La Leonora
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V
LA LEONORA
Ragionamento sopra la vera bellezza di MESSER GIUSEPPE BETUSSI Melazzo, non quello che nel resino di Sicilia appresso Messina si truova, ché d’un altro ora intendo parlarvi, è un picciolo castello edificato sulle fertili colline, fertili piú per industria umana che per beneficio di natura, che con monticelli, «lanche» nomate, confinano; le quali sotto il marchesato di Monferrato, non lontane dalle montagne di Genova e di Savona, sono passaggio a molti viandanti per diversi paesi. Questo luogo fu giá possessione della famiglia de’ Visconti, prencipi di Milano, e, da loro alienato molti anni sono, divenne proprio ed ereditario de’ signori di casa Falletta, i quali origine traggono da Aleramo, e sono padroni nel Piemonte di Villa Falletta e di molte altre castella. In Melazzo adunque, dilettevolissimo luogo, benché da pochi conosciuto, venni io a dare di capo l’anno mille cinquecento e cinquanta due, piú da beneficio di fortuna, quasi che contraria, che da propria volontá guidato. Dove, da’ signori Giovan Francesco e Giovan Giorgio, fratelli, e dalla signora Leonora, figlia di monsignor Della Croce e ben veramente degna pianta del ceppo Ravoiro, e consorte del signor Giovan Giorgio, padroni di detta terra, onorato ed accarezzato, non solamente fui costretto porre amore a quel luogo, ma eziandio per qualche giorno a piacere fermarmi ; dove confesserò che, per quel tanto che appresso quella rara e divina signora conversai, non altra vita felice mi sento aver provata! Percioché la gravitá de’ suoi candidi costumi è una norma delle nobili donne, la virtú sua è sopra umana, l’ingegno ammirabile e la prudenzia meravigliosa. Ma non solo perciò mi glorio, come anco per la ricreazione di piacevoli trastulli, che sinora mi giovano a ricordare. Attento
che non si lasciava ora, che bene compartita non fusse in que’ piú dilettevoli, utili ed onesti essercizi che si possono imagi nare; bene e spesso per quelle colline tra que’ vepri e tra que’ cespugli facendo levare e fuggire le paurose lepri, e con velocissimi e sagacissimi cani, dopo lungo corso, riportandone preda. Talora lungo quella dilettosa valle, dove il fiume Ere e la Bormia al contrario l’una dell’altra correno: percioché il primo, bagnando tutta quella valle, non si ferma sino a tanto che nel mare di Liguria non mette capo; l’altra, congiungendosi col Tanaro e poi col Po, al mar d’Adria rende il suo tributo. Né questo credo che ad altro fine la providenzia divina e la natura abbia operato che, fino per la voce di questi fiumi, per piú parti che per una sola del mondo siano diffusi e sparsi gli onori della magnanima Leonora; a cui non l’ago, non la tela né il fuso, propri essercizi delle donne, fu arte né industria, ma la vera cognizione delle scienzie fu desiderio, la vaghezza della poesia compagna, la istoria maestra della vita, le muse nodrici, Apollo guida, e Parnaso ricetto. E, lá dove l’altre per lo piú tra l’avarizia, tra l’ozio e tra le cose quiete sogliono essere allevate, ella tra la cortesia, tra gli studi e tra le cose celesti sta sempre involta. Ma, tornando lá dove mi sono partito, dico che talora per quelli fiumi il nostro tempo era speso in turbare il grato riposo a’ pesci. Spesso ancora, quando per questo giardino e quando per quello, a divisare sopra la virtú delle erbe e de’ semplici l’ore erano dispensate. Oltre questo, a’ sciocchi augelli tendendo molte volte insidie, i lunghi giorni si facevano brevi. Ma pochi erano quei di che, per fuggir l’ozio, nemico degli animi nobili e virtuosi, e l’estremo del caldo a’corpi sani contrario, con uno o con un altro libro non istessimo all’ombra d’alcuno dilettoso albero tra que’ fioriti prati, leggendo i detti e le sentenzio de’ piú saggi e cercando, al meglio che puote umano intelletto, apprendere il vero delle cose terrene e conoscere l’incompren sibile delle celesti; il che di qualche utile e grato ragionamento spesse fiate ci era cagione. E di qui avvenne, accioché cosí grato principio si tosto non avesse a mancare, ch’io mi facessi poi per molti mesi patria Savona. Quivi adunque essend’io
spesso avezzo, e per consolazione della grata compagnia e per la tranquillitá dell’aere, volontariamente venire, occorse che l’istesso anno, nel mese di maggio, passando di Piemonte in Lombardia il da me non mai a bastanza lodato e riverito signor Anton Galeazzo Bentivoglio, fece la via di Savona. Al quale, si come d’amore e d’affezzione non cedo a qual altro sia che l’ami, desiderando quanto piú m’era concesso tener compagnia, volli che facesse il camino di Melazzo, e fin ivi seco andare anch’io; dove, la mattina seguente che arrivammo, accade che dolcissima e suavissima compagnia si aggiunse. Percioché il signor Bernardo Capello, raro e celebratissimo non meno per le rare virtú che per gli ottimi costumi, essendosi condotto per pigliar Tacque de’bagni d’Acqui, anticamente dette «Statilie», non lontani da Melazzo piú che due miglia, venne a far riverenzia ed a voler conoscere questa divina donna. In compagnia del quale essendoci il conte Annibai Lambertini, bolognese, spirito pronto e vivace, e chiarissimo per nobiltá e per cortesia, ed il signor Giovan Tomaso Arena, napoletano, giovane di buone lettere e di gentilissime maniere, i quali tutti per simile affare in quelle parti si trovavano, doppiamente fu cara la sua venuta. E, per aver dissegnato dianzi la signora che, per quel giorno, a pranzo si dovesse andare ad un altro suo castelletto, non piú che mezo miglio lontano, dopo debite accoglienze e grati ragionamenti con tre si nobili e virtuose persone avuti, rivolta al signor Bernardo, cosí disse: — Per felicissimo giorno, signor Capello, terrò questo d’oggi, e, si come gli egizi facevano, con bianchissima pietra potrò segnarlo; perché, se la felicitá di questo secolo maggiormente non consiste in altro che nel dispensare queste poche ore di vita, che peregriniamo, lontani dalle conversazioni volgari, per levarci dalle sensualitá terrene come meglio poteva abbattermi io che in voi? Nella vita del quale, per esser stata bersaglio d’ingiusta fortuna, specchiandomi e dalle cui parole, che sono norma di somma constanzia verso la patria, pigliando essempio, potrò dalla fallacia del mondo sapermi schermire e meglio apparare le vie di assequir tanto Però non vi sia noia, ancor che la sodisfazzione vostra intiera
non ci fosse, per contentezza nostra farci grazia di voi per tutt’oggi a un luogo qui vicino, acciò anco al signor Anton Galeazzo non incresca cosí afatto la sterilitá di questo paese, al quale io piú che tanto non so dar vaghezza. Ad ogni modo, questo non vi può essere d’impedimento per la vostra cura. Né mi rivolgerò molto a pregare di ciò il signor conte Annibaie né il signor Giovan Tomaso, perché confido essi non aver a volere che quel tanto che piacerá a voi. — Qui dagli due confermato questo, il signor Bernardo, non meno cortesissimo che virtuosissimo, vinto dalle dolci parole e dalle reali maniere di questa divina signora, compiacque alle sue dimande. Cosi, apprestato il tutto, ché giá il sole colle forze sue incominciava montare, messaci la via lentamente tra piedi, eccetto che il signor Bernardo, che, per la gravezza del corpo e per la maturezza degli anni, sali a cavallo, tutti insieme col signor Giovan Giorgio, col conte Massimiano da Coo cremonese, e con un giovine bassanese (di quel Bassano, il quale sopra la Brenta, non lontano da’ monti Euganei, è edificato, a differenzia degli altri di questo nome) e con alcuni altri gentiluomini che quivi allora si trovavano, ci aviammo verso quel luogo chiamato San Crescenzio, che dirimpetto a Melazzo, oltre l’Ere, sopra un colle, il quale non dalla natura, ma dall’arte maestrevolmente pare d’intorno intagliato, è posto. Cosi piacevolmente, non senza qualche dolce ed onesto motto, latta quella salita, rimanendo ognuno di noi stupido d’una cosí dilettevole vista, di dove si scuoprono molte castella, molte ville, molti monti, molte valli e molte pianure e molti fiumi, senza alcuno impedimento contrario, dopo preso alquanto di grato riposo, data l’acqua alle mani, a mensa sedemmo. E, s’egli non fosse che la splendidezza di questa bene unita e magnanima coppia è oggimai chiarissima in molti luoghi, direi che non altrimenti in Apolline soleva cenare Cuculio di quello che noi ivi desinammo, né al corpo si diede niuna ricreazione che all’animo medesimamente non si porgesse, colle parole, qualche cibo soave. Cosi, dato fine a quello e levate le tavole, disse la signora Leonora: — Tempo ora non è d’altro essercizio che di alcuno trastullo dell’animo, e qui, fino di gran
lunga passato il merigge, ogni cosa che a nobile ed a virtuosa compagnia può appartenere si ha a fare, eccetto che dormire; perché, stando noi oziosi in questi luoghi, il sonno si partirá dalle proprie spelunche d’Arabia per venire ad assalirci. — E che devremo adunque far noi — rispose il signor Giovan Giorgio — per ovviare a questo? — Pigliò subito la parola il conte Massimiano, il quale sempre aveva qualche dolce arguzia in bocca, e soggiunse: — Fate come le lepri. Tenete gli occhi aperti, ché, se bene elle cosí dormono, v’assecuro che il sonno non vi potrá tradire. — Oh, bella invenzione del piovano Arlotto! — replicò ridendo il signor Giovan Giorgio. — Sapete voi di meglio? — Cosi, fattolo alquanto arrossire, levandosi tutti da mensa, ci ritirammo in un picciolo prato, tutto attorniato di molti vaghi arbuscelli, che con l’ombre lor grate invitavano a posare ognuno che vi s’appresentava, aggiungendovi un lento mormorare d’una limpida fonte, che da quel colle scendeva e veniva ad irrigare una gran parte di quei piano. Quivi posti come in cerchio e lasciato parte degli altri chi a giuocare a tavole e chi a goder il rezo, non essendo ognuno disposto a voler restare senza dormire: — E di quale direm noi? — disse il signor Giovan Giorgio. Subito rispose il conte Massimiano: — Di quella che mi fa morire. — Oh, come voi sèie sempre sul motteggiare! — soggiunse la signora. — Non, per Dio! — replicò egli — ch’io dico da dovero; e questo è il peggio, che non mi si crede, e non vorrei mai d’altro parlare che di lei, né ad altro penso maggiormente che a lei. — Si — disse il signor Giovan Giorgio, — quando d’altro non vi soviene. — Or non piú, noiosi che voi séte! — dissella. — Oggi, poiché in compagnia abbiamo quel raro uomo, il quale tanto tempo ho desiderato conoscere e sempre ho onorato — accennando al signor Bernardo — si ha a ragionare di qualche bella e degna materia ch’egli ci proponga e poi ci la dichiari. — Rivolgendosi allora a quella il signor Capello : — Ringraziovi — disse, — gentilissima signora, dell’onore che mi date e della openione che di me avete. E volesse Dio che sofficiente mi conoscessi a’ vostri desidèri ! Ècci il signor Anton Galeazzo, che d’armi e di valorositá, di cortesia, d’amore e di
