Il Buddha, Confucio e Lao-Tse/Parte Prima/Capitolo II
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Capitolo II.
Dell’opera del Buddha.
La valle del Gange, dove il popolo ario discese, finito il periodo della sua vita pastorale menata nel Panjâbî, il Sapta Sindhu vedico, e dove ci conducono le vecchie leggende religiose brâhmaniche conservate nelle raccolte sacerdotali dei Purana, e le tradizioni eroiche delle due grandi epopee, il Mahâbhârata e il Râmâyana, fu pure la culla del Buddhismo, e il luogo ove si svolsero i principali avvenimenti della primitiva storia buddhica. Questa parte dell’India era comunemente designata dai Buddhisti col nome di Madhyadeça; e comprendeva i regni di Mathurâ, Sâketa o Ayodhyâ, Koçala, Vârânasî, Kapila, Vâiçâlî, Magadha, Mithilâ, e Campâ:1 cioè a dire il territorio ora occupato dalle provincie di Delhi, Agra, Aude e Behar. Che il Buddha fosse già un principe di uno dei reami del Madhyadaça, e che esso appartenesse alla stirpe dei Çâkya che dominava Kapilavastu, pare indubitato: ma con altrettanta certezza non si può stabilire da qual causa fosse mosso a darsi alla vita religiosa.
Siddhârtha, secondo la leggenda, figliuolo di un re, circondato da tutti i piaceri della vita, nel fiore della sua età, preso da un improvviso sentimento di tristezza, concepisce le vanità delle cose umane; ed esclama come Salomone, vanitas vanitatum et omnia vanitas. Ma grande è la differenza che passa tra questi due uomini. Nel supposto autore dell’Ecclesiaste, è quello un grido che nasce dalla sazietà dei godimenti; è il grido di colui che, giunto alla feccia del calice dei piaceri, vuole ispirare la stessa sua nausea e il suo disgusto pure in coloro che non vi hanno per anco messo le labbra; è il prodotto dell’egoismo di chi, non potendo più goder la vita, non trova altro sollievo che quello di estendere l’immensa noia che lo tormenta, a tutti gli altri uomini. Nulla di tutto questo ci mostrano le scritture buddhiche: il sentimento della infinita vanità del tutto non entrò nel cuore del giovanetto principe per il disgusto, la sazietà, la nausea dei piaceri del mondo, ma nacque in lui nello scorgere quanto fosse grande la infelicità dell’umana progenie. Quale fu, tuttavia, il vero motivo che indusse Siddhârtha a lasciare la reggia e la casa paterna? Fu direttamente all’amore dell’umanità che consacrò sè stesso; ossivvero, spinto da altra cagione ad abbandonare la patria, cercò di confortare l’esilio, meditando i mezzi di sollevare dal dolore i suoi fratelli? Egli è probabile, pensa il Wassiljew, che il principe di Kapilavastu fosse costretto ad allontanarsi dal regno per dissensi sorti nella famiglia dei Çâkya, per inimicizie o per intrighi di corte: o più probabilmente vi fu costretto dagli avvenimenti politici. Anzi a questo proposito è da notare il fatto citato da una leggenda: che, cioè, mentre il Buddha predicava la sua dottrina, il re d’un vicino paese, per nome Virûdhakha, sterminò la stirpe dei Çâkya.2 Ora, se questo fatto fosse accaduto prima del tempo, al quale la leggenda lo riporta, e Wassiljew3 non sarebbe lungi dal crederlo, noi avremmo una cagione all’esilio di Siddhârta. Il quale, salvatosi con la fuga dall’eccidio, e dolente per sì grande sventura, avrebbe trovato nella filosofia e nello studio una consolazione al suo animo amareggiato.
L’India presentava a’ tempi di Gâutama Buddha uno stato molto simile a quello della Grecia ai tempi di Socrate e di Platone, ove incontravansi dappertutto scuole e filosofi. In Vaiçâlî, Râjagriha, Vârâhnasî,4 numerosi discepoli si riunivano in molte scuole tenute da celebri brâhmani. Oltre a ciò, non pochi saggi, a fine di perfezionarsi nella scienza e nella morale, andavano a vivere in eremitaggi, lungi dal contatto impuro della società, dedicandosi alla meditazione, o alla contemplazione della natura.5 Gli uomini di casta brâhmanica, eccettuati quelli che, nati di famiglia sacerdotale, pure seguivano altra vocazione che quella de’ parenti, si distinguevano in preti sacrificatori, e in savii o filosofi. I primi accudivano a compiere i sacrificii ne’ templi; officiavano a’ funerali, alle nascite, ai matrimoni; e facevano pure, qualche volta, da profeti, da indovini, da astrologhi, da maestri di scuola, ecc.; avevano moglie ed erano capi di famiglia. I secondi, ossia i filosofi, vivevano per lo più nel celibato; stavansene lontani dal mondo; abitavano nei boschi o in eremitaggi, che si trovavano generalmente nelle vicinanze delle città e di paeselli. La religione di questi filosofi era di un carattere affatto diverso da quella dei preti sacrificatori. Aveva preso la forma d’una dottrina segreta, la quale veniva impartita con mistero ad alcuni discepoli che si recavano ad ammaestrarsi presso quei savii. Tre dogmi principali stavano a fondamento di questa religione: la creazione del mondo, l’esistenza d’uno spirito supremo che invadeva l’universo, e la trasmigrazione delle anime. Il fine, a cui tendevano questi filosofi indiani, era di purificare il loro spirito, liberandolo dalle passioni terrene; rendendosi così superiori al piacere e al dolore, indifferenti a tutto quel che commuove l’animo e il cuore, e degni di godere finalmente le gioie ineffabili e imperiture nel seno del supremo spirito, che penetra e risplende per ogni luogo dell’universo. A tale effetto vivevano temperati e casti, mortificando la carne, e campando di vegetali che essi stessi raccoglievano, o del frutto delle elemosine che i vicini andavano a offrir loro. Tali erano i brâhmani del tempo di Gâutama e di Alessandro Magno.6 Nel Panjâbî e nella valle del Gange era gran numero di siffatti filosofi e anacoreti. Alcuni di essi, saliti più in fama degli altri per la loro virtù e scienza, attiravano in quelle loro solitudini torme di discepoli, desiderosi di mettersi sotto la direzione e la disciplina di santi uomini; ossivvero, questi stessi filosofi andavano, lasciando gli eremitaggi, nelle popolose città, a cercarvi proseliti e a esporvi le loro dottrine. Così nacquero le molte scuole, dove si elaborarono tutti quei sistemi di filosofia, pei quali l’India fu celebre sino dalla remota antichità. Siddhârta fu anch’egli uno di tali uomini. Esso, dopo essere stato discepolo nelle principali scuole brâhmaniche, si ritirò in solitudine ad esempio degli altri anacoreti, per uscirne poi e ritornare al mondo colla fama di virtuoso e di saggio. Ma molto superiore agli altri, o più degli altri fortunato, vide con insperato buon esito estendersi la sua dottrina, e accorrere numerosissimi i discepoli; vide re e brâhmani convertirsi a lui, e i poveri e gli afflitti riconoscerlo per loro salvatore. Nè un tal risultato ottenne egli col mendicare aiuto soprannaturale; nè per farsi credere volle rivestirsi di autorità divina. Egli volle essere un saggio e non un Dio, e il popolo lo chiamò il Buddha, ossia il Sapiente, perchè lo reputò il più dotto degli uomini: e prestò fede alle verità ch’ei diceva, non curandosi che uscissero dalla bocca di un semplice mortale. «Il Buddha, dice il Koeppen,7 è un uomo; niente più che un uomo; non l’incarnazione di qualche essere celeste. La sua sapienza non vennegli dall’alto, nè gli fu rivelata da alcun Dio; ma fu il frutto della sua natura meditabonda e della sua virtù». E il Burnouf:8 «Il a vécu, il a enseigné et il est mort en philosophe, et son humanité est restée un fait si incontestablement reconnu de tous, que les légendaires, auxquels coutaient si peu les miracles, n’ont pas même eu la pensée d’en faire un Dieu après sa mort». E altrove:9 «Il y a peu de croyances en effet qui reposent sur un ainsi petit nombre de dognaes et même qui imposent au sens commun moins de sacrifices; je parle ici en particulier du Buddhisme qui me parait être le plus ancien, du Buddhisme humain, si j’ose ainsi l’appeler, qui est presque tout entier dans les règles très-simples de la morale».
