Il comento sopra la Commedia di Dante Alighieri di Giovanni Boccaccio. Tomo II/Allegorie del settimo capitolo
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ALLEGORIE DEL SETTIMO CAPITOLO
Pape Satan, pape Satan aleppe ec.
Respicit Æneas subito, et sub rupe sinistra
Moenia lata videt etc.
E appresso a Virgilio, descrive la sua corte e la sua maestà Stazio nel suo Tebaidos, dicendo,
Forte sedens media regni infelicis in arce
Dux Herebi populos poscebat crimina vitae,
Nil hominum miserans iratus, et omnibus umbris,
Stant furiae circum, variaeque ex ordine mortes,
Saevaque multisonas exercet poena catenas,
Fata ferunt animas etc
Post haec avari Ditis apparet domus.
Hic saevus umbras territat Stygius canis,
Qui trina vasto capita concutiens sono
Regnum tuetur: sordidum tabe caput
Lambunt colubrae: viperis horrent jubae:
Longusque torta sibilat cauda draco;
Par ira formae ........
Le quali molte fizioni, al nostro proposito io intendo così: Plutone voglion molti, come altra volta è stato detto, vegna tanto a dire quanto terra: comechè secondo Fulgenzio, Plutone in latino suona tanto quanto ricchezza; e perciò è chiamato da’ Latini Dispiter, quasi padre delle ricchezze: e che le periture ricchezze consistano in terra, o di sotterra si cavino, questo è chiarissimo, ed Opis è chiamata la terra, e perciò meritamente Plutone è detto non solamente terra, ma ancora figliuolo della terra. Ma perciocchè le prime ricchezze, non essendo ancora trovato l’oro, apparvero in parte pervenire dal lavorio della terra, e Saturno fu colui il quale primieramente insegnò lavorare la terra, è per questo meritamente chiamato padre di Plutone. Alle ricchezze, le quali per Plutone intendiamo, è meritamente data una città, la quale ha le mura di ferro, e per guardia Tisifone; acciocchè per questo noi intendiamo le menti degli avari, a’ quali le ricchezze commesse sono, esser di ferro, e conosciamo la crudeltà loro intorno alla guardia e tenacità di quelle; e in questa città dice Virgilio, non essere licito ad alcun giusto d’entrare:
Nulli fas casto sceleratum insistere limen;
acciocchè egli appaia, che il cercare o il servare le ricchezze, senza ingiustizia non potersi fare. Per la real corte, e per i circunstanti a questo Plutone, si deono intendere l’angoscia e l’ansietà delle sollicitudini infinite, e ancora le fatiche dannevoli le quali hanno gli avari nel ragunar le ricchezze, e ancora le paure dì perderle, dalle quali sono infestati coloro i quali con aperta gola intendono sempre a ragunare le ricchezze; e per lo carro dobbiamo considerare le circuizioni e i ravvolgimenti per lo mondo, ora in questo e ora in quel paese discorrendo, che fanno coloro i quali e tirati e sospinti sono dal desiderio di divenir ricchi: e l’essere il detto carro sopra tre ruote tirato, nulla altra cosa credo significhi, se non la fatica, il pericolo e la incertitudine delle cose future, nelle quali coloro che vanno dattorno continuamente sono: e così i cavalli tiranti questo carro, dicono esser tre, a dimostrarne i tre accidenti, i quali in questi cotali attornianti il mondo per arricchire par che sieno. Chiamasi adunque il cavallo primo Meteo, il quale è interpetrato oscuro, per lo quale s’intende l’oscura, cioè stolta deliberazione d’acquistare quello che non è di bisogno, dalla quale il cupido senza riguardare il fine si lascia tirare. Il secondo cavallo è chiamato Abastro, il quale tanto viene a dire quanto nero, acciocchè per questo si conosca il dolore e la tristizia de’ discorrenti, i quali spessissime volte si trovano in cose ambigue, e in evidenti pericoli, e in paure grandissime. Il caval terzo è nominato Novio, il quale tanto vuol dire quanto cosa tiepida, acciocchè per lui cognosciamo, che per la paura de’ pericoli, e ancora pe’ casi sopravvegnenti, cade la speranza di coloro che ferventissimamente desiderano d’acquistare, e cosi intiepidisce l’ardore il quale allora stoltamente gli confortava. Il maritaggio di Proserpina, la quale alcuna volta significa abbondanza, e massimamente qui, ad alcuno non è dubbio, che con altrui che co’ ricchi non si fa, e spezialmente secondo il giudicio del vulgo ragguardante, la cui estimazione spessissimamente è falsa; perciocchè esso quasi sempre crede, che là dove vede i granai pieni, come appo i ricchi si veggono, che quivi sia abbondanza grandissima; dove in contrario, essendo le menti vote, siccome l’avarizia procura, v’è fame e gran penuria d’ogni bene, e però in questo maritaggio niuna cosa si genera che laudevole o degna di reverenza sia. Cerbero cane di Plutone, estimano alcuni essere stato vero cane, e perciò essere detto lui aver tre teste, per tre singulari proprietà le quali erano in lui: egli era nel latrato d’alta voce e di sonora, ed era mordacissimo, e oltre a ciò era in tenere quello che egli prendeva fortissimo; nondimeno, sotto la verità di questo cane, sentirono i poeti essere altri sensi riposti, in quanto è detto guardiano di Dite; e perciò conciosiacosachè per Dite si debbano intender le ricchezze, siccome davanti è mostrato, non potremo più attamente dire, alcuno essere guardiano di quelle, se non l’avaro; e così per Cerbero sarà da intendere l’avaro, al quale perciò sono tre teste descritte, a dinotare tre spezie d’avari, perciocchè alcuni sono, i quali sì ardentemente desiderano l’oro, che essi cupidamente in ogni disonesto guadagno per averne si lascian correre, acciocchè quello che acquistato avranno pazzamente spendano, donino e gittin via; i quali avvegnachè guardiani delle ricchezze dir non si possano, nondimeno sono pessimi e dannosi uomini. La seconda spezie è quella di coloro, i quali con grandissimo suo pericolo e fatica ragunano d’ogni parte e in qualunque maniera, acciocchè tengano, e servino e guardino, e nè a sè nè ad altri dell’acquistato fanno prò’ o utile alcuno. La terza spezie è quella di coloro, i quali non per alcuna sua opera, o ingegno o fatica, ma per opera de’ suoi passati ricchi divengono, e di queste ricchezze sono sì vigilanti e studiosi guardiani, che essi non altrimenti che se da altrui loro fossero state deposte le servano, nè alcuno ardire hanno di toccarle: e questi cotali sono da dire tristissimi e miseri guardiani di Dite. I serpenti i quali sono a Cerbero aggiunti alle chiome, sono da intendere per le tacite e mordaci cure, le quali hanno questi cotali intorno all’acquistare e al guardare l’acquistato. Oltre a questo gli antichi chiamarono