bellezza e di mill’altre opere virtuose vi può proporre. Ècci il virtuosissimo signor Giovan Tomaso, quasi fertile giardino delle invenzioni. Ècci il nostro bassanese, da me per altro tempo d’ingegno elevatissimo conosciuto. Ècci il conte Annibai Lambertini, spirito di prontezza e d’acutezza e di vivacitá, da non esser posposto ad altro e ch’io doveva ricordar prima. Ècci il conte Massimiano, il signor Giovan Giorgio e questi altri signori, i quali tutti piú di me sanno, e meglio di me possono sapere, qual materia piú possa aggradire a cosí nobile compagnia. Ci sete voi infine, signora, che tal saggio a tutto ’l mondo avete dato delle opere e delle virtú vostre, ch’io dir non saprei da quall’altra academica scola meglio si potesse apprendere che dalla voce e dagli scritti vostri. Siate adunque voi sola che a noi commandiate o ci porgiate materia da ragionare. — In questo, da modesto rossore tinta, la signora, e chinando gli occhi, rispose: — In cosí ottima openione potrei io felicissima chiamarmi, quando parte di corrispondenza ci conoscessi. Ma sia il nostro bassanese quello che oggi questo peso di vostro commandamento mi levi. — Quel giovane, senza aspettare altra risposta, il quale fino allora taciuto avea, disse: —So che la modestia di ciascuno di questi signori, non per avarizia de’ tesori che in sé tengono rinchiusi, ma per non si mostrare arroganti, l’uno sopra l’altro mandarebbe il peso del principio d’alcuno ragionamento. Però, conoscendo io quanto acquisto si può far oggi, e la perdita irrecuperabile che dalla dilazzione può seguire, parmi, ora che tra si virtuosa e bella compagnia ed in cosí bellissimo luogo siamo, che fuor di proposito non fusse a ripigliare il ragionamento che l’altrieri sopra la vera bellezza, e mortale e divina, incominciò la signora Leonora. Percioché ora ci sono di quelli che potranno aprirci mille belli segreti. Né molto difficile sará oggi che ognuno di noi ne possa parlare, e ritrovare il vero, e cose che altri non hanno saputo investigare. Perché della mortale ne averemo essempio ed oggetto dinanzi agli occhi, mirando la bella e reai sembianza della celeste signora nostra. Della immortale, dal bello animo suo piglieremo la forma, col inezo del cui raro intelletto faremo
quella scala che ci guiderá fino al seggio degli angeli, e piú su, fino in grembo a Dio. — Dianzi — rispostila— il signor Bernardo, ora voi, signor mio, con lodi che punto in sé non hanno di veritá, incominciate travagliarmi. Percioché, se pure il desio vostro è che oggi sia il bello ragionamento nostro di bellezza, e che bisogno ci sia, per sollevarsi da terra, d’alcuno oggetto che ci infiammi, a voi particolarmente non può mancare suggetto. Io potrei a voi essere se non debile e picciolissima scala per condurvi punto in alto, perché, quale io mi sia e come fatta questa mia spoglia, il mio specchio punto non m’inganna. Vero è, tutto che io sia terrena e frale, non resta però in me cosí spenta la ragione, ch’io non cerchi, come Socrate nell’orazione sua pregava, e non mi sforzi divenir bella. Ma, se pure, come ora vi diceva, con oggetto mortale alla divina ed immortale bellezza penetrare volete, toglietevi innanzi per ispecchio l’essempio di una Livia Torniella Bonromea, tanto commendata e riverita dal Betussi e come idolo sua adorata, in cui, si come egli afferma ed io di piú gli credo, si può vedere quanto di bello Iddio puote in animo infondere, quanto di saggio in mente puote locare e quanta virtú in umano intelletto dal cielo discendere. In questa specchiatevi, e non in me, di poco o di niun valore. Similmente per guida potete pigliarvi, ché pure fra tutte so che per principale scelta la avete, in Pavia, la signora Alda Torella Lunata, la cui bella spoglia e la cui reai presenza non solo dá meraviglia e fa ral legrare ognuno, ma si conosce cosí bene unita col bello animo che dentro le è riposto, che di gran lunga avanza la openione di ciascuno. Perché in lei fioriscono le grazie, in lei la onestá fa ricetto, in lei le virtú albergano, e in lei, insomma, quanto si può in donna valorosa e nobile desiderare, si vede riposto. Né mai potè avversa fortuna, con infinite sue, dirò, crudeli percosse cosí abbatterla, ch’ella sempre non si sia mostrata resistente. Queste due, ché piú per ora non ne voglio ricordare, e simili altre, delle quali voi, piú che io, avete conoscenza ed infinite volte v’ ho udito mentovare, siano elette per guida di cosí bel ragionamento; ché, se pur di ciò aggrada a questa
onoratissima compagnia che oggi si ragioni, facendovi di me oggetto, tosto verrebbe meno il parlare della bellezza... — E qual piú soave ragionamento — disse, interrompendo la signora, il signor Anton Galeazzo — può farsi oggi di questo? Perché non può esser di meno che il bello non si conosca per mezo dell’amore, e lo amore per mezo della bellezza, onde di due perfezzioni verrassi a ragionare ed a partecipare, né credo che ciò a veruno di noi abbia a spiacere. — Cosi è — rispose il conte Annibaie. — Ma, poiché sotto il velo di due cosí belle spoglie, quali ci ha per essempi proposte la signora Leonora, ella ha figurato gran parte del bello, che umanamente e divinamente può adornare nobile donna, questo carico tutto a lei si converrebbe. Tanto piú (e questo voglio pur poter dire anch’io, e mi sia ammesso, signora), ch’io ve ne veggio ricca posseditrice e so che il vero se n’udirebbe. — Ringraziovi, signor conte, ed infinito obligo per ciò mi vi sento — soggiuns’ella. — Questa è una delle cortesie che piú volte di voi m’ha predicato il Betussi. Bella creanza di cavalleria è la vostra! Me, povera donnicciuola, sola ed inesperta delle cose del mondo, non che di quelle del cielo, volere tutti voi insieme, e ciascuno da per sé, travagliare!
— E, voltasi verso il marito: E voi, signor mio — disse, — ve ne state cheto, quasi che l’interesse di me non sia proprio e commune di voi ancora. — Non, non — risposagli, — voi non mi ci correte nel mezo di tanti ad oppormi per voi. Voi dovevate avertir prima di non ci venire senza buona scorta. Men male è che essi tutti siano d’intorno voi con le parole, che ad amendue con le parole e co’ fatti. — Buono aiuto, a fé mia, mi porgete!
— aggiunse la signora. — Dove io sperava la luce, mi vengono le tenebre. — Poiché ognuno vi dá il torto — disse il conte da Coo — voi oggi converrete fare a modo altrui. — E che! nelle giurisdizzioni mie — rispostila — mi si ha ad usar forza? — Non v’è mio né tuo né suo, — aggiuns’egli. — Qui s’ha a vivere alla filosofica tirannide, e s’ha a giuocare che le piú voci vincano. — Parlò allora il signor Giovan Tomaso Arena, dicendo:
— E quando ognuno vi avesse ad essere contrario, il signor Bernardo, i! signor Anton Galeazzo ed io, benché sia di poca
e debile esperienzia al paragone di loro tre, saremo sempre a vostra difesa. E vi prometto, ché ora lo mi diceva il signor Capello, ch’egli si sforzerá d’esser valoroso guerriero per voi. Si che, signora, pigliate arditamente la disiata impresa, ché, qual reina e padrona nostra, dritto è che v’ascoltiamo come oracolo. E, accioché non sia piú chi ardisca oggi travagliarvi, ina possiate di noi ora per sempre disporre, in segno d’osservanzia e d’obedienzia, vi creamo tutti per reina nostra. — E, subito levandosi da sedere, corse ad un vicino e giovinetto lauro, il quale, come se avesse avuto in sé lo spirito della bella figlia di Peneo, si può dire da se medesimo piegando i teneri rami, lasciò uno levarne, di cui fattane ghirlanda, con bella riverenzia, ne cinse i biondi ed annellati crini della signora, felice d’esser per piú d’un merito e d’una virtú degna di cosí gradito onore, il quale è piú da stimare che non sono le corone d’oro. Poiché anticamente si legge, ed oggidí si vede, che i re e gli imperadori ne’ trionfi, lasciando le pregiate per gli ori e per le gioie, di queste fiondi sacrate a Febo ed a’ poeti adornano le loro chiome. Visto questo dal signor Giovan Giorgio, festosamente accostandosele, disse: — Madama la reina, mentre che séte in stato, ricordatevi anco di me e fatemi del bene. — Oh, Dio buono, Dio buono! — rispose il conte Massimiano — se voi, che oggi abbiamo fatto reina, non fate me vostro agozzino, parnh vedere che non si dará principio ad alcuno ragionamento. Ma, se mi date autoritá ch’io possa mettere prigione il signor Giovan Giorgio, che si, che si, che gli altri staranno queti. — Non, non — diss’egli. — Io m’acqueto d’accordo, ché non voglio ir prigione altramente. — Cosi acquetatosi ognuno, e ricevuto ardire dal signor Bernardo, con maestá regale, parlò la signora Leonora.
Leonora. Onoratissima compagnia! Posciaché v’è piaciuto oggi doppiamente onorar me e questi quasi deserti luoghi, i quali mai piú forse non si potranno gloriare di cosí aventurosa sorte, elegendomi appresso per reina vostra, per ubidienzia non voglio e non posso rifiutare cosí fatto grado, il quale volesse Dio che fosse di qualche regno, come sapre’ dir io, ché vi farei conoscere che ne avereste la maggiore e miglior parte; ché, nel vero, troppo picciolo stato e troppo grand’animo la fortuna e la natura m’hanno dato. Ma anco di questo onore il meglio e ’l piú voglio che vostro sia, e di colui che sopra ogn’altro del mondo riverisco ed inchino. Perché, avend’io della bellezza umana e divina a ragionare, cosa che l’altrieri incominciai a questi altri signori, ed essendone da altri largamente stato parlato e scritto, e sperando oggi ampiamente discorrere sopra molte cose a pena da altri tócche, intendo di esservi recitatrice, per lo piú, di quanto spetterá alla cognizione della vera bellezza, di un ragionamento che meco, questo verno passato, ebbe il mirabile e solo lume dell’etá nostra signor Anibai Caro, il quale, nel ritorno suo di Francia per qui passando, volle per una sera favorirmi della domestica e grata sua conversazione, onde per sempre me gli conoscerò del favore obligatissima. Ed in quanto mi serverá la memoria, com’egli allora mi formò la vera bellezza, cosí ora a voi farò per ispiegarla. Aggiungendovi che, se nulla di buono sono per dirvi, tutto da lui il riceviate, e se, per Io contrario, non penetrerò nel vero, alla debolezza del mio ingegno sia attribuito il mancamento; perché ei, non altro che cose sopra umane investigando, non formò d’altro che di bellezze celesti i suoi documenti, i quali malamente sono atta a spiegare. E se l’altro giorno mostrai da me di ciò voler parlare, fu che non mi parve a proposito dire questo non essere stato studio mio; ma ora, che ci sono questi rari intelletti, non voglio e non debbo attribuirmi prosontuosamente l’altrui.
Capello. Ora si che doppia attenzione vi sará prestata. Ed io, che di questo ragionamento dal virtuossisimo e raro signor Lodovico Domenichi, il quale a questi bagni in quel tempo si trovava, ebbi sentore, sempre poi, oltre lo stimolo delle virtú vostre, ché mi pungeva di conoscervi, ogn’ora m’è partita un secolo di ritrovarmi a fronte con voi, per impetrar grazia di udire cosí dotto e misterioso discorso, il quale non può essere che singolarissimo e divino, perché egli è quel solo Socrate e quel solo Platone che oggidí a noi è rimasto. Onde, senza chiederla, essendomi da voi donata questa grazia, tanto piú sarò
obligato a riconoscere la liberalitá vostra maggiore di quella d’Alessandro, il quale, se bene donava largamente, non però dava che le cose di fortuna, e voi oggi ci farete dono di tesori piú preziosi e piú stabili.
Leonora. Ancorché la cosa sia differente, dirò pure ch’ei dava del suo, ed io sarò larga deH’altrui. Ma, accioché io sia compiuta donatrice del non mio, voglio, come reina vostra, poter comandarvi che, dove nel continuato mio ragionare non verrò a pieno a sodisfarvi, abbiate ad interrompermi ed a chiedermi la chiarezza de’ dubbi. Percioché cosí feci anch’io al signor Caro, oltre che certissima sono ch’io cosí felicemente non sono per ispiegarvi cosa come a me fece egli, il quale ogni altro, e nel ragionare e nello scrivere, di gran lunga si lascia adietro. Cosi, per essere novella nel regno, mi sarete adiutori, consiglieri e guide. E, sopra tutti, questo aspetto da voi, signor Bernardo, e so che, come amorevolissimo e saggio, non mi negarete con grandissima ragione quello ch’io con poca prudenzia non ho saputo disdire a voi.