Ma quanto più la posterità si allontana da Çâkyamuni, tanto più la dottrina di lui prende incremento, tanto più perde della sua semplicità e della sua indole umana, tanto più egli s’innalza straordinario agli occhi dei suoi adoratori. Il Buddha del Hinayâna, o del Buddhismo primitivo, non è altro che l’unico uomo, il quale fino allora abbia saputo liberarsi dalle sofferenze della vita, da quel che i buddhisti chiamano il Sânsâra, ovvero, come noi diciamo, dal mondo; il solo uomo che sia riuscito a effettuare l’annientamento di sè stesso e a liberarsi dalla trasmigrazione o da ogni futuro rinascimento. Egli non è il sovrano dell’universo; e non diventa tale, nè dopo la morte, nè dopo il Nirvâna. Il Buddha del Mahâyâna invece è un personaggio affatto differente.10 Esso si trova in comunione con tutti i mondi, de’ quali si compone l’universo buddhico; e non perde la sua personalità, nemmeno dopo la morte. Inoltre il Mahâyâna, o nuovo Buddhismo, popola quest’universo d’una moltitudine infinita di Buddha; perchè esso ammette, contrariamente alla primitiva dottrina, che un Arhân,11 dopo essersi immerso nel Nirvâna, resti ancora per qualche tempo nel mondo per istruire gli uomini, eccitarli a seguire il suo esempio, e rivelar loro le alte idee della legge buddhica. Tuttavia i diversi Buddha del Mahâyâna non sono, neppur essi, creatori nè ordinatori dell’universo.12
L’opera del buddha Çakyamuni si può, pertanto, considerare sotto tre aspetti: 1.° nella nuova dottrina che esso stabilì; 2.° nelle riforme che apportò ai vecchi ordinamenti religiosi e sociali; 3.° nelle norme e nella disciplina che egli diede alla confraternita religiosa, o alla chiesa buddhica, di cui si può tenere per fondatore. Se si considerano, dapprima, gl’intendimenti delle dottrine dei savii brâhmani, de’ quali poco sopra abbiamo parlato, e delle dottrine buddhiche nel primo loro incremento, si vede che nel fondamento hanno qualcosa di comune. Infatti entrambe, riguardo alla fede, sono come una rivolta contro la vecchia teologia; riguardo alla pratica o al modo di vita religiosa, una guerra al sensualismo senza limiti, di cui era impregnata l’antica civiltà dell’India. Entrambe avevano in comune il dogma della trasmigrazione, la credenza dell’infelicità della vita, la necessità d’una liberazione dai continui rinascimenti. Ma la dottrina dei filosofi brâhmani e quella dei monaci buddhisti rappresentano due diversi stadii di svolgimento. Il brâhmanismo de’ filosofi, quantunque in una forma, astratta, conservava il culto delle divinità, confondendole tutte in uno Spirito supremo creatore e reggitore dell’universo. E insegnava che il liberarsi dalla trasmigrazione dell’anima era un ricondurre quest’anima a quel supremo spirito: il qual ritorno dell’anima allo spirito universale era, secondo alcuni, un assorbimento come d’una goccia nell’oceano; o, secondo altri, si operava conservando la propria esistenza individuale, che durava eterna nel cielo del supremo spirito. E finalmente insegnava, che questa liberazione si otteneva specialmente per via di sacrifizii, atti di adorazione, austerità; e per la contemplazione di questo spirito supremo nelle sue varie manifestazioni. Il buddhismo dei monaci si avanzò anche più in questa rivolta contro la religione antica. Le dottrine buddhiche rigettarono l’idea d’una divinità suprema; insegnarono che le preghiere, gli atti di adorazione, i sacrifizii, l’austerità, erano assolutamente senza profitto, e cose affatto impotenti a modificare menomamente la legge inesorabile, fatale, dell’universo, espressa col dogma della trasmigrazione. Il Buddhismo distingueva gli uomini in ignoranti e in saggi, ovvero, come lo abbiamo accennato nell’altro capitolo,13 in laici ed in membri della comunità religiosa o monaci. Gl’ignoranti, o i laici, erano quelli che non si potevano distaccare dal mondo e dai suoi allettamenti; e non aspiravano che a rinascere in una condizione di esistenza la più felice possibile; e per conseguire quell’intento operavano tutto il bene, di cui erano capaci, secondo la morale di Çâkyamuni. I saggi erano coloro che, persuasi che il dolore penetra in ognuna delle varie esistenze che la trasmigrazione riserba all’anima, convinti della vanità, delle cose del mondo, non aspiravano che a sciogliersi dai legami della carne e liberarsi dalla necessità di rinascere. Componevano essi una comunità religiosa; vivevano nel celibato, mendicando la vita alla guisa de’ frati francescani; e si davano a meditare sulla condizione infelice d’ogni essere vivente, sulle passioni, sui desidèrii, su tutto quel che è creduto origine di quella infelicità, sulle idee fondamentali in somma della dottrina buddhica, fino ad avere in abominio ogni affetto mondano. Per tal modo giungevano i monaci a separarsi dalla universalità degli esseri; e alla loro morte speravano godere quella quiete e quella pace, che, non credendo possibile trovarla in qualsivoglia condizione dell’essere, essi cercavano nell’annichilazione di questo, cioè nel Nirvâna.14
In che consiste questa dottrina, che aveva la grande possanza di liberare l’uomo da qualsiasi modo di vita, dalla necessità di patire l’esistenza? e in che essa dottrina si distingue da quelle delle altre scuole filosofiche del tempo? — Lo studio delle scritture canoniche della religione buddhica ci dimostra chiaramente lo svolgimento e le variazioni, alle quali essa religione andò soggetta; e ci può ricondurre con sufficiente certezza alla dottrina dei tempi primitivi. Per questa via s’arriva a conoscere, che soltanto nelle Quattro verità debbesi cercare l’antico Buddhismo; e che esse sole, o ciò che si riferisce ad esse, di tutto quello che le leggende fanno dire ed operare al Buddha, hanno apparenza di autenticità.
