Idilli (Teocrito - Romagnoli)/Note

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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1925)
Note
Epigrammi
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NOTE

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I

LA MORTE DI DAFNI

Dafni è l’Orfeo della Sicilia. La sua leggenda, piena di mistero, fu ripetuta mille e mille volte dagli antichi, sinché trovò espressione perfetta ne l’idillio di Teocrito. È questa una delle opere piú profonde e suggestive della poesia greca. E una breve analisi non sarà superflua a mettere in piena luce il suo pregio singolarissimo.

L’idillio è composto di due parti. Nella prima, un capraro invita un pecoraro a cantare, promettendogli una coppa, che descrive con minuta squisitezza.

Nella seconda, il pecoraro canta la morte di Dafni.

E tra le due parti intercede grandissima differenza. La prima è occupata quasi tutta dalla descrizione, finissima. Ma la minutezza precisa delle pitture, direi delle miniature, e la loro esiguità, e il riferirsi non già a scene naturali, bensí ad un opera d’arte: tutti questi caratteri, non propri di Teocrito, ma comuni a tutta la poesia alessandrina, dopo un iniziale diletto, ingenerano qualche tedio. La donna lusinghiera piace, senza eccezione. Meno interessa il pescatore. Il fanciullo che intreccia gabbie, ci comincia a sembrare superfluo. [p. 230 modifica]

Ma ecco la morte di Dafni; ed ecco un cangiamento repentino, come nell’orchestra una di quelle modulazioni profonde che sembrano spostare, nelle radici dell’essere, l’orientazione del nostro spirito. Il miniatore è divenuto pittor d’affresco dalle linee larghe e possenti. Dov’è qui l’alessandrino? — Nulla canto che non sia documentato — proclamava Callimaco, il piú illustre e il meno divertente dei poeti alessandrini. Un alessandrino autentico ci avrebbe detto per filo e per segno come e perché Dafni era giunto alla sua misera fine, ci avrebbe comunicato il nome della fanciulla amata, e chi era il padre, e chi la madre, e tutta la geneologia, e specificato e dipinto il luogo ove Dafni si trovava, e descritte forse le vesti dei visitatori: e fortunati noi se ci risparmiava le fonti letterarie da cui aveva derivata la leggenda.

Ma qui non si sa nulla di nulla. Perché Cipride è sdegnata contro Dafni? E qual’è la foggia della sua vendetta? La fanciulla ch’egli ama lo va cercando. Dunque l’amore di Dafni non è spregiato. E allora perché muore? Forse non si trovano? E perché anche le fiere selvagge piangono la sua morte? Forse per la dolcezza del suo canto? E che vuol dire che Dafni darà cruccio ad Amore anche nell’Averno? — Tutte queste domande affiorano al nostro spirito, e invano attendono risposta. Tutto è qui incerto, velato, lontano. E in questa nebbia si muovono larghe figurazioni meravigliose, teorie di fantasmi umani e ferini, in una verde opacità crepuscolare.

A che cosa si deve il tramutamento improvviso? Semplicemente alla ispirazione. Nella prima parte c’è l’artista che svolge — con impareggiabile maestria — il soggetto convenzionale. Ma d’un tratto balena un argomento prediletto. E allora sparisce l’artista con le sue qualità superficiali, legate a un tempo, a un luogo, a una lingua, a una tecnica; e subentra il poeta, ribelle, come ogni forza naturale, ad ogni contingenza di luogo e di tempo. E Teocrito vede come avrebbe potuto vedere tanti secoli prima un cantore dei Veda, come vedrà domani il poeta di genti future. [p. 231 modifica]Sparisce l’alessandrino, e parla il poeta eterno, che dai lidi incantati della Sicilia intona al mondo gli ultimi grandi canti della poesia greca.