Capello. Per apprender meglio la sustanzia delle cose, nobilissima signora, non sará alcuno di noi, e tra gli altri il signor Anton Galeazzo, il conte Annibaie ed il virtuosissimo e prontissimo signor Arena, che non vi tolga talora la fatica del ragionare, cercando di meglio intendere le cose misteriose che aspettiamo; perché certissimi siamo di non poterle cosí prestamente capire, come il divino vostro spirito ce le proporrá.
Leonora. Lasciamo pur questo, perché io, mettendo ogni mia speranza in quel sommo bello e buono, fonte ed origine d’ogni bellezza e d’ogni bontá, s’io saprò entrare ed uscire di cosí profondo ragionamento, a lui averemo a render grazie. Ma ditemi: ancora che proposto abbiamo di farci scala di questa beltá terrena, la quale, come cantò il buon testor degli amorosi detti:
d’una in altra sembianza
potea levarsi a l’alta cagion prima;
parvi meglio che senz’altro, ríducendoci a Dio, datore del tutto, vegniamo a fare scendere il bello in terra, e dal cielo pigliamo il nostro principio?
Capello. Qual modo tenne il signor Annibaie?
Leonora. Questo anch’egli.
Capello. Seguendo l’ordine suo, non si può errare, perché noi verremo tanto piú a stimare la bellezza, per vedere la celeste origine. E, tutto che il misterio abbia a parere grave ed alto, non però ciò sará fuori di proposito, percioché, essendo tanto e piú nobile l’anima del corpo quanto è maggiore il lume del sole d’ogn’altro artificiato splendore, da quella ampiezza fatti capaci del meno, amendue le bellezze insieme verremo ad apprendere.
Leonora. Cosi si faccia. Dico dunque che il sommo Fattore, dopo la creazione del mondo, veggendo questa macchina bellissima e ben composta piena ed adorna di tutte quelle cose che si possono desiderare, conobbe che aveva bisogno d’un superiore che la possedesse, il quale di gran lunga avesse in eccellenzia ad avanzare tutto il resto creato. Ed, essendo certo che, si come egli si compiaceva nella beltá degli angeli, giusto era che in cosa quasi non inferiore a loro questo mondo dementato fosse arrichito, dalla natura angelica rapi l’anima e con divino fiato la infuse nell’uman corpo del primo nostro padre; il quale, non essendo ancora formato, accioché dalla novitá d’alcun solo elemento non rimanesse imperfetto, o per gli superiori, cioè per quello dell’aria e del fuoco, troppo vessato, di tutti gli elementi, creandolo di fango, fece parteciparlo. E, per farlo in apparenzia non men bello all’occhio d’altra cosa qua giú mandata, non vide piú bella imagine né piú reverenda della sembianza angelica. E tanto piú ciò gli piacque aver fatto, quanto ch’ei non volle mai che di lui avessimo a dolerci. Perché doler ci potremmo che piú gli angeli, che noi, fossero stati eletti, senza paramento nessuno di cosa mondana, a fruire della beltá celeste; e, di piú, che noi, combattuti quasi sempre dalle cose sensuali in questo mondo, convenissimo con fatica acquistarci quello ch’essi per grazia e per dono d’Iddio posseggono, e noi in bilancia fossimo posti e venissimo a portar pericolo di non tornare onde siamo venuti. Ma, oltre che si debba dire che cosí ha piaciuto a Dio, e che dell’essere, non che di ciò,
pur troppo dobbiamo contentarci, non però, per averci in questo mondo mandati, men cari che gli angeli ha mostrato averci. Essendo che dominatori qua giú ci ha fatti, acciò meglio vegniamo a conoscer lui, ed a ciascuno di noi, mentre peregriniamo in questa spoglia, ha per custode dato un angelo, il quale, sotto altro nome, «genio» chiamiamo.
Lambertini. Gli angeli non sono che buoni, ma il genio può esser buono e cattivo. Onde, s’io non erro, ognuno di noi è alla custodia del buono ed al pericolo del cattivo. E quando parlando Cicerone di Bruto nel Sogno di Scipione , v’introduce il genio, il chiama: «il cattivo». Di che io vengo a far consequenzia che l’angelo dal genio differente sia.
Leonora. Dirovvi, e parlar vi vorrei come cristiana. Vero è che gli angeli celesti non possono essere che buoni. Ma che il genio che ci guida non sia l’istesso, non però mi si toglie; perché, si come i gentili, che della fede cognizione non avevano, l’uno il «buono» e l’altro il «cattivo genio» dimandavano, cosí noi l’istesso abbiamo, perché genio buono è l’angelo celeste e genio pessimo è l’angelo infernale della setta di Lucifero. Che anco i demòni «angeli» si chiamano.
Lambertini. Io non ne cerco piú oltre; e piacemi assai di aver inteso questo.
Arena. Io, che non voglio esser cosí sottile investigatore, tornando a questa divina ed angelica bellezza, vorrei sapere se gli angeli furono creature del fiato di Dio senza mezanitá alcuna di cosa mortale, o pure se con l’origine ebbero imperfezzione alcuna prima che fossero beatificati nel cospetto suo.
Leonora. Credo, e il vero credo sia, ancora che diverse siano state le openioni de’ piú saggi, la natura angelica senza concezzione esser nata per volontá e per compiacenza d’Iddio. E però, si come piú vicina a lui, piú d’ogni altra cosa partecipa della vera bellezza. E di qui è cosa chiara che, dopo Iddio a cui non si può dar termine o forma di bellezza, essend’egli incomprensibile, i cori angelici sono quelli da’ quali ogni sostanza di beltá corporale e d’animo, che occhio umano o mente può comprendere, mediante il fiato e la volontá divina, deriva. Non
resta però che, se bene sono ordinati di materia incomposita e non comune, non abbiano un certo che nel vero alquanto inferiore al suo Creatore, ancora che simili a quello appaiano o, per dir meglio, vicini a lui si trovino.
Arena. Qui mi confondo alquanto, parendomi, per lo ragionar vostro, che la natura angelica abbia un certo che di mancamento: cosa ch’io non credei giamai.
Leonora. Anzi niuno mancamento non le attribuisco. Ma vengo solamente a dire che, si come Iddio è solo perfettissimo, anzi l’istessa perfezzione, senza pigliar quella da verun luogo, che, dipendendo tutte le cose buone da lui, tutto però ben può esser buono, ma non però tale che si possa né si debba a lui paragonare. E, se altramente fosse, nascerebbe che con Iddio vi fossero altre deitá in sostanzia ed in potenzia eguali. Non ve ne essendo adunque tra le altre cose, che per incoruttibili egli s’ha eletto, ha voluto che gli angeli siano i principali, i quali, come piú vicini al divin volto, piú della divina beltá partecipando, belli al paro d’ogni cosa bella e buona e sopra ogni mondana sono fatti. Ma di questo non contento, il sommo Creatore, per tornare al primo nostro ragionamento, avendo creato il mondo, volle anco fare chi lo signoreggiasse. Ed a voler mandarvi la natura angelica, ché altra cosa piú nobile non vi poteva essere, vide che quella la quale godeva della somma beatitudine, stando unita con lui, venendo in questi luoghi infimi e bassi, resterebbe non solo scandelizata ma crucciata. Però elesse, per lo meglio, tra il terreno e l’immortale formar cosa che dell’uno e dell’altro partecipasse. Cosi di fango formò noi, e l’anima quasi fiato divino ci infuse: il cui primo composito, essendo terreo, aereo, acquatico e callido, comportiamo gli accidenti mondani, a’quali siamo sottoposti ; l’altra, come dal cielo tolta, al cielo desidera sempre ritornare. E, se cosí non fosse, noi, perduti in queste mondane miserie, né il sommo bello celeste né il sommo bene né alcuna beatitudine conosceremmo. Ma all’incontro, sollevando pur l’anima da terra e disgiungendola dal corpo per la cognizione del vero, veggendo queste cose frali e sozze al paro delle celesti, veniamo in
cognizione che il piú bello ed il piú nobile di noi, eh’è l’anima, è da Dio scesa. E, cosí essendo, consideriamo lui non di materia composito, ma copranaturale, tutto bello e tutto buono, cinto d’intorno non solo da questi nuvoli, ma calcare il sole, la luna e le stelle, non che posar sopra questi gradi de’ cieli che cuoprono la terra; talmente che, volendo noi scernere il vero, per rispetto di questa spoglia che ne tiene offuscati, di passo in passo ci spogliamo d’ogni sensualitá e vegniamo a ridrizzarci dalle cose essenziali alle incorporee.
Massimiano. Onoratissima signora, con l’altezza delle vostre parole e di cosí divini concetti, voi mi guidate in parte dove giamai non fui. E parmi essere ne’ Campi elisii e non piú nelle colline di Melazzo. Ma e’ mi duole solo che, malamente comprendendo tali misteri, io non possa gustare il frutto delle parole vostre, benché non attribuisco il difetto a voi, ma di me mi dolgo, che non fui tagliato a miglior luna.
Capello. Con un poco di pazienzia, la signora verrá a scendere piú basso. Fra tanto pascete l’anima, ché, passando poi alla forma terrena, questi occhi e gli altri nostri sensi, conoscendo quello che è da abbracciare e quello che è da lasciare, saranno migliori investigatori delle corporali bellezze.
Bentivoglio. Di questo a punto or ora io, il signor Giovan Giorgio ed il conte Annibaie ragionavamo, ché non sappiamo tanto filosofare sopra il naturale. E, sentendovi a ragionare di quelle forme e di quelle idee, tanto ne riportiamo quanto di cosa non udita.
Capello. Piacevi dire, signor Anton Galeazzo. Sappiamo bene che, se non séte intiero filosofo, avete cosí parte nelle armi, nelle lettere e ne’ discorsi, che, quanto altro gentiluomo e cavaliere, potete comparire per tutto. Ed il mostrarvi diverso è solo per tener coperta la virtú vostra per la professione che fate; il che vogliono anco mostrare questi altri signori.
Bentivoglio. Passerò pur anch’io per denaio di buona lega, poiché sono in cosí fatto concetto, senza scoprirmi piú innanzi. Si che stiamo queti, signor Giovan Giorgio.
Giovan Giorgio. Malamente posso portare questa pazienzia. Mia moglie pensa ora ragionar co’ suoi libri, i quali sempre l’ascoltano e mai non le rispondono. Che abbiamo noi a fare degli angeli e degli altri corpi celesti ed incorporei? Noi vorremmo sapere quali siano le bellezze piú convenevoli e piú proprie delle donne e degli uomini, e quali le deformitá; e non tante chimere. Non è cosí il mio conte Da Coo?
Massimiano. Cosi a punto.
Leonor a . Troppo voi séte impazienti fuor di misura. Bastami, se in questo non aggrado a voi, ch’io sodisfaccia al signor Bernardo, il quale in ultimo correggerá i miei errori, ed al signor Giovan Tomaso, che intentamente m’ascolta, ed a questi altri signori.
Arena. Anzi, come ad oracolo, sono intento alle parole vostre.
Capello. Né io penso udir cosa che di correzzione bisogno abbia.