Il compendio delle teorie di Gâutama e l’affermazione delle Quattro verità della fede buddhica si contengono nella prima predicazione che egli fece nelle vicinanze di Vâranâsî, circondato da’ suoi discepoli, sulla vetta d’un monte. «Tutto quello che esiste nell’universo, incominciò egli a guisa d’introduzione e innanzi di dichiarare i dogmi della sua credenza, tutto quello che esiste tanto ne’ dominii dell’uomo quanto nella regione degli Dei, è simile a fuoco divoratore. E perchè mai? Perchè tutti i nostri sensi, e tutti gli affetti del nostro cuore, sono come fiamme ardenti; perchè gli oggetti che vengono da noi percepiti, e gli effetti che nascono da questa percezione, son come fuoco che brucia e distrugge. La sensazione prodotta da’ nostri organi, gli affetti che vengono nel nostro cuore, son cagione di un succedersi di piaceri e di dolori; e i piaceri e i dolori sono fuoco che divora. E la cagione di ciò è la concupiscenza, è la sete insaziabile di felicità, e l’ignoranza intorno alla vera natura delle cose; per modo che la vita e la morte, la gioventù e la vecchiezza, la sanità e i morbi, i sorrisi e le lacrime, le gioie e le amarezze, tutto è fuoco che ci arde e divora. Ma io ho ormai trovata la sapienza vera, che guida alla perfezione, ho trovato il modo di liberare gli uomini e gli Dei di mezzo a quest’incendio distruggitore». Ed allora il Buddha espone ai discepoli la dottrina delle Quattro verità, che secondo alcuni venne raccolta nel libro che oggi si conserva col nome di Dharma cakra pravatanam sûtra.15
Queste quattro verità, oltre al comprendere tutta la dottrina del Buddhismo primitivo, sono, come già si disse, la base di tutto il sistema buddhico. Di esse tenemmo parola nella vita di Çâkyamuni, ma giova ritornarvi sopra brevemente. La prima verità afferma che l’esistenza è dolore. Esistere e soffrire sono sinonimi pei buddhisti. Le malattie, la vecchiezza, la morte, dovere aver che fare di continuo con ciò che abbiamo a noia, vedersi sempre allontanati da ciò che amiamo, e le illusioni che nascono dalla falsa conoscenza delle cose, sono, dicono i seguaci di Gâutama, quel che principalmente ci arreca dolore. Ma qual’è la cagione di questo dolore? perchè la vita è una continua sequela di miserie? La causa di questo dolore è il desiderio, dice la seconda delle quattro grandi verità; è una sete febbrile che ci divora, un senso di avidità che ci spinge ora verso un obbietto ora verso un altro, e che mai non si appaga, mai non si sazia, mai non si estingue: anzi continuamente rinasce e si rinnovella. L’unico mezzo di distruggere il dolore è dunque quello di distruggere ogni desiderio e concupiscenza; in ciò consiste la terza verità. La quarta stabilisce che l’estinzione del desiderio, o la distruzione del dolore, trovasi nel Nirvâna; e insegna all’uomo la via che deve condurlo a quella desiderata meta.16 Le quattro verità sono espresse dalle quattro parole: Dukka, il dolore, Samudaya, il prodursi e l’accumularsi (dei dolori), Nirôdha, la distruzione, Mârga, la via.
Quest’ultima è in certo modo la più importante, come quella che insegna a conseguire il sommo bene, e ne diremo perciò qualche parola. «Vi sono due estremi, dice un Sûtra buddhico, l’uno è aspirare alla soddisfazione di tutti i desiderii, a seguire tutti i piaceri, a cercare dappertutto il benessere e la felicità; l’altro è il tormentarci con pratiche inutili di penitenze, di mortificazioni e di austerità.17 Il giusto mezzo è la via (mârga) che guida alla salute».18 La via, o il metodo che deve condurci a salvazione ha otto parti.19 Esse sono altrettante condizioni, che l’uomo deve avere per arrivare al Nirvâna, e sono: la fede, il sano giudicio, l’operare con fine sempre puro ed onesto, il menare vita di religioso, l’adempire tutti i precetti della Legge, l’avere sempre in memoria il passato per poter correggersi nell’avvenire; e in fine, il meditare, che può condurre, anche in vita, ad uno stato di quiete simile al Nirvâna.20 La miglior via, dice il Dhammapada, è la via che mena al Nirvâna (Açthângamârga, «la via dalle otto parti»). Le migliori verità sono le quattro verità (âryâni satyâni). La migliore delle virtù è l’essere senza passioni. Il migliore degli uomini, colui che ha occhi per vedere la verità. — Chi cammina fuori della via della salute o del Nirvâna, cadrà in potere di Mâra,21 il tentatore. Chi seguirà la retta via arriverà alla fine di tutte le miserie e di tutti i dolori. — ogni cosa creata perisce; ogni esistenza è pena; ogni forma non è che illusione: ecco le verità, che faranno entrar nella via che mena alla quiete.22
Non è mia intenzione di fare un parallelo tra il Buddhismo e gli altri sistemi filosofici dell’India; che sarebbe lavoro di lunga lena, e mi condurrebbe fuori dei limiti che mi sono prefissi; ma non posso lasciare di accennare in poche parole il rapporto che ha colle vecchie credenze brâhmaniche della scuola dei savii. Secondo queste credenze, come abbiamo avuto luogo di accennare, l’universo è Brahman: emana da Brahman, e deve tornare a Brahman. Tutte le cose sono trascinate da un moto continuo, da un incessante cangiamento di forma, e poi spariscono assorbite nella divina sostanza di Brahman. L’uomo è anch’egli una particella dell’universo, una particella di Brahman, e deve tornare a lui; ma la sua povera anima, che uscì pura e santa dal seno del gran tutto, in contatto del male che è nel mondo, perse il primitivo candore, si contaminò e divenne indegna di tornare alla sorgente infinita che la produsse. Deve dunque purificarsi colle sofferenze, santificarsi col dolore. La vita umana, per quanto abbastanza infelice, dà spesso occasione d’aumentare nell’anima quella macchia del peccato; o è troppo breve, il vivere, per purificarla e santificarla interamente. Laonde questa purificazione si protrae per molte esistenze, durante le quali, sotto nuove forme, l’anima espia i suoi falli coll’infelicità di esistere. La natura animata è un sistema di penitenza e di purificazione; e come tale non può offrire che pena e dolore. Non è perciò da meravigliarsi se Çâkyamuni, imbevuto anch’egli delle idee brâhmaniche, tenesse l’esistenza come l’espressione dell’infelicità.
Scopo della filosofia indiana, del Vedanta come del Sâmkhya, è di liberare l’anima dalla necessità della trasmigrazione: che è quanto dire dal dolore. Il mezzo per ottenere questo fine, tanto nell’uno quanto nell’altro dei due sistemi citati, è la Scienza. Il Buddha, ponendo la ignoranza come origine prima d’ogni nostra miseria, non può non indicare anch’egli come mezzo di salute la Scienza.23 La scienza che il Vedanta insegna, per porre termine alla trasmigrazione e conseguire la suprema felicità, è la perfetta conoscenza di Dio, o di Brahman, e dei mezzi, coi quali si arriva all’asserzione in lui. La scienza della filosofia Sâmkhya, che non ammette Dio, consiste nella conoscenza dei principii delle cose; il primo dei quali è prakriti, «la natura», «la materia eterna», «la causa materiale che produce e non è prodotta», e da cui derivano tutti gli altri principii in numero di venticinque. Il Buddhismo poi, che non riconosce nè il Dio del Vedanta, nè la natura creatrice del Sâmkhya, fa consistere la sua scienza nelle Quattro grandi Verità, che più sopra abbiamo esposte. Esse, dopo avere stabilito che il soffrire e l’esistere non sono che una cosa sola, insegnano che la cessazione della trasmigrazione o del dolore non si trova che nel Nirvâna, o nella cessazione dell’esistenza. Così, mentre la suprema felicità, secondo la filosofia Vedanta, è il ritorno dell’uomo a Dio, a quel modo che una parte si riunisce al tutto, cioè perdendo la propria individualità nel seno di Brahman; e, mentre la suprema felicità dell’opposto sistema Sâmkhya è il poter contemplare la natura con l’animo privo d’ogni passione, indifferente alla gioia e al piacere, al disopra del timore e della speranza, sciolto da ogni legame del corpo; la suprema felicità del buddhista è di uscire dal gran mare dell’essere, di togliersi per sempre dall’Oceano della trasmigrazione, e godere una pace eterna in seno al Nulla.