questo Plutone Orco, siccome appare nelle Verrine di Tullio, quando dice: ut alter Orcus venisse Ætnam, et non Proserpinam, sed ipsam Cererem rapuisse videbatur etc. Il quale dice Rabano così essere chiamato, perciocchè egli è ricettatore delle morti; conciosiacosachè egli riceva ogni uomo di che che morte si muoia, e cosi l’avaro ogni guadagno riceve di che che qualità egli si sia. E questo basti ad aver detto intorno a quello che per Plutone si debba intendere in questo luogo, il che raccogliendo, sono le ricchezze, e i malvagi guardatori e spenditori di quelle e così significherà questo demonio il peccato, e la cagion del peccato, il quale in questo quarto cerchio miseramente si punisce. Son certo che ci ha di quegli che si maraviglieranno, perciocchè l’allegoria, la quale io ho al presente data a questo cane infernale, cioè a Cerbero, non è conforme a quella la quale gli diedi nella esposizione allegorica del precedente canto, dove mostrai lui significare il vizio della gola, e qui dimostro io per lui significare tre spezie d’avarizia. Ma io non voglio che di questo alcuno prenda ammirazione, perciocchè la divina Scrittura è tutta piena di simili cose, cioè che una medesima cosa ha non solamente uno, ma due e tre e quattro sentimenti, secondochè la varietà del luogo dove si trova richiede: la qual cosa, acciocchè voi per manifesto esemplo veggiate, mi piace per alcuna figura, e per la verità de’ sensi di quella mostrarvelo. Leggesi nel Genesi, che il serpente venne ad Eva, e confortolla che assaggiasse del cibo, il quale 1’era stato comandato che ella non assaggiasse: e poi per questo serpente doversi intendere il nemico della umana generazione, tutti i santi uomini e dottori della chiesa s’accordano. Similmente scrive san Giovanni nell’Apocalissi, che fu fatta una battaglia in cielo, come nell’esposizione litterale è detto, nella quale san Michele Arcangiolo uccise il serpente; e per questo serpente, similmente s’intende per tutti il nemico nostro antico: perchè potete vedere per gli esempli posti, per lo serpente intendersi il diavolo. Ma in altra parte nella Scrittura si legge, che essendo il popolo d’Israel venuto dietro a Moisè, in parte del deserto piena di serpenti, e che questi serpenti trafiggevano e molestavano forte il popolo, e non solamente gli offendeano d’infermità, ma egli ve ne morivano per le trafitte velenose: la qual cosa come Moisè sentì, per comandamento di Dio fece un serpente di rame, e dirizzata nel mezzo del popolo una colonna, ve ’l pose suso, e comandò che qualunque del popolo trafitto fosse, incontanente che trafitto fosse, mostrasse quella puntura o quella piaga, che dal serpente avesse ricevuta, a questo serpente da lui elevato, ed egli sarebbe guerito, e così avvenia. Intendesi in questa parte questo serpente elevato esser Cristo, il quale nel mezzo del popolo ebraico elevato in su la colonna della croce, sanò e sana tutte le piaghe delle colpe nostre, per li conforti e per le tentazioni de’ serpenti, cioè de’ nemici nostri, fatte nelle nostre anime: le quali come noi le mostriamo a questo serpente elevato, cioè a Cristo, per la contrizione, e per la confessione, e per la satisfazione, incontanente siamo per la sua passion liberati e guariti dalle piaghe, le quali a morte perpetua ci traevano. E fu questo serpente, cioè Cristo, di rame, secondo due proprietà del rame, il quale è di colore rosso ed è sonoro; perciocchè Cristo nella sua passione divenne tutto rosso del suo prezioso sangue, versato per le punture della corona delle spine, per le battiture delle verghe del ferro, per le piaghe fattegli nelle mani e ne’ piedi da’ chiovi co’ quali fu confitto in su la croce, e per lo costato quando gli fu aperto con la lancia. Fu ancora questo serpente sonoro, in quanto la sua dottrina infino agli estremi del mondo fu predicata e udita, e ancora si predica e predicherà mentre il mondo durerà: e così in una medesima figura avete il serpente significare Cristo e ’l demonio: Cristo in quanto libera, il demonio in quanto offende. Leggesi ancora per la pietra essere assai spesso nelle sacre lettere significato Cristo, e talora l’ostinazion del demonio: dice il Salmista: lapidem, quem reprobaverunt aedificantes, hic factus est in caput anguli: e vogliono i dottori per questa pietra significarsi Cristo. Fu nella edificazione del tempio di Salomone più volte da’ maestri che ’l muravano provato di mettere, tra l’altre molte pietre che v’erano, una pietra in lavorio, nè mai si poterono abbattere a porla in parte dove paresse loro che ella bene risedesse: ultimamente provandola ad un canto, il quale congiugneva due diverse pareti del tempio, trovarono questa pietra ottimamente farsi in quel canto, e nella congiunzione de’ due pareti. Vogliono adunque i dottori queste due pareti avere a significare i due popoli de’quali Cristo compose il tempio suo, de’ quali l’uno fu di parte de’giudei, e 1’altro fu de gentili, de’ quali Cristo, comechè due pareti fossero, fece una chiesa. Significano ancora le due pareti i due testamenti, il vecchio e ’l nuovo, alla congiunzion de’ quali solo Cristo fu sufficiente, in quanto il suo nascimento, la sua predicazione e la sua passione, furono quelle che apersero i segreti misterii del vecchio testamento, velati da dura corteccia sotto la lettera, e così quegli che per opera congiunse con la sua dottrina, la qual noi leggiamo nel nuovo testamento; e così potete vedere qui per la pietra significarsi Cristo. Oltre a questo si legga nell’Apocalissi: substulit angelus lapidem quasi molarem, et misit in mare: per la qual pietra vogliono i dottori, s’intendano i pessimi e malvagi uomini: ed Ezechiello dice: auferam eis cor lapideum, per la quale intendono i dottori la durezza della infedeltà: e il Salmista dice: descenderunt in profundum, quasi lapides; intendendo per questa pietra, il peso e la gravezza del peccato: e però senza por più esempli, potete vedere, com’è detto, una medesima cosa avere diversi sensi e diverse esposizioni; il che come delle figure del vecchio testamento addiviene, così similmente avviene delle fizioni poetiche, le quali significano quando una cosa e quando un’altra. Ora si suole intorno a queste esposizioni spesse volte dire per i laici, la Scrittura avere il naso di cera, e perciò i predicatori e i dottori, secondochè lor pare, torcerlo ora in questa parte e ora in altra: la qual cosa non è vera, perciocchè la Scrittura di