Il Buddha, Confucio e Lao-Tse/Parte Prima/Capitolo I
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Capitolo I.
Vita e Leggenda del Buddha.1
Nei libri buddhici che portano il nome di Sûtra, si trova ricca copia di notizie concernenti la vita e le geste del fondatore del sistema religioso, di cui ora incominciamo lo studio. Ma di questi libri pochissimi sono tradotti, e i testi originali conosciuti in Europa solo da pochi dotti. Inoltre la più gran parte dei Sûtra sono consacrati, più che alla esposizione storica e continuata delle geste di Câkyamuni, alla narrazione d’alcuno de’ suoi atti, d’alcuna delle sue predicazioni, di qualche episodio insomma della sua vita, che al pio autore sembrò degno di essere tramandato alla memoria dei posteri. Di così fatti avvene però alcuni, che per ciò appunto presentano un’importanza speciale; dei quali il più conosciuto in Europa è forse il Lalitavistara Sûtra. Esso contiene la storia del Buddha,2 dalla sua nascita alla sua prima predicazione, fatta nella città di Vâranâçî (Benares); e servì a non pochi autori orientali come modello, nelle biografie che ci lasciarono di quel Saggio. Il Lalitavistara si dice scritto dopo la morte del Buddha da uno dei suoi discepoli, che ne avrebbe inteso il racconto dalla bocca stessa di lui. Ma se ciò è impossibile, anche perchè in tutto il libro non si fa menzione di questo fatto, è però vero che un tal Sûtra, benchè compreso tra quelli della scuola del Mahâyâna,3 presenta tali caratteri da tenerlo per una delle prime leggende che comparvero intorno al riformatore indiano.
Sarebbe ardua impresa il pigliare in disamina i documenti originali, che hanno servito a scrivere la storia della vita di Çâkyamuni; o che potrebbero servire ad aggiungere ad essa storia qualche fatto nuovo. D’alcuni di questi documenti avremo occasione di parlare nel capitolo che tratterà delle scritture buddhiche; ora mi contenterò di citare quelli soli, che ci saranno fonti principali, a cui attingere le nostre notizie per tessere la vita del Buddha. Oltre il Lalitavistara, sopra citato, dobbiamo a questo fine menzionare un libro birmano che porta il titolo pali di Tatha-gatha-udana, o Lodi del Tathâgatha,4 il quale contiene la storia e la leggenda di Çâkya; e si estende anche a parlare dei tre concilii tenuti dai discepoli e continuatori delle sue dottrine, affine di compilarne il codice canonico.5 Gli autori singhalesi ci hanno lasciato anch’essi preziosi ricordi risguardanti il fondatore della religione buddhica. E per non parlare del Mahâvança, cronaca del Çeylon, che contiene su tal soggetto importanti notizie, e che ha dato modo di stabilire con sufficiente esattezza il tempo, in cui nacque Çâkyamuni, rammenteremo un’opera che fa al nostro scopo, e che è intitolata Pûjâvaliya.6 In essa si narrano numerosi episodi e minuti particolari della vita di Gâutama,7 e fu in molta parte recata in inglese dallo Spence Hardy nel suo Manual of Budhism.8
Il Lalitavistara, il Tatha-gatha-udana e il Pûjâvaliya, nelle traduzioni del Foucaux, Bigandet e Spence Hardy, ci servirono dunque principalmente alla compilazione dei seguenti cenni intorno alla vita di questo filosofo indiano: cenni che ho creduto necessario far precedere alla esposizione storica delle dottrine buddhiche.
Nel tracciare la vita del Buddha, non abbiamo potuto sottoporre a critica le varie leggende che gli si riferiscono, imperocchè siffatto lavoro avrebbe richiesto un intiero volume. Ma abbiamo cercato di radunare que’ fatti che avevano maggiore apparenza di storia; senza però tralasciare la parte evidentemente leggendaria, là dove essa serviva a ben dipingere alcuni episodi, o a esprimere vivamente i sensi che animavano il fondatore delle dottrine che anderemo studiando.9 Chi avesse vaghezza di farsi addentro nella critica di queste leggende, potrà con frutto leggere lo scritto del Senart, Essai sur la Legende du Bouddha, inserito nel Giornale asiatico francese.10
Il Buddha apparteneva alla famiglia de’ Çâkya,11 che portava anche il nome di Gâutamide,12 e che teneva il governo del reame di Kapila.13 Questo paese era a piè delle montagne del Nepal, ed aveva per capitale la città di Kapilavastu sul fiume Rapti, sessanta miglia circa al nord-ovest dell’odierna città di Gorakhpûr.
In sul finire del secolo settimo avanti Cristo, Çuddhôdana dei Çakya re di Kapilavastu14 sposò la figliuola di Suprabuddha degli Anusâkya, re del vicino reame di Koli;15 la quale era di così gran bellezza, che aveva ricevuto il nome di Mâyâ, che nella lingua del paese vuol dire illusione.16 Fu da questa unione che nacque il Buddha. Quando la regina Mâyâ era incinta, molti segni e molte meraviglie ella vide, che, secondo la interpretazione dei sacerdoti brâhmani, le annunziavano come il figliuolo che doveva nascere, sarebbe stato il più grande, il più saggio degli uomini. Ella partorì nel ridente giardino di Lumbinî, cinque leghe a oriente della capitale, mentre era in via per andare a Koli a visitare i suoi parenti.17 Il Dio Mahâ Brahman stesso, dice la leggenda, ricevette il fanciullo appena fu nato, sopra una stuoia intessuta d’oro, e disse alla madre: «Rallegrati, o donna, imperciocchè questo tuo figliuolo sarà il salvatore del mondo».18
Cinque giorni dopo la nascita del principe, ebbe luogo alla corte la cerimonia, nella quale, dopo aver lavato il capo al fanciullo, gli vien dato un nome.19 Allo splendido festino assistevano cento otto dei più sapienti brâhmani, i quali dopo il banchetto furono richiesti dal re intorno ai destini del figliuolo.20 «Se questo fanciullo, dissero alcuni di loro, rimane nella società degli uomini, egli diverrà un possente monarca, e trarrà tutte le nazioni sotto il suo scettro. Ma se egli si ritira dal mondo come un santo eremita, diverrà il saggio dei saggi, il sapiente dei sapienti, il Buddha».21 — Ed altri, esaminato il fanciullo, affermarono che non resterebbe lungo tempo in mezzo all’umana società, ma che si libererebbe ben presto dai mali e dalle vicissitudini della vita, dalle miserie infinite che amareggiano l’esistenza di tutti gli esseri, e che infine diverrebbe un buddha.22 E siccome tutti quei sacerdoti eran concordi nel dire, che esso sarebbe stato il «benedetto delle generazioni», imperciocchè avrebbe resi paghi i desiderii e le brame di tutte le creature del mondo, gli fu posto il nome di Sarvârthasiddha, che vuol dire, «colui che appaga ogni desiderio».23 Due giorni dopo, Mâyâdêvî, la madre del fanciullo, morì, «affinchè ella, sèguita a dire la leggenda, non avesse il cuore amareggiato nel vedere, in appresso, il suo figliuolo diletto abbandonar lei, e la casa paterna, e la corte, e farsi religioso». Morta, salì in un luogo di beatitudine, e divenne figliuola dei Dêva; e il fanciullo fu affidato alla tutela d’una zia materna, per nome Mâhâ Prajâpatî Gâutamî.24
Ora Çuddhôdana avendo inteso da’ brâhmani che il suo figliuolo era destinato a diventare un monaco, domandò anche quali sarebbero state le cagioni, che lo dovevano indurre a togliersi dal mondo. E i brâhmani allora asserirono, che, appena il giovane principe fosse fatto accorto dei mali, ai quali la natura e il destino hanno condannati tutti coloro che nascono alla vita; appena avesse conosciuto che la vecchiezza, le malattie e la morte sono il retaggio di tutte le creature viventi, egli lascerebbe il mondo e i suoi falsi piaceri, per studiare la scienza, da cui conoscere il modo di salvare sè stesso e gli altri uomini dai mali dell’esistenza.25 Per la qual cosa il re di Kapilavastu, che desiderava, che il figliuolo suo diventasse un grande e potente monarca, si pose in animo di provvedere con ogni sua possa che il principe non vedesse alcuno di quei segni, i quali, a detta dei saggi, lo dovevano indurre a farsi religioso. A questo fine volle che tutto quel che di bello e di buono poteva offrire la sua splendida e ricca corte, fosse posto in opera, perchè la vita del principe scorresse felice, e mai non gli venisse in pensiero che nel mondo vi fossero sventurati.
