il terreno e impedisce il formarsi di qualunque convinzione reale fondata sulla ragione o sulla personale esperienza.

Prima di lasciare questo soggetto della libertà di opinione è bene prestare orecchio un istante a quelli che dicono: [p. 55 modifica]«Si può permettere di esprimere liberamente qualunque opinione, purchè lo si faccia con moderazione e non si passino i limiti della discussione leale.» Si potrebbe parlare a lungo sulla impossibilità di fissare questi supposti limiti. Non è affatto possibile dire: basta non offendere coloro di cui si oppugna l’opinione, perchè — e l’esperienza lo prova — essi si considereranno come offesi tutte le volte che l’attacco sarà potente, ed accuseranno di mancar di moderazione tutti gli avversari che daran loro da pensare. Ma questa considerazione, per quanto importante sotto l’aspetto pratico, sparisce davanti ad una obbiezione più fondamentale. Senza dubbio alcuno, il modo di proclamare una opinione, anche giusta, può essere molto riprovevole e provocare a giusta ragione una severa censura; ma le principali offese di questo genere sono tali che il più delle volte è impossibile, tranne che per una confessione accidentale, giungere a dimostrarle.

La più grave di queste offese è discutere in una maniera sofistica, sopprimere dei fatti o degli argomenti, esporre inesattamente gli elementi di fatto o snaturare l’opinione avversaria. Ma persone che non sono ritenute e che, sotto molti altri rispetti, non meritano punto d’esser ritenute ignoranti o incompetenti, agiscono a questo modo, magari con la massima gravità, così spesso e con tanta buona fede, che è raramente possibile di potere, in coscienza e con sufficienti ragioni, dichiarare moralmente colpevole una falsa esposizione; e la legge potrebbe tanto meno tentar d’incriminare questo vizio di polemica.

Quanto poi a ciò che s’intende comunemente per discussione intemperante: le invettive, il sarcasmo, le personalita, ecc., ecc., la denuncia di questi modi di procedere meriterebbe più simpatia se si pensasse almeno a proibirli ugualmente alle due parti; invece non si desidera se non restringerne l’uso all’opinione dominante. Che un uomo l’impieghi contro le altre opinioni, ed è sicuro non soltanto di non esser biasimato, ma d’esser anche lodato pel suo onesto zelo e per la sua giusta indignazione. Tuttavia il male che questi mezzi di discussione possono produrre non è mai così grande come quando se ne fa uso contro opinioni relativamente indifese; e l’ingiusto profitto che un’opinione può trarre da questa maniera di affermarsi ridonda quasi unicamente a vantaggio delle opinioni comunemente ammesse.

La peggior offesa di questo genere che in una polemica si possa commettere è di vituperare come uomini pericolosi ed immorali quelli che professano l’opinione contraria alla nostra. Gli uomini che professano un’opinione impopolare sono specialmente esposti a tali calunnie, perchè in generale sono poco numerosi e punto influenti e nessuno [p. 56 modifica]s’interessa di veder loro resa giustizia; ma, per la natura delle cose, di quest’arma non si possono valere quelli che dàn l’assalto ad una opinione dominante; essi correrebbero un pericolo personale a servirsene e, quand’anche pericolo non vi fosse, non farebbero così se non screditare la loro causa. In generale le opinioni opposte alle opinioni dominanti non giungono a farsi ascoltare che usando un linguaggio studiatamente temperato, ed evitando con la massima cura ogni inutile offesa: esse non possono, senza perder terreno, menomamente deviare da questa linea di condotta; mentre al contrario gl’insulti senza misura indirizzati dall’opinione dominante alle opinioni contrarie allontanano realmente gli uomini da queste. Perciò, nell’interesse della verità e della giustizia, è importante sopratutto di proibire l’uso del linguaggio offensivo e, per esempio, se si dovesse scegliere, sarebbe molto più necessario riprovare gli attacchi insultanti contro le libere credenze che quelli contro la religion di Stato. È tuttavia evidente che nè la legge nè l’autorità non debbono occuparsi d’impedire gli uni o gli altri; e che il giudizio dell’opinione deve determinarsi, in ogni occasione, colle contingenze del caso particolare.