II

LA FATTURA

Per testimonianza degli antichi commentatori di Teocrito, questa fattura toglieva molti colori da un mimo di Sofrone. Dai frammenti, pur brevissimi, pervenuti sino a noi (Kaibel, Fragm. Com. Graec., pag. 154), sembrerebbe che però Teocrito derivasse assai liberamente: piú assai liberamente che non Virgilio da lui. Gli spigolatori di fonti ricordano poi che nelle Coglitrici di radici di Sofocle, si vedeva Medea cogliere erbe magiche. Ma, per la verità, il frammento di Sofocle, conservato da Macrobio, non ha proprio nulla a che vedere con l’idillio di Teocrito E Teocrito non appare, né qui né altrove, imitatore. E, ad ogni modo, suo e schiettamente suo, è lo spirito che anima questo soggetto: fosse pure, già ai suoi tempi, antichissimo.

La scena è chiara, e non ha bisogno di commento. Sembrerebbe che, secondo la concezione del poeta, si svolgesse in Còo; e, come appare dal contesto, in vista del mare. Ma sono particolari di poco rilievo: in questo idillio, l’interesse non è nello sfondo, nella scena; bensí nella pittura dell’azione — il sortilegio — e nei personaggi.

Sul sortilegio, c’è poco da spiegare: vi troviamo i soliti ingredienti di tutti i sortilegi letterari. Solo c’è da chiarire il particolare della torquilla. Questo uccelletto serviva per gl’incantesimi d’amore. Si legava per le due ali e le due zampe ad una ruota a quattro raggi, si faceva girare la ruota, e si argomentava dai movimenti e dalle grida della povera bestia. Medea, a quanto [p. 232 modifica]dice Pindaro, vi ricorse per prima, quando Giasone venne a Colco:

Cípride saettatrice,
qui pria, giú d’Olimpo ai mortali
recò la torquilla, l’augello deliro,
varïopinto, costretto di laccio insolubile
ai quattro raggi d’un cerchio.

E veniamo ai personaggi. Qui il giudizio è concorde ed entusiastico; e si cita volentieri un giudizio di Racine; il quale avrebbe asserito «qu’il n’y a rien de plus vif et de plus beau dans l’antiquité que La Magicienne de Théocrite».

Il giudizio, quando lo vidi, la prima volta, riportato dall’Adert, mi sembrò iperbolico; e volli ricercarlo nella sua fonte, nella sua forma genuina. L’Adert mi mandò al Souillé, il Souillé al Didot, il quale dice che, invece di pronunciare un giudizio proprio, riferirà quello di Racine, riferito da Longepierre. E Longepierre, infine, garantisce di averlo udito con le proprie orecchie.

In sostanza, il vino di Racine è stato travasato per molti e molti fiaschi. Ne ho piacere, per non trovarmi in troppo disaccordo col gran tragediografo. Questo idillio è certo bello; ma neppur lo direi il piú felice di Teocrito. Né lo sfondo, né i personaggi vi hanno il rilievo dei «Mietitori», per esempio, o de «L’amor di Cinisca»; per non parlare delle «Siracusane». E non vedo proprio che la passione di Simèta sia espressa con tale intensità da oscurare (Adert) il divino frammento di Saffo. Del resto, giudichi il lettore.

E già, Simeta non è una eroina passionale, quale sembrano vagheggiarla tutti i commentatori. Non è sorella di Saffo, bensí delle tante donnette che troviamo in Teocrito: di Prassínoe, della civettuola Galatea, della puerile Cinisca, che versa lagrime grosse come mele, al solo udire il nome dell’adorato suo spilungone. [p. 233 modifica]

Se la vediamo sotto questa luce, intendiamo e gustiamo meglio certi particolari della sua pittura: per esempio, il ricordo che ella fa, in un momento di tanta passione, della veste che indossò il giorno fatale, e della sarta che glie l’aveva tagliata. Da donna, ne convengo; ma, soprattutto, da donnetta: ad ogni modo, non da Saffo.

Però, un momento. A parte ogni giudizio di valore artistico, non posso nascondere che i dotti sono in grave dissenso circa la condizione sociale della nostra eroina. Verbigrazia, il Kiessling la crede una borghesuccia, l’Ahrens, benemerito per aver conciato il testo di Teocrito in guisa tale, che se l’autore tornasse al mondo, non lo riconoscerebbe neppur lui, la crede una plebea; l’Ameis (che in tedesco vuol dire formicola: è il celeberrimo commentatore d’Omero) la crede una pezzente; il Fritzsche la dice «honesta loco horta et generosa puella»; e il Casaubonus, infine, una «meretrix urbicaria»; che dunque, traducendo eufemisticamente, sarebbe donnetta. Ma non è mancato, ai nostri giorni, chi è insorto a cavalleresca difesa. Lo spirito di Don Chisciotte aleggia ancora nella provincia chiusa (all’intelligenza) della filologia classica.