Quando Siddhârtha Râja Kumâra, cioè il principe ereditario Siddhârta, fu giunto all’età di sedici anni, il padre suo ordinò si costruissero tre sontuosi palazzi; perchè il principe avesse un luogo di delizie per le varie stagioni dell’anno; e in ciascuno di questi palazzi pose molte tra le più belle fanciulle del reame, che dovevano servirlo e rallegrarlo con continue danze e melodie.26
Per assicurare discendenti alla dinastia, e l’avvenire della stirpe dei Çâkya, volle anche Çuddhôdana dar moglie al figliuolo; e incaricò alcuni degli anziani della famiglia d’andare dal giovanetto, e persuaderlo ad acconsentire ai voleri del padre. Siddhârtha dopo alcuni giorni di riflessione decise d’ammogliarsi, a patto che la donna rispondesse appieno ai suoi desiderii. Poco però gl’importava che ella fosse di ricca famiglia e di nobile casta, ma molto gli premeva che la virtù di lei fosse grande. Onde, fatta una lista di tutte le qualità morali che amava adornassero la sua sposa, la diede agli anziani, i quali la mandarono a tutte le fanciulle d’ogni classe.27 Fu trovata finalmente la donna che in ogni cosa rispondeva alle pretensioni del principe: si chiamava Gôpâ, la Signora della terra,28 ed era figlia di Dandapâni, anch’esso della stirpe de’ Çâkya. Ma Dandapâni negò il suo consenso, dicendo che il giovanetto, avendo fino allora passata la vita nel palagio reale, tra l’ozio e la mollezza, non poteva essere che un effeminato e un dappoco; ed egli, invece, avere destinata la figliuola ad uomo istrutto, esperto nelle armi ed abile al governo. Siddhârtha allora volle mostrare che non aveva scorso invano gli anni della sua giovinezza, e che le ricchezze e i piaceri, di cui il padre lo aveva voluto circondare, non aveangli impedito di coltivare con frutto gli studi e l’arte militare. Cinquecento dei più valenti giovani dei Çâkya furono adunati in pubblico cimento; e dopo molte prove ed esercitazioni, il figlio di Cuddhôdana riuscì vincitore; ed apparì inarrivabile non solo nel maneggio d’ogni specie di arma, nella lotta e nella scherma, ma anche peritissimo nelle scienze e nelle lettere.29 Il padre della bella e virtuosa Gôpâ convinto d’aver mal giudicato il giovane principe di Kapilavastu, dettegli di buon grado a sposa la sua figliuola.
Ora avvenne un giorno che Siddhârtha, mentre viveva tra le delizie della sua casa, desiderando di andare a diporto per la campagna, ordinò al suo auriga d’allestire un cocchio e di condurlo al parco vicino. Non aveva fatto egli molta strada che s’incontrò in un vecchio decrepito; il quale, sostenendosi appena sopra un bastone, si avanzava lentamente ed a stento, tremando per ogni membro; gli occhi di lui erano smorti, la pelle raggrinzita; e appena poteva articolar parola. — «Che uomo è questo?» domandò, maravigliato, al guidatore del carro il giovane principe; «lo stato di costui è condizione di sua famiglia, o è legge che ogni uomo divenga simile a questo infelice?» — «Signore», rispose il servo, «questi è un uomo che la vecchiezza ridusse a tale. Debole, sofferente, fastidioso pei malanni, i suoi parenti lo hanno a schifo; inabile a ogni lavoro, lo hanno abbandonato come un arnese guasto dall’uso. Egli si trascina ora di luogo in luogo ad accattare il vitto giornaliero, senz’altro appoggio che il suo bastone». — «E ve n’hanno molti nel mondo di simili sventurati?» domandò ancora il principe. A cui l’auriga rispose: «Tutti, o signore, siamo condannati a tal fine. In tutti la giovinezza è vinta dalla vecchiaia; vostro padre, la vostra sposa, i vostri amici diverranno un giorno vecchi anch’essi a quel modo». — «Oimè! esclamò il principe allora, l’uomo, ignaro e superbo della gioventù che lo inebbria, non pensa dunque alla vecchiaia, che lo attende per fargli pagare a caro prezzo la vita dei suoi primi anni!» — Col cuore gonfio di mestizia fece ritorno al palazzo reale. Le delizie e i piaceri che lo circondavano avevano perso l’usato allettamento, e spesso ripeteva tristamente tra sè: «Che cosa ho io che fare con la gioia e il piacere, io che sono la futura dimora della vecchiezza?»
Non andò guari che il principe ebbe ancora volontà di passeggiare in carro; ed ecco in sul cammino scorge un uomo, ancora giovane, ma sofferente per molti mali: la febbre ne divorava il corpo macilento e coperto di piaghe sì ributtanti, che i suoi lo avevano abbandonato senza soccorso. Non minor dolore produsse al cuore del giovanetto la vista di quell’infelice, e ritornò di nuovo alla città tutto malinconioso, pensando come sia fragile cosa la gioventù, che i morbi fanno sparire al par degli anni: «Qual uomo saggio, si disse egli, potrà, dopo quel ch’io vidi, godere con animo sereno le gioie e i piaceri di questo mondo, se da ogni lato il male c’incalza, e ci attende il dolore?» Ma nuova cagione di tristezza doveva presentarsi al giovane Siddhârtha; imperciocchè, in un’altra delle sue passeggiate campestri, vide il cadavere di un uomo, disteso in una bara; e intorno a quella molti parenti ed amici, che si lamentavano con alte grida, e si battevano il petto, e si lordavano la testa di polvere. Allora corsegli alla mente il pensiero che ogni uomo nasce alla morte; e considerando quanto sia breve l’umana esistenza, che scorre in desiderare un bene e una felicità non mai conseguita, e in continua lotta colle miserie ognor rinascenti; maledisse la gioventù, cui la vecchiezza in breve distrugge; la salute, alla quale fa guerra infinito genere di morbi; la vita, che mena solo alla morte per la via della sventura.30
Diè volta al cocchio in cui sedeva, e ritornossene alla reggia. Ma le ricchezze della sua casa, la possanza della sua corte, la bellezza delle sue donne non bastavano più oramai a sollevare l’animo contristato e dolente. «Quanto è grande nel mondo la umana infelicità!» andava tra sè pensando: «I morbi e la vecchiezza tolgono all’uomo i pochi beni che la natura gli diede, e ne distruggono a poco a poco i sensi, le forze, il corpo: lo divorano e lo conducono alla morte.... La vita è come un lampo.... L’essere più caro, più amato, dovrà un giorno scomparire per sempre: come una foglia caduta nella corrente di un fiume, passa, trascinato dall’onda del tempo; si mostra un istante ai nostri occhi e non ricomparisce mai più».31 Il padre per toglierlo da questi tristi pensieri, pose in opera ogni sorta di allettamento; gli aprì i tesori del reame, ed ebbe cura che ogni suo minimo desiderio fosse di subito soddisfatto. Io non ho che quattro desiderii, diceva allora a suo padre: godere d’una giovanezza che non perisca mai e d’una vita non insidiata da’ morbi, poter vincere la morte e gioire d’una felicità costante e serena; che mezzo avete voi per renderli paghi?
Invaso da sì profonda malinconia, presto ebbe a provare il giovane principe un sentimento vivissimo di pietà e di compassione per tutta l’umana famiglia; che egli vedeva senza guida e senza conforto, avvolta come da un’atmosfera d’infelicità, dalla quale non trovava modo di uscire. E colmo l’animo di così fatto amore, concepì l’idea di salvar l’uomo dal dolore che nasce dall’esistenza, e condurlo ad uno stato di quiete e di riposo, dove nol turbasse nè il desiderio del godere, nè il timore del soffrire. A quest’ardua impresa egli votò tutto sè stesso; laonde si decise di lasciare la corte e la famiglia e ogni sua ricchezza; e di fuggire in solitudine a studiare sè e la natura, e meditare la difficile scienza, che doveva insegnare all’umanità la via della salvezza.
Mentre cotale proponimento andava fissando in mente, Gôpâ mise alla luce un fanciullo. Çuddhôdana ne ebbe gran gioia, perchè temeva che già fosse venuto il tempo, nel quale il figliuol suo dovesse farsi religioso. Onde inviò subitamente dei messaggieri al giovane principe, che era lungi in un suo palazzo, per annunziargli come un nuovo vincolo lo legasse oramai per sempre alla famiglia, essendogli nato un figliuolo che era un altro sè stesso. Siddhârtha, all’udire tale novella, conobbe che un grave ostacolo era sorto ad attraversare i suoi propositi, nell’affetto paterno che già sentivasi nascere in seno. Al ritornare dei messaggeri, il re Çuddhôdana domandò loro che cosa avesse detto il principe suo figliuolo, ed essi risposero che aveva esclamato: «Rahula-yato», volendo fare intendere che eragli nato un nuovo oggetto d’amore; per la qual cosa il re di Kapilavastu mise al fanciullo il nome di Rahula.32
Passò ancora qualche tempo, e combattevano nell’animo di Siddhârtha l’amore della famiglia e l’amore dell’umanità; egli domandava a sè stesso se dovesse sacrificare i più cari affetti del cuore al bene de’ suoi simili. Il sentimento della missione, che egli voleva compiere, prevalse e vinse; e decise finalmente d’abbandonare la corte paterna e la città di Kapilavastu. Dopo avere tentato invano di ottenere l’assenso del padre, stabilì di fuggirsene nascostamente, e di notte tempo. Un servo fedele gli allestì il cavallo che lo doveva menar via; e tutto fu pronto per la partenza. Ma prima di lasciare per sempre le paterne mura, volle Siddhârtha rivedere ancora una volta il figliuoletto. Salì negli appartamenti di Gôpâ sua moglie, e trovò la principessa sopra un letto circondata di fiori: ella dormiva, tenendo fra le sue braccia il fanciullino, che riposava tranquillo sul seno materno. Siddhârtha avrebbe dovuto svegliare la giovane sposa per abbracciare il figliuolo, e sapendo che essa avrebbe tentato efficacemente di rimuoverlo dalla risoluzione che aveva presa, rimase perplesso sul limitar della soglia; poi «con uno sforzo, che sarebbe valso a svellere dalle sue radici la più gran montagna della terra» come dice la leggenda, si allontanò senza frapporre indugio. «Se l’amore di padre mi fosse d’impedimento nell’acquisto della Scienza sublime che io ricerco, chi salverà gli uomini dai dolori dell’esistenza?» Ciò detto partì, e montato sul suo cavallo prese la via che menava ai confini del regno di Kapila. Egli aveva allora ventinove anni.