Leonora. Troppo è questo. Ma, s’eglino vogliono ch’io mostri le vere bellezze dell’uomo e della donna, convengono essere piú temperati ed aspettar tanto ch’io scenda alle qualitá ed alle parti loro, le quali essendo tolte dal cielo, forz’è ch’a Dio ed in Dio io drizzi il pensiero, come fonte ed origine di tutte le cose e buone e belle. Se poi cercate saper come debbano essere o bionde o aurate o crespe le chiome, come profilato il naso, come gli occhi neri, allegri e lucenti, come la fronte alta e spaziosa, come le guance bianche e colorite, non molto rilevate né fuor di misura ristrette, come le labra rosate, la bocca picciola, i denti di perle e la voce sonora, come il collo di netto e puro avorio, come le spalle ampie, come il petto spazioso e rilevato, come le braccia di giusta misura, come la mano candida, senza nodo e senza vena apparente, come le dite schiette, dritte e lunghe, come l’ugne di color di corallo, come il piede picciolo e stretto, e come insomma tutta la persona di debita proporzione e di giusta statura e di tutte l’altre parti apparenti che si convengono a donna di vista amabile; altro dipintore che me attendete. Ché di queste poco vi sono
per parlare, non vi mancando persone che, come curiosi investigatori di queste nostre spoglie, ampiamente ne hanno scritto e, cosí dirò, fatto notomia. E, quando vogliate un essempio senza menda, recatevi innanzi gli occhi la bella ed amabile signora Ottavia Baiarda Beccaria, che in sé dimostra quante bellezze a giusta misura può dar la natura ed io non saprei mai descrivere. Ed ha poi, di piú, animo e costumi tali, che di sé lascia meraviglia e stupore a ciascuno, abbagliato dalla doppia beltá. E donna tale, per mostrare l’eccellenzia dell’arte ed il valore del suo ingegno, sarebbe degna da esser formata negli eterni bronzi e metalli del raro Domenico Poggino, le cui medaglie, nel supremo artificio, non cedono punto alla meraviglia delle antiche. Ma, lasciando il parlare di queste belle forme, essend’io ora intenta ad altro, vi torno a dire che non aspettate da me esserne raguagliati. È ben vero che ne toccherò anch’io qualche particella, ma solamente quanto ne sará mistiero a miglior chiarezza dell’interne bellezze.
Bentivoglio. Assai parmi che toccato avete le proporzioni d’una bella donna, la quale, tale cliente voi divisata con poche parole avete, sarebbe degna d’ogni gran servitú ed amore.
Leonora. Si, ma l’importanza è che le bellezze interiori corrispondano, perché un bel dipinto vaso, e pieno di fetido odore, poco può essere apprezzato da niuno.
Bentivoglio. Di rado, signora, parmi che la regola possa fallire: cioè che un bel corpo non rinchiuda in sé bell’animo.
Leonora. Oh, oh ! Séte d’intorno l’openione de’pitagorici ; ma, il mio signore, la regola spessissimo erra. E quante volte veduto avete, ed ogni giorno si vede, donna ed uomo di bellissimi aspetti, pieni di laidi costumi, sprezzatori delle virtú e d’animi bassi e vili ! Diremo adunque mai che queste o quelli siano da essere punto apprezzati o stimati belli?
Bentivoglio. Tant’è. Essendoci questa veritá o questo inganno nascosto, non potendo noi cosí di liggiero essere conoscitori di quanto in noi si celi, con quella prima forma amabile che agli occhi ci si appresenta, facciamo dell’oggetto impressione tale, che ci par bello e corrispondente quello di dentro. Io, per
me, mai non amai, e, lasciando il passato, trovomi involto ad amar donna nel fertile terreno di Lombardia, la cui vista è senza paragone agli occhi miei, e so ch’io non m’inganno; ma non men bella la stimo di dentro di quello che di fuori si mostri.
Leonora. A ventura buona può dirsi la vostra. E so che, non senza causa, il pavonazzo ed il giallo cosí v’è caro. Però v’essorto a perseverare nel vostro amore, ché certo ricca preda non si può acquistare senza fatica. E nobile e generosa donna, a lungo andare, non può sprezare la servitú di nobile e generoso cavaliere.
Bentivogi.io. Baciovi le mani del favore, e, per non ricevere altra sferzata, me ne starò cheto.
Lambertini. Veggio che il signor Anton Galeazzo era entrato in argomento che lo nodriva. Ed io mi muoio di sapere perché la signora non ci abbia intieramente dipinta una bella donna, come ci avea incominciato.
Capello. Senza ch’ella vi risponda, dirovvi io ch’ella detto ve ne ha quanto a donna saggia s’appartiene. Ma a voi, signora, non incresca ritornare al vostro ragionamento, da cui prendo tanto diletto, che non dirò mai piú di avere invidiato a quelle antiche academie, nelle quali fiorirono valorose donne.
Leonora. E chi saprebbe tornare sul camino, tanto piú che con le lodi mi smarrite ?
Capello. Eravate d’intorno alla natura angelica.
Leonora. Ora mi ricordo. Dicovi adunque che il sommo Fattore, non parendo che il proprio bello, il quale è egli, dovesse essere per sé solo, volle fare alcuna cosa che di lui fosse partecipe. E di qui dobbiamo pigliare essempio noi mortali, che, nelle virtú e nelle altre doti del cielo e di natura, posseghiamo piú l’uno che l’altro, e doveremmo sempre farne parte ad altri, perché non a solo uso ed a proprio benificio siamo nati, ma a bene del prossimo. Però dico che Iddio fece gli angeli per fargli partecipi della sua bellezza e della sua bontá. E, accioché ne fossero veri conoscitori, in gran parte gli diede di quella. E per fargli anco piú capaci, oltre, come vi dissi dianzi, che ci facesse per farci dominatori di questo mondo, creò noi inferiori
a loro, accioché per la maggior bellezza che è Dio e per la minore a loro che siamo noi, venissimo a conoscere se stessi ; levandogli, ancora che questo a Lucifero non succedesse, la superbia di non doversi stimare quanto il suo creatore, e dovendosi contentare di essere superiori a tutte l’altre cose. E di qui nasce, per la bellezza loro, che conoscono se stessi, riveriscono Dio e custodiscono noi. Né mai sará alcuno che conosca una vera bellezza, se in parte non avrá in sé parte di bello.
Massimiano. Questa ragione non è per me molto buona. Perché, s’egli aviene che chi non ha bellezza in sé non possa essere capace del bello, segue che io, il quale sono brutto, non debba conoscere i belli; e pure conosco la vostra e l’altrui bellezza.
Leonora. Lasciate me, e non mi rispondete ora d’intorno a niuna bellezza corporale, perché d’altra al presente vi parlo. E, ragionandovi della vera, so che sapete che, se bene ognuno non è un Narcisso in apparenza, non resta però che l’animo non possa esser bello; ché anzi abbiamo dimostrato quanto falsa fosse la openione di quella antica setta, la quale voleva che chi avesse brutta spoglia fosse anco d’anima imperfetta. Però, se voi conoscete le vere bellezze, nasce perché l’animo vostro è senza mancamento e congiunto alla cognizione delle cose divine piú che delle umane. Ed essendo l’anima nostra la piú nobile parte che sia in noi, voi da quella e con quella apprendete il conoscimento del buono e del vero.
Giovan Giorgio. Voi avete mosso questa quistione per esser lodato d’animo bello? Vi so dire che séte di fina lega.
Capello. Or non piú. Seguite.
Leonora. Diede adunque agli angeli (ché sempre mi conviene quasi tornar da capo), come a piú vicini a lui, gran parte della sua bellezza, senza però privarsene punto. Percioché in Dio non si può scemare cosa della quale voglia e sia largo ad altri, essendo egli, come per simiglianza di cosa umana, non altramente che il mare, al quale, benché sia levata una picciola gocciuola d’acqua, che, in quanto all’ampiezza, cosí
possiamo dire, non perde però punto della sua abondanza. O vero come il sole che, scaldando e porgendo vigore alle cose create e naturali, non però perde punto della sua virtú o del suo valore.
Capello. Di qual sorte è questa bellezza, della quale sono partecipati e fatti belli gli angioli?
Leonora. D’intelletto, di cognizione e di sapere.
Capello. Fermatevi. Come può essere «intelletto» e queste altre spezie o, per dir meglio, dirò «qualitá di virtú», che voi dite, in cose che non hanno corpo né essenza?
Leonora. Anzi hanno creazione ed essenza gli angeli, ma non al modo che tiene il genere umano. E questi intelletti, cognizioni e saperi ed altre virtú angeliche sono quelle che s’infondono sopra noi altri viventi, perché il Creatore del tutto diede ogni bellezza e fece grazia d’ogni cognizione agli angeli, i quali creò ministri suoi. Di che tutti sempre lodano e ringraziano lui, eccetto che Lucifero, il quale, conoscendo quelle, ma non volendo riconoscerle né confessarle da lui, fu privo del seggio della vera bellezza. La quale rimasta agli altri cori angelici, quelli di continuo a Dio stanno intenti; e, come veri amanti, affissandosi nel sommo bello, belli fatti di mente, belli di spirito e belli egualmente di tutto, sopra il sole, sopra la luna e sopra le stelle, nel colmo di tutti i cieli calcano tutte le cose create, senza punto in quelle fermarsi, e dalla altrui imperfezzione e mancamento si fanno di se stessi ottimi conoscitori. Né piú bramando, né a loro essendo lecito piú oltre desiderare, vivono sempiterna e gioiosa vita innanzi a Dio, senza téma di morir giamai.
Arena. Appresso questa sede angelica, qual altro grado contiguo v’è posto?
Leonora. Lentamente passiamo, ché qui d’intorno stanno le anime beate, quando, uscite di questo carcere terreno, giungono dove furono tolte. Ma per ora non ne parleremo, perché diremo prima di questo fermamento del cielo, sopra il quale giudichiamo che Iddio posi, il quale però non solo vi posa, ma comprende ed abbraccia lui e tutto il resto. Nondimeno, facendo
noi distinzione e dividendo tutta la macchina mondiale, diremo che, fatti i cieli ed ordinatigli con quelle regole e con quegli ordini de’ pianeti, l’uno piú freddo, l’altro piú caldo, l’uno piú umido, l’altro piú secco, l’uno piú acquatico, l’altro piú aereo e cosí discorrendo per tutti, tutti fece. Poscia ornò tutti questi circoli celesti di ciascuno de’ pianeti. Ed a quella, per fargli piú belli, piú eccellenti e d’alcuna cosa padroni, diede come ubidienti servi i segni celesti, i quali a loro servono, si come anco noi, di piú debile natura, a loro poi siamo sottoposti. E se gli avesse fatti senza che amministrassero e fossero amministrati, come averebbe potuto, non cosí bella né con tant’ordine sarebbe questa macchina, la quale, da imo al sommo del cielo da noi ben considerata, tutto che ci paia vacua, è tutta piena per la infusione degli elementi che non mostrano corpo, ed in quella sono partiti ed ordinati. E la ragione, che quest’ordine renda i cieli piú belli e da noi piú desiderati, è per conoscer noi la virtú che negli umani corpi da quelli deriva; i quali, sentendo della infusione loro chi piú e chi meno, partecipano delle forze loro, e, per le passioni, conoscono l’imperfetto che tengono nel mondo.
Arena. Parmi, e perdonatemi, signora, ch’io faccio solo per apprender l’ordine di questo bello, che vi siate molto allontanata dal principio vostro, nel quale avevate mostrato dopo l’angelo voler venire alla creazione dell’uomo, come seconda bellezza. Ed ora vi sento molto lontana.
Leonora. Anzi non: perché, volendo parlarvi di noi che siamo dominatori delle cose inferiori e che, dovendo esser raggi della bellezza divina, possiamo ancora penetrare fino al cielo, non è fuor di proposito ch’io m’ingegni mostrarvi la grandezza d’iddio, il quale, dopo tutte le cose, creò noi e di cielo ci infuse l’anima. E però, venendo a quello che aspettate, vi dico che, ordinate dal sommo opifíce tutte queste belle cose, volle fare un’altra cosa piú eccellente, che quelle conoscesse e che, da quelle retta, in ultimo avesse loro a reggere. Deliberò adunque, dopo la natura angelica, una simile formare e qua giú mandarla.
Arena. Udite, di grazia. Non poteva cosí mandarvi la natura angelica, come creare l’uomo; ché io so che alla creazione dell’uomo volete venire?
Leonora. Poteva si, ma non volle. E la ragione per la quale non gli piacque, come nel principio vi dissi, giudico fosse perché, mandandovi alcuno spirito beato, era un levarlo da troppo gran luce, come è la sua cosí immensa, e porlo in troppo oscure tenebre. Per questo volle far l’uomo, il quale, composto di tutte cose corruttibili, avesse da patire e da partecipare di tutti gli influssi celesti e mondani. Poi volle aggiungervi l’anima, la qual, tolta da lui, che è immortale, ed all’ immortale dovendo col tempo ritornare, potesse aver cognizione si delle cose del mondo come di quelle del cielo, e, conoscendo il meglio ed il peggio, si come piú al sensuale o al contemplativo venisse ad accostarsi, si come piú ai vizi o alle virtú ad inclinarsi, cosí il corpo di brutto bello, e l’anima di bella in deforme venisse a cangiarsi.