Si deve condannare ogni uomo, senza riguardo alla parte dell’argomento da cui si metta, nelle cui parole faccia capolino o la mancanza di buona fede, o la malignità, o la bigotteria, o l’intolleranza di sentimento.

Ma non bisogna accusar di questi difetti i nostri avversari perchè sono i nostri avversari; e si deve rendere onore a quella persona, qualunque sia il partito cui essa appartiene, che ha la calma di scorgere e l’onestà di riconoscere che cosa sono in realtà i suoi avversari e le loro opinioni, non esagerando nulla di ciò che li può danneggiare, non nascondendo nulla di ciò che loro può riuscir di vantaggio.

Ecco la vera moralita della pubblica discussione, e, se essa è soventi volte violata, io sono lieto di pensare che vi son molti polemisti che la osservano a un grado altissimo, ed un numero più grande ancora che coscienziosamente fanno ogni sforzo per giungere ad osservarla.



fine del capitolo secondo

Note

  1. Queste parole erano appena scritte, quando, quasi per dar loro una solenne smentita, sopravvennero le persecuzioni del governo contro la stampa, nel 1858. Questo sconsigliato intervento nella libertà della pubblica discussione non mi ha indotto a mutare una sola parola del testo; e non ha punto affievolito la mia convinzione che salvo nei momenti di panico l’epoca delle penalità per le discussioni politiche era passata nel nostro paese. Infatti, anzitutto non si perseverò nelle persecuzioni; e inoltre non si trattò mai di persecuzioni politiche, nello stretto senso della parola: l’offesa rimproverata non era di aver criticato le instituzioni, o gli atti, o le persone dei governanti; ma bensi d’aver propagato una dottrina ritenuta immorale, la legittimità del tirannicidio.
  2. Tommaso Pooltey, assise di Bodmin, 31 luglio 1857; nel seguente mese di dicembre, ottenne la grazia sovrana.
  3. Giorgio Giacobbe Holyake, 17 agosto 1857; Edoardo Truelowe, luglio 1857.
  4. Barone di Gleichem, corte di polizia di Marlborough-Street, 4 agosto 1857.
  5. Tutta la passione di persecuzione che si è mescolata, durante la rivolta degli Indiani, al generale dispiegarsi delle parti più cattive del nostro carattere nazionale, ci offre qui un grande insegnamento. I furori dei fanatici e dei ciarlatani del pergamo non sono, forse, degni di nota; ma i capi del partito evangelico hanno enunciato come loro principio di governo per gli Indiani e per i Maomettani che nessuna scuola in cui la Bibbia non sia insegnata deve essere sovvenzionata dallo stato, e che nessun impiego pubblico deve essere accordato a chi non è cristiano o non si dà per tale. Un sotto-segretario di stato, in un discorso diretto ai suoi elettori, il 25 novembre 1857, si esprimeva, stando ai resoconti, così: “Il governo inglese, tollerando la loro fede (la fede di 100 milioni di sudditi britannici), la superstizione ch’essi chiamano religione, non ha ottenuto altro risultato che di ritardare la supremazia crescente del nome inglese, e d’impedire la salutare diffusione del cristianesimo.„ La tolleranza è stata la pietra angolare delle libertà del nostro paese: ma non bisogna ingannarsi su questa preziosa parola. Nel modo con cui l’intendeva il sotto-segretario di stato, significava la completa libertà per tutti, l’affrancamento del culto — fra i cristiani, che hanno un culto fondato sulle stesse basi; significava la tolleranza di tutte le diverse sette di cristiani che credono però in un solo mediatore. Io desidero richiamare l’attenzione su questo fatto, che un uomo stimato degno di occupare un impiego elevato nel governo del nostro paese, sotto un ministero liberale, afferma questa dottrina: che non si ha diritto alla tolleranza quando non si crede alla divinità di Cristo. Dopo lo sciocco discorso che abbiamo testè riportato, chi può credere ancora che le persecuzioni religiose siano per sempre finite?