A cominciare da questo punto la vita di Siddhârtha è consacrata tutta a porre in atto quell’idea sublime, che era la salvazione del genere umano. Fin qui lo abbiamo veduto lottare contro sè stesso e contro umane difficoltà; ora incomincia una lotta anche più terribile, quella collo Spirito del male; che con ogni sua forza vuole impedire al figliuolo dei Çâkya di diventare il Buddha, il Salvatore del mondo. Questo maligno genio è chiamato nelle leggende buddhiche Mâra; ed è il Demonio dell’amore, del peccato e della morte.33 Non appena Siddhârtha uscì fuori dalla città Kapilavastu, che una voce gli si fece udire che dissegli: «Principe, perchè lasci la tua dimora? Se tu resti, io ti prometto il dominio di gran numero di genti: ti prometto tutti i regni del mondo e la loro gloria, onorandoti re dell’universo (cakravarttîrâja).34 Ritorna dunque alla tua reggia: e deponi gl’insani propositi, che ti nacquero nell’animo». — «Chi sei tu?» domandò il giovane alla voce che gli parlava: «Io sono il Dêva Mâra» rispose la voce. — E il principe allora: «Vattene, o Mâra, esclamò, tutti i beni della terra non avrebbero potenza di trarmi al tuo volere. Io cerco la Scienza (Bodhi), e non desidero tesori nè regni; vattene lungi dal mio cospetto, o Pâpiyan, tu non hai potere sopra di me». — Allora lo Spirito del male sogghignando riprese; «Vedremo qual dei due diverrà il Buddha. Da questo momento ti tenterò con ogni artificio, ch’io possa immaginare; e ti seguirò sempre dappertutto come l’ombra del tuo corpo».35
Era nel colmo della notte, e l’astro Pushya,36 che aveva presieduto alla nascita del principe fuggiasco, si levava allora sull’orizzonte. Siddhârtha al momento di abbandonare la sua terra e la sua casa, volse uno sguardo alla città di Kapilavastu, che racchiudeva le persone a lui più care, e dove aveva trascorsi gli anni felici della sua giovinezza. Una profonda mestizia lo invase; ed un senso di rammarico gli entrò, doloroso, nel cuore, al pensiero di tutto quel ch’ei si apparecchiava a lasciare per sempre. Ma la forza della sua volontà vinse questa volta ancora la debolezza dell’animo; e salutata con ultimo addio la città natale: «Io non ti rivedrò, egli disse, se non quando avrò ottenuto la pura intelligenza, quando avrò vinto la morte e il dolore, quando avrò spezzata l’eterna catena della trasmigrazione, distrutto per sempre il fatale succedersi delle esistenze.37
Siddhârtha camminò tutta la notte in compagnia di un suo famigliare, che aveva condotto seco. Lasciata la terra dei suoi avi, traversò la città di Ménéya, e all’alba si trovò molto lungi dalla capitale del reame di Kapila. Allora discese da cavallo, e toltisi alcuni ornamenti preziosi, li diede al servo, lo congedò, e dissegli che portasse quelle cose ai parenti in memoria di lui. Quindi, cambiati i ricchi suoi abiti colle rozze vesti d’un povero viandante che incontrò a caso per via, e tagliatisi colla spada i lunghi capelli, seguì tutto solo l’intrapreso viaggio.38
Egli si diresse verso la città, di Vâiçâli,39 per essere istruito nelle dottrine dei brâhmani, dei quali doveva poi diventare ardito oppositore. Era allora in quella città il brâhmano Arâta Kâlâma, reputato dottissimo, e che non aveva meno di trecento scolari. Siddhârtha entrò nel numero di questi; e si distinse sopra gli altri per modo, che il maestro pregollo di volere essere, non più discepolo, ma a lui compagno nello insegnamento della scienza brâhmanica. Ma Siddhârta, che aveva trovato gl’insegnamenti di quella scuola insufficienti ad ottenere il fine che si era prefisso, e ad appagare il suo spirito, che in essi non vedeva la verace e pura dottrina, di cui agognava il possesso; ricusò l’offerta e lasciò Vâiçâli.40 Ed avendo udito dire che, nella città di Râjagriha nel Magadha,41 v’era un brâhmano per nome Rudraka Râmaputra, la cui fama sorpassava ogni altro; celebre non solo appo il volgo, ma fra i dotti ancora, stabilì di recarvisi per ascoltare la voce di così sapiente maestro.42 All’arrivo di Siddhârtha, gli abitanti di Râjagriha corsero in folla a incontrarlo; imperocchè era corsa pel paese la fama di lui: e lo stesso re Bimbisâra, che allora governava il Magadha, volle vederlo e udirlo.43 Questo re offrì anche al giovane filosofo il suo palazzo e le sue ricchezze; ma egli ricusò dicendo, che, se avesse voluto ricchezze e onori, non avrebbe abbandonato la città dove era nato, e dove i suoi regnavano sin da gran tempo. Rudraka, presso il quale recossi il giovane Çâkya, conosciuto come egli fosse di grande ingegno e di molta dottrina, voleva anch’egli al pari di Arâta Kâlâma, farlo suo compagno nell’ammaestramento dei molti discepoli, che accorrevano alla sua scuola. Ma Siddhârtha, dopo che fu stato alquanto tempo sotto la disciplina di quel dotto brâhmano, non trovossi più appagato della scienza di lui, che nol fosse stato di quella del filosofo di Vâiçâlî. Laonde pensò di partirsene di là, deciso di non cercare che in sè stesso la dottrina, di cui il suo animo era assetato. «Questa scienza che voi insegnate, disse egli al maestro nel prender comiato da lui, non ha potenza di liberarci dalle passioni, nè di por termine a quell’eterno divenire che si chiama la vita;44 non conduce alla indifferenza per le cose del mondo, non infonde la calma nell’animo, nè mena all’acquisto dell’intelligenza perfetta». Egli lasciò la città di Râjagriha seguito da cinque giovani brâhmani, Kâundinya, Bhadrika, Vâshpa, Mahânâma e Açvajit,45 che furono i suoi primi discepoli.46
Uscito dalla capitale del Magadha, che tale era la città di Râjagriha prima che Kâlâçoka trasportasse la sua corte a Pâtaliputra, si diresse verso il villaggio di Uruvilvâ47 sulle rive del fiume Nâiranjanâ.48 E siccome il paese dintorno al villaggio era assai deserto, e molto acconcio alla meditazione e allo studio, vi rimase in eremitaggio, menando vita austera, e mortificando il corpo con frequenti digiuni. Per sei anni Siddhârta rimase in quel luogo in continua penitenza, cercando crescere in sapienza e in virtù. E dettesi in ispecial modo a quella scienza che allora era chiamata Prâdhana; la, quale consisteva nella contemplazione della natura, ed era uno dei metodi in vigore nell’India, fra i metafisici di quel tempo, indirizzato all’acquisto della perfetta cognizione delle cose: metodo che sembra essere stato prodotto dallo studio brâhmanico dei Veda, e che prevaleva appunto nell’epoca del brâhmanismo.49 Ma accortosi finalmente, che nè le macerazioni nè i digiuni, che avevangli sfinito le forze del corpo, nè la continua contemplazione, lo avevano condotto al proprio perfezionamento e all’acquisto della conoscenza del mondo, ritornò al primo modo di vivere; e lasciò quelle inutili e irragionevoli astinenze e mortificazioni. Della qual cosa i cinque brâhmani, che fino allora gli erano stati amorosi discepoli, cominciarono a mormorar forte; e scandalezzati di quel subito mutamento, che essi giudicavano riprovevole, fuggirono da lui e lo abbandonarono.
In quei sei anni di eremitaggio nelle solitudini di Uruvilvâ, Çâkya ebbe anche a sostenere un’acerba lotta collo Spirito del male, il quale tentollo con ogni arte, disputandogli il possesso della Scienza e della Perfezione. «I desidèri, la noja, la fame, la sete, le passioni, l’indolenza, il sonno, il timore, il dubbio, la collera, l’ipocrisia, l’adulazione, la fama, le lodi e il biasimo sono i soldati del Demonio», dice il Lalitavistara, e Mâra, il tentatore, li adoperò tutti contro Çâkyamuni. Ma il cattivò genio rimase sconfitto, e si ritirò nei suoi dominii, umiliato e confuso.50
Siddhârtha, abbandonato dai suoi discepoli, si trattenne, per alcun tempo ancora, solo nel suo eremitaggio; dandosi con tutte le forze dell’animo allo studio e alla meditazione. Fu a Uruvilvâ infatti che incominciò a porre le basi della sua dottrina, le pietre angolari dell’immenso edificio buddhico. Due fanciulle, figliuole del signore del villaggio vicino, Nandâ e Nandabalâ, andavano giornalmente a lui, portandogli il riso e il latte, che servivangli pel nutrimento quotidiano.51 Lasciate finalmente quelle solitudini, s’incamminò lungo le rive del fiume Nâirañjanâ, e giunse alla città di Gayâ, la quale fu detta poi, in suo onore, Buddhagayâ.52 E allettato dall’amenità del luogo, si fermò poco lungi, in un sito che le leggende chiamarono più tardi Bôdhimanda, nome che vuol dire Trono dell’intelligenza, e prese riposo all’ombra d’un albero Jambu.53
Siamo ora giunti a quel momento della vita di Siddhârtha, nel quale la leggenda e la tradizione ce lo rivestono della qualità di Buddha, ponendolo finalmente in possesso di quella sospirata Scienza che andava cercando da sette anni. È a Bôdhimanda appunto, all’ombra d’uno dei giganteschi alberi di Ficus religiosa, ornamento delle foreste dell’India, che, secondo le scritture canoniche, il principe di Kapilavastu si trasformò nel Buddha, ossia nel Saggio dei saggi, in colui che è in possesso della vera dottrina, la quale sola può togliere gli esseri «dall’oceano della trasmigrazione, e condurli ad uno stato di riposo eterno e di eterna quiete». La leggenda conserva le parole che Çâkyamuni, nell’atto di divenire Buddha, si vuole pronunziasse, quando all’ombra dell’albero sacro si sentì come rivelata la verità.