Arena. Dichiaratici un poco meglio cotesta partizione ed unione d’anima e de’ corpi, percioché, a quanto io posso comprendere, parmi che di qui incominci la nostra bellezza e la nostra deformitá.
Leonora. Bene avete detto che quinci hanno origine le nostre bellezze, attento che, acciò meglio m’intendiate, l’anima l’abbiamo da Iddio ed il corpo dalla natura: l’una è perfetta e l’altro tutto imperfetto. La perfezzione della prima può fare perfetto il mancante, e la imperfezzione del secondo può far nascere mancamento nella perfetta, si come l’una o l’uno piú s’aderisce all’altro o all’altra. Come sarebbe, per modo d’esseinpio, se, pigliando il fradicio d’un pomo e quello levandolo e girandolo, del buono vorremo farne conserva, facilmente, mettendolo in luogo buono, il ridurremo a salvezza. Cosi all’incontro, se non cercheremo rimoverne il cattivo, ei verrá ad infettare il buono, e diverrá tutto guasto. Vengo a dire che, se l’anima vorrá levarsi al cielo, onde è stata tolta e di dove fu la sua partenza, e non si lasciar vincere dal sensuale di queste vane voluttá, verrá a purificare ed a fare piú bello il corpo che non
lo ha formato la natura, dando a lui nuovo lume e nuovo senso. Ma, se poi vorrá accostarsi alla lascivia ed alla imperfezzione di questa spoglia, ella verrá a farsi deforme e mancante, ed egli a rimanere laido e contaminato.
Massimiano. Come adunque s’ha a fare per divenir bello e per non si lasciar vincere dal cattivo? Ché altra cosa maggiormente non desidero che farmi tale.
Capello. Questa è facil cosa. E parmi che la signora detto quasi compiutamente ci l’abbia.
Massimiano. Ciò non ho per anco compreso.
Capello. Troppo è il travagliarla "tanto. Ed, a quel che veggio, ladov’ella avea proposto di essere solamente riportatrice del ragionamento del signor Caro, voi altri, signori, con tante interrogazioni, la fate sostentare mille conclusioni, e mille quistioni le proponete. Non comprendete voi che, col mostrarvi che l’anima è quella che sola rende bello il corpo, viene a dinotarvi che la sola sapienzia ed il desiderio di apprendere i belli costumi sono quelle parti che ci deificano, non che bellissimi ci fanno?
Lambertini. A questo modo solo i dotti verrebbono ad esser belli.
Capello. Questo non dico io. Dico bene che, col mezo delle virtú morali e delle arti liberali, ognuno deve sforzarsi di venire in cognizione dell’esser suo. Percioché ogni volta che si dispone e si continua in questo, l’anima, venuta in cognizione di se stessa, non potendo per l’obligazione di natura separarsi dal corpo, cercherá in ispirito allontanarsi da lui. E quello in mente ed in ispirito riducendo, verrá a dargli o, per dir meglio, a unirlo con quel piú perfetto che per lei sará possibile. E, se per la gravezza sua non lo potrá in un subito a suo modo reggere, drizzerá insieme con quello l’animo alla investigazione delle vere scienzie. E quel tanto che gli sará dato peregrinare, si sforzerá di vestirlo di quel bello che dagli altri, che non curano saper il principio delle cose, non è conosciuto. E quando tanto alto non potrá arrivare, piglierá per iscorta le bellezze, le virtú ed i costumi d’alcun animo nobile, raro e simile a quello
di questa magnanima ed illustre signora; la quale, e con sopportazione (come, giá da voi lontano, tutto acceso del valor vostro, cantò il mio bassanese), avete tal forza che:
Quando talor dal vero ben si parte l’alma, e col senso a vii piacer si piega, non si tosto di voi le fate parte, ch’ad ogni van desio l’entrata nega.
Perché, si come verginella parte lo spin dal fior, e il fior nel seno impiega, cosí ’l meglio a suo prò sceglie e comparte, e il peggio abborre e lo discaccia e slega.
Quinci dal bene il mal, dal falso il vero,
Putii dal danno e da la gioia il duolo conosco, e ’l mortai fuggo e ’l divin chero.
Tal voi guida mi séte, e tal a volo m’ergo al cielo per voi scarco e liggiero, e tal dal vulgo m’allontano e involo.
Questi sono degli oggetti che si pigliano. Ed in questo modo resta nel proprio suo essere, e viene a spogliar il corpo delle vane delizie. E fin qui mi sia stato lecito dire che, non come prosontuoso, ho interrotto il grave ragionamento della signora, tutta trasformata nella veemenzia del signor Caro, ma per lasciar che alquanto respiri e pigli un poco di fiato.
Leonora. Piú utilitá si troverebbe dal vostro seguitare che dal mio dirne piú. E sia ammesso, a cortesia del bassanese, quanto a lui è piaciuto sopra le qualitá mie poetiggiare ed a voi recitare. Ma, poiché tutti a me séte intenti, ripigliando il dir vostro, che proprio è l’istesso che ci mostrò il signor Annibaie, dicovi che, non si trovando l’uomo capace di potersi cosí in un subito rimovere da questi effetti terreni, mirerá prima gli animali irrazionali, e, veggendo quelli, fuor d’ogni ragione, secondo l’uso solo di natura viversi, correggerá se stesso con l’essempio loro in quelle cose che da un instinto di ragione gli sará permesso. Cosi verrá ad acquistare di quella vera bellezza, della quale communemente sogliono mancare tutti i corpi.
Lambertini. Poiché questa bellezza può in gran parte essere da noi acquistata, non v’incresca meglio e piú apertamente mostrarci il modo di poter fare cosí ricco e cosí degno acquisto; ché non però con questa sola dimostrazione né con la sola voglia di abbellirci parmi che tali possiamo farci.
Leonora. Noi siamo nati tutti, secondo il voler di Dio, per dover esser belli. E non senza fatica a ciò possiamo pervenire; ma la fatica che ci vuole è dolce, dilettevole e soave, non amara, noiosa né grave, perché in voler divenir belli in quanto al suo Fattore e grati appresso lui, avendoci egli dato l’anima, che è fiato di quello, ed infusala in questa frale spoglia, a lei anco ha dato il vedere ed il conoscimento del bene e del male, dell’utile e del danno, della perdita e dell’acquisto. E, incominciando dagli ultimi, l’acquisto ch’ella può fare è quando, conoscendo se stessa bella, per aver avuto celeste origine, trovandosi congiunta poi a questo corpo, che la può far di liggiero pericolare, cerca far lui partecipe di lei e del suo bene, e non lascia ch’egli guidi quella alle di lui sensualitá, che la possono far cadere in mancamento ed in perdita della sua bontá e della sua perfezzione. Questo tal conoscimento deriva in lei dalla cognizione della vera bellezza e bontá d’iddio, a cui tutta donata, per piacere a lui cerca vestirsi delle vere virtú, degli ottimi costumi e delle perfette cognizioni. E nel far questo, non può essere di meno che il corpo non si abbelisca, il quale, pigliando qualitá dall’animo, si purifica, si monda, tutto chiaro diventa ed ogni mancamento viene a gittare. Liberi ci ha fatto la natura, ma sotto legge posti la ragione, la quale non è altro che un freno di se stesso. Né per altro ella ciò ha oprato che per farci differenti dagli animali brutti ed irrazionali, che non si possono né potranno giamai chiamare belli compiutamente si come l’uomo. Veggiamo il cavallo, e togliamolo di membri e di proporzioni benissimo formato quanto la natura possa fare; ma sia poi male amaestrato, grave e di cattiva domatura, chi sará quello che ragionevolmente il potrá dir bello, mancando delle parti piú necessarie? Quanto maggiormente debbe poi aver forza questa ragione nell’uomo, che di sé non ha a dar riuscita
in apparenzia, ma solamente ha da servire nelle bellezze dell’animo!
Bassanese. E dove lasciate la donna? La quale, tutto che vestita sia di bellissima spoglia, se nelle bellezze e nelle virtú dell’animo sará mancante, di poco e di bruttissimo vedere giudicherò colui che bella estimerá donna tale.
Bentivoglio. Non è dubbio che ciascuno di noi non debba attenersi a questa openione, si come per ragione e per esperienzia provata. Essendo che, sopra questa apparente bellezza di qualsivoglia donna discorrendosi, non sará alcuno cosí di lei invaghito, che, sentendola tassata d’alcuno mancamento d’animo, non rimova in gran parte ogni inclinazione che a lei averá indrizzato. Ed io spessissime volte m’ho trovato a questo passo, che, veduta bella presenzia di donna e subito allettato dal piacere di quella bella vista, ho giudicato beatissimo il possessore di cosí bella spoglia; ma poi, ricercando le qualitá ed i costumi dell’animo e trovatigli differenti dal primo concetto, non solamente ho deposto ogni pensiero di lei, ma ho odiato quella massa di carne in cosí bella proporzione ridotta, come laida e macchiata, ed ho voluto male a me stesso per quel poco che a lei mi sono inchinato. Onde per l’avenire, dandomi poi a mirare piú l’intrinseco che l’apparente, ho voluto fuggire tutte l’altre fiate questi pentimenti. Cosi, fattomi miglior conoscitore delle vere bellezze, amo donna tale, e d’animo e di presenzia cosí bella, che non mi pentirò mai di servirla e non invidierò mai ad altri per elezzione. E quanto piú l’animo patisce delle passioni per lei, tanto piú mi faccio conoscitore della sua perfezzione.
Capello. Non possono stare questi due contrari insieme, il mio signore. Perché, se conoscete la donna vostra perfetta, amandola nel modo che dite, le passioni non possono aver luogo in voi; e se pur è che sopportiate, non amate rettamente come si deve.
Bentivoglio. Oh! signor Bernardo, voi volete metter sotto una sola legge questo amore, ed io cosí non la intendo.
Capello. Ben v’intesi anch’io, ma un’altra fiata vi dirò come s’amano queste bellezze che ci mostra la signora.
Bentivoglio. Voi pensate forse piú oltre che non face’io. Perché giamai non mi lasciai cosí vincere da un’apparente vista, ch’io abandonassi l’onesto. Né mai amai cosí sensualmente ch’io non volessi che le bellezze dell’anima soverchiassero quelle del corpo.
Bassanese. E cosí si deve. Ma parmi che dal ragionar di bellezza siamo venuti a questionar d’Amore. E cosí, non noi la signora, ma la signora ad ascoltar noi s’è rivolta.
Leonora. Né questo è fuor di proposito, perché dalla bellezza nasce lo amore. Ed acciò non paia che io non sappia tornare sul sentiero del mio ragionamento, quando dissi (facendo paragone dall’animal brutto all’uomo) che l’uomo deve fare che il corpo s’accosti all’anima, e non l’anima al corpo, il medesimo anco s’ha sempre a comprendere della donna, la quale sotto l’istesso nome di «uomo» sempre comprendo. E tanto piú la obligo a questa legge, quanto ch’ella piú nobilmente del maschio fu fatta, essendo stata levata dal fianco del nostro primo padre. Onde, come piú purgata, è piú atta a divenir bella, ad esser di mente piú elevata a Dio, a poter apprendere le virtú ed a sparger quelle.
Capello. Eccoci sulle openioni e sopra le ragioni della rara e saggia signora Violante da Gambara Valente, la quale non vuol sopportare che l’uomo sia piú perfetto della donna, e con tante ragioni e con tanti argomenti difende il suo sesso, che molte volte ha fatto restar attonito e confuso piú d’un raro intelletto.