Dio non ha il naso di cera, anzi l’ha di diamante, del quale non si può levare, nè vi si può appiccare alcuna cosa, nè si può rintuzzare, siccome quella la quale è fondata e ferma sopra pietra viva, e questa pietra è Cristo: ma puossi piuttosto dire, questi cotali avere il cuore, lo intelletto e l’ingegno di cera, e perciò vedere con gli occhi incerati; e come son fatti eglino pieghevoli ad ogni dimostrazione vera e non vera, così par loro sia fatta la Scrittura; non conoscendo, che la varietà de’ sensi è quella che n’apre la verità nascosa sotto il velo delle cose sacre, la quale noi aver non potremmo se sempre volessimo ad una medesima cosa dare un medesimo significato. Non si dovranno alcuni maravigliare, se in altra parte Cerbero significò il vizio della gola, e in questa gli s’attribuisce la guardia delle ricchezze. Ma acciocchè noi alle spezie de’ due peccati ci deduciamo, dico che secondochè i poeti scrivono, ne’ tempi che Saturno regnò, fu una età tanto laudevole, tanto piacevole, e tanto a coloro che allora vivevano graziosa e innocente, che essi la chiamarono, come altra volta è detto, l’età dell’oro. E quantunque essi vogliano, quella in ciascuno atto umano essere stata virtuosa, intorno all’appetito delle ricchezze del tutto la descrivono innocua; perciocchè essi dicono, regnante Saturno predetto, tutti i beni temporali, avvegnachè pochi e rozzi fossero, essere stati comuni a ciascheduno, e perciò non essersi allora trovato alcuno che servo fosse, o che in ispezialità alcuno mercenario servigio facesse; ciascuno era e signore e servo di sè parimente, nè era campo alcuno che da alcun termine o fossa o siepe segnato fosse: alcuno armento non era che d’esser più da uno che da un altro si conoscesse; di niuna pecunia era notizia, siccome di quella che ancora non era stata da alcuna stampa segnata, nè mercatante, nè navilio, o alcuna altra cosa, per la quale apparer potesse alcuno in singularità avere appetito di possedere quello che agli altri non fosse comune, si conosceva: E per questo vogliono, e meritamente, in que’ secoli il mondo avete avuta lieta pace e consolata, nè alcun vizio ancora esser potuto entrare nelle menti de’ mortali: la quale benignità, e di Dio e della natura delle cose, se continuata fosse stata da noi, come mostrata ne fu ne’ primi tempi per doverla seguire e continuare, non è dubbio alcuno, che dove avendola lasciata, e preso altro cammino, e per quello i vizii ne trasviano all’inferno, che noi dopo riposata vita mortale non fossimo similmente saliti all’eterna. Ma poichè tra tanta semplicità, tra tanta innocenza nella vita piena di tranquillità, essendone operatore il nemico dell’umana generazione, furon questi due pronomi, mio e tuo seminati, tanto il santo ordine si turbò, che grandissima parte di quelli, i quali a dovere riempiere in paradiso le sedie degli angioli ribelli creati furono e sono, rovinano ad accrescere il lor numero in inferno. Entrato adunque co’ due pronomi il veleno pestifero, del voler ciascuno più che per bisogno non gli era, nelle menti degli uomini, si cominciarono i campi a partire con le fosse, a raccogliere nelle proprie chiusure le greggi e gli armenti, a separare le abitazioni, e a prezzolar le fatiche; e cacciata la pace e la tranquillità dell’animo, entrarono in lor luogo le sollecitudini, gli affanni superflui, le servitudini, le maggioranze, le violenze e le guerre: e quantunque con onesta povertà alcuni vincessero, e scalpitassero un tempo l’ardente desiderio d’avere oltre al natural bisogno, non potè però lungamente la virtù di pochi adoperare, che il vizio di molti non l’avanzasse: e non bastando all’insaziabile appetito le cose poste dinanzi agli occhi nostri e nelle nostre mani dalla natura, trovò l’ingegno umano nuove ed esquisite vie a recare in pubblico i nascosi pericoli; e pertugiati i monti, e viscerata la terra, del ventre suo l’oro l’argento e gli altri metalli recarono suso in alto: e similmente pescando, delle profondità de’ fiumi e del mare tirarono a vedere il cielo le pietre preziose e le margherite; e non so da quale esperienza ammaestrati, con sangue di pesci, e coi sughi dell’erbe, trasformarono il color della lana e della seta; e brevemente ogni altra cosa mostrarono, la qual potesse non saziare ma crescere il misero appetito de’ mortali; di che Boezio nel primo libro della Consolazione, fortemente dolendosi, dice: Heu primus quis fuit ille.... Auri, qui pondera tecti.... Gemmasque latere volentes... Pretiosa pericula fodit? Ma poichè lo splendor dell’oro, la chiarità delle pietre orientali, e la bellezza della porpore fu veduta, in tanto s’acceser gli animi ad averne, che con abbandonate redine, per qualunque via, per qualunque sentiero a quel crediam pervenire tutti corriamo; e in questo inconveniente, non solamente ne’ nostri giorni, ma già sono migliaia di secoli si trascorse; e così la prima semplicità, e l’onesta povertà, e i temperati desiderii scherniti, vituperati e scacciati, ad ogni illicito acquisto siam divenuti, per la qual cosa l’umana carità, la comune fede e gli esercizii laudevoli, non solamente diminuiti, ma quasimente esinaniti del tutto sono; e che è ancora molto più dannevole, con ogni astuzia e con ogni sottigliezza s’è cercato, e cerca l’odio di Dio; pensando che dove noi dobbiam lui sopra ogni altra cosa amare, onorare e reverire, noi l’oro e l’ariento, i campi e l’umane sustanze in luogo di lui amiamo, onoriamo e adoriamo. Laonde segue che per lo non saper por modo all’appetito, e non sapere e non volere con ragione spendere l’acquistato, morendo ci convien qui lasciare quello che noi ne vorremmo portare, e portarne quello che noi vorremmo poter lasciare; e col doloroso incarico delle nostre colpe, in eterna perdizione, dalla divina giustizia, a voltare i faticosi pesi, come l’autore ne dimostra, mandati siamo. E acciocchè meglio si comprenda la gravità di questa colpa, e quello che l’autore intende in questa parte di dimostrare, e che l’uomo ancora si sappia con più avvedimento dalla meglio conosciuta colpa guardare, più distintamente mi pare che sia da dire che cosa sia e in che brevemente consista questo vizio dell’avarizia. È adunque l’avarizia, secondochè alcuni dicono, auri cupiditas, cioè desiderio d’oro: san Paolo dice ad Ephaesios v. avaritia est idolorum servitus: e secondo la sentenza d’Aristotile nel quarto dell’Etica, l’avarizia è difetto di dare ove si conviene, e soperchio volere quello che non si conviene. Che l’avarizia sia cupidità d’oro, in parte è già dimostrato, e più ancora si dimostrerà appresso; che ella sia un servire agl’idoli, seguendo la sentenza dell’apostolo, assai bene il dimostra san Geronimo in una sua pistola a Rustico monaco, dove dice: aestimato malo pondere peccatorum, levius alicui videtur peccare avarus, quam idolatra; sed non mediocriter errat: non enim gravius peccat, qui duo grana thuris projicit super altare Mercurii, quam qui pecuniam avare, cupide, et inutiliter congregat, ridiculum videtur, qui aliquis judicetur idolatra, qui duo grana thuris offeret creaturae, quae Deo debuit offerre, et ille non judicetur idolatra, qui totum servitium vitae suae, quod Deo debuit offerre, offert creaturae. Che ella sia difetto di non dare ove si conviene, e soperchio volere quello che non si conviene, dimostrerà il seguente trattato. Sono adunque alcuni, i quali non essendo loro necessità, in tanto desiderio s’accendono di divenir ricchi, che il trapassar l’Alpi, e le montagne e’ fiumi, e navigando di venire alle nazioni strane, tirati dalla speranza, e sospinti dal desiderio, par loro leggerissima cosa, avendo del tutto in dispregio ciò che Seneca intorno a queste fatiche scrive a Lucillo, dove dice: magnae diitiae sunt, lege naturae, composita paupertas: lex autem illa naturae, scis quos terminos nobis statuat, non exurire, non sitire, non algere; ut famem, sitimque depellas, non est necesse superbis assidere liminibus, nec supercilium grave, et contumeliosam etiam humilitatem pati: non est necesse maria tentare, nec sequi castra, parabile est, quod natura, desiderat, et appositum: ad supervacua sudatur: illa sunt quae togam conterunt, quae nos senescere sub tentorio cogunt, quae in aliena litora impingunt: ad manum est, quod sat est: qui cum paupertate bene convenit, dives est. E se questi cotali fossono contenti quando ad alcun convenevole termine pervenuti sono, o fossero contenti di pervenire a questo termine con onesta fatica e laudevole guadagno, forse qualche scusa il naturale appetito, il quale abbiamo infisso d’avere, gli troverebbe; ma perciocchè a questo modo non si sa porre tutti nel miserabile vizio trapassiamo, cioè in soperchio volere più che non ci conviene. È il vero che il trapassare per questa via il convenevole par tollerabile, quando a quelle che molti altri tengono si riguarda. Sono i più sì offuscati dall’appetito concupiscibile, che ogni onestà, ogni ragione, ogni dovere cacciato da sè, in dover per qualunque via ragunare, non solamente più che non bisogna ad uno, ma ancora più che non bisognerebbe a molti: e per pervenire a questo, altri si danno senza alcuna coscienza a prestare ad usura, altri a rubare e occupare con violenza l’altrui, altri ad ingannare e fraudolentemente acquistare, e con altri esercizii simili, non più d’infamia che di fama curando, si sforzano le lor fortune ampliare. Contro a questi cotali dice Tullio nel libro terzo degli oficii: detrahere igitur alteri aliquid, et hominem hominis incommodo, suum commodum augere, magis est contra naturam, quam mors, quam paupertas, quam dolor, quam caetera, quae possunt, aut corpori accidere, aut rebus esternis etc. Sono nondimeno alcuni altri i quali pare, che prima facie, vogliano e ingegninsi d’avere più che il bisogno non richiede, i quali sono a distinguere da questi; perciocchè dove i predetti sono pessima spezie d’ava ri, quelli de’ quali intendo di dire non si posson con ragione dire avari, nè sono. Son di quegli i quali in nulla parte passato il dovere, con diligenza s’ingegneranno di fare che i lor campi loro abbondevolmente rispondano; questo è giusto desiderio e giusta operazione, quantunque ella trapassi il bisogno, perciocchè quel più, in assai cose commendabili si può poi a luogo e a tempo adoperare. Alcuni altri per non stare oziosi, con ogni lealtà faranno una loro arte, alcuna mercatanzia, i quali quantunque più che lor non bisogna avanzin di questa, non sono perciò da reputare avari. Altri s’ingegnano di riscuotere, e di racquistare quello, o che hanno creduto, o che hanno prestato del loro ad altrui: nè questo è da dire avarizia, quantunque sia più che quel che bisogna a chi il raddomanda. E similmente sono alcuni altri, i quali col sudore e con la fatica loro, o per prezzo o per provvisione si fien messi al servigio d’alcun altro, e con fede l’avranno servito: il domandar questo, e il volerlo, niuna ragion vuole che sia reputata avarizia. È oltre alla predetta la seconda spezie d’avarizia, la quale consiste in difetto di dare dove e quanto si conviene, e in questa quasi tutta l’università degli uomini pecca. Sonne alcuni, che poichè per loro opera o per l’altrui sono divenuti ricchi, sono sì fieramente tenaci, che non che pietà o misericordia gli muova a sovvenire, eziandio d’una piccola quantità un bisognoso, ma a’ figliuoli, alle mogli e a sè medesimi sono sì scarsi, che non che in altro si ristringano, ma essi nè beono nè mangiano quanto il naturale uso desidera, e dell’altrui prenderebbono, se loro dato ne fosse. Alcuni altri ne sono, i quali nè onore nè dono vogliono ricevere da alcuni, per non avere a dare o ad onorare, Alcuni altri ne sono, i quali non solamente alle loro vigilie o a’ cassoni ferrati i loro tesori fidano, ma fatte profondissime fosse ne’ luoghi men sospetti gli sotterrano: di che segue assai sovente, che come essi vivendo non hanno avuto bene, così dopo la morte loro non ne puote avere alcun altro. E pallian questi cotali la lor miseria col dire, noi siamo solenni guardatori del nostro, acciocchè alcuno bisogno non ne costringa a domandar l’altrui, o a fare altra cosa che più disonesta fosse che l’avere ben guardato il suo. E di questi cotali sono alcuni più da riprendere che alcuni altri, siccome noi veggiamo spesse volte avvenire, che alcuno per eredità diverrà abbondante, senza avere in ciò alcuna fatica durata; e nondimeno sarà più tenace, che se per sua industria o procaccio ricco divenuto fosse; il che oltre al vizio, pare una cosa mirabile, perciocchè in loro non dovrebbe avvenire quello che in coloro avviene, i quali con suo grandissimo affanno hanno ragunato quello che essi poi con sollecitudine guardano; e ciascuno naturalmente, secondochè dice Aristotile, ama le sue opere più che l’altrui, come i padri i figliuoli, e i poeti i versi loro, E di questi medesimi si posson dire essere i cherici, ne’ quali è questo peccato tanto più vituperevole, quanto con men difficultà l’ampissime entrate posseggono, non di loro patrimonio, non di loro acquisto pervenute loro: e oltre a ciò con men ragion le ritengono, perciocchè i loro esercizii debbono essere intorno alle cose divine, all’opere della misericordia, e di ciascuna altra pietosa cosa; deono stare in orazione, digiunare, sobriamente vivere, e dar di sè buono esempio agli altri in disprezzare le cose temporali e il mondo, e seguire con povertà le vestigie di Cristo, acciocchè bene adoperando, appaiano le loro opere essere conformi alla dottrina: le quali cose come essi le fanno Iddio il vede. È appresso questo vizio meno abbomìnevole in una età che in un’altra, perciocchè l’essere un giovane avaro, senza dubbio non riceve scusa alcuna, perciocchè l’età del giovane è di sua natura liberale, siccome quella che sì si vede forte e atante ne’ bisogni sopravvegnenti, ed è piena di mille speranze e d’altrettanti aiuti, e molte vie o vede o le par vedere da potere risarcire quello che speso fosse, o d’acquistar di nuovo; il che ne’ vecchi non puote avvenire, perciocchè essi, i quali il più sono astuti e avveduti, non si veggono, procedendo avanti nel tempo, rimanere alcuno amico, se non le sustanze temporali; e in contrario si veggono ogni dì pieni di bisogni nuovi e inopinati, e similmente s’accorgono, che essendo essi delle dette sustanze abbondevoli, non mancar loro l’essere serviti, e aiutati e avuti cari, da coloro spezialmente i quali sperano, secondo il loro adoperare verso loro, doversi nella fine dettare il testamento; dove spesso se essi senza denari e senza derrate sono, non che da’ più lontani, ma dalle mogli, da’ figliuoli, da’ fratelli sono scacciati, ributtati e avviliti, e avuti in dispregio; la qual paura se considerata fìa, non sarà alcuno che si maravigli, se essi son tenaci e ancora cupidi d’avanzare, se il come vedessero. Contro a costoro grida la dottrina evangelica, i santi, e’ filosofi e’ poeti: leggesi nell’Evangelio di Luca cap. V. Vae vobis divitihus; e nella canonica di san Jacopo cap. V. Agite nunc divites, plorate ululantes in miseriis, quae evenient vobis: e nello Evangelio: mortuus est dives, et sepultus est in Inferno. Ed Abacuc cap. 2. dice: Vae, qui congriegat non sua, ed esso medesimo cap. 2. Vae, qui congregat avaritiam malam domui suae: et Ecclesiastici X. Avaro nihil est scelestius. E santo Agostino dice: Vae illis, qui vivunt, ut augeant res perituras, unde aeternas amittunt; ed esso medesimo: Maledictus dispensator avarus, cui largus est Dominus. E Seneca a Lucilio Epistola XIIL scrive: Multis parasse divitias, non finis miseriarum fuit, sed mutatio. E Tullio in 1. Officiorum: Nihil est tam angusti animi, parvique, quam amare divitias: nihil honestius, magnificentiusque, quam pecuniam contemnere, si non habeas: si habeas, ad beneficentiam, liberalitatemque conferre. E Virgilio nel III. dell’Eneida:
— — — — quid non mortalia pectora cogis,
Auri sacra fiames? — — — — — —
E Persio scrive,
Discite, o miseri, et causas cognoscite rerum:
Quis modus argento, quid fias optare, quid asper.
Utile nummus habet?
Sed quo divitias haec per tormenta coactas?
Cum furor haud dubius, cum sit manifesta phrenesis,
Ut locuples moriaris, egenti vivere fato etc.
Or discendiamo omai a maggior pieta ec.
Dico adunque, che secondochè ad Aristotile pare nel quarto dell’Etica, che l’ira, la quale meritamente si dee reputar vizio, è un disordinato appetito di vendetta; e perciò pare questa essere causata da tristizia nata nell’adirato, per alcuna ingiuria ricevuta in sè o in alcun di cui gli caglia, o nelle sue cose, o falsa o vera che quella ingiuria sia. E in tanto è questo appetito vizioso, in quanto questi cotali iracundi si turbano verso coloro, verso i quali non è di bisogno turbarsi, e per quelle cose per le quali turbar non si deono, e quando turbar non si deono, e ancora più velocemente che non deono, e più tempo perseverano in istare adirati che essi non deono. E di questi cotali adirati o iracundi, secondochè Aristotile medesimo dimostra, son tre maniere: la prima delle quali è quella d’alcuni, che per ogni menoma cosa che avviene, non che per le maggiori, solamente che loro non satisfaccia, subitamente s’adirano, e gridano e prorompono in furore; ma in essa non lungamente perseverano, quasi lor sia bastevole d’aversi mostrati adirati, o perchè subitamente vien loro fatto di prender vendetta della cosa per la quale adirati si sono; e così esalata l’ira, ritornano nella quiete prima: la qual cosa in questi cotali è commendabile, quantunque non sia perciò stata la colpa dell’adirarsi minore: e pare che in questa spezie d’ira siano fieramente inchinevoli coloro, i quali sono di complession collerica, dalla velocità e sottigliezza della quale par che venga questa subitezza. La seconda maniera è quella di coloro, i quali non troppo contenentemente per ogni piccola cagion s’adirano, ma pure in quella, dopo alquanto aver sofferto pervengono: l’ira de’ quali è si pertinace e ferma, che non senza difficultà si dissolve e questi stanno lungamente adirati, servando dentro a sè medesimi l’ira loro, nè quasi mai quella risolvono, se della ingiuria, la quale par loro aver ricevuta, alcuna vendetta non prendono; nè questa tengono ascosa senza lor gravissima noia, perciocchè quanto il fuoco più si ristrigne in poco luogo più cuoce; e perciò mentre penano a sodisfare a questo loro disordinato appetito, tanto servano l’ira, e sè medesimi affliggono e molestano. Ed è questa ira men curabile in quanto è nascosa, perciocchè nè amico nè altri può a questi cotali persuadere alcuna cosa, per la quale questa ira nascosa si diminuisca o si lasci; perchè segue esser di necessità, o che per vendetta, o che per lunghezza di tempo, nella quale ogni cosa diminuisce, ella intiepidisca e ismaltiscasi e ritorni in niente. E son questi cotali non solamente a sè medesimi molesti, ma ancora alle lor famiglie, a’ compagni e agli amici, co’ quali essi, stimolati dalla turbazione intrinseca, vivere con alcuna consolazione non possono. E da questa spezie d’ira sono infestati maravigliosamente quegli che son di complessione malinconica, perciocchè in essi, per la grossezza dell’umor terreo, la impression ricevuta persevera lungamente. La terza maniera di questi iracundi sono alcuni, i quali adirati in alcuna maniera non lascian l’ira, nè per consiglio d’alcuno nè per lusinga, nè ancora per lunghezza di tempo, senza avere presa vendetta dell’offesa la quale par lor avere ricevuta: e questi sono pessimi adirati; perciocchè come assai chiaramente vedersi può, essi hanno l’ira convertita in odio. Della qual maladizione fieramente son maculati i Toscani, e tra loro in singularità i Fiorentini, i quali per alcuno ammaestramento datoci non ci sappiamo recare a perdonare; e che ancora è molto peggio, mandandoci Domeneddio per questo il giudicio suo sopra, tanto impazientemente il comportiamo, che di questo male in molti altri strabocchevolmente trapassiamo, bestemmiandolo, rinnegandolo, e chiamandolo ingiusto non volendoci per alcuna maniera ricordare delle sue parole nello Evangelio, nel quale egli per farci al perdonare inchinevoli, per figura dimostra di quel signore, il quale volle rivedere la ragione dell’amministrazione che un de’ suoi servi aveva fatta de’ fatti suoi: trovò che il servo gli doveva dare cento talenti; e però comandò, che esso ogni sua cosa venduta, fosse messo in prigione, infiino a tanto che egli avesse interamente pagato: ma pregandolo cona umiltà il servo gli perdonasse, impetrò rimessione dei debito: e poi liberato, fece senza voler perdonare prendere un suo conservo, per dieci talenti dar gli dovea, e metterlo in prigione: il che udendo il signore, che cento n’avea perdonati a lui, il fece prendere, e d’ogni suo bene spogliare, e gittare nelle tenebre esteriori, perciocchè verso il prossimo suo era stato ingrato, non volendosi ricordare di ciò che esso avea dal suo signor ricevuto. Alle quali cose se noi riguardassimo, cognosceremrao questo signore essere Iddio Padre, e il servo che dar dovea i cento talenti essere ciascheduno uomo: e perchè possibile non era pagare il debito, mandò di cielo in terra il figliuolo, il quale con la sua passione e morte ne liberò da così ponderoso debito; e noi poi mal grati di tanta grazia, non ci possiamo, nè ci lasciamo recare a’ conforti di coloro che saviamente ne consigliano, a perdonare alcuna ingiuria, quantunque menoma, l’uno all’altro; di che egli avviene, che privati d’ogni nostro bene, siamo per giudicio di Dio gittati in casa il diavolo. Ma quantunque l’uno pecchi meno che l’altro, di queste tre maniere d’iracundi, nondimeno tutte offendono gravemente Iddio, sì nel non aver saputo porre il freno della temperanza agli empiti loro, e sì per la ragione detta di sopra, e sì ancora per avere avuto in dispregio il comandamento di Dio, dove nello Evangelio dice: Mihi vindictam, et ego retribuam, e per questo nell’ira sua divenuti, e in quella morti, quello ne segue che poco davanti si disse, cioè che dannati, siam mandati al supplicio, il quale l’autore ne descrive.
È nondimeno questo vizio spesse volte non solamente per lo futuro supplicio dannoso molto agl’iracundi, ma ancora nella vita presente. Ercole adirato e in furor divenuto, uccise Megara sua moglie e due suoi figliuoli: e Medea adirata similmente due suoi figliuoli di Giasone acquistati uccise: Eteocle re di Tebe in singular battaglia contro a Polinice suo fratello discese: Atreo diede tre suoi nepoti mangiare a Tieste suo fratello: Aiace Telamonio, il quale non avevan potuto vincere 1’armi troiane, vinto dall’ira sè medesimo uccise: Amata moglie del re Latino, veduta Lavina sua figliuola divenuta moglie d’Enea Troiano, turbata si mise il laccio nella gola, e divenne misero peso delle travi del real suo palagio: Annibale Cartaginese, chiaro per molte vittorie, per non poter sofferire di venire alle mani de’ Romani, raddomandantilo al re Prusia, incontro a sè adiratosi, preso volontariamente veleno si morì. Che bisogna raccontarne molti? conciosiacosachè manifesto sia l’ira, poichè il consiglio della ragione è tolto dell’uomo, col furor suo molti n’abbia già in miseria e detestabile ruina condotti; i quali comechè in questa vita e seco medesimi, e con altrui crudelmente si trattino, ne mostra l’autor nell’altra non esser meglio dalla giustizia trattati, mostrandone loro essere nella palude di Stige, torbida di fetido fango e orribile, per lo suo fervore e per lo fummo continuo, il quale da essa continuamente esala, tuffati e pieni d’abominevole fastidio; e in quella non solamente con le mani lacerarsi, ma ancora con la testa e con ciascuno altro membro fieramente percuotersi, e co’ denti mordersi, e troncarsi le persone e stracciarsi tutti. Sotto la corteccia delle quali parole, mescolando il moral senso, spettante a noi che vivi siamo, con lo spirituale, il quale a’ dannati appartiene, si può vedere il dannoso costume degli iracundi in questa vita, e la gravosa pena de’ dannati nell’altra. Il percuotersi con la testa, col petto e co’ piedi, niuna altra cosa è, che un disegnare gl’impeti furiosi degli iracundi, quando dal focoso accendimento dell’ira sono incitati. Possiamo nondimeno intendere per la testa dell’iracondo, i pensieri, gl’intendimenti, le deliberazioni dell’iracundo, tutti posti e dirizzati dietro al desiderio della vendetta: e questo perciocchè nella testa consistono tutte le virtù sensitive interiori, e ancora le intellettive, dalle quali sono formate le predette cose. E perciocchè nel petto consistono le virtù vitali e le nutritive, dobbiam sentire co’ petti offendersi gl’iracundi, non l’un l’altro, ma sè medesimi; in quanto quando molto si pon l’animo all’effetto d’alcun desiderio, non si prende da colui che così è occupato nè la quantità del cibo usata, nè ancora con l’ordine consueto, perchè conviene che la virtù nutritiva sia intorno al suo uficio talvolta molto impedita, dal quale impedimento seguita la debolezza e il diminuimento delle virtù vitali; e così, mentrechè l’iracundo con tutto il suo desiderio sta inteso a doversi dell’ingiuria ricevuta vendicare, offende più sè medesimo che ’l nemico. E così ancora per i piedi dobbiamo intender le affezioni di qualunque persona; perciocchè siccome i piedi portano il corpo, così l’affezioni menano l’animo e sono guida di quello: e perciocchè l’affezioni dell’iracondo sono pronte, e inchinevoli a dovere nuocere a colui o a coloro contro a’quali è adirato, dice qui l’autore gl’iracundi co’piedi offendersi. Il troncarsi coi denti le carni, e levarsele con essi a pezzo a pezzo, è efficacissima dimostrazione di quanta forza sia l’impeto di questo vizio, poichè non solamente offusca l’intelletto e la ragione nell’adirato, ma ancora il priva del senso corporale. Il che se non fosse, basterebbe all’adirato l’aversi morso una sol volta; perciocchè il dolore ricevuto di quella, il farebbe rimanere di più volte mordersi; dove noi possiamo avere udito e veduto essere stati alcuni di tanta e sì furiosa ira accesi, che in sè medesimi, non potendo quel che desiderano, come cani rabbiosi rivoltisi, co’ denti troncarsi le proprie carni delle mani e delle braccia, e poi sputarle: e questo medesimo ancora sono stati di quegli, che avendone il destre, hanno adoperato nelle persone state odiate da loro: siccome ne scrive Stazio nel suo Tebaidos di Tideo amico di Polinice, il quale sentendosi essere stato fedito a morte da uno chiamato Menalippo, con furia domandò d’averlo, e ultimamente non senza gran zuffa e morte di molti, essendo stato Menalippo nel mezzo della battaglia preso, e menato dinanzi da lui, al quale poca vita restava, come un cane rabbiosamente co’ denti gli si gittò addosso, e in questo bestiale atto, più che umano, morì egli e uccise il nemico. L’essere in quella palude fitti, la qual dice calda, nera e nebulosa, e piena di loto, assai ben si può comprendere la tristizia esser causativa dell’ira, perciocchè se quelle cose che avvengono, delle quali l’uomo s’adira, se esse non ci contristassono, senza dubbio noi non ci adireremmo, e così per l’essere contristati ci adiriamo: e perciò, acciocchè i miseri iracundi sleno nel vizio loro medesimo puniti e afflitti, e per quello senza pro’ riconoscano sè dovere avere con pazienza schifata la tristizia, donde la loro ira nacque; in questa palude di Stige, la quale è interpetrata tristizia, demersi bollono, e in continua ira, in danno di sè medesimi, come dimostrato è, s’accendono. L’essere la palude calda, e nera e nebulosa, ne può assai ben dimostrare le tre qualità degl’iracundi, delle quali di sopra è detto; intendendo per la caldezza del pantano la qualità degl’iracundi, la qual dissi subitamente accendersi, e cioè procedere dall’umor collerico, il quale è caldo e secco: per la nebula del palude possiamo intendere l’altra qualità degl’iracundi, la qual dissi lungamente servare l’ira accolta, ma poi per lunghezza di tempo a poco a poco risolversi, siccome veggiamo che le nebule de’ pantani, state quasi salde e intere per buona parte del dì, pure alla fine si risolvono e tornano in niente. La terza qualità degl’iracundi, i quali dissi non solamente non lasciar mai l’ira presa, ma quella convertita in odio mai non dimettere, senza aver presa vendetta dell’offesa la quale gli pare aver ricevuta, e ciò procedere da complession malinconica, cioè terrea, si può intender per la nerezza del pantano, in quanto la terra di sua natura è nera, e la interpelrazìon del nome della malinconia si dice da melan, graece, il quale in latino suona nero. E questi cotali malinconici son sempre nell’aspetto chiusi, bulbi e oscuri, perchè assai paion conformarsi al colore del palude: o vogliam dire queste tre proprietà, le quali l’autor descrive esser di questa palude, dover significare tre proprietà degl’iracundi, cioè per la nerezza, la tristizia, per la nebula, la caligine dell’ignoranza, la quale l’ira para dinanzi agli occhi dell’intelletto, e così non può, offuscato, vedere quello che sia da fare, e per lo caldo, il furor dell’iracundo nel quale s’accende per lo loto, nel quale sono imbrodolati e brutti tutti, possiamo intendere la sozza e fetida macula, la quale l’ira mette nelle menti di qualunque da essa vincere si lascia, e ancora per gli effetti di quella, i quali macolano e bruttano ogni onesta fama.
Resta a vedere del vizio opposito all’iracundia, il quale in questa medesima palude di Stige si punisce con gl’iracundi, cioè l’accidia. Alla quale rimuovere delle menti umane, assai cose ne sono dalla natura delle cose mostrate, oltre agli ammaestramenti datine dalla filosofia e dagli uomini virtuosi: ma se ogni altra cosa dinanzi dagli occhi del nostro intelletto e de’ corporali levata ne fosse, assai forza dovrebbe avere al sospignerci ad esser ne’ tempi debiti in continuo esercizio, il riguardare la bruna schiera delle formiche, piccolssimi animali, nel tempo estivo, le quali, se noi ogni cosa vorremo attendere, senza avere nè astrologo o altro maestro, senza vedere albero o prato fiorito, senza salire in alcun luogo rilevato a considerare se incerate son le biade ne’ campi, o altra qualità di tempo, come talvolta fanno i naviganti, dentro dalla sua cava standosi, cognosce quando la state ne viene, e quando sono le semente mature, e in quali contrade si rlcolgano; e allora purgata la via, e aperta l’uscita della sua cava, la quale per ventura le piove del verno e’ piedi degli animali aveano riturata, a piena schiera tutte escon fuori, e senza guida alcuna, tutte si dirizzano all’aie, dove i lavoratori le biade segate ragunano, e battono e mondano, e a’ granai, ne’ quali quelle ripongono, e a qualunque altro luogo per i campi fosser per ventura ristrette: e quivi ottimamente dalla lor natura ammaestrate, discernendo dalla paglia le granella, quello che possono prendono; e volti i passi loro, sollecitamente, senza aver chi le stimoli o solleciti altri che sè medesime, eoa quel che preso hanno ritornano alla lor tana; e quello salvamente riposto, senza alcuna intermissione, quanto il sole sta sopra la terra, ritornano al cominciato ufìcio: nè son contente d’un sol dì essersi faticate, ma mentre il caldo dura, ciascuna mattina col sole levandosi ritornano al loro esercizio; mostrando assai bene in quello essere a loro manifesto, quello nel verno non potere operarsi, sì per le piove continue, e si perchè quello che la state trovano in molte parti, e presto e aperto loro, quello il verno troverebbono in poche, e serrato: avvedendosi ancora, che se così nell’abbondanza della state fatto non avessono, o non facessono, convenirle di verno morir di fame. La qual cosa sanamente riguardata, non dubito che a ciascuno non prestasse utile dimostrazione contro all’oziosità, e contro al porre indugio alle cose opportune, e a dovere quanto è per lo corpo si adoperare nella nostra fervida età, cioè nella giovanezza, che poi vegnendo nella fredda e impotente vecchiezza, si potesse senza vergogna e senza stento aspettar l’ultimo giorno, quando a Dio piacesse mandarlo: e oltre a ciò per la futura vita sì, mentre prestato n’è nella presente vita, adoperare, che vegnendo il freddo della morte, noi possiamo avere lieto e glorioso luogo intra’ beati, e non esser gittati nella morte