«Ho trascorso, egli disse, per infinite esistenze, cercando l’artefice di questo ricettacolo di concupiscenza, che chiamasi uomo,54 e doloroso rinacqui sempre».
«— Finalmente ti vidi e ti conobbi, o artefice di vita! e tu non fabbricherai più per me questo albergo di passioni e di appetiti. Io spezzerò i tuoi arnesi; disperderò le tue pietre».
«— La mia mente riposa per sempre; ogni desiderio è spento nel mio cuore».55
Per sette giorni stette il Buddha in quel luogo, in continua meditazione; tenendo seco stesso i seguenti ragionamenti, che epilogano i principali punti della dottrina, e contengono i pensieri più comuni, che di frequente si trovano espressi nelle scritture buddhiche. E prima di tutto domandossi: «Qual’è la causa di tutte le miserie e di tutti i dolori, che affliggono l’uomo? — Certo l’esistenza. E la causa dell’esistenza? L’amore. E l’amore nasce dal desiderio e dalla concupiscenza, e questa dai sensi, e i sensi sono commossi e turbati da ciò che è nel mondo. Ma se ciò che è nel mondo tocca i sensi, li commuove e fa nascere la concupiscenza, l’amore, la vita, il dolore, egli è perchè l’uomo considera il mondo con mente inferma e falso giudizio. L’ignoranza è dunque la causa dei mali che affliggono l’uomo: dall’ignoranza nasce il mondo e tutte le cose che esso contiene.56 La scienza che ha dissipato in me ogni illusione, come la luce dissipa le tenebre, mi ha mostrato le cose nella loro realtà, e ho visto la vanità di tutto quello che mi circonda. Intanto non v’è nell’Universo che afflizione e dolore. Gli esseri, miseramente trattenuti nel vortice della vita, sono trascinati qua e là dalle onde disordinate della concupiscenza; attratti da fallaci apparenze verso oggetti che non saziano giammai i loro desiderii. La scienza sola può salvare l’umanità».57 Questa scienza, alla quale il Buddha dava sì alto valore e potenza, ha il suo fondamento nelle Quattro grandi verità, che i Buddhisti chiamano Câtur âryâni satyâni, e sono:
1.° Il dolore è il retaggio di tutti gli esseri, in qualunque condizione di vita essi sieno (cioè Dei, uomini, animali e demoni). 2.° L’infinito numero di desidèri e di passioni che riempiono il cuore dei viventi, è la causa del dolore.
3.° Distruggere le passioni e i desidèri è il solo mezzo di salute.
4.° La distruzione delle passioni e dei desidèri si trova nel Nirvâna, o nella distruzione dell’Essere.
Ecco qual fu il resultato, a cui giunse dopo lungo studio e meditazione: ecco la base, sopra cui posa, ì cardini, intorno a cui s’aggira l’intero sistema buddhico. L’albero, sotto il quale Siddhârtha meditò e formulò le verità fondamentali della sua dottrina, fu chiamato Albero bôdhi (Bôdhidruma), o arbor scientiæ boni et mali, come lo dice il P. Giorgi, traducendone il nome indiano.58
Quantunque Çâkyamuni, dopo questa sua trasformazione in Buddha, si fosse messo al di sopra di tutti i viventi, quasi si credesse sottratto alle leggi della natura che li governano, il Dêva Mâra, lo spirito del male, non volle darsi per vinto; ed egli, che vedeva il suo regno prossimo al termine, si presentò anche una volta al Filosofo, che si vantava d’aver soggiogato le passioni e la concupiscenza, e gli disse: «Uomini e Dei hanno sensi; e pei sensi, le passioni si aprono un varco al cuore; lo circuiscono, lo seducono, e lo traggono nelle catene d’una irresistibile schiavitù. Sarai tu un’eccezione a questa universale condizione degli esseri? O uomo, tu puoi essere salito al più alto grado della saggezza, ma non per questo le passioni cesseranno d’essere inerenti alla tua natura; non per questo ti potrai vantare d’essere uscito dai confini del mio regno». Ma il Buddha dimostrò anche una volta col fatto al demonio, che ogni tentazione riusciva vana, e che si era liberato per sempre dalla servitù, in cui vivono tutte le creature; imperocché era arrivato a estinguere le passioni, che perturbano il cuore dell’uomo. Il Dêva Mâra, costretto a confessare a sè stesso la virtù e la perfezione morale, alla quale s’era innalzato Siddhârtha, non ostante la guerra acerba che aveagli fatta, pieno di confusione precipitò di nuovo nel regno delle tenebre. Se non che, le tre sue figliuole, che avevano nome Trishnâ, Ratî e Aritî,59 vistolo afflitto a quel modo, gliene domandarono la cagione: ed egli narrò come fosse stato vinto, e come fosse oramai impotente a lottare più a lungo col Buddha. Della qual cosa le figliuole lo consolarono, promettendo al padre loro di andare esse al filosofo, e ripromettendosi di ricondurlo al mondo e al peccato: imperciocchè, esse dicevano, molte male arti sono meglio e più efficacemente esercitate dalle femmine, che dal demonio. Ma dovettero tornare alla loro dimora infernale sconfitte e svergognate, ed ebbero anch’esse a confermare, che il Buddha era superiore, a ogni uomo e a ogni Dio.60 Çâkyamuni era giunto finalmente a trovare la verità che egli cercava; ma gli uomini sarebbero essi stati capaci d’intenderlo? Egli aveva trovato il mezzo di salvarli dalle miserie e dai dolori della vita; ma consentirebbero essi ad entrare nel cammino che avrebbero dovuto percorrere? Questi dubbi agitarono l’animo di Siddhârtha, e offuscarono la gioia che aveva provata nel vedersi in possesso della pura intelligenza e della verace dottrina. Egli si doveva apparecchiare ad una lotta terribile contro le vecchie credenze che voleva abbattere, contro la ignoranza di coloro che non avrebbero compreso lo spirito de’ suoi insegnamenti, contro la malvagità di quelli che lo avrebbero con ogni possa contrariato nell’opera che voleva intraprendere. Queste considerazioni lo posero in tanta incertezza e scoraggiamento, che fu sul punto di abbandonar l’impresa, e allontanare da sé il calice amaro di tutte le difficoltà che si vedeva sorgere innanzi. Se non che il gran Brahman, disceso egli stesso dal cielo, si presentò al Buddha e lo supplicò che non ristasse: imperciocchè gli disse che grande era la miseria degli uomini, e grandi i benefici che verrebbero dalla sua legge; togliendo loro dalle tenebre dell’ignoranza, nella quale sarebbero senza fallo periti, se fossero mancati del suo aiuto. Il Buddha allora depose ogni titubanza, e per amore degli uomini si preparò a vincere ogni ostacolo, e si accinse a compiere la difficile opera. 61
Ma tanta impresa voleva l’aiuto di più apostoli; e Siddhârtha si domandò, dove avrebbe trovato chi gli fosse compagno nell’ammaestrare le moltitudini; ed a chi primo insegnerebbe la nuova dottrina. Pensò ai due maestri Arâta Kâlâma e Rudraka, che lo avevano istruito nella scienza brahmanica: ma essi erano morti da qualche tempo. Restavano però i cinque discepoli che lo seguirono nelle solitudini d’Uruvilvâ. Costoro, è vero, lo avevano abbandonato scandalezzati in vederlo a un tratto lasciare le pratiche di austerità, alle quali si era dato per sei anni con tanto ardore. Ma ciò non dava a disperare al Buddha; che fermo in animo di poter di nuovo farseli amici col manifestar la verità che aveva scoperta, e la santa opera, in cui voleva averli compagni, decise di andarli senz’altro a trovare nel loro eremitaggio. Essi erano nel bosco di Mrigadâva,62 presso la città di Varânaçî (Benares). I cinque anacoreti, non appena lo videro, ricordandosi di quel che era avvenuto, fecero proponimento di riceverlo con freddezza e disdegno; ma subito che ebbero inteso le sue parole, gli si dettero con tutta fede, e lo riconobbero come istitutore del mondo. Lasciarono pertanto il loro eremitaggio e lo seguirono: e furono essi i primi convertiti alla nuova Legge.
Il Buddha dopo essere andato per varii luoghi in compagnia dei suoi discepoli a predicare la Dottrina, chiamatili un giorno a sè, disse loro: «Diletti fratelli, io sono oramai libero dalle passioni che tengono sommessi uomini e Dei: e voi ancora, docili alle istruzioni che avete ricevute da me, godete del medesimo glorioso privilegio. Ma un gran dovere incombe ora a noi tutti, quello di lavorare efficacemente a favore degli uomini e degli Dei, affine di procacciare ad essi l’impareggiabile beneficio. Per assicurare maggiormente il buon successo di tale impresa, dobbiamo dividerci l’opera, separarci per varie regioni: che due di noi non si trovino più sullo stesso cammino, non coltivino più il medesimo campo. Andate, e predicate la mia Legge; esponetela con diligenza ed amore in ogni sua parte; esponetela a tutti gli uomini senza eccezione».63
La vita del Buddha non è altro ora che una serie di peregrinazioni di paese in paese, di città in città, mentre nelle vie, nelle piazze, nelle scuole, nei campi aperti spiega la sua nuova religione, e i vantaggi che da essa gli uomini ritrarranno.64 Egli e i suoi discepoli ricevono dovunque accoglienza cordiale e benevola; e larga, mèsse di convertiti era sempre il frutto delle loro predicazioni: tanto che la generale simpatia con cui furono accolte le nuove dottrine, e l’avventurosa sorte che incontrarono, costituiscono uno dei fatti più importanti della storia dell’India. Çâkyamuni coglieva ogni opportunità che gli si presentasse propizia per le sue conversioni, per guarire le passioni che agitavano il cuore de’ suoi discepoli. Ciò dimostrano molti episodi della sua vita, e fra gli altri il seguente. Mentre il Buddha abitava presso la città di Râjagriha, una celebre cortigiana, di nome Thirima, riempiva il paese della fama della sua bellezza. Ella era o fingeva di essere pia, ed ogni giorno distribuiva in elemosine il cibo quotidiano a moltissimi religiosi, discepoli di Çâkyamuni. Uno di questi monaci, preso da profana curiosità, volse lo sguardo su quella donna, e ne rimase innamorato perdutamente. Il male ebbe a diventare più grave a cagione di quanta avvenne. Thirima ammalò, ma non per questo restò dal sovvenire i monaci coll’elemosina. Se non che, per un eccesso di pietà o di civetteria, volle ella stessa distribuire il cibo nella camera dove giaceva e dal suo letto, esponendo agli sguardi de’ pii visitatori il corpo seminudo, in quell’atteggiamento d’abbandono che più sembravale confacente al suo stato d’ammalata e all’atto di religiosa pietà, che ella supponeva di compiere. Fra gli altri c’era il povero monaco già ferito nel cuore; e non è a dire se il dardo gli penetrasse più profondo. Non mangiava nè beveva più, tenevasi lontano dagli altri suoi confratelli in religione, e non adempiva più gli obblighi che gl’incombevano. Intanto Thirima morì. E il Buddha, desideroso di guarire il suo giovane discepolo, invitò lui e tutti gli altri monaci a visitare la cortigiana, che da quattro giorni giaceva insepolta nella propria casa. Il corpo livido e tumefatto era già tutto un brulicame di vermi, che si vedevano entrare e uscire per la bocca, per le nari, per gli orecchi, per gli occhi, come se l’interno fosse lor casa: dappertutto un fetore intollerabile toglieva il fiato. Ecco il corpo di Thirima, disse il Buddha; ecco una donna che vendeva a cento monete d’argento un istante di piacere. Chi la vuole ora per la metà?... chi la vuole per un terzo?... chi la vuole per nulla!... Nessuno! Come tutto cambia quaggiù! chi riconosce Thirima, la bella fra le belle, la più desiderata fra le donne? Quindi prese a fare un discorso sull’instabilità delle cose umane; e si dice che Çâkyamuni facesse in questa occasione 82,000 conversioni. Questo non so, ma sembra certo che il monaco, insano per amore, guarisse.65
Sebbene il numero delle conversioni, frutto de’ sermoni del Buddha, sia stato dalla tradizione esagerato di molto, è un fatto però che la nuova dottrina non tardò a diventare assai popolare. Non è difficile del resto rendersi ragione della popolarità che ebbero gl’insegnamenti di Çâkyamuni. Il contrasto della religione degli Ariani vedici con quella della popolazione non vedica aveva, dice il Wheeler, trascinato la fede nel caos. Da un lato, i maestri brâhmani di differenti scuole attribuivano nuove significazioni metafisiche alle divinità vediche; dall’altro i fanatici Yogi avevano messe in voga le più strane pratiche religiose; in fine una terza setta, chiamata dei Tirthakara «puri-viventi» sembra avesse fatto non pochi proseliti. Gl’insegnamenti di questi ultimi pare non fossero molto dissimili da quelli di Çâkya. Negavano l’esistenza di un ente supremo, persuasi che la sola e vera divinità fosse l’uomo giunto a domare tutti i propri desidèri. Negavano l’esistenza d’una vita futura, togliendo così il fondamento, che, secondo la generale opinione, si dà alla morale. Vivevano in capanne, nudi, venerati dai più fanatici, come santi. La religione di Çâkyamuni, per quanto non fosse scevra di errori, si distingueva dagli altri sistemi per la sua semplicità e purezza. I suoi insegnamenti scendevano propizi, quasi pioggia benefica che cada a fecondare un terreno riarso, per ravvivare nell’uman cuore intristito sensi di socievolezza e di umanità: imperocchè il Buddha predicava tutti i precetti che incombono alla carità universale, e una morale che ha la sua espressione nei cinque comandamenti fondamentali: non uccidere, non rubare, non fornicare, non mentire, non ubriacarti. Esortava i suoi uditori a fuggire i falsi maestri, ignoranti della vera legge, a non cercare altra compagnia che del saggio, il quale cammina pei quattro sentieri che menano al Nirvâna: gli eccitava ad essere umili, amorosi, pazienti; e ricordava loro che le afflizioni e i dolori della presente vita sono la giusta punizione del male commesso nelle vite antecedenti; ricordava loro che le buone opere avranno premio nelle esistenze future: esistenze che la legge fatale della trasmigrazione ci riserva, fino a che non ci siam resi degni di rompere per sempre la catena interminabile dei rinascimenti.66 Ad un Dêva, che la leggenda dice fosse apparso una notte al Buddha per richiederlo d’insegnamenti intorno alla dottrina di lui, il Buddha stesso parlò in questi termini: «Oh giovane Dêva, sonovi molte eccellenti cose, a cui uomini e Dei debbono attendere per farsi meritevoli di conseguire lo stato di Nirvâna: fuggire la compagnia degli insani, ricercar quella dei savi, professar rispetto a chi n’è degno, accontentarsi del proprio stato, cercare d’esser sempre capaci di bene operare, procurare accrescere in ogni modo le proprie cognizioni, studiare tutta ciò che è buono. Nei rapporti con gli uomini devesi osservar sempre il principio d’onestà e rettitudine; si deve supplire ai bisogni dei genitori, provvedere al necessario per la moglie e i figliuoli, fare elemosine, assistere amici e parenti, non operare sotto la potenza della tentazione, astenersi dalle bevande inebrianti. In fine conviene essere rispettosi verso il nostro simile, umili, modesti ne’ desidèri, grati per ogni favore che si riceve, pazienti; è bene dilettarsi di buoni ragionamenti, ascoltare gli insegnamenti religiosi, vivere tra i monaci di tempo in tempo; intrattenersi spesso intorno agli articoli della fede, coltivare ogni virtù, avere in cuore costantemente le Quattro verità, fissare la mente al Nirvâna. In mezzo alle afflizioni del mondo, starai fermo come torre, tranquillo, coraggioso, o giovane Dêva; e se osserverai questi ammaestramenti, non sarai mai sopraffatto dai nemici del bene, e godrai la pace del giusto e del saggio».67 In questo sunto di un discorso, che è tra i più importanti che vengano attribuiti a Çâkyamuni, si contiene il fondamento della morale buddhica.
I convertiti alla nuova religione erano naturalmente divisi in due classi: monaci e laici. Fra’ primi accorrevano coloro, pei quali il mondo non aveva più allettamenti, e che cercavano la calma delle passioni nell’austerità della vita monacale; osservando in ispecial modo l’altissima povertade e la splendidissima castità, come si esprime il fondatore degli ordini mendicanti in occidente. I laici rimanevano al secolo, e senza rinunziare a’ piaceri del mondo, cercavano di mostrare la loro fede con elemosine ai monaci, e con l’osservanza di quella morale che veniva loro prescritta da’ comandamenti della nuova dottrina. Fra queste due classi di convertiti si trovavano persone di condizione diversa e d’ogni casta: sovrani, ricchi e nobili personaggi, filosofi, brâhmani, mercanti, soldati, gente del volgo. Uomini sazi di godere, malfattori stanchi dei delitti, Maddalene penitenti, o desiderose o curiose di pentirsi, accorrevano pure in folla dalle popolose città e dai villaggi all’eremitaggio del Buddha; offrivano elemosine a lui e ai suoi discepoli, e cercavano nei loro insegnamenti quel conforto che altri sembrava vi avesser trovato.
Çâkyamuni, ritornato finalmente per alquanto tempo alla città natale di Kapila, scandalizza dapprima i genitori e i parenti col suo andare limosinando in vesti dimesse, e con l’intrattenersi con uomini di casta inferiore. Incominciò poi a fare non poche conversioni, tra le quali quella di Nanda figliuolo di Prajâpatî sorella minore di sua madre Mayâ, e quella del suo stesso figliuolo Rahula, privando così Çuddhôdana suo padre di eredi al trono. Ma commosso poi il Buddha dall’afflizione che ebbe il vecchio Râja in vedersi tolto quel nipote, in cui aveva messo tutte le sue speranze, fece più tardi un comandamento, col quale proibivasi di ricevere chicchessia nell’ordine de’ monaci mendicanti, senza l’espresso consenso dei genitori. — Le leggende narrano che Çuddhôdana si convertì anch’egli alla Legge, e fecesi monaco buddhista.