Tutti, invece, mi sembra, hanno dimenticato Delfi, il bel garzone che ha fatto perder la testa a Simèta. Eppure, sebbene non appaia e non parli direttamente, è caratterizzato meglio lui che non la ragazza. Non s’è mai neppure accorto che Simèta esista; ma, al primo richiamo, corre a raccogliere quella manna caduta dal cielo. Si pianta a sedere sul letto, e con gli occhi fissi a terra, senza guardarla in viso, comincia il suo discorso, tutto intessuto di pastocchie e di millanterie. È tanto fanfarone, che trova modo d’incastrare una bravata in una similitudine:

Simèta mia, davvero, tu m’hai prevenuto di quanto
io superato ho ieri Filino garbato alla corsa.

[p. 234 modifica]La similitudine è sballata, e c’entra come i cavoli a merenda. Ma, piú che l’alessandrinismo di Teocrito, caratterizza la fatuità del bel ragazzo vanesio e briccone. Esso è il vero gemello del giovinotto dí cui si lagna la famosa vecchia del «Pluto» di Aristofane. Dipinto piú alla svelta; ma con tratti anche indimenticabili. Andatevelo a scordare, questo giovanottone, seduto su la sponda del letto, con gli occhi fissi cocciutamente a terra, tra per protervia, per scontrosaggine, e per ipocrisia!

III

LA SERENATA

La prima parte di questo idillio si svolge agile, diritta, pura, come uno stelo. Vi sbocciano motivi di poesia popolare (desiderio di tramutarsi in ape) e rusticana (pupilla d’azzurro, tòcco di burro), tratti graziosi e pittoreschi (perché non fai capolino?) o dolcemente puerili (perché non mi chiami piú còccolo? — mi poggerò a questo pino cosí, farò bella figura, e tu dovrai guardarmi), e reminiscenze di superstizioni popolari (il boccio di papavero schiacciato per consulto amoroso, il battito dell’occhio), e accenti tragici senza orrore (mi scaraventerò nel mare: mi lascerò sbranare dai lupi). Meravigliose corolle, tra un fitto intreccio di fresche foglie; e le agita un fresco vento primaverile.

Ma, presso all’apice, si appesantisce, si deforma, si macula: incominciano gl’inevitabili ricordi alessandrini; e non son pochi.

Atalanta. — Gran corritrice, che proponeva ai suoi pretendenti la gara del corso: vincitori, avrebbero guadagnata la sua mano: sconfitti, avrebbero perduta la propria testa. Il fortunato Ippomene ottenne da Afrodite alcuni degli aurei pomi delle Esperidi; durante la gara, li lasciò via via cadere a terra; Ata- [p. 235 modifica]lanta indugiò a raccoglierli, fu vinta, e finí anche lei madre di famiglia.

Melampo. — Nelèo re di Pilo, aveva deciso di concedere la figlia Pero solamente a chi gli recuperasse le greggi di suo padre, ora possedute dal tessalo Ificlo, sui monti dell’Otride, in Tessaglia. Biante amava Pero; e suo fratello Melampof famoso medico e indovino, riuscí, mercé dei suoi buoni consigli, ad averle, e le portò a Pilo. E cosí Biante sposò Pero, che poi divenne madre di Alfesibea.

Le leggende di Adone, di Endimione, di Giasone, amati da Afrodite, da Selene, da Demetra, sono assai note. Quest’ultima implicava la storia dei famosi misteri della Dea. E Teocrito non si lascia sfuggir l’occasione di scoccare ai profani una freccia ben intrisa di tossico alessandrino: essi non possono neppure immaginare quanta fortuna ebbe Giasone.