In quanto alla morale del Buddhismo primitivo, tutto si riduce a praticare la virtù e a frenare le passioni.24 Lascia la via del vizio e segui la virtù: il virtuoso ha premio in questa vita e nell’altra (alludendo alla trasmigrazione). — Vinci l’odio coll’amore, il male col bene, l’avarizia colla generosità, la menzogna colla verità. — Niuno dimentichi il proprio dovere per rispetto altrui; ma appena conosciutolo, lo pratichi sempre e dappertutto. — Stai contimiamente a guardia di te stesso: le passioni entrano nel cuore come la pioggia in una casa mal custodita. — Abbatti la intera foresta della concupiscenza, non ne abbattere un albero solo, o un sol ramo: quando ne avrai distrutto ogni albero, ogni arboscello, ogni erba, allora potrai dire di esser libero, puro, virtuoso. — Fino a che non avrai spento il fuoco delle passioni, estirpato dal tuo cuore il più piccolo desiderio, la tua anima sarà schiava; e tu sarai attaccato alle illusioni del mondo, come il vitello alle mammelle della madre. — Lascia l’amore, il desiderio, le passioni d’ogni specie; ama la via della pace e del Nirvâna.25 Non oltraggiare chi ti oltraggia, non accusare chi ti accusa, non batter chi ti batte. Ecco in che consisteva la morale dei primitivi discepoli del Buddha.26
Quale doveva essere poi il tenore di vita di coloro che si davano alla religione, Gâutama stesso lo fa conoscere in un discorso che, secondo la leggenda, tenne ai suoi discepoli, poco innanzi la morte. «Cari fratelli, egli disse, fino a che resterete uniti e daccordo, fino a che vi adunerete per parlare della dottrina, con regolare sollecitudine, la istituzione vostra sarà prospera e fiorente. E mentre starete insieme, se negli affari importanti della comunità religiosa non prenderete decisione alcuna senza unanime consenso, se non v’imporrete obblighi al di là di quel che vi è stato imposto dalla mia Legge, e se sarete attenti a osservare tutti i comandamenti che vi ho dati, la vostra istituzione si manterrà parimente florida e prospera. Ricordatevi le mie parole: siate sempre rispettosi verso i superiori. Guardatevi che le passioni, e specialmente la concupiscenza, non vi sottomettano al loro giogo tirannico. Amate la solitudine e la quiete; siate osservanti delle regole del vostro ordine. Sia per voi un piacere il ricevere con amorevolezza i buoni religiosi, che venissero al vostro monastero, e conversate con loro. Fuggite le cattive compagnie: applicatevi diligentemente all’acquisto della scienza e della saggezza: meditate intorno alle amarezze della vita e intorno alla instabilità e vanità delle cose umane. Se farete a questo modo, come v’ho detto, la vostra istituzione medesimamente prospererà, e voi sarete rispettati da tutti.27
In seguito le prescrizioni per la vita religiosa divennero molteplici e complicate: i voti che il neofito prometteva di compiere si elevarono fino al numero di 250.28 Si distinsero i peccati in mortali (prajita), come l’uccisione, il furto, l’impudicizia ecc., e in veniali (sangâvaçêça), come l’ostinatezza, le parole indecenti, l’onanismo, ecc.29 Si classificarono anche in peccati che si riferiscono al corpo, e sono tre: uccidere, rubare, fornicare; peccati che si riferiscono alla lingua, e sono la menzogna, la maldicenza, le parole ingiuriose e le parole inutili; peccati che si riferiscono allo spirito, cioè la concupiscenza, la malizia, la incredulità.30 Oltre a ciò una quantità di minuzie intorno alla maniera di conversare, di muoversi, di vestirsi ecc., riempiono i libri che trattano della vita monacale.
Diciamo ora qualcosa della parte che ebbe Çâkyamuni nella riforma della società indiana del suo tempo. — Alcune delle antiche religioni tenevano come sacrosanto dovere, che un popolo, il quale professava certe credenze; che una tribù, una classe di gente, una famiglia, che godevano di certi privilegi, conservassero puro il sangue, e incontaminato. Così ebbero origine le caste, nelle quali si distinsero alcune nazioni dell’antichità. Caste che, fiere ciascuna de’ propri diritti, si mantenevano l’una dall’altra nettamente distinte; mentre d’altro lato legavano strettamente fra loro gli uomini d’uno stesso lignaggio: così che l’individuo sembrava non avesse esistenza indipendentemente dalla classe, nella quale era nato. Quantunque in pratica il numero delle caste, in cui si suddivide anche oggi il popolo indiano, sia assai grande, poichè ogni professione, ogni arte, ogni mestiero è esercitato, per eredità, da un ordine distinto di persone; tutte queste varie classi possono essere considerate nelle quattro caste principali: preti, soldati, mercanti, agricoltori.31 Una tale distinzione risale a tempi molto remoti. In un inno a Purusha (Purusha sûkta), del decimo libro del Rigveda, si fa menzione delle quattro caste ora nominate. «Il creato, dice l’inno, è solo una parte di lui (Purusha): dalla sua bocca uscì il brâmano, dalle braccia il guerriero (râjanya o kshatriya), dalle cosce l’agricoltore (vaiçya), dai piedi il servo artigiano (çudra), dalla sua anima (manas) la luna, dal suo occhio il sole, dal suo alito il vento, dalla sua testa il cielo, dai suoi piedi la terra ecc.».32 Purusha, il sole vedico, assume in quest’inno le qualità principali di Prajâpati e del Brâhman creatore. Così in un libro indiano assai più recente, che porta il titolo di Jâtimâlâ, è appunto Brâhman che produce le differenti specie d’uomini a quel modo che abbiamo detto di sopra. «Brâhman», vi si trova scritto, «creò dapprincipio i brâhmani, che uscirono dalla sua bocca; poi i kshatriya, che uscirono dalle sue braccia; quindi i vaiçya dalle sue cosce; in ultimo i çûdra dai suoi piedi»; e aggiunge poi, come se si trattasse d’animali di specie diversa: «e ognuno colle loro femmine».33 Il dogma della trasmigrazione dell’anima troncava il privilegio di casta, limitandolo alla vita presente; per modo che una tal credenza potevasi tenere come un progresso verso l’uguaglianza degli uomini. Ma questo dogma non era ammesso pienamente dai preti brâhmani, che lo riguardavano come risultato di speculazioni filosofiche: esso infatti, come abbiamo visto, apparteneva alle dottrine professate nelle scuole, dei savii brâhmani piuttosto che in quelle de’ sacerdoti.