Gli ultimi anni di Çâkyamuni scorsero tranquilli, quanto agitati per la lotta interna dell’animo furono gli anni della sua giovanezza. Circondato dal rispetto e dalla venerazione di tutti i suoi discepoli, ebbe seco, fra gli altri, un monaco per nome Ananda, la cui memoria è tuttora onorata nel mondo buddhico, e che consacrò l’intiera sua vita a rendere meno gravi i giorni della vecchiezza dell’amato maestro, servendolo in ogni suo bisogno. Siddhârta morì in pace nel suo ottantesimo anno di età, parlando coi discepoli che lo circondavano.68 «Quando io sarò passato di questa vita, furono le ultime sue parole, non dite che il Buddha s’è dipartito da voi; io sarò sempre in mezzo a voi, come in mezzo a tutti coloro, che praticheranno le dottrine che ho insegnate».69
Note
- ↑ Per le citazioni si sono adoperate spesso le seguenti abbreviazioni ne’ titoli delle opere più di frequente menzionate:
(B) o (Bigandet). — The Life or legende of Gaudama the Budha of the Burmese, etc. Rangoon 1866.
(Burnouf, I). — Introduction à l’Histoire du Buddhisme Indien, etc. Paris 1844.
(Burnouf II). — Le Lotus de la bonne Loi. Paris 1852.
(H.) o (Hardy, M. B.). — A Manual of Buddhism. London 1860.
(H. E. M.) o (Hardy, E. M.) — Eeastern Monachism. London 1860.
(K.) o (Koeppen). — Die Religion des Buddha und ihre Entstehung. Berlin, 1857-1859.
(W.) o (Wassiliew). — Le Buddhisme, ses dogmes, son histoire et sa littérature. Paris 1865. - ↑ Buddha non è il nome del fondatore del Buddhismo. Buddha viene dalla radice «budh» apprendere, e vuol dire il saggio, colui che ha appreso, ed è il titolo che Çâkyamuni si acquistò dopo che lo studio e la meditazione gli rivelarono la natura reale del mondo e degli esseri. I Cinesi traducono la parola «buddha», «kiao», che significa svegliarsi, accorgersi, riconoscere. Infatti anche il sanscrito «bodhati», derivato dalla stessa radice «budh», vuol dire egli si accorse, egli riconobbe. Qualche volta innanzi alla parola «kiao» vien preposta la parola «cing» puro, formando la locuzione «cing-kiao» che può spiegarsi intendere in modo puro o puramente, ovvero la pura intelligenza (Vedi Yuen-kien-lui-han, lib. 317. — Wen-hien-thung-khao, o Enciclopedia di Matuan-lin, lib. 226, p. 1 r. — Khan-hsi-tze-tien, clas. 147, p. 11 v). Coll’aggettivo puro, «sangs», i Tibetani traducono, ma più inesattamente dei Cinesi, il sanscrito «budh», facendo «Sangs-rgyas», il più puro, il più santo, il più perfetto, che corrisponde, in tibetano, all’epiteto di Buddha (Csoma de Körös, A Dictionary Tibetan and English, Calcutta, 1834, p. 294).
- ↑ Mahâyâna e Hinayâna sono le due scuole principali che comprendono tutte le sette che furono prodotte dal Buddhismo. L’Hinayâna è l’antico Buddhismo, il Mahâyâna è il Buddhismo moderno. Vedi il capitolo iii, che tratta dello svolgimento delle dottrine buddhiche.
- ↑ Tathâgata, nome che vuol dire, colui che viene come quelli che lo precedettero (alludendo ai Buddha che furono prima della venuta di Çâkyamuni), è un titolo, col quale si designa il Buddha presente, specialmente dai Buddhisti della Cina e del Tibet.
- ↑ Un libro birmano intitolato Ma-la-len-ga-ra, e tradotto da Chester Bennett nel Journal of the American and Oriental Society, vol. iii, contiene un racconto della vita di Çâkyamuni conforme a quello del Lalitavistara Sûtra, ed alcuni credono anzi che esso ne sia una traduzione; ma è da notare però che il Ma-la-len-ga-ra prolunga la biografia di Gâutama fino alla morte di lui, mentre il Sûtra sanscrito interrompe prima la sua narrazione.
- ↑ Il Pûjâvaliya fu scritto da Mayurapâda, che fiorì sotto il regno di Prâkrama Bâhu III, 1267-1301, d. C.
- ↑ Gâutama è un nome, col quale è anche chiamato il Buddha. Vedi più innanzi.
- ↑ Per le notizie di fonte tibetana abbiamo le versioni di Csoma de Körös nel xx volume dell’Asiatic Researches; Notices on the life of Shakya extracted from Tibetan Authors, 1836, pp. 33; e l’opera di A. Schiefner: Eine tibetanische Lebensbeschreibung Sakyamuni’s, des Begründers des Buddhathums, 8.° St. Petersburg, 1849.
Si noti che qui si sono citate solamente alcune di quelle scritture buddhiche, che hanno per unico fine di narrare la storia e la vita di Çâkyamuni; e perciò non si è fatta menzione di quegli scritti, i quali, benchè contenenti dati e fatti importanti intorno alla vita di quel filosofo, non hanno per loro scopo principale di farne la biografia. Per la vita del Buddha si possono anche leggere le opere cinesi: Fa-yüan-cu-lin, Shi-kia-jo-laiCen-tao-ki, Wu-têng-hui-yüan, Yuen-kien-lui-han, ed altre ancora. - ↑ Una osservazione importante intorno alle diverse leggende che si conoscono, è questa: che nella narrazione dei minimi incidenti della vita di Gâutama si trova moltissima conformità in tutte le tradizioni, ci provengano esse dal Tibet come dal Ceylon, dal Barma come dalla Cina. Mentre d’altra parte vi sono differenze notevolissime nel racconto di certi fatti soprannaturali, dei diversi miracoli attribuiti al Buddha, in tutto quello insomma che venne aggiunto dai più religiosi di un tempo più recente; e che in gran parte lasceremo in non cale, nella compilazione della biografia di Çâkyamumi.
- ↑ Agosto-settembre 1873, t. ii, num. 6, p. 113; e aprile-marzo 1874, t. iii, p. 249.
- ↑ Donde è venuto il nome di Çâkya-muni, l’eremita o il saggio della famiglia Çâkya, che si dà al fondatore del Buddhismo. Sulla stirpe dei Çâkya vedi: Csoma de Körös Origin of the Shâkya race, notizie tratte dal Kangyur e tradotte dal tibetano nel Journal of the Asiatic Society of Bengal, vol. ii, Calcutta, 1833. — The ancestors of Gôtama Budha, cap. iv del Manual of Budhism dello Spence Hardy. — Fausböll, Die Pâli-Lgenden von der Entstehung des Sàkya-und Koliya-Geschlechtes. 8.° p. 26 Berlin, 1862 (Weber, Indische Studien, v); e sulla stessa leggenda pali, vedi anche: A. Weber, Monatsberichte der Berliner Akademie, marzo 1859.
Le leggende fanno del Buddha un discendente de’ Sûryavansa, o figliuoli del sole, che da tempo immemorabile regnavano sull’India, come Cakra-vartas. - ↑ Gâutama, come s’è detto, è altro nome, col quale spesso vien chiamato il Buddha: in siamese Samono-kodom (= Çraniana Gâutama, il religioso Gâutama), ovvero Phara-kodom (= Çri Gâutama, il beato Gâutama).
- ↑ In cinese, Kia-pi-lo-kuo, il reame di Kapila. Ai tempi di Fa-hsien, pellegrino buddhista, (399-414 d.C.), la città di Kapilavastu, che egli chiama Kia-wei-lo-wei «non aveva nè governo nè popolo, ed era come un grande deserto; non v’era che una congregazione di preti, e sole dieci famiglie di laici». (Fo-kuo-ki, lib. 22). Hsüan-tsang, altro pellegrino buddhista, visitò due secoli più tardi (632 d.C.) le rovine di Kapilavastu, che erano ancora ragguardevoli. Egli nelle sue Memorie sulle contrade occidentali (Hsi-yü-ki) chiama l’antica città col nome di Ki-pi-lo-fa-su-to, trascrizione più esatta che quella di Fa-hsien, del nome indiano. Kapilavastu, secondo le leggende buddhiche, fu così chiamata, perchè nelle vicinanze eravi l’eremitaggio del rishi Kapila (Bigandet, p. 10). Alcuni negano che le rovine visitate dai pellegrini cinesi siano quelle dell’antica città di Kapila; altri per di più negano che vi sia pure stata nell’India una città di tal nome. Il Weber ed altri ancora hanno visto in esso nome l’espressione allegorica della influenza della filosofia Sâmkhya sul Buddhismo (Weber, Ind. Lit. p. 248; e Ind. Stud. t. i, p. 453). — Kapilavastu, detta anche Kapilanagara, sarebbe secondo alcuni l’odierna Nagar, che è in prossimità di Basti (Beal, Fah-hian, p. 83).
- ↑ Il nome di Çuddhôdana è inteso da Cinesi «cibo puro», e lo traducono perciò Cing-fan: questa interpretazione del nome sanscrito dimostra che essi dividevano la parola in Çuddha+odana. Il Senart (Jour. asiat. 1874, t. iii p. 425) crede invece che questa parola si debba separare in Çuddha+udauyana; e che il vero nome del padre del Buddha fosse Çuddhodayana.
- ↑ Koli o Vyajrapura, la città del tigre, era anche detta Dêvadarçita. I due piccoli principati di Kapila e di Koli erano situati nella parte settentrionale dell’Ande, alle opposte rive del fiume Rohini. I nomi di questi due principati e del fiume sono sconosciuti alla geografia moderna.
- ↑ Mâyâ fu detta anche Mâhâmâyâ o Mâyâdévi. Questo nome, pel carattere mitologico del racconto della nascita di Çâkyamuni, fu un appellattivo, secondo alcuni, che supplantò il nome reale della madre del Buddha (Lassen, Ind. Alt. ii, p. 72; — Weber, Ind. Litt. p. 248). — I Cinesi la chiamano anche Ta-ching-cing-mu, ossia madre purissima o mater immaculata, perchè alcune recenti leggende dicono che partorisse il figliuolo serbandosi vergine.
- ↑ Lumbinî, giardino situato tra Kapilavastu e Koli, dove gli abitanti delle due città avevano per costume di recarsi a passeggiare.
- ↑ S. Hardy, p. 145.
Il Tâtha-gatha-udana dice che il nuovo nato fu ricevuto da quattro brâhmani invece che dal Dio Brahma. «Four chief Brahmas received the new born infant on a golden net-work, and placed him in the presence of the happy mother, saying: give yourself up, o Queen, to joy and rejoicing, here is the precious and wonderful fruit of your womb». (Bigandet, p. 34). - ↑ Bigandet, p. 41.
- ↑ H. p. 148.
- ↑ Le leggende narrano, che il Bodhisatva nuovo nato aveva sul suo corpo una serie di segni maravigliosi; e che il rishi Asita, miracolosamente giunto attraverso lo spazio dall’Himavat, osservando que’ segni, fece la profezia di sopra riferita. «Una doppia fortuna, egli disse, è riserbata a Siddhârtha; o egli rimane nel mondo, e diviene allora un Cakravartin (re dell’universo); o fugge il mondo, e allora diventerà un Buddha perfetto» (Lalitavistara). Questi segni maravigliosi che portava impressi il fanciullo, sono detti dai buddhisti i mahâpurushalakshanâni, e intorno ad essi si potrà vedere il Burnouf, Lotus ec. p. 553, (Senart, Jour. Asiat., 1873 pagg. 219-261).
- ↑ B. p. 42.
- ↑ H. p. 149; — K. p. 78.
È bene avvertire, che, dando la significazione dei nomi propri, non intendo presentare la rigorosa etimologia della parola sanscrita; ma di attenermi alla interpretazione e al valore che i buddhisti applicano ai nomi propri stessi. Il significato che dà la esatta etimologia delle parole, non ne esprime sempre giustamente il senso buddhico. — Il nome di Sarvârthasiddha è comunemente abbreviato in Siddhârta o Arthasiddha. - ↑ Lalitavistara. — B. p. 44.
- ↑ B. p. 44.
- ↑ B. p. 48.
- ↑ Lalitavistara, p. 132-134.
Tra le altre qualità, v’era anche che essa fosse, come dice la traduzione francese del Lalitavistara, «sans passions pour les dieux et leurs fétes». (Foucaux). - ↑ Questa è la traduzione del nome, almeno secondo i Tibetani, che la chiamano Sa-jo-mo, da sa, terra e jo-mo, signora. Aveva anche il nome di Yâçodharâ, col quale è sempre designata dai buddhisti del Sud: alcuni la dicono figlia di Suprabuddha.
- ↑ In un libro buddhico citato dal Beal, si trova: «Il principe, giunto al suo 15.° anno di età, sfidò in esercizi atletici tutti i componenti delle famiglie dei Çâkya. Tirò d’arco, e con una freccia perforò sette timballi d’oro, e con un’altra sette massi di ferro. Queste frecce, dopo aver trapassato i bersagli, diretti al sud-est, andarono a colpire la terra, dove allora sgorgarono due fontane di acqua». (Fah-hian, p. 86, n. 3).
- ↑ Lalitavistara, p. 138. — B. p. 49-51. — H. p. 153-155.
- ↑ Lalitavistara.
Oltre queste tre apparizioni, tutti gli scrittori buddhisti fanno menzione d’una quarta, quella d’un religioso mendicante o bhikshu, che Siddhârtha incontrò in altra sua passeggiata. La vista di quel santo uomo, il quale, avendo domato le passioni ed i sensi, s’era liberato dai mali dell’esistenza, fece nascere nel principe l’idea di ritirarsi dal mondo e farsi anch’egli eremita. Quest’episodio dell’apparizione d’un religioso starebbe a provare, che l’ordine dei monaci mendicanti esisteva nell’India innanzi la venuta di Gâutama buddha, la quale cosa sarebbe molto probabile, attesochè la mendicità è comune, in alcune religioni orientali, al Brâhmanismo e all’Islamismo, come al Buddhismo. - ↑ Hardy, p. 156.
- ↑ Burnouf. ii, 548. — Mâra, che propriamente vuol dir morte, presso i Buddhisti significa il tentatore o il cattivo genio; è anche detto Pâpiyan, il peccatore, o anche Dêva Mâra Pâpiyan. I Tibetani lo chiamano Bdud-sdig-jan (Bdud, il demonio), ovvero Hdod-pa, concupiscienza; i Cinesi, Mo-wang o Mo; gli scrittori buddhici del Burman, Manh, che vuol dire orgoglio, ozio, pigrizia. — Mâra è spesso rappresentato che ferisce i mortali con l’arco e le frecce che gl’impresta Kâma, il Dio dell’amore; e riceve sovente i nomi e gli attributi di Kâma stesso, col quale lo vediamo affatto identificato. Kâma, la concupiscenza, l’appetito, l’amore, che, secondo il Rigveda, fu il primo seme generatore dell’anima (Lib. x, inno 129°), è pe’ buddhisti il male personificato, il nemico della pace, colui che cerca di porre ogni ostacolo alla salute degli uomini.
- ↑ Secondo il Wilson (Vishnu Purâna) egli è colui che abita e governa un vasto territorio o cakra, da cui è venuto il nome di cakravartin. Secondo altri invece questo monarca aveva tale appellazione, probabilmente perchè un cakra, o disco, lo precedeva, come segno di autorità, quando egli si recava a visitare il territorio da lui governato. (Hardy, M. B. p. 126-127). Vedi anche nota 3 a pag. 15.
- ↑ H. p. 159-160. — B. p. 57-58.
- ↑ Pushya, secondo la mitologia vedica, è il sole moribondo, il sole al tramonto; ed è riguardato come il protettore de’ viandanti, colui che li guida alle loro dimore; ma in questo caso è certo che si tratta d’altro astro, imperocchè, al dire del Lalitavistara (cap. viii), era mezzanotte quando Siddhârtha vide questa stella levarsi sull’orizzonte, poco dopo che egli aveva abbandonata la casa paterna. (Foucaux, Rgya... p. 81 e 199). In questo luogo s’intende perciò senza fallo quella stella che dà il nome all’ottavo nakshatra, del sistema astronomico indiano. I nakshatra, nel loro insieme, presentano un sistema dì divisione del cielo, affatto simile al hsiu cinesi. Questo sistema consiste in 28 segmenti definiti da cerchi di declinazione, che si partono dal Polo e vanno a finire all’Equatore, al luogo di certe stelle determinate. La stella Pushya, dalla quale è chiamato l’ottavo nakshatra, è la δ del Cancro, di 4° grandezza (Biot, Études sur l’Astronom. Ind. et Chin., pag. 119 e 136): secondo i Birmani è la costellazione dell’Idra (Bastian, Die Voelker des Oest. As. ii, p. 256).
- ↑ Lalitavistara. — Bigandet, p. 58.
- ↑ La tradizione pretende di conservare il nome del servo che accompagnava il principe, e anche il nome del cavallo. Il servo si chiamava Chandaka, e il cavallo Kanika o Kantakanam. I pellegrini buddhisti visitavano il luogo dove la leggenda dice che Çâkyamuni lasciasse il servo e il cavallo, per andarsene solo. (V. Beal, Fah-hian, p. 92 e Julien, Hiouen-thsang, ii, p. 330.)
- ↑ Vâiçâli era al nord del Gange, a poca distanza dalla riva sinistra o orientale del fiume Gandaki. Oggidì in vicinanza della antica città, che era la capitale d’un regno dello stesso nome, v’è una piccola città chiamata Bakhra e un villaggio attiguo detto Bassar. Basar, per Basal o Vasal, rammenta il nome dell’antica Vâiçâli (V. de S. Martin, Mémoire analytique sur la carte de l’Asie centrale et l’Inde, p. 114).
- ↑ La leggenda cinese riportata nella traduzione francese del Fo-kuo-ki, p. 281, fa due persone del brâhmano Arâta Kâlâma, una distinta col nome di A-lan, Arâtra, l’alta Kia-tan, Kâlâma. In Pali questo maestro brâhmano è chiamato Alâra Kâlama. L’autore del Tathâ-gâtha-udana ce lo presenta come un eremita, presso il quale Siddhârtha era andato a studiare i cinque Dhyâna o gradi di meditazione; però è anch’esso d’accordo nel dirci che abbandonò il maestro, non soddisfatto dell’insegnamento di lui.
- ↑ Râjagriha vuol dire la casa del re, perciò i Cinesi chiamano questa città Wang-shé. Essa fu capitale del Magadha o del Behar meridionale, fino a che il re Kâlâçôka trasportò la sua corte a Pâtaliputra, cento anni dopo la morte del Buddha. Le rovine di questa antica metropoli sono descritte da varii viaggiatori.