Non so che cosa avranno detto i profani d’allora. Quelli d’oggi, possono rispondere coi bellissimi versi di Goethe:

Allor, cinto il novizio d’una candida
tunica, simbol di purezza, stava
trepido ne l’attesa. Errava poscia
meravigliato, tra figure arcane
raccolte in cerchio; e gli parea sognare.
Ché quivi al suolo s’attorceano serpi,
lí chiuse ceste, di superbe spiche
inghirlandate, vergini recavano.
Pensosamente componeano il volto
i sacerdoti, mormorando: anelo
attendeva la luce e impazïente
l’alunno. E sol dopo assai prove, e molti
esperimenti, si svelava a lui
quanto ascondea sottessi strani simboli
il sacro cerchio. E quale era il segreto?

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Come a Demètra, Dea possente, piacque
a un eroe soggiacer: come a Giasone,
di Creta al forte re, delle immortali
membra largí gli amabili segreti.


Sia detto senza irriverenza verso la somma Dea delle spiche: era il segreto di Pulcinella.

IV

DI PALO IN FRASCA

Del piú e del meno. È tutto un saltar di palo in frasca, un innocuo pettegolezzo su le poche vicende della vita pastorale: sul bifolco Egone, che, messo su dai malfidi consigli d’un certo Milone, s’è improvvisato atleta, ha piantate le sue greggi, e se n’è andato in Olimpia, a prender parte alle gare; su una bella ragazza dagli occhi azzurrini; su un vecchiotto che n’è follemente invaghito.

Batto è caratterizzato con gran finezza. Ha la lingua lunga, e s’impaccia troppo dei fatti altrui; però, sia nell’intenerimento per le povere greggi, che languono pel desiderio del loro signore, sia negli accenti, sobrii, ma sinceri, onde rievoca la perduta Amarilli — dimostra un profondo sentimento — direi quasi moderno.

La cornice vegetale è molto ricca; e il carattere alessandrino è segnato, ma qui con effetto veramente artistico, dall’episodio della spina. Tutti ricordano il famoso «Spinario». Certo l’opera di scultura e l’opera di poesia non furono indipendenti l’una dall’altra. E secondo ogni probabilità, dovremo credere che questa sia una musicale traduzione di quella. [p. 237 modifica]

L’idillio è chiarissimo. La vanga che Egone porta con sé (verso 10) bisogna intendere che gli servisse per allenarsi; e le pecore, per nutrirsi durante la sua permanenza lontano dalla patria.

V

LA SFIDA

I due caprari di quest’idillio sono di pasta un po’ differente dagli altri. La loro gara è piuttosto una rissa. Cominciano col darsi, l’uno all’altro, del ladro; e poi, stabilita la gara, la tirano avanti, in uno stile strano, misto di volatine pittoresche e liriche e di contumelie. Veramente, Comata muove a Lacone il rimprovero di non saper che dire ingiurie; ma non si può dire che egli sia troppo piú castigato. E il piú vergognoso e il piú lurido degl’insulti, è scagliato, e a due riprese, proprio da lui.

Nelle linee generali, l’idillio non potrebbe esser piú chiaro: in qualche particolare, presenta, invece, difficoltà quasi insormontabili. Perché i due campioni, spesso e volentieri, si esprimono in un linguaggio figurato che è un vero gergo: gergo, d’altronde, necessario, perché i concetti espressi sono tutt’altro che puri ed onesti. Qui il linguaggio di Teocrito ricorda quello di Archiloco e quello d’Ipponatte, poeti che Teocrito prediligeva, se pure appartengono a lui, come mi sembrerebbe piú che probabile, i due epigrammi per le loro immagini.

Ma anche piú il bello stile di Comata e Lacone fa pensare a quello di Filocleone nelle Vespe di Aristofane. Le due piú sconce apostrofi di Comata, fanno proprio il terzetto con quella del bisbetico vecchio aristofanesco al servo irrispettoso: [p. 238 modifica]

Neppur ora vuoi lasciarmi, neppur or, bestia maligna?
Pensa quando a rubar l’uva ti sorpresi nella vigna,
ti legai contro un ulivo, ti scoiai ben ben le terga,
sú che oggetto eri d’invidia. Cuore ingrato in te s’alberga.

I due luoghi piú difficili sono a versi 112-115 e 120-124.