L’obbietto della dottrina del Buddha, che adottò pur essa il dogma della trasmigrazione, fu di salvare l’uomo dal dolore; obbietto che s’è trovato comune anche agli altri sistemi filosofici dell’India, tanto teisti che atei. Ma oltre alla diversa via, che queste diverse scuole filosofiche percorrono per arrivare al fine, il punto ove principalmente si distingue l’opera del Buddha da quella degli altri filosofi, è la riforma, alla quale valorosamente egli si pose a capo, e senza la quale non avrebbe fatto che aggiungere un’altra scuola alle tante che pullulavano nell’India; e avrebbe resa la sua dottrina sterile e vana al pari delle altre. Tutti gli uomini sono eguali innanzi al dolore. L’abolizione delle caste avrebbe dunque dovuto essere la necessaria conseguenza d’ogni dottrina, che, riconoscendo il dolore come retaggio dei mortali, si fosse affermata capace di liberarneli. Di tutti i filosofi indiani però, il solo Buddha ebbe il coraggio di comprendere tale conseguenza; e di mostrare col fatto, che la sua scienza era universale, e che i beneficii di quella si estendevano agli uomini d’ogni classe. Infatti, mentre i maestri brâhmani, facendo monopolio de’ loro insegnamenti, sdegnavano gli uomini di casta inferiore, e mentre filosofi di altre scuole esponevano le loro dottrine ad un numero relativamente piccolo di discepoli e di adepti; Çâkyamuni animato da un coraggio che rasentava l’audacia, e da un sentimento di compassione scevro di parzialità, non facendo distinzione tra uomo e uomo, tra nazione e nazione, predicò la sua Legge ai brâhmani, ai kshatriya, ai vâiçya, ai cûdra, ai cândâla; e in ognuna di queste classi trovò credenti, discepoli, apostoli. Tanto grande anzi apparve la rivoluzione ch’ei portò nelle idee sociali e religiose dell’India, che molti del popolo ne furono spaventati, e dicevano: il figliuolo dei Çâkya ha perduto l’intelletto.34 I Veda non avevano più pel Buddha nessuna autorità, le caste erano eguagliate, gli Dei tenuti come esseri di poco superiori agli uomini; e lo stesso Brâhman, spogliato della sua autorità suprema e della sua qualità di creatore, giacque dimenticato e confuso con le altre divinità inferiori. La sola metempsicosi o la trasmigrazione, fra le credenze brâhmaniche, rimase nel Buddhismo modificata in quella guisa che in appresso vedremo.
L’abolizione delle caste fu la riforma che contribuì, più che le altre, allo incremento e al rapido estendersi della religione buddhica. L’essere stato, Gâutama, di lignaggio nobile, gli facilitò di molto quest’opera di salutare distruzione; imperocchè non poteva supporsi che facesse egli questo per ambizione, o per odio o per dispregio de’ grandi. Sarebbe lunga e inutile fatica il citare tutti i passi delle scritture buddhiche, che provano come il fondatore della nuova religione riguardasse tutti gli uomini collo stesso amore, ed egualmente degni dei suoi insegnamenti; ma non possiamo fare a meno di riportarne alcuni, in prova di quanto diciamo. — La mia legge, dice Çâkyamuni, è la legge della grazia per tutti.35 La dottrina che espongo è assolutamente pura, e non fa differenza tra grandi e piccoli, tra ricchi e poveri. Essa è come l’acqua, che piccoli e grandi, ricchi e poveri, buoni e cattivi, lava e purifica. Essa è come il fuoco che abbrucia e distrugge rocce, monti, alberi e tutto ciò che è sulla terra; è come il cielo che riceve donne e uomini, fanciulli e fanciulle, ricchi e poveri.36 Al pari dei quattro grandi fiumi, che, sboccando nel Gange, perdono il loro nome, appena le acque loro si confondono con quelle del fiume santo, così i discepoli del Buddha, sieno essi brâhmani, a kshâiriya, o vâiçya, o çûdra, perdono ogni distinzione, e sono fratelli.37 Le quattro caste sono uguali fra loro; nessuna differenza le separa.38 Quando Çuddhôdana, padre del Buddha, cercava una sposa pel suo figliuolo: Il giovanetto, egli diceva, non si lascia abbagliare dalla nobiltà della famiglia o della casta; la bontà e la virtù, ecco quel che piace al suo cuore.39 Ananda, uno dei patriarchi buddhici, di nobile stirpe e parente del Buddha stesso, incontrando un giorno una fanciulla del popolo, che attingeva acqua ad un pozzo, le chiese da bere: «Io sono una Candâli,40 disse ella, e tu non puoi ricever nulla da me senza rimanerne bruttato». Sorella, le rispose Ananda, io non domando della tua casta, io ti domando dell’acqua, se vuoi darmela.41
Una predilezione pel povero distingue la religione del Buddha, come quella di Gesù. È sommamente difficile, dice Çâkyamuni, esser ricco e trovare la via della salute.42 Egli è malagevole vivere santamente, a colui che è di nobile ed alto lignaggio; facile al povero e al meschino.43 Quanto è più accetta al Buddha la scarsa elemosina del povero, che non le abbondanti offerte del ricco! In una bella leggenda è detto, che un pugno di fiori offerto al Buddha da un poverello bastava a colmarne il vaso che egli portava seco per le elemosine; mentre non lo potevano riempire dieci mila moggia di doni offerti da un ricco.44 E un’altra leggenda narra ancora, come un volta, per fare onore al Buddha, molte lampade si erano preparate per essere accese in segno di gioia; ma fra quante ve n’erano, solo una, quella offerta da una povera donna, illuminava il sentiero a questo apostolo della carità; quelle che i re, i grandi, i ricchi avevano donate, si erano tutte come offuscate e spente.45 Amava anche intrattenersi co’ peccatori, piuttosto che con tali che si credessero giusti e saggi. Si racconta, fra le altre, che quando Gâutama coi suoi discepoli dimorava in un bosco delizioso nelle vicinanze di Vâicâlî, una prostituta per nome Apapalika, che abitava gli stessi luoghi, compiacevasi d’andare spesso a sentir le prediche del Buddha; finché un giorno invitò umilmente il maestro e gli scolari di lui a mensa in casa sua. L’offerta fu accettata; quando poco dopo, mentre il maestro predicava ad una radunata di nobili, un principe fra tutti il più ricco e di alto lignaggio e di molto sapere lo invitò ad un banchetto, pel giorno già fissato con la cortigiana. Çâkya, dicendo della promessa che aveva, rifiutò l’invito. Allora il principe, presentandosi di nuovo al Buddha, in ricche vesti, bello come un dêva, e con gran séguito di signori, lo pregò con maggiore instanza. Ma il filosofo, invece di cedere, fece una predica intorno alla vanità delle ricchezze e degli splendori terreni, e se ne andò come aveva promesso, seguito da’ discepoli, in casa di Apapalika, lasciando grandemente scandalezzati il principe, i nobili e il popolo.46
Oltre a questa benefica riforma, una modificazione men lodevole introdusse Çâkyamuni in seno alla novella società; e questa fu la gerarchia fra i membri che formavano l’assemblea dei credenti (Samgha). La gerarchia, che era nulla presso i brâhmani, si trova nel Buddhismo fin dai primordi.47 Alcune leggende ci presentano il Buddha che conferisce ai suoi discepoli certe dignità, o che dà loro il potere di conferirle altrui.48 E ci narrano pure della gelosia di alcuni discepoli, nel vedere il loro maestro elevare al grado di Arhân due credenti da poco convertiti, e dimenticare alcuni che gli erano da maggior tempo fedeli.49 Inoltre devesi notare che, nonostante l’abolizione delle caste, tanto profondo era nel popolo il rispetto per la classe sacerdotale, che i brâhmani, sia anche per la loro cultura nelle lettere, continuarono nella novella società buddhica a godere d’una certa reputazione appresso quelli di altra casta: e i brâhmani stessi, da parte loro, non potevano tutti facilmente dimenticare i vecchi privilegi e la vecchia loro supremazia. Questo prova, fra gli altri, un fatto rammentato da Fa-hsien ne’ suoi viaggi nell’India. Ne’ quali si narra, come nella città di Pâtaliputra, detta anche Patna, vivesse un brâhmano di gran dottrina, seguace della scuola Mahâyana, per nome Lo-tai-tse-pi-mi (Artâ Svâmin?), il quale era tenuto in molta venerazione dal popolo della contrada, e dallo stesso re che lo venerava, come maestro di religione (Guru). Ora questo brâhmano era siffattamente, altero della casta, alla quale apparteneva, che, seguita a narrare Fa-hsien, quando il re, spinto da un sentimento di benevolenza, lo pigliava famigliarmente per mano, egli poi si lavava da capo a’ piedi per purificarsi.50
Oltre alla Scienza e alla Morale, oltre anche alla riforma apportata nella società indiana, quel che distinse il Buddhismo dalle scuole de’ savii brâhmani, fu la costituzione di una comunità religiosa, che prese il nome di Samgha, cioè a dire assemblea o clero. I componenti il clero non erano preti nel senso antico e moderno della parola; non facevano sacrifizii, non celebravano sacramenti, non officiavano ne’ funerali, nè a’ matrimonii, non operavano nulla di comune con la corporazione già esistente dei preti brâhmani. I membri del clero buddhico menavano una vita simile a quella de’ filosofi brâhmani, de’ quali abbiam parlato; se non che, coll’andar del tempo, invece di viversene in eremitaggi separati, presero ad abitare insieme in conventi o Vihâra, come furono chiamati que’ luoghi di comune residenza de’ monaci. Erano chiamati Bikshu o mendicanti, come i frati istituiti da S. Francesco; ma a differenza di questi, e non ostante il nome, era loro proibito di domandare elemosine, ma solo accettarne, se venivano loro offerte dai fedeli, purchè non si fosse trattato di denaro: che non era loro lecito prendere alcuna moneta, nè altra cosa che avesse del superfluo. Ogni mattina, a certe ore stabilite, i monaci uscivano dai loro conventi, e s’aggiravano silenziosi pei vicini borghi, e ricevevano, in certi vasi che essi tenevano apposta, le offerte volontarie del cibo che doveva servir loro pel giornaliero campamento: non di rado era un giovane discepolo, o novizio che dir si voglia, che andava accattando a quel modo, pel maestro, le offerte del popolo laico.
Çâkyamuni fu il fondatore di questa confraternita; e per quel che concerne la pratica della vita religiosa e i precetti della disciplina, a cui dovevano conformarsi i monaci, egli stesso ne fu il modello, e venne perciò chiamato il Mahâbhikshu, o il «Gran Mendicante». Infatti nell’eremitaggio d’Uruvilvâ, noi lo abbiamo visto non solo stabilire i principii della sua dottrina e del suo sistema, ma stabilire inoltre le regole della disciplina, che egli doveva proporre più tardi ai suoi adepti. Fin d’allora ne prese le abitudini, come se appunto volesse dare un esempio della vita del religioso buddhista. E la leggenda ce lo presenta, che va di luogo in luogo, di foresta in foresta, senza casa nè tetto, riposando all’aperto sul suolo, vestendo un abito che si cucì da sè stesso col rappezzare alcune luride vestimenta trovate in un cimitero, e raccogliendo di giorno in giorno il cibo che gli abbisognava, in una tazza, sola cosa che possedesse oltre l’umile vestito che lo copriva. Tale è pure la vita dei bikshu, o dei monaci mendicanti de’ primi tempi. Eglino dovevansi, ad imitazione del Buddha, radere i capelli, e non portare altro abito che un mantello o tunica senza maniche, fatti con stracci trovati per via; dovevano, innanzi il tempo, in cui si riducessero ad abitar nei Vihâra, passare la vita a cielo aperto, nei cimiteri, o sotto un albero; e non avere possesso d’alcuna cosa, salvo un vaso, dove raccogliere il cibo quotidiano che andavano lemosinando: non potevano fare più di un pasto, nè era lor lecito conservar nulla pel dì venturo.51 Ma se questa maniera di vivere era possibile nell’India, dove il clima è dolce, ricca de’ suoi doni la natura, e pochi i bisogni dell’uomo; e ai buddhisti primitivi, che erano animati dall’entusiasmo della nuova fede; divenne, col progredire della dottrina e coll’estendersi di quella ad altri paesi, impossibile a mantenersi. Laonde la vita austera dei discepoli di Çâkyamuni dovette modificarsi secondo i tempi e i luoghi. Già in alcuni degli antichi scritti disciplinari, che portano il nome di Vinaya, si fa menzione dei religiosi buddhisti che nella stagione delle piogge, lasciando i campi e le foreste, cercavano un rifugio presso gli abitanti della campagna e dei villaggi. E passando dai cimiteri, dalle foreste e dai campi, alle grotte, alle celle, ai monasteri, vediamo finalmente questi seguaci del gran mendicante Çâkyamuni, di questo lontano precursore di S. Francesco, in possesso di que’ ricchi e sontuosi edifizii, che per la loro magnificenza fanno l’ammirazione dei viaggiatori che visitano il Tibet, la Mongolia, la Cina, il Siam, il Kamboge, la Birmania, il Ceylon, tutti i paesi insomma, in cui domina la religione del Buddha.52 Benchè lo stesso Çâkyamuni prescrivesse severe norme di vivere ai suoi credenti, era ben lungi dal pensare che le opere e le pratiche esterne fossero superiori alla fede e alla conoscenza della verità. La semenza dell’albero della salute è la scienza perfetta accompagnata dalle opere.53 Le pratiche austere non erano che un mezzo per vincere le passioni, per facilitare la via alla perfezione e alla salute; ma solamente la cognizione perfetta della scienza che il Buddha aveva concepita e insegnata, poteva indicare all’uomo questa via. Dalla vita del religioso buddhista doveva essere escluso tutto ciò che era reputato superfluo: ma i digiuni e le esagerate austerità e le macerazioni praticate dai religiosi della setta brâhmanica erano tenute da Çâkyamuni come inutili e senza profitto per coloro che le praticano. — Non è il costume d’andar nudi e coi capelli intonsi (alludendo ai ginnosofisti), nè la scelta di speciali alimenti, nè il giacere sulla nuda terra, nè il vivere nell’immondizia, nè il fuggire il riparo di un tetto, che possa dissipare l’agitazione, nella quale ci gettano i desiderii non soddisfatti. Che un uomo, tranquillo, raccolto, casto, sia padrone dei suoi sensi; che eviti di far male ad ogni creatura; che adempia la mia legge; ed egli sarà, anche in mezzo al secolo, un brâhmano, un çramana,54
un religioso. — Colui che desidera vestir l’abito sacro55 senza essersi prima purificato dal peccato, e non pratica la temperanza e la virtù, è indegno dell’abito religioso. — Non è la tonsura che fa religioso un uomo disordinato e che dice falsità: può un uomo essere un religioso, e nello stesso tempo schiavo del desiderio e della passione?56
Considerata così l’opera del Buddha, secondo i tre punti capitali, che abbiam riferiti più sopra, si può concludere: 1.° Nella dottrina, l’opera di Çâkyamuni fu come uno svolgimento maggiore della dottrina de’ savii e dei filosofi brâhmani, a fronte dell’antica teologia, e delle credenze de’ preti brâhmani del tempo; e fu pure la proclamazione d’una morale sommamente pura e ripiena d’una carità veramente cristiana, che invano si cercherebbe tra’ preti e filosofi indiani di quell’età. 2.° In quanto alla riforma arrecata alla società antica dell’India, fu l’abolizione totale delle caste: abolizione, alla quale i filosofi brâhmani col dogma della trasmigrazione erano involontariamente giunti, ma solo per la vita futura dell’anima trasmigrante. 3.° Nella pratica finalmente fu la istituzione d’una confraternita o comunità religiosa, sottoposta a certe discipline, la quale comprendeva tutti coloro che volevano godere del frutto ultimo degl’insegnamenti di Çâkyamuni, ossia della salvazione finale per mezzo del Nirvâna.