Leonora. E che? Parvi adunque che perciò si nobilissima signora sia sofista? Non è ella sola, senz’altra prova, sofficiente nelle azzioni a chiarire il mondo del valore della donna? La quale, se non ardirò dire che sia di virtú superiore all’uomo, non confesserò mai che né anco gii sia inferiore. E se cosí palese non è il valor nostro come quello degli uomini, egli è che troppo imperio vi avete preso. E pur veduto s’è le donne regnare ed esser atte al governo, le donne guerreggiare ed aver vinto, le donne filosofare e da saggi essere state osservate. Ed insomma le donne, in infinite cose poste da lato, per disperazione, dagli uomini, esserne riuscite felicissimamente. E quei, che
solo le hanno attribuito la cura famigliare, sono stati troppo severi tiranni, ed in troppo angusti termini le hanno voluto rinchiudere, che di quanto maggiori e piú larghi degne siano: la signora Violante sola ne è specchio ed essempio. Vedete questa magnanima donna, non meno involta nelle cure famigliari che negli umani studi, felicissimamente aver aggrandito le facilitá, allevato nobilmente i figliuoli e non mai aver lasciato le conversazioni oneste e virtuose, essendo la casa sua un ricetto continuo dei piú begli spiriti d’Italia. Avete visto con quanta facondia, con quanta bellezza d’animo, con quanti’ottimi costumi e con quanta virtú e con quanta profonditá di scienzie avea nodrita la figliuola (ahi, mondo avaro!), tolta a noi pur troppo per tempo, sul piú bello di poter far frutto! La quale, come pura angioletta (ché cosí si può dire di Camilla Valente dal Verme), in termine di diciotto ore, vinta dal dolore, volle seguir l’anima del felicissimo marito! Ché felicissimo chiamo il conte Iacopo per aver avuto moglie tale, piú fedele che Argia, piú casta che Evadne e piú singolare che Artemisia. E quale altra antica e moderna, che si ricordi, e quale uomo troverassi che da paragonar sia a cosí “fatte donne? O chi sará mai che tenga la donna all’uomo inferiore?
Lambertini. Egli è onestissimo, signora, che abbiate in protezzione la parte delle donne. Perché, oltre il merito che è grande, voi non sareste quella rara donna che séte conosciuta, se difender non le sapeste. Ma, ciò lasciando per indeciso, per non pregiudicare alle ragioni nostre, io desidero sentir l’avanzo di quello che ci bisogna per divenir interamente belli. Percioché, avendoci mostrato l’acquisto e la perdita che può far l’anima accostandosi piú al senso o alla ragione, non ci avete dichiarato il conoscimento del bene e del male, e dell’utile e del danno.
Leonora. Tutto quello, ch’io v’ho mostrato nell’acquisto e nella perdita che può far l’anima, cade anco quasi in questi. Nondimeno, allargandomi piú, dirovvi che l’anima ha ricevuto da Dio il conoscimento del bene e del male, per operare con l’uno a gloria di lui, e fuggendo l’altro per non si contaminare. Percioché nelle opere buone viene a purificarsi ed a rendere
il corpo purgato e mondo, ma nelle cattive perde la grazia divina: non piú anima, ma spirito immondo rimane. Quinci l’utile che si può conseguire si perde, e l’utile è questo: noi, mentre peregriniamo in questa spoglia e sotto questo terreno incarco, siamo piú atti a lasciarci vincere dalle terrene delizie che sofficienti a svilupparci da quelle. Però per lo piú aviene che, sepolti in queste vanitá, lá dove potremmo conseguire l’utile, vegniamo a perderlo. Ché, se bene la beatitudine non si può conseguire se non sciolta l’alma dal corpo, nondimeno non resta che anco qua giú non si possa aver parte di felicitá, la quale tutta deriva dal conoscimento dell’operare il bene o il male, ché per l’uno si viene a far acquisto dell’utile, e per l’altro si procaccia doppio danno: doppio, in quanto a questo mondo e poi all’altro secolo.
Lambertini. Perché lo ragionamento vostro mi pare giá essere un altro divenuto, desidero, anzi che piú oltre passiate, che non v’incresca ch’io faccia un breve epilogo sopra la sustanzia di quello, accioché sempre abbia a ricordarmi di questo fruttuoso e felicissimo giorno.
Leonora. Molto volentieri. Anzi scemerete a me questa fatica. Percioché, per la variazione che abbiamo fatta, io ero deliberata succintamente il tutto o le parti piú necessarie ripigliare.
Lambertini. Piacemi ciò doppiamente. La vera bellezza adunque nostra, lasciando quella degli angeli, da Dio fu nell’anima nostra infusa, la quale, da lui partendosi, viene ad abitare in questi corpi per dar loro quella perfezzione ch’eglino da sé non possono avere. Percioché ella non è solamente vegetativa né intellettuale, ma razionai e contemplativa, a differenzia delle anime degli animali brutti. Onde, se drizziamo quella alle cose celesti o vero alle virtú morali, non solamente la tegniamo purgata, ma il corpo anco vegniamo ad abbellire. Se poi lasciamo che il senso e l’appetito domini, ella corrotta ed i corpi vili ed abbietti vengono a farsi, e, perdendo anco la virtú intellettuale, meno viene ad essere che quella delle bestie. Ed accioché possiamo meglio conseguire questo dono di bellezza, gratissima a
Dio, detto ci avete anco e dichiarato come il sommo Fattore ci ha dato il conoscimento del bene e del male, mostrato il beneficio dell’utile e del danno, e fatto aveduti della perdita e del guadagno. Onde, parendomi che fin qui benissimo ci abbiate guidati, desiderarci, se fin qui io non ho errato, che voi ci mostraste quali siano le vie per le quali possiamo pervenire a tanta eccellenzia. Percioché, fino a questo termine, veggio tutte queste cose esser quasi sopracelesti.
Leonora. Di ciò io mi serbava a l’ultima parlarne. Ma, poiché il desiderio vostro è tale, non vi ha ad essere nascosto che questa vera bellezza si consegue col mezo in gran parte delle virtú morali e teologiche; di ciascuna delle quali s’io volessi ragionare, piú lungo termine ci bisognerebbe. Né senza parte delle arti liberali possiamo giungere a questo colmo. Percioché per la virtú di queste ci riduciamo a scoprire mille belli segreti della natura e di Dio.
Lambertini. Dunque da noi acquistar possiamo parte di questo dono?
Leonora. Anzi il tutto. Perché Iddio ha riposto in noi questa facultá. E per meglio ciò mostrarvi: con l’occhio, con l’udito e con la mente noi ci facciamo conoscitori ed apprensori di quella, essendo la bellezza virtú incorporea e grazia incorporea, la quale diletta l’animo col conoscimento di quella. Con l’occhio, veggendo una bella immagine che ci rende forma ed essempio di Dio; e questo s’appartiene in quanto alla bellezza corporale ed alla virtú visiva. Con l’udito, sentendo il suono delle parole, la forza de’ concetti e la dolce armonia della concordanza o del suono o del canto, trovato da’ primi padri nostri per magnificar Dio e render a lui grazie immortali. Con la mente poi, considerando la natura delle cose inferiori a noi, ammirando le superiori e desiderando di divenir tali, quali ci pare convenire a chi ci ha creati e dato spirito divino ed indegno da essere lasciato perdere in questo mare di miserie. E, di cinque sensi esteriori che abbiamo, due solamente possono partecipare della cognizione della vera bellezza, quali sono l’udire e ’l vedere, perché, né per lo tatto, né per lo
gusto, né per l’odorato, della veritá di quella non si può partecipare; attento che né le temperate qualitá, né i dilettevoli tatti venerei, né i dolci sapori, né i soavi odori non si possono dir belli, né si debbono giudicar che abbiano cognizione del bello; ma solamente i due superiori vagliono, i quali poi destano la mente alla considerazione della bellezza spirituale ed astratta dal corpo. Onde, possendo noi divenir cosí fatti, dobbiamo con ogni sforzo imitar i costumi, le maniere e le vestigia di chi tali veggiamo, ed a questi essere sempre intenti amandogli, osservandogli e riverendogli; come, per essempio, la signora Issabella Riaria de’ Pepoli, donna di cosí raro spirito e di tante virtú ripiena, ch’io certa sono poter dirvi che non si debbono sdegnare tutte l’altre donne pigliar norma da lei. Ella non solamente è dotata di molte arti liberali a magnanima e nobile donna appartenenti, ma eziandio di molte virtú morali, tacendo della presenzia reale, che seco apporta onore e riverenzia. Queste sono le bellezze amabili e grate a Dio ed agli uomini, nascoste al vulgo ed alle genti basse, che non entrano in questa rara schiera, né discernono il meglio dal peggio; le quali, si come vere e maggiori delle caduche e visive, consistono nelle parti dell’anima, che sono piú elevate dal corpo: come prima nell’imaginativa con le belle fantasie, con i pensieri e con l’invenzioni; e piú nella ragione intellettiva, separata dalla materia, con i belli studi, con le arti, con gli atti, con gli abiti virtuosi e con le scienzie; e piú perfettamente nella mente astratta con la prima sapienzia umana, la quale è vera imagine della somma bellezza.
Bassanese. Deh, graziosissima signora, seguite, mostrandoci la via ed i termini da pervenire a tanto bene ! Perché, nascendo noi teneri ed imbecilli ed essendo la vita nostra breve, parmi che tanto tempo perdiamo, anzi che agli anni della cognizione perfetta perveniamo, che poco spazio di tempo ci resta per poter tali divenire.
Leonora. L’educazione a ciò importa assai. I padri e le madri di questo beneficio e di questa perdita sono molte volte cagioni. Conciosiaché, nascendo noi per natura piú tosto atti
al vizio che inclinati alla virtú ed all’opere buone, s’egli aviene che siamo dritti e che cresciamo licenziosamente senza pigliar i primi principi onesti e buoni, difficilmente si può mutare tal abito, che in natura si converte. Noi siamo come cera tenera e molle, che piglia l’impronto d’ogni sigillo; o, per dir meglio, come tenera verga, quale, mentre cresce, può l’uomo piegarla com’ei vuole: il che cosí non aviene essendo cresciuta ed indurata. E ch’egli il vero sia che tutti noi possiamo esser atti a divenir belli e saggi, considerate al nascimento di due cani generati da un istesso padre e partoriti da una medesima madre. L’uno, secondo che gli porge l’instinto naturale, è lasciato gire al macello e diviene odioso, sprezzato e scacciato da ognuno e non è chi lo miri. L’altro, nodrito in casa ed allevato domesticamente, in tutto piglia costumi differenti dalla propria natura e fassi diverso dal primo. Per questi essempi e per altre considerazioni facilmente si può argomentare quanto la buona educazione importi. Ma, avendo altri e sopra tutti il dotto signor Alessandro Piccoluomini di questa istituzione, a benificio comune, scritto, dagli utili scritti suoi, tratti dal fonte di filosofia, lascerò che il modo ognuno apprenda. E, passando altrove, dirò che, essendo noi stati bene allevati fino agli anni della cognizione da’ parenti nostri, incominciando poscia da noi ad oprare, veniamo ad apprendere tutte le virtú che belli ci rendono, e, con ansia desiderando conseguirle, questa vita ci par breve e l’ozio non ci viene ad occupare. Il che perfettamente s’è conosciuto e si vede (ché degli uomini lascierò a voi altri fare scelta) nella signora Lavinia Sanvitale Sforza, la quale, allevata secondo la nobiltá del chiaro sangue onde è uscita, negli anni poi di poter far frutto ha mostrato e continuamente mostra di quanta bellezza e di quanta grandezza d’animo sia stata dotata. Perché in lei le virtú risplendono e di quelle è cosí ricca posseditrice, che ne può far parte altrui. Ella sa dispensare con giudicio ne’ cuori de’ virtuosi i beni di fortuna, e sa discernere ed essequire quelle parti che dal vulgo ci allontanano e ci rendono, appresso i saggi ed i pochi, riguardevoli e belle. Opera ella talmente, che rare possono imitarla e molte invidiarla. E questa ed altretali
sono di que’ spiriti ch’oggidi e sempre si possono chiamar belli, rendendo non solamente bella loro spoglia, ma bello e ricco il mondo.
Bassanese. Com’è possibile che l’uomo, veggendo anime tali infuse in urnan velo, non se ne accenda ed arda?
Capello. Arde veramente d’affettuoso zelo l’uomo che le conosce; ma non ogni uomo ne è conoscitore. Percioché, se bene tutti abbiamo forma e nome di «uomini», non però ognuno è uomo. E solamente uomini e conoscitori ed amatori di tale e tanta bellezza sono quegli che partecipano dell’istessa perfezzione. Gli altri poi volgari alle bellezze sole del corpo stanno intenti, e di quelle sole, come famelici e brutti animali, cercano pascersi; e cessa in loro, secondo che il tempo se ne porta gli anni, quella sfrenata voglia, che non però mai si potrá dire «amore». Onde, ripigliando le ragioni del signor Anton Galeazzo, dico che, veggendo bellissima donna di vista e trovandola di bellezze d’animo bene accompagnata, devrò stimarla ed adorarla come vera imagine divina. Ma, per lo contrario, se sará solamente vaga in apparenzia e di dentro di costumi corrotti e d’animo viziato, non pure sarò tenuto saggio a sprezzarla, ma commendato ad abborrirla. Perché con qual ragione mi sará ammesso ch’io apprezzi una gioia falsa, che debba o mostri essere di grandissimo prezzo, per essere legata con ornamento in picciolo valor d’oro? Se m’iscuserò con dire ch’io non la conoscessi o non l’avessi per tale, verrò a mostrarmi di poco giudicio e di non mediocre mancamento. Però non solamente
non m’accosterò ad amore tale.
.b) l’artefice, il quale sará stata la
natura, che, per ingannar altrui, sott’ombra del vero ci avrá il falso nascosto. In ciò, come buon poeta, cosí buon conoscitore si mostrò il vero amante delle bellezze di Laura, il quale, se ben lodò lei di tutte le corporali bellezze quanto piú si poteva imaginare, le chiamava poi nulla a rispetto di quelle dell’animo,
(i) Nel testo deve essere stata saltata evidentemente una riga [Ed.].
le quali, a tutt’ore rivolgendosi nella mente, lo guidavano sin dove quella ben nata ed aventurosa anima era stata tolta. Quinci nacque che anco dopo morte, come viva, amolla cosí saldamente. Ed io perciò voglio poter chiamare ragionevolmente, non osservatore delle virtú di quelle illustri donne, che riverisce e celebra con tanta industria e con tanto studio, il nostro bassanese, ma vero amante delle perfette bellezze loro. Perché, lasciando voi, che suo idolo séte, chi dirá che, amando, commendando ed onorando, com’ei fa, il valore e la magnanimitá della signora Lionarda da Este Bentivoglia, ei non sia di quei veri conoscitori di bellezza che mai fossero nelle platoniche scuole? Veggendosi in lei far nido l’onestá, fiorir la cortesia e stabilirsi la religione? Chi negherá che quasi sempre, ragionando delle valorose donne di Pavia, lasciando per ora da parte quelle singolarissime ch’ha ricordato la signora Leonora; chi negherá, dico, eh’essendo egli con lo spirito quasi di continuo rivolto alle singolari virtú, agli ottimi costumi ed alla reale cortesia della signora contessa Lucrezia Martinenga Beccaria, il cui valore in molte parti si truova spiegato nelle carte del gran Giulio Camillo, egli non sappia discernere ed amare tutto ’l bello che rende il mondo adorno? Chi non assentirá meco che, dolendosi egli solo d’essere stato tardi conoscitore delle bellezze dell’animo e del corpo della signora contessa Paola dal Maino Beccaria, a cui poco a lui parrebbe avere dicato tutti i suoi giorni e tutti i suoi studi (ancora che di continuo abbia in bocca per lei quei versi del mio reverendissimo ed eterno Bembo:
Farò qual peregrin desto a gran giorno, ch’il sonno accusa e, raddoppiando i passi, tutto il perduto del carni» racquista,
volendo dimostrare di esser per celebrarla con tanta maggior veemenzia); chi non assentirá, e tornerò pure a replicare, ch’egli abbia fatto elezzione tale, che renderá lui immortale ed accenderá piú d’un valoroso intelletto ad adoprare lo stile in onore di quella? Chi ardirá non confermare che la bella Livia, vera imagine di tanta virtuosa e bellissima madre, non sia meritamente come
speglio, dove doppia divinitá si contempla e discerne, da lui tolta per guida ed in ogni luogo celebrata, i cui onori sarebbono degna fatica del felicissimo stile del buon Varchi o d’altro tale? Chi sará mai quello (e non sia chi m’interrompa) che possa lui riprendere o dire che ingiusta elezzione abbia fatto nello sceglier in Modona per simulacro ed idolo de’ suoi sudori, amando, onorando, osservando e celebrando insieme col signor Lodovico Domenichi, la bellissima (ché cosí posso dire) signora Lucia Bertana, cognata dell’illustrissimo e reverendissimo di Fano? la cui bellezza, la cui virtú, il cui valore ed i cui meriti sono tali, che chi confessar vuole ch’ella pochissime altre pari abbia, nel bello di lei si specchi e dal suo animo essempio pigli. E chi volesse a pieno spiegare gli onori di cosí eccelsa e magnanima donna, oltre che mai non si verrebbe a fine, tempo non avrei di ricordare la magnifica e nobile madonna Lisabetta Zorzi, madre del nostro virtuosissimo ed eccellentissimo messer Alessandro Campesano, la quale, non meno che gemma preziosissima adorni finissimo oro in cui sia legata, cosí fa risplendere la patria del mio bassanese con la rara modestia, con la nobile creanza, cogli ottimi costumi e con l’altre rare qualitá, che la fanno riguardevole ed amabile appresso ciascuno. Chi sará poi, per non dare al bassanese solo tanto onore, di cosí rea openione che chiami vano lo speglio, nel quale noi apertamente possiamo veder l’essempio delle anime celesti, che abbiamo qui innanzi della signora Leonora?
Leonora. Mettete silenzio, di grazia, a questo passo, se non volete che vi sia tolto tutto il credito che, per l’altre, di merito vi si debbe dare. E, se ciò non vi muove, muovavi almeno la palese ingiuria che mi fate.
Capello. Ingiuria questa non è, né io alla veritá debbo levare il suo dritto. Onde chiamerò sempre fortunato il signor Giovan Giorgio, che, in quel tanto di peregrinare che a lui è stato dato quaggiú, ha avuto in sorte ed in elezzione di essere congiunto con quelle vere bellezze, che di quelle di lá su fanno chiara fede.
Leonora. Non sopporterò piú oltre, signor Bernardo. E, levandomi, tutto il fine del nostro ragionamento resterá imperfetto.
Perché, oltre all’ingiuria che a me fate, torto riceve da voi la signora Leonora Cibo de’ Vitelli, la quale, ne’ vostri scritti essendo celebrata di tutte quelle degne condizioni che a nobile, a casta, a bella ed a magnanima donna convengono, non è indegna, anzi è degnissima di essere ricordata da voi, per essere ornamento del sesso donnesco ed essempio di perfetta bellezza.
Capello. Io voleva veramente con lei sugellare la elezzione delle altre; ma cieco afatto, non che di debil lume, sarei stato tenuto, se di voi ragionato non avessi, perché:
In tutto è orbo chi non vede il sole.
Ma, poiché veggio che a voi spiace per modestia che a me piaccia ragionar di voi, essendo entrato col mezo della vostra dimostrazione delle vere bellezze a dire che il vero amore è lecito, dirò anco che non può essere alcuno vero conoscitore di quelle, il quale non le ama; e, di piú, che per la cognizione di queste bellezze alle celesti si arriva, provando in effetto vana e falsa quella openione la quale vuole che in molti luoghi non si possa sparger l’amore. Ma questo amore ha tal forza ed è misto di riverenzia tale, che col cuore si può essere ricetto di tutte quelle che cosí perfette si conoscono, e col poter suo opera che l’amante, per divenir degno abitacolo di queste sparse bellezze, cerca abbellir il meglio che può quelle parti che in lui non conosce conformi alle amate bellezze. Cosi nell’amato l’amante viene a trasformarsi, e cosí io trovo le vere bellezze, poste negli animi umani, esser cagione d’infiniti beni.
Bassanese. So che vi séte infiammato per un poco d’intorno alla dimostrazione ed alla dilezzione di questa bellezza. 11 che non può se non aver recato sodisfazione a tutti; ma io particolarmente vi sono tenuto, per avermi voi commendato dell’elezzione fatta delle rare e magnanime donne che ricordato avete. Onde, trovandomi avere cosí saggio uomo, come voi séte, conforme, se piú crescer potesse cosa giunta a perfezzione, piú mi accenderei nell’amor loro.
Capello. Non per ciò voi mi dovete avere obligo, perché, se qui solo fosse fermata la cognizione vostra, in troppo angusti
termini v’avrei rinchiuso. Né mi si toglie però dall’animo con quanta veemenzia sempre commendate il valore, essaltate la umiltá, celebrate la cortesia, predicate la benignitá ed ammirate i costumi e l’altre degne qualitá, in Piacenza, della amabile e giudiciosa signora Maddalena da Gambara Barattera. E manco vi séte ingannato a dir sempre che, con l’essempio solo della moglie qui del conte Annibaie, la signora madonna Lucrezia Malvezza Lambertina, tutte l’altre donne possono imparare a divenir belle, perché la prudenzia è il suo speglio, la umanitá la sua guida, la cura famigliare il suo nodrimento, la fede verso il marito il suo fine e l’amor de’ figliuoli il suo diletto. Né senza suprema grandezza nessuna azzione di lei si vede. E di piú dirò che ...
Lambertjni. Non piú oltre, il mio cortesissimo signore, perché molto piú m’aggraderá che ad altra vi rivolgiate; ché, conoscendola io tale, questi ed altri meriti, che mi costringono amarla e riverirla, stando rinchiusi nel mio core, si contentano di questo ricetto, senza esser commendati altrove.
Capello. Anzi di poco pregio sarebbono, se non rcndessino di sé splendore, e nell’animo del mio bassanese e nelle menti altrui.
Lambertini. Ma lasciamo il parlar di lei. Se la cittá nostra dee chiamarsi avenlurata, la maggior sua felicitá può dirsi per la rara, bella e saggia signora Sulpizia Pepola degli Orsi, ché cosí parmi di poter fare scelta di lei, fra molte degne che ivi sono, per la piú degna e per la piú illustre. E veramente non sará chi la conosca che non la giudichi ornamento di questa etá e splendore d’Italia.
Capello. Questa, che oraricordate, è quella magnanima donna che nei mesi passati, ragionandosi in Bologna alla cena con la quale vi piacque onorarmi, fu tanto commendata ed essaltata dal mio messer Ippolito Lignani; ond’io, acceso di desiderio di vederla, e vedutala poi, la confessai non solo degna di quelle lodi e di que’ pregi che la di lui lingua le diede e voi le confermate, ma sempre, da indi in poi, come simulacro ripieno d’ogni perfezzione l’ho tenuta fissa nella memoria?
Lambertini. È dessa a punto.
Capello. Ma, passando piú oltre, non m’è ancora nascosto, per la voce stessa di esso bassanese, quanto egli sempre ha osservato ed osserva nella reale ed afflitta Siena, nido di tutte le grazie, di tutte le virtú, di tutti i rari costumi e di tutte le bellezze, la chiara ed immortai madonna Laudomia Forteguerra Petrucci, la cui vita, le cui opere e le cui virtuose azzioni possono accendere ognuno che cognizione semplice di virtú e di vera bellezza abbia, nonché quelli che l’hanno, come voi, veduta, udita ragionare, discorrere e render ragioni e cagioni di tutte le cose. Né meno le sventure di quella miserabile cittá possono fare che a lui si tolga dall’animo e che a tutti non mostri per immortale madonna Francesca de’ Baldi, la quale da lui in ogni suo ragionamento è sempre aditata come miracolo di natura e come viva imagine di Dio, perché non v’è grazia di cui ella ricca non sia, né qualitá di virtú che non ne sappia render ragione; bellezze veramente che ci rendono immortali e che empiono d’amore ogni intelletto elevato. Cosi anco ricorderei molte altre, delle quali egli è vero conoscitore e perfetto amante, se non fosse la brevitá del tempo ed il desiderio di udir favellare quanto resta alla signora Leonora. Percioché ei gloriar si può che la maggior parte, e quasi tutte, le rare donne ch’oggidi l’Italia illustrano sono in cognizione sua, delle quali non solo s’è contentato starne a relazione d’altri, ma egli stesso ha voluto vederle e praticarle, si come ne fanno fede le Vite loro, le quali spero che tosto dará a leggere al mondo, dove si vedranno donne illustri ornate d’altre bellezze che delle corporali sole, e fregiate d’altri ornamenti che di gioie e d’oro.
Bassanese. Fate pausa, il mio signore, ch’io veggio la bontá vostra troppo intenta ad essaltarmi, ed io, conoscendo quello che mi vaglio, non debbo sopportare che di me cosí altamente parliate. Tempo essendo anco oggimai di dar luogo alla signora.
Leonora. Da me, per ora, altro non aspettate, perché, tutta trasformata nelle bellezze e nel valore di quelle celebratissime donne che il signor Capello ha ricordato, sono cosí fuori di me stessa, che ritornar non saprei dove lasciai di parlare.
Arena. Per questo non si rimarrá, ché io, il quale come gioie raccolgo le parole vostre, so che foste interrotta dove mostravate quanto giovi l’educazione per divenir belli e grati, con l’essempio di quelle due rare signore; e toglieste il ragionamento dal principio di mostrarci la preminenzia dell’animo al corpo.
Leonora. Oh, tenace memoria! Non mi meraviglio se anco per questa virtú séte commendato. Onde, per non lasciare questa bellezza cosí imperfetta, tutto che il sole incominci a declinare, con poche parole seguirò dicendovi che non dal corpo debbono nascere e stimarsi le bellezze dell’animo, ma da quelle dell’anima piú tosto le corporali; e, per conseguirle, la via abbiamo mostrata. Giusto è poi che, per conoscerle ed amarle, prima drizziamo la mente all’animo altrui, che il senso al corporale instrumento; percioché, conoscendo il vero interno piú tosto che l’apparente, che può esser falso e spesso ci inganna, veniamo a farci veri e perfetti amanti. E, se altramente facciamo, bene e spesso aviene che gli occhi della mente, ingannati da quelli del corpo, perdono poi tutto quel buono e quel bello che da’ cieli era stato lor concesso. Né solamente parmi ch’io vi mostri la vera bellezza, ma eziandio ch’io v’insegni conoscerla ed amarla. E perché queste chiare bellezze non sono date da natura, ma hanno origine celeste, sempre dobbiamo faticare di conservarle tali, che possano ritornare a chi, ed essere aggradite da chi le ci diede.
Lambertini. Per quale via abbiamo adunque noi a caminare, per ritornare a cosí sublime grado e farne conserva?
Leonora. Poco dianzi lo vi dissi, e non resterò di replicarvi succintamente che lo spirito nostro, posto nelle cose mondane, deve tuttavia cercare di levarsi fuori di questa spoglia mortale ; il che non gli potendo per lo impedimento naturale cosí di liggieri venir fatto né mai esseguire, mentre posa in questo corpo, per non perdere il bello che in conserva gli ha dato il suo Creatore, deve con le opere e co’ costumi di sorte regger sé, che, sciolto da questo velo, possa esser accettato vicino a’ cori angelici e farsi membro incorporeo della beatitudine del cielo. Essendo che la vera bellezza nostra, come vogliono i piú
saggi, sia splendore della divina bontá. Né fuor di ragione gli antichi teologi posero la bontá nel mezo del centro, il cui mezo è Dio, cinto da quattro circoli di bellezza: l’uno della mente, l’altro dell’anima, il terzo della natura ed il quarto della materia. E questo eglino divisarono per comprendere eziandio tutta questa macchina, e dar a vedere che Iddio è in tutto e il tutto. Ma quanto queste cose locate in questi cerchi siano differenti l’una dall’altra, e l’altra piú dell’altra nobile, non è alcuno di cosí basso giudicio ch’io mi creda non poterle considerare.
Lambertini. Questo centro, onorata signora, parmi cosí poter esser inferiore, come superiore. Però giudicherei esser bisogno di piu chiarezza per darloci ad intendere.
Leonora. E questo farò. Ma non accade a dubitare da centro inferiore a superiore, perché delle cose celesti ora parliamo. Dirò solo che «centro» si deve intendere un punto appresso l’ultimo piú interno cerchio indivisibile e stabile, dal quale nascono, derivano e s’estendono molte linee divisibili e mobili, ch’ai primo cerchio, a quello piú vicino, s’uniscono, il qual circolo viene a girarsi per virtú di quel punto stabile. Non vi starò altramente a narrare che ciascuna di quelle linee abbia il punto, e che nel punto non sia linea, non essendo questo di mistiero al nostro ragionamento: ma dirò solo che Iddio è quel centro e quel punto, per essere egli l’immobile e quello che dá il movimento a tutte l’altre cose; onde, per esser unione semplicissima ed atto purissimo, si tramette fra tutte le cose. Ed è necessario, si come sotto altre parole parmi aver detto, che a questo suo centro prima si leghino le cose create piú nobili, non si ritrovando altro d’incomposito e d’increato che Dio solo; e le piú nobili e piú vicine a lui sono le menti angeliche, a cui segue poi l’anima, indi i cieli e poi la natura, alquanto piú inferiore. Ma, venendo all’anima sola, la dirò piú mobile di qual altro cerchio che giri. Percioché, di proprietá sua discorrendo, conosce ed opera co’ corsi del tempo e può avicinarsi a qualsivoglia grandezza; onde quali sono le operazioni, o belle o ree, tale ella diviene. Cosi nel bene conferma la sua origine avuta da Dio, come nel male la perde; e questo
le aviene per la unione che tiene co’ corpi. E, si come noi abbiamo due bellezze, cioè la corporale e la spirituale, o vogliamo dire la visiva e la contemplativa, cosí anco due superiori ce ne restano a contemplar sempre, e delle quali dobbiamo cercare ed ingegnarsi divenir possessori. E, se piú tempo avessimo, vorremmo anco darveli ad intendere.
Arena. Di grazia, signora, per quella chiara bellezza dell’animo vostro, spiegateci anco quest’altra parte; ch’io spero ch’il sole si fermerá per cosí alto concetto.
Leonora. Noi abbiamo la bellezza del corpo, nella composizione delle parti, sottoposta al luogo ed al fuggir del tempo. Abbiamo poi quella dell’anima, che certo paté le mutazioni del tempo, ma da’ termini de’ luoghi è libera. La angelica ha poi solamente il numero, ma non è sottoposta all’altre due. Quella d’iddio non è in alcuno di questi termini, né d’altro paté, né a cosa è sottoposta. Volendo vedersi la forma del corpo, ad ognuno è concesso di vederlo a piacer suo. Ma, per mirare quella dell’anima, è di mistiero levare il peso della materia, congiunta alla beltá corporale. Per arrivare poi all’angelica, convienci rimovere non solamente gli spazi del luogo, ma eziandio i discorsi del tempo. Per contemplare poi la bellezza divina, tutte le altre cose ci bisogna lasciare. Onde, volendo averne parte, è di necessitá che gli allontaniamo non solamente da tutte le cose mondane, ma anco da quelle che si comprendono nei corpi celesti, fatta che di loro ci abbiamo scala bastante per arrivare a quel termine. Eccovi adunque quanto sia misteriosa la vera bellezza nostra, la quale dobbiamo cercare d’acquistare di maniera che del corpo poco o nulla curiamo. E quanto essa sia immensa, piú volte Mosé ed altri lo hanno dimostrato nello essere vinto dallo splendore divino; si che, per esser un mare di tutto, e noi quasi meno che gocciuole, dobbiamo usare ogni possa, col mezo della grazia e del lume di lui, per entrare in quello e parte di quello divenire, né di quella bellezza, che teme il tempo, punto curarci. Ma tempo è oggimai che io rimova la lingua mia, mal atta a si divini misteri, da cosí alti ragionamenti, i quali, non avendo io cosí felicemente saputi
raccontare come il sopraumano signor Annibai Caro divinamente mostratimi seppe, ed il piú ed il meglio conoscendo io aver lasciato a dietro ed imperfetto, meglio sará che stiano sepolti tra questi colli.
Cosi detto, levata in piedi, per incominciar giá Febo a delineare e dar segno di voler tuffarsi nell’oceano, tutti anco ci levammo; e, sceso il bello e dilettevol poggio, verso Melazzo ne venimmo, continuamente in piacevoli ragionamenti alleviando il camino. Dove giunti, ed apprestata la cena, dopo altri soavi cibi dell’anime, anco al corpo si diedero i suoi nodrimenti. APPENDICE
Allo illustrissimo signore il signor Giovan Federigo Madruccio GIUSEPPE BETUSSI.
Ingratissimo sarei, s’io non riconoscessi la molta benignitá e l’infinita amorevolezza con cui, questo passato marzo, alla Certosa di Pavia mi accoglieste ed abbracciaste; e piú che poco aveduto, s’io non facessi stima dell’acquisto che mostraste nello avermi conosciuto ed appagato sopra ciò il desiderio vostro di molti anni. Le quali cose comprendendo tutte lontane dal merito mio, e tutte proprie del nobilissimo e cortesissimo animo vostro, da indi in poi ho sempre desiderato farmi conoscere per affezzionatissimo e riconoscente servitore di Vostra Signoria illustrissima. Né veggendo in altro modo potermi essere concesso adempire questo desiderio che con alcuna fatica dei debile ingegno mio, ho voluto che la prima (posposti tutti gli altri padroni) sia quella che ne renda testimonio. Cosi le appresento e le faccio dono d’alcune poche reliquie, ch’io ho saputo mettere insieme, d’un breve ragionamento sopra la vera bellezza, il quale non sará giá simile al ricco Convito d’amore di Platone, ma un picciolo saggio di non comuni vivande (dopo cinque anni che furono gustate e ch’io ne feci conserva), da me a lei ora, come cosa piú cara ch’io possegga, inviate, non tenendo questo dono in tutto improprio di lei. Percioché, trattando egli di cosí alta e misteriosa materia, non so a qual altra persona, per le bellezze dell’animo, per le virtú, per gli costumi, per lo valore e per la cortesia, piú propriamente si convenisse; le quali qualitá, essendo natie del sangue Madruccio e tutte riposte in
lei, la fanno riguardevole ed ammirabile appresso ciascuno. Ho poi fede che questo mio dono non debba essere sprezzato, si per la divozione dell’animo mio, come per aver veduto con quanto studio, con qual diligenzia e con che bell’ordine abbia fatto scielta, e seco di continuo porti, i piú rari libri greci, latini e volgari, si di scienzie, come di istoria e di poesia eh’oggidí siano conosciuti ed avuti in pregio appresso i dotti, gli studiosi ed i nobili; cosa di non minor ornamento a cosí degno spirito, che si sia la gloria dell’armi. Per queste e per altre ragioni mi sono mosso a darle saggio di me, sacrando al nome suo quanto ho saputo investigare sopra la vera bellezza; ancora che meglio forse sarebbe stato che, avendo Ella di me buon odore, senz’altro saggio la avessi lasciato con gusto tale. Ma siane che ne piace a Dio, o sgannarla o confermarla ho voluto. E, tutto che da indi in poi ci sia stata tolta la celeste ed immortai signora, la contessa Livia Torniella Bonromea, nominata in questo dialogo, la cui memoria ed il cui valore sempre mi stará in mente, né potrò mai ricordarla senza cordoglio, perché questa fu troppo grave e troppo subita perdita per chi la conobbe; non però ho voluto mover l’ordine di quello, ma tal quale ei nacque, tale le piaccia riceverlo. E s’io conoscerò che ciò le sia stato caro, m’accrescerá l’animo di continuare per lei in questi ed in altri studi. Se anco avverrá il contrario, non quella di poca gratitudine, ma me stesso incolperò di cattiva fortuna e di niun valore. Cosi, venendo meglio a conoscere me medesmo, tenterò cose piú basse e non mi dorrò di lei ; alla quale, insieme col signor Lodovico Domenichi baciando le mani, m’inchino e le prego ogni felicitá.
Di Fiorenza, il mese d’agosto mdi.vii.