Cosí alto alto, nel primo di essi Comata rimprovera Lacone per le sudicerie che egli commette, parrebbe, con la moglie di un certo Micone; e Lacone, di rimando, gli rinfaccia pratiche poco pulite con quella di un tale Filonda.

Equivoca dev’essere anche, e lo conferma la testimonianza dell’antico scoliaste, che in questo argomento dove’ avere la sua competenza, la menzione della cipolla marina (squilla) e del pamporcino. Però, anche all’infuori di ogni allusione furbesca, è possibile una interpretazione soddisfacente Comata, accorgendosi che Lacone comincia ad arrabbiarsi, lo consiglia a cercar cipolle marine, alle quali l’antica terapia sembra tribuisse una efficacia antibiliare, non riconosciuta, per dire il vero, dai moderni. E Lacone, rimbeccandolo, lo esorta a purgarsi col pamporcino; al quale anche oggi si riconoscono qualità antielmintiche.

Per quanto i due pecorari siano ugualmente insolenti e sboccati, Comata appare però il meno rozzo. Piú fini e gentili sono le immagini del suo canto; onde la sentenza di Morsone appare giusta, sebbene espressa in forma alquanto iperbolica.

Nel complesso, è questo uno degli idilli piú ricchi di colore e piú caratteristici. Esso ha appunto il medesimo fascino dei giambi d’Archiloco e d’Ipponatte, e di certe crude scene d’Aristofane. Raccoglie una materia — concetti, immagini, vocaboli, locuzioni, frasi — che a prima giunta sembrerebbe quanto mai aliena dalla poesia; e, stringendone gli elementi in plessi vividi precisi, la solleva, per virtú di ritmo e di stile, nel puro clima dell’arte. Cosí appunto vediamo in pittura le vecchie straducole, [p. 239 modifica]la squallida poveraglia, i cenci sudici versicolori, riprodotti su la tela da un artista geniale, acquistare il fulgore, e la purità del diamante.

Il Melanzio ricordato da Cornata nell’ultimo verso è il tristo capraro che nell’Odissea dimostra tanta ingratidudine e tanto malo animo contro il suo signore Ulisse, e contro il fido porcaro Eumeo. I pastori di Teocrito, e, secondo ogni verisimiglianza, anche i veri pastori di Sicilia, conoscevano il loro Omero.

VI

GALATEA

Questo idillio va distinto fra tutti gli altri, perché gl’interlocutori non vi parlano per proprio conto, bensí entrano nella persona d’un altro, recitano una vera e propria parte. Stabilita la gara, Dafni, che ha lanciata la sfida, si mette subito nei panni d’un pastore compagno di Galatea. E Dameta accetta il tèma proposto, e lo svolge a sua volta, con tanta bravura, da riuscir pari al suo antagonista, che è, probabilmente, lo stesso famosissimo Dafni.

Il tèma del Ciclope innamorato fu dilettissimo agli artisti alessandrini. Teocrito lo tratteggiò due volte; due svolgimenti pittorici ne sono giunti sino a noi, uno in una pittura pompeiana, l’altro in un affresco della cosí detta «Casa di Livia» sul Palatino; e un delizioso bassorilievo ellenistico, è la perfetta traduzione in marmo dell’undecimo idillio di Teocrito. [p. 240 modifica]

VII

LE TALISIE

Questo idillio è a chiave. Simicída è Teocrito. Licida potrebbe essere Leonida di Taranto. La scena si svolge nell’isola di Coo; e l’erudizione ha identificati uno per uno tutti i luoghi ricordati da Teocrito: chi apra la bella edizione di Cholmeley, troverà, a pagina 237, una piccola carta che potrà orientarlo perfettamente.

E l’idillio sarebbe il ricordo, poeticamente trasformato, d’una scampagnata di Teocrito e dei suoi amici, nel podere del ricco Frassidamo, per partecipare alle «Talisie», feste che si celebravano in onore di Dèmetra, dopo la trebbiatura del grano.

Le «Talisie» sono comunemente chiamate «la regina degli Idilli». E se la regalità si dovesse misurar dalla lunghezza, non potrebbe sussistere dubbio. Le «Talisie» contano 157 versi, e soltanto 58 i «Mietitori», che sono un puro capolavoro.