Note
- ↑ Mathurâ, capitale dello Stato del medesimo nome, esiste ancora sulla riva occidentale del Yamunâ, oggi Gemna. Il nome le viene da una tribù d’aborigeni, i Mâthava o Madhu, i quali fondarono la città e lo Stato (V. St. Martin, Mémòire analytique, p. 95). — Koçala è la contrada che giace sulla riva orientale del Sarayâ, e forma parte della moderna provincia di Aude. A’ tempi del Buddha aveva per capitale Çrâvasti, sulla riva sinistra. del fiume Rapti. Questo paese non è da confondersi con il Koçala di Hsüan-tsang, il quale è nel Dekhan (Dakshina Koçala). Vâiçâlî, città famosissima negli annali buddhici, è stata identificata dal Cunningham coll’odierna Besarh, venti miglia al nord di Hajipûr. — Campâ, Campapuri o Campanagara, era nelle vicinanze di Bhagalapura. — Kapila, Vâiçâlî, Mithilâ, Magadha e Campâ non facevano parte veramente del Madhyadeça propriamente detto. — Il Magadha è la terra santa dei Buddhisti. Fino da’ primi tempi si coprì di un numero infinito di monumenti religiosi, e di conventi o Vihâra; la qual cosa valse al paese del Magadha il nome di Terra dei Vihâra: di qui, secondo alcuni, la forma del nome Behar, che attualmente porta questo paese: Behar e Bahar sarebbero corruzioni mussulmane del nome Vihar (S. St. Martin, op. cit. p. 120. — Fr. Buchanan, Eastern India di Montgomery Martin, t. 1, p. 89).
La predicazione del Buddha, dice il Wheeler, si estese più specialmente all’Industani occidentale, e in particolar modo alla regione che giace tra Prayâga o Prâtishthâna, al punto di confluenza del Gange col Yamunâ, e Gauda. A settentrione quest’area era limitata dall’Imalaya; a mezzogiorno, è in parte accennata dal corso superiore del fiume Nerbudda {Narmadâ). In questo territorio si comprendevano quattro reami: al nord Koçala o Aude, e Mithilâ o Tirhut; al sud Vârânasî o Benares, e Magadha o Behar. Al tempo del Buddha, il reame di Benares era incluso in quello di Koçala, e Mithilâ probabilmente in quello di Vaiçali, che fu conquistato dal Magadha. Il basso Bengal, o la regione a oriente del Magadha, fu affatto sconosciuto ai primi apostoli del Buddhismo, o ne ebbero solo contezza sotto il nome di Vanga. Le leggende fanno viaggiare Çâkyamuni fino al reame Naga del Dekhan, ed anche nel Ceylon e nel Barma, ma senza nessuna apparenza di vero. Sembra soltanto probabile che egli abbia visitato il paese di Kauçâmbî, che il Cunningham pone nel basso Doab, immediatamente a occidente di Prayâga o Allahâbâd. (Wheeler, Hist. of Sind., t. iii, p. 100-101 ).
Secondo il libro birmano Raza-win, ossia «Storia regia», le regioni o provincie del Mitzema-dêtha o Majjemâdêsa, (Madhyadeça) sono le seguenti, tolte da quattro differenti liste, che si desumono da detto libro: alcuni nomi corrispondono, altri no. Ho preso questa notizia dal giornale The Phoenix, (t. ii, num. 23, may 1872, p. 189), ed ho conservato la stessa ortografia nella trascrizione dei nomi, a scanso di confusione e di errore.
I Lista II Lista III Lista IV Lista
1. Anga Anga Sawatti Kosa-wastu
2. Magadâ Magadâ Wêsali Kappila
3. Kasi Kasi Bâranasi Bâranasi
4. Kosala Kosala Mihtila Mihtila
5. Wajji Wajji Alawi Hatti-pura
6. Mâllâ Sakka Kosambi Kosambi
7. Chêtria Chêtira Ujjayna Eka-chakku
8. Wansa Siwi Tekkasilo Tekkasilo
9. Kuru Kuru Champa Champa
10. Panchala Panchala Sagala Wachira- vastu
11. Majja Madda (?) Sansumara-giri Madhura
12. Surasêna Kalinka Râja-griha Râja-griha
13. Asaka Wenga Kappila-wastu Kappila-wastu
14. Awanti Awanti Sekkêta Arita-pura
15. Gandâra Gandara Indra-pata-nago Indra-pata-nago
16. Kamboja Kamboja Ukkata (Utkala?) Kannaganjja
17. — Widêha Plataiputra Devadahâ
18. — Binga Jakolotara Rochana
19. — Sihala (Ceylon) Sangakassa-nago Milittiya
20. — Kasmira Kusinaron Kosi-naron
21. — Bandawa — Koliya
- ↑ Lo zio paterno del Buddha, Amitodana, ebbe un figliuolo chiamato Pându-Çâkya (Mahâvançâ, viii, p. 55): questi due, con altri membri della famiglia dei Çâkya, fuggirono nel tempo, in cui il Buddha viveva ancora, e durante la guerra del re Virûdhakha. Alcuni andarono verso l’Imalaya, dove si stabilirono; e Pându-Çâkya andò all’imboccatura del Gange, dove fondò un nuovo reame. La fuga di Çâkya verso l’Imalaya è narrata nel commentario del Mahâvançâ, ed è tradotta dal Turnour (Introd., p. xxxix). Il re Virûdhakha è probabilmente quel re di Koçala, che i Tibetani chiamano Hphhags-skyes-po. Questi attaccò sovente i Çâkya, saccheggiò e distrusse Kapilavastu, e ne mise a morte molti abitanti; alcuni di essi si rifugiarono nel Napal; uno per nome Shâmpaka fu esiliato e andò a Bagud, dove fondò uno Stato (C. Körösi, As. Res. xx, p. 83). — Lassen, Ind. Alt. ii, p. 111 e not. 2.
- ↑ W, Pag. 11.
- ↑ Vârâhnasî, anticamente chiamata Kâçi ed oggi Benares, giace sul Gange, nel punto ove sbocca il piccolo fiume Vârâhnasî. Era una ricca e popolosa città, famosa, nei tempi andati, come uno degli antichi centri dell’insegnamento brâhmanico. Il nome le viene, secondo alcuni, dal Râja Banâr, che la ricostruì 800 anni sono. — Per Vaiçâlî e Râjagriha, vedi p. 26, n.° 3, e p. 27, n.° 2.
- ↑ I Brâhmani, secondo Manu, dovevano menare alquanti anni della loro vita in eremitaggi. Il codice del legislatore indiano dice, che il brâhmano era mestieri passasse una parte della vita in astinenza, una parte dovea darla al matrimonio, un’altra all’eremitaggio, e il quarto ed ultimo periodo della vita doveva essere impiegato nella meditazione. La scienza della contemplazione della natura era quella che portava il nome di Prâdhana. Vedi p. 29.
- ↑ Wheeler, A Sist. of Ind., iii, p. 66, 70, 83. — Muir, Sanskrit Texts, t. i, cap. iii.
- ↑ Die Religion des Buddha, t. i, p. 123-124.
- ↑ Intr. à l’Hist. du Bud. Ind., p. 388.
- ↑ Ibidem, p. 336.
- ↑ Wassiljew: p. 12.
- ↑ Arhân o Arhat è il più alto grado nella gerarchia Buddhica: colui che è giunto a maggior perfezione.
- ↑ Wassiljew: p. 94; — Intorno ai diversi Buddha che furono innanzi Çâkyamuni, e che saranno in avvenire, vedi l’appendice alla Parte prima, che tratta del Panteon buddhico. Vedi anche Introduzione, p. xxi.
- ↑ Vedi a p. 42.
- ↑ Wheeler, op. cit:, p. 112-13.
- ↑ Bigandet, p. 139-140. — S. Hardy, Manual. p. 186-187; e Legends and Theories, p. 140. — Lalitavistara, cap. xxvi, trad. p. 391-94. — Feer, nel Journ. Asiat., 1870, xv, p. 346-472.
- ↑ Bigandet, p. 89.
- ↑ Cfr. al cap. i, p. 29.
- ↑ Dharma-cakra-pravartana-Sûtra: Feer, nel Journ. Asiat., t. xv, p. 364-366.
- ↑ Burnouf, i, p. 630; ii, p. 519.
- ↑ Burnouf, loc. cit. — Koeppen, i, pag. 408.
- ↑ Vedi cap. i, p. 24, nota 1.
- ↑ Dhammapada, cap. xx, versetti 272-280.
- ↑ Vedi il cap. i, e il cap. vi, ove si parla dei dodici Ninâda o delle 12 cause.
- ↑ Vedi cap. i, pag. 41-42.
- ↑ Dhammapada, versetti 14, 166, 168, 223, 283, 284, 285.
- ↑ Wassiljew, p. 83.
- ↑ Bigandet, p. 255-256. — Cfr. anche cap. i, p. 43.
- ↑ II libro che contiene questi precetti pel clero buddhico porta il titolo di Pratimôksha Sûtra.
- ↑ Wassiljew, p. 82-83.
- ↑ Hardy, Man. of Bud., p. 460.
- ↑ Megasthene annovera, tra il popolo dell’India, sette caste invece di quattro: brâhmani, soldati, mercanti, agricoltori, pastori, ispettori, officiali dì stato. (Megasthene, in Strabone; India, sez. 41). Anche Erodoto (ii, 91) suddivide il popolo dell’Egitto in sette caste: preti, soldati, pastori, mandriani, mercanti, interpreti, piloti; mentre Strabone (Egitto, sez, 3) lo suddivide in tre caste solamente, cioè preti, soldati e agricoltori.
- ↑ De Gubernatis, Mitologia vedica, p. 282.
- ↑ S. Hardy, Man. of Bud., p. 69.
- ↑ Klaproth, Journ. as., vii, p. 181.
- ↑ Burnouf, i, p. 206.
- ↑ Schmidt, Der Weise und der Thor, p. 282.
- ↑ Remusat, Foe-koue Ki, p. 60. — Hardy, E. M., p. 11.
- ↑ Mathurâ Sûtra, nel Colombo Observer dell’11 marzo 1844.
- ↑ Lalitavistara, p. 134.
- ↑ I Candâla sono gli uomini posti al di fuori d’ogni casta, e formano la classe più umile e dispregiata della popolazione indiana: anche l’ombra stessa d’un Candâla è reputata contaminatrice, ed essi vivono, come lebbrosi, in villaggi separati.
- ↑ Burnouf, i, p. 205. — Un trattatello sanscrito, dove si confutano gli argomenti brâhmanici intorno alle caste e si dimostra l’assurdità di queste divisioni nell’umana famiglia, fu tradotto dall’Hodgson, col titolo The Vajra-Soochi or Refutation of the Argument upon which the Brahmanical institution of Cast is founded, by the learned Boodhist Ashwa Ghosha, 1839; ristampato nel Phoenix, 1872, t. ii, n.° 24, p. 207-210.
- ↑ Sûtra in 24 capitoli, § 11; nella traduzione tibetana dello Schiefner tradotto nel vol. i, Mélanges Asiatiques tirés du Bulletin de l’Ac. Imp. des Scien. de St. Pétersbourg, i, p. 442; nella traduzione cinese v. Beal, A Catena of Bud. Scrip. p. 195.
- ↑ Schmidt, Der Weise und der Thor, p. 40.
- ↑ Remusat, Foe-koue Ki, p. 77.
- ↑ Schmidt, op. cit., p. 327.
- ↑ Bigandet, p. 260.
- ↑ Foucaux, Étude sur le Lalitavistara, Paris, 1870, p. 8. — Wilson, Religious sects of the Hindus, p. 366 -368).
- ↑ Bigandet, p. 126.
- ↑ Bigandet, p. 153.
- ↑ Fa-hsien, Fo-kuo Ki, cap. xxvii.
- ↑ Wassiljew, p. 15.
- ↑ In vero le tradizioni buddhiche parlano della erezione di monasteri sino dal tempo, in cui viveva Gautâma. E per non parlare che dei principali, Vimbasara, Raja del Magadha, fabbricò un Vihâra vicino a Rajagriha, capitale del suo reame; un ricco mercante di Kosala, per nome Anâthapindadu, costruì un altro Vihâra a Srâvastî, sulla frontiera tra Kosala e il Magadha, nelle vicinanze di Benares.
- ↑ Praçnôttaramâlikâ.
- ↑ Çramana (Pali Samaria) è il nome buddhico corrispondente a brâhmana, o prete, dei buddhisti ortodossi. Çramana significava originariamente, nel linguaggio dei brâhmani, «un uomo che compie una dura penitenza» da Çram, «affaticarsi». Quando divenne il nome dei religiosi buddhisti, il linguaggio mutò, e Çramana fu pronunziato Samana. Ora v’è in Sanscrito un’altra radice, Çam, «calmare», che in Pali diviene medesimamente Sam e da questa radice Sam, «esser tranquillo», e non da Çram «esser affaticato», si trasse l’etimologia popolare di Çramana, «uomo con spirito quieto e tranquillo» (M. Müller, Dhammapada, p. cxxxii). La parola Çramana fu conosciuta dai Greci. I filosofi indiani, alcuni dei quali erano chiamati gimnosofisti, furono divisi da Magasthene in Brâhmani e Σαρμἄνατ (Magasthene, in Strabone, sez. 39). Le informazioni che lo stesso Magasthene ci ha trasmesse di questi filosofi, i quali non sono che i Çramana buddhisti, sembra le abbia prese dai loro avversarii brâhmani, poichè ne parla come di uomini di merito inferiore a questi ultimi. Dice poi che vivevano di riso e altri vegetali, che si astenevano da cibo animale, che vivevano con le elemosine che ricevevano dal popolo, e si mantenevano celibi (Magasth. in Strab.; India, sez. 59 e 60).
- ↑ Letteralmente, il sacro abito di color giallo, ossia il Kâsâya o Kâshâya, l’abito distintivo dei preti buddhisti.
- ↑ Dhammapada, 141, 9, 264.