- ↑ I Buddhisti, che scrissero in Pali gli avvenimenti della vita del Buddha, fanno precedere al suo incontro col brâhmano Arâta o Arâda il suo viaggio a Râjagriha; ma se Arâta teneva veramente scuola a Vâiçâlî, è probabile che le tradizioni dei buddhisti del nord, che io qui seguo, sieno più nel vero; imperocchè la città di Vâiçâlî trovasi dimolto più vicina a Kapilavastu, donde il Buddha era partito, che nol sia Râjagriha. Rudraka in Pali è chiamato Uddaka o Udrâka.
- ↑ Intorno al re Bimbisâra vedi più innanzi.
- ↑ Allude alla trasmigrazione, alla quale, secondo le credenze brâhmaniche e buddhiche, ogni essere è fatalmente condannato.
- ↑ In Pali sono chiamati Kondanya, Bhaddaji, Vappa, Mahanama e Assaji.
- ↑ Lalitavistara. — Hardy, p. 165.
- ↑ Da urû, grande, e velyâyâ, sabbia (Turnour, Mâhâvança, lvxi). Il luogo scelto dal Buddha per suo eremo era la valle a oriente del villaggio di questo nome.
- ↑ Questo fiume, che oggi è chiamato Nilajana, dopo aver ricevuto ad oriente il fiume Mahi o Mahânda, forma il Phalgu, che passa sotto la città di Gayâ e continuando il suo corso verso il nord si getta nel Gange. (V. St. Martin, loc. cit. p. 125.)
- ↑ Wheeler, The History of India, t. iii, p. 116-117.
- ↑ Lalitavistara, p. 252. — Burnouf, ii, p. 443.
- ↑ In altre leggende il fatto è narrato come segue. Mentre Çâkyamuni meditava il Nirvâna, sotto l’albero sacro, una giovane donna, per nome Sujâtâ, gli apparve e lo adorò, offrendogli del riso e del latte. Ella, che aveva scambiato il Buddha pel Genio degli alberi, lo pregò per ottenere un buon marito, e un figliuoletto. Fu appagata de’ due desideri, e la giovane per riconoscenza continuò ad apportare cibo al filosofo solitario, che ella aveva preso in iscambio d’una divinità silvestre. (Bigandet, p. 71; — Hardy, M. B. p. 166; — Wheeler, History of India, iii, p. 118, 150). — Oltre le due fanciulle sopra mentovate, si parla, in alcuni racconti, di due mercanti chiamati Trapusha e Bhallikâ, i quali nutrirono coi loro doni il Buddha, nel tempo che si trovava a Uruvilvâ.
- ↑ Gayâ giace alla sinistra del Phalgu, fiume formato dai torrenti Nâirañjanâ e Mahânda o Mahî. Si volle distinguere la città che porta oggi il nome di Gayâ, dalla Gayâ delle leggende buddhiche, la quale secondo alcuni doveva sorgere più lungi dalla prima, in luogo ove ora si vedono informi rovine. (On the Ruine at Buddha Gayâ, by Babu Rajendralal Mittra, nel Jour. of the As. Soc. of Bengal, xxxiii, Calcutta 1864). Il Vivien de Saint-Martin, op. cit., p. 124, riconosce nella Gayâ odierna la medesima città delle leggende buddhiche.
- ↑ Jambu è un albero favoloso, che alcuni hanno identificato con l’Eugenia jambolana (Eitel, Hand-book, p. 36). Ma in questo luogo, come in tutte le leggende della vita di Çâkyamuni, si vuole intendere il Pippala o Ficus religiosa, che più tardi fu chiamato Bôdhidruma o albero dell’intelligenza. I buddhisti dell’India, che tengono come sacra la pianta, sotto cui Siddhârta divenne il Buddha, confusero il Ficus religiosa col Ficus indica, che è propriamente l’albero sacro dei brâhmani. In Cina invece, come pure altrove, si tiene in onore una specie di palma, Barassus flabelliformis o Lontarus domestica, che nell’India si chiama Patra o Tala, e che i Cinesi credono, per errore, che sia il Ficus religiosa o Bôdhidruma.
- ↑ Questo passo del testo Pali è tradotto dal Max Müller: «looking for the maker of the tabernacle» (Dhammapada, p. cii). La parola tradotta da Max Müller tabernacle, e da altri house, abode, vuol significare l’uomo, «the abode of the passions i. e. the human frame» (Turnour, Mahâvançâ). Lo Spense Hardy traduce questo verso: «Seeking the architect of the desire-resembling house» (Man. of Bud., p. 180).
- ↑ H. p. 180. — Dhammapada, 153-154. — Secondo il Lalitavistava, le parole che Siddhârtha pronunziò, sono: sunkâ âsravâna punah sravanti. «Le passioni sono spente, nè torneranno di nuovo».
- ↑ Bigandet, p. 88.
- ↑ Ibidem, p. 85-88.
- ↑ Alphabetum tibetanum, p. 471. — Secondo le credenze dei buddhisti, nel centro del Jambudvîpa o dell’India (propriamente il paese dove cresce l’albero Jambu), si trova il Bôdhimandala, o recinto dell’intelligenza, e nel centro del Bôdhimandala si trova l’albero Bôdhi, o Albero della scienza. Nella narrazione biblica l’Albero della scienza occupava anch’esso il centro del paradiso terrestre. — È oggetto di devozione anche oggidí nell’India un albero, che si dice esser quello, sotto il quale Siddhârtha divenne Buddha: una inscrizione copiata presso l’albero sacro fu pubblicata nel giornale asiatico di Calcutta del 1833, p. 214; e il Klaproth l’ha inserita nella traduzione francese dei viaggi di Fah-hsien, (Foe-koue-Ki, pag. 278.)
- ↑ Negli scritti singhalesi sono chiamate Tanhâ, Rati e Ranga.
- ↑ Bigandet, p. 96-97, e p. 124-125. — La leggenda dice che Çâkyamuni, in questa lotta che ebbe col demonio, solamente battendo la terra con un dito del piede disperse l’esercito di Mâra, il tentatore; e convertì le tre fanciulle in tre brutte vecchie. Fa-hsien, Fo-kuo-ki, cap. xxxi.
- ↑ Lalitavistara. — B. p. 105.
- ↑ Mrigadâva, nome che vuol dire Bosco dei cervi o delle gazzelle, era sul piccolo fiume Varânaçî, affluente a sinistra del Gange. In questo bosco fu innalzato più tardi un magnifico convento buddhico, dove potevano abitare mille cinquecento religiosi. Questo convento fu distrutto nell’ottavo secolo, in seguito alle violente persecuzioni, alle quali soggiacquero i Buddhisti per parte dei Brâhmani. Gli avanzi di questo grandioso edificio furono scoperti a quattro miglia inglesi da Benares, in un luogo detto Sârnath (Çarañganâtha). Vedi Jour. of the As. Soc. of Beng., t. xviii, 1848, p. 31; t. xxiii, 1854, p. 469. — Mrigadâva, fu anche detto il Parco de’ Rishi (o dei santi o devoti), Rishipatana, perchè fu residenza de’ cinque primi discepoli di Buddha.
- ↑ Bigandet, p. 122-124.
- ↑ Su queste prime predicazioni vedi: Feer, Bes premiers essais de predication du buddha Çâkyamuni, nel Jour. Asiat., 6° sèrie, viii, 1866, p. 87. — The first discours delivered by Buddha, nel Jour. of the Ceylon Branch of the R. As. Soc., 1856-66, vol. ii. — Vedi anche il Capitolo secondo.
- ↑ Bigandet, p. 234-235.
- ↑ Wheeler, op. cit., p. 125-126.
- ↑ Bigandet, p. 115, nota 62 bis.
- ↑ I buddhisti fanno ammontare a più di 1150 i discepoli del Buddha. I nomi di alcuni, saliti più che altri in fama, ci verrà, fatto di incontrare nel corso di questa esposizione. Tra essi è da notare, per esempio, Kâçyapa, chiamato Mahâ Kâçyapa o Kâçyap, il grande, per distìnguerlo dai suoi due minori fratelli: tutti e tre erano filosofi, e risedevano presso il villaggio di Uruvilvâ, circondati ciascuno, dice la leggenda, da mille discepoli. Mahâ Kâçyapa divenne celebre nella storia della religione, e fu sotto la sua presidenza che si tenne il primo concilio buddhico. Altri discepoli celebri sono ancora Çâriputra, detto anche Upatishya, e Mahâ Mâudgalyâyana, entrambi figliuoli di brâhmani, ed entrambi nello stesso tempo ascritti al numero dei fedeli. Ad essi, che premorirono al Buddha, sono attribuite alcune opere buddhiche che anche oggi si conservano nella collezione delle scritture sacre, come sarebbero l’Abhidharmaskandhapâda e l’Abhidharma sangîti paryâya. Ananda, testé menzionato, della famiglia dei Çâkya e cugino di Siddhârtha, uno dei più zelanti sostenitori e propagatori della nuova Legge, fu il secondo patriarca buddhico dopo Mahâ Kâçyapa. Upâli, di casta Çûdra, fu figliuolo d’un barbiere, ed a lui si attribuisce la compilazione di quella parte delle scritture buddhiche che portano il nome di Vinaya. Ricorderemo in fine Aniruddha, che altri chiama Anuruddha, Kâtyâyana, autore della Abhidharma jnâna prasthâna, Subhnti ed altri. V. Koeppen, i, p. 102 e seg.
- ↑ Le leggende narrano che la morte del Buddha avvenne in vicinanza della città di Kusinara, o Kusinagara. Questa città, secondo alcuni, era situata al N. O. di Bhattia, in prossimità del fiume Gandaki. Il Cunningham l’ha identificata col villaggio di Kasia, trentacinque miglia inglesi all’Est di Gorakpûr. (Beal. Fah-hian, p. 93).