Intendiamoci. È certo che il paesaggio dell’ultima parte (131-146) trova ben pochi riscontri in tutta la poesia teocritea: l’ammirazione del Sainte-Beuve è qui tutt’altro che iperbolica, e il nome di Rubens, che egli ricorda, e che ricorre spontaneo al pensiero di tutti, non sembra davvero pronunciato invano. Il mito di Dafni chiuso nell’arca dal tristo padrone, e nutricato dalle api, è di squisitezza ineffabile, e disegnato con tratti oltremodo felici. Ed anche nella prima parte sono graziosissimi i tocchi agresti (la selva di pioppi e di olmi che tesse la sua ombra sopra l’acque della fonte Birina, il ramarro sopito, la lodoletta anch’essa ammutolita nel cielo, il bel sorriso di Licida). E l’immagine della Dea Dèmetra, alta, con le mani colme di papaveri e spiche, conclude stupendamente l’idillio, e torna a far circolare in esso l’aura di poesia, smarrita nelle ultime divagazioni mitologiche. [p. 241 modifica]Ma, nel complesso, la cornice è pesante, e deturpata qua e là da macchie alessandrine: tali la storia della fonte Birina, la frecciata contro i poeti denigratori d’Omero, la inopportuna rievocazione di Folo e di Polifemo.

E i due canti amebei di Lícida e di Simicída, oltre, anche essi, a qualche alessandrinismo, hanno il difetto della poca perspicuità.

Non tanto quello di Lícida. È un canto per la partenza del ragazzo Ageàne, che si reca a Mitilene: un propemptikòn, simile a quello che Orazio scrisse per Virgilio. Quando saprà che il caro bardassa sia felicemente arrivato, il poeta si piglierà una sbornia in suo onore.

Simicída, invece, dopo averci fatto sapere che egli è fortunato in amore, ricorda la felicità di Arato, il poeta prediletto di Teocrito. E soggiunge che quanto soffra Arato per il bel Filino, lo potrebbe dire Aristi. E chi sia questo Aristi, non lo potremmo dire con precisione; ma probabilmente, come opina il Meineke, un poeta che aveva cantati gli amori di Arato. E scongiura Priapo e gli Amorini, perché inteneriscano il cuore del soave bertone: al quale ricorda poi che i begli anni passano presto, e che bisogna coglier la rosa mentre è ancora fiorente. Questi poeti attribuivano una grande importanza ai loro amorazzi, e ai loro zànzeri; e, come se tutti dovessero conoscerli e interessarsene, ne parlano per allusioni ed accenni, che confondono ed intrecciano come ghirlande di fiori puzzolenti. Che cosa ne pensassero i lettori d’allora, non saprei: quelli d’oggi, probabilmente, troveranno che è inutile scervellarsi a intendere per filo e per segno le delusioni e le speranze erotiche del signor Lícida e del signor Arato.

La pittura che Lícida fa della vagheggiata sbornia in onore del ragazzo Ageane, prova, anche una volta, l’affetto di Teocrito per Aristofane. È facile sentire quanto fedelmente essa [p. 242 modifica]riecheggi le parole dei contadini nella seconda paràbasi de La pace.

Dal verso 4 a pag. 59 rileviamo che chi sacrificava a Pane lasciava una parte della carne ai ragazzi. E quando era pochina, questi se la rifacevano con l’effigie del Nume. Il Molone di cui si parla a pag. 59, v. 21, era un rivale amoroso di Arato.

VIII

I MANDRIANI

Pochi idilli hanno suscitati tanti entusiasmi quanto questi «Mandriani». Il Carducci, nella seconda «Primavera ellenica» ne ha mirabilmente tradotti due distici:

Oh di Pèlope re tenere il suolo
oh non m’avvenga, o d’aurei talenti
gran copia, e non de l’agil piede a volo
                         vincere i venti!
Io vo’ da questa rupe erma cantare,
te fra le braccia avendo, e via lontano
calar vedendo l’agne bianche al mare
                         siciliano.