perpetua dell’inferno, dove sarà pianto e stridor di denti. Ma perciocchè l’addormentato intelletto di molti, nè per disciplina, nè per sollecitudine, nè per utili esempli non si può destare nè inducere ad alcuni stimoli a volere la fatica, la solerzia, il discreto esemplo del piccolo animale non che imitare ma pur riguardare, avviene spesso, che questi cotali in questa vita vengono in estrema miseria, e nell’altra tuffati bollono nella palude di Stige, come nel presente canto ne descrive l’autore. E acciocchè più chiaramente si comprenda che vizio questo sia, e per conseguente meglio ce ne sappiamo guardare, e oltre a ciò più leggiermente vedere quello che voglia l’autor sentire per la pena loro attribuita dalla divina giustizia, dico, che l’accidia, secondochè nel quarto dell’Etica mostra Aristotile di piacere, colui essere accidioso, il quale dove bisogna non s’adira, dicendo essere atto di stolto il non adirarsi, dove, e quanto, e in quel che bisogna; perciocchè pare, che questo cotale non abbia sentimento d’uomo, e però di nulla cosa s’attristi, e così non essere vendicativo: e aggiugne, che sostenere l’ingiuriante, e il non avere gli amici in prezzo, sia alto servile: della qual sentenza, considerata bene la cagione, credo n’apparirà ogni altra cosa che all’accidioso s’attribuisce dover nascere e venire, Che dobbiam noi credere altro di questa rimessione d’animo dell’accidioso, se non quella procedere da un torpore, da una viltà, da una oziosità di mente, per le quali esso senza turbarsi sostiene le ingiurie? Se ciò avvenisse per umiltà, o per essere obbediente a’ comandamenti di Dio, come molti santi uomini hanno già fatto, non potrebbe però senza alcuna perturbazion d’animo essere avvenuto; perciocchè non può vittoria seguire, dove il nemico non è comparito, e dove battaglia non è stata; e noi diciamo i santi uomini essere stati vittoriosi nelle passioni: turbasi adunque il santo e savio uomo, quante volte vede o ode, in sè o in altrui, dire o operare quello che nè dire nè operare si convenga; ma prima ch’egli lasci tanto avanti la perturbazione procedere, che ad atto di peccato potesse pervenire, con umiltà e con buona pazienza vince la turbazione, e di questa vittoria merita: ma l’accidioso non è così; perciocchè non per virtù, ma per cattività è paziente, e tutto dimessosi per la viltà dell’animo suo all’ozio, in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue meditazioni s’attrista, ogn’ora divenendo più vile, intanto che la sua vita, quasi non fosse vivo, trapassa; e in essa dolorosa non è cosa alcuna, quantunque menoma, la quale esso s’attenti di cominciare e se pure tanto lo infesta la necessità che egli alcuna ne cominci, nel cominciamento medesimo invilisce, sì che le più volte intralasciatala, non la conduce alla fine. Il tempo freddo il rattrappa, il caldo il dissolve, il giorno gli è noioso, e la notte grave; ciascheduna ora, e in qualunque stagione, ha in sè al giudicio del pigro alcuno impedimento intorno alle cose che occorrono da fare, e cosi il tempo nuvolo e ’l sereno. La cura familiare sempre gli peggiora tra le mani; non visita, non sollecita le possessioni sue, non i lavoratori di quelle, non i servi, e l’essergli di quelle i frutti diminuiti, non se ne cura per traccutanza. Alle pubbliche cose non ardirebbe di salire, alle quali se pur sospinto fosse per li meriti d’alcun suo, come uno addormentato si starebbe in quelle: i letti, le notti lunghissime, e i sonni non più corti che quelle, gli sono graziosissimo e disiderabile bene: la solitudine, le tenebre e il silenzio prepone ad ogni dilettevole compagnia. Ma posponendo gli atti morali, e alquanto parlando degli spirituali, non visita gì’ infermi, non visita gl’incarcerati, non sovviene di consiglio a’ bisognosi, non visita la chiesa, non si confessa a’ tempi, non prende i sacramenti, non dispone nè i fatti dell’anima nè quegli del corpo: non onora il corpo di Cristo, per non trarsi il cappuccio, all’usanza di Fiandra. Ma che molte parole? L’uomo si potrebbe stendere assai, volendo pienamente raccontare ogni parte di questa miseria; ma perciocchè disutile è la materia, in poche conchiudendo le molte parole, dico, che la vita dell’accidioso è, quanto più può, simigliante alla morte. È nondimeno questo vizio origine e cagione di molti mali: di costui nasce non solamente povertà, ma indigenza e miseria, nella quale rognoso, scabbioso, bolso, malinconico e pannoso si diviene: nasce ancor da costui afflizion d’animo, odio di sè medesimo e rincrescimento di vita: nascene ignoranza di Dio, vilipension di virtù, perdimento di fama, e moltitudine di pensier vani: tiepidezza di spirito, prolungazion d’opere, e fastidio general d’ogni bene; e ultimamente dopo la trista vita, eterna perdizion dell’anima, E perciocchè tutti gli atti di coloro, i quali sono da questo vizio occupati, sono freddi, torpenti e rimessi, e in quanto possono, nascosi e occulti, gli fa assai convenientemente l’autore stare nascosi e riposti, senza potere esser veduti, nel fangoso fondo della misera palude bogliente, nera e nebulosa; e in quella gorgogliare con la gola piena del fastidio di quella, e piagnere e senza pro’ dolersi della vita trista e negligente la quale menarono; volendo per questo s’intenda primieramente, per lo calor della palude, il calor della divina ira, il quale siccome contrario alla freddezza del lor peccato, gll tormenta e punisce in gravissimo e intollerabile dolore: e per 1’essere la palude nera, vuol s’intenda la tenebrosa lor vita, e la oscurità delle loro opere, delle quali mai in luce alcuna non apparve. E per questo ancora vuole loro stare tuffati, sotterrati e occulti sotto l’onde, acciocchè si comprenda loro nella presente vita, non essere per alcuna loro operazione stati conosciuti. L’essere la palude nebulosa e fumosa, che vogliam dire, è a dimostrare la caligine della ignoranza, della quale furono offuscati gli occhi dello intelletto loro, i quali mai riguardar non vollono, sè essere uomini nati ad esercizio laudevole, e non a detestabile ozio. L’avere la strozza piena di fango, e gorgogliare, in quali cose il lor misero adoperare si faticasse, il quale in alcuna altra cosa non si distese, se non in pensieri, e in meditazioni malinconiche, le quali sono di natura terree; e siccome grosse e fastidiose, hanno ad oppilare i meati della chiarezza del suono della laudevole fama, della quale niente curano gli accidiosi.