E il Sainte-Beuve gli assegna la palma su tutti gli altri idilli. «Stavo per dire che niente uguaglia la grazia del sesto idillio; ma Teocrito stesso l’ha sorpassata. L’ottavo idillio, fra i due fanciulli Dafni e Menalca, è forse il piú caratteristico del genere pastorale puro, il piú grazioso, il piú semplice ed innocente di tutti, posto com’è ai confini della puerizia e dell’adolescenza. Da nessuna ecloga esala come da questa la felicità [p. 243 modifica]campestre, l’abbandono e la facile gioia: vi si confondono il piú ingenuo rossor dell’infanzia, e i primi turbamenti del pudore. Il poeta vi ha dipinta l’infanzia dell’Orfeo dei pastori; e nella sua pittura c’è un’aura di Raffaello».

Le osservazioni del Sainte-Beuve sono sostanzialmente giuste, anche per chi non possa interamente partecipare la sua grande ammirazione. Un Raffaello. Ma un Raffaello stanco, in cui la purezza del disegno non basti a compensare una certa languidezza di colore, una certa mancanza di tratti caratteristici.

Accanto alla esaltazione del Sainte-Beuve, bisogna poi ricordare la diffidenza di un gran numero di filologi, i quali giunsero al punto di negare a Teocrito la paternità dell’idillio, per attribuirla ad un ignoto poeta, che qualcuno chiamò poi da strapazzo. Inutile specificare le loro ragioni, che spesso, come troppo spesso avviene delle ragioni filologiche, sono veri «aegri somnia». Ma anche per essi, l’irrazionale ma vero e profondo fondamento della diffidenza dove’ consistere nell’innegabile povertà di colore che questo idillio presenta di fronte agli altri migliori di Teocrito. Né so che sia stato rilevato il carattere d’intrusione dei due versi:

Cosí con versi alterni cantarono i due giovinetti:
e all’ultime canzoni cosí diede il tono Menalca.

Sembra proprio una di quelle glose riassuntive che nei moderni libri scolastici si introducono, per «collegare» i «brani scelti» dei poemi celebri. E non contribuisce certo a dissipare i dubbi e l’incertezza.

Tra i pregi essenziali di questo idillio, si deve annoverare il bando assoluto della mitologia e di ogni altra cianfrusaglia erudita. [p. 244 modifica]

IX

I CANTORI

Non c’è da spender troppe parole intorno a questa bazzecola, composta con ritagli presi qua e là da altri idilli, e non dei piú eleganti e coloriti. Gran discussione al solito, tra i filologi, per decidere se l’autore sia o non sia proprio Teocrito; e i piú negano. Anche a me non parrebbe. Ma, al solito, è inutile perder troppo tempo in simili ricerche, che, a parte il valore essenziale (inesistente) dei loro possibili risultati, non possono mai giungere a conclusioni inoppugnabili. E cosí, anche qui, non si potrà mai escludere in linea assoluta che anche questa birbonatella sia uscita dalla penna di Teocrito:

Le divin Mahomet enfourchait tour à tour
Son mulet Daïdol et son âne Yafour;
Car le sage lui même a, selon l’occurrance,
Son jour d’entêtement et son jour d’ignorance.

X

I MIETITORI

Anche sull’idillio decimo, non è il caso di spender lunghe parole; e per una ragione contraria a quella che ci ha trattenuti dinanzi al precedente. Perché questi «Mietitori» sono un vero e perfetto capolavoro; e, come tutti i capolavori genuini, non solo non hanno bisogno di commenti; ma, soprattutto, non li tollerano. I due caratteri, del sentimentale Batto, e dello scanzonato Milone, sono tra i meglio scolpiti da Teocrito. E mette conto [p. 245 modifica] paragonarli all’Eschine e al Tiònico dell’idillio quattordicesimo, che ci presentano, in vesti mutate, la medesima coppia.

A non tutti sarà familiare il nome di Litierse, che Milone ricorda come autore del canto ch’egli si appresta a cantare.

Litierse era un figlio bastardo del re Mida, e, attendeva all’opere dei campi. Quanti forestieri passavano, li invitava a mieter con lui; e poi, giunta la sera, li decapitava e nascondeva i corpi entro i mannelli, accompagnandosi con una canzone. Ci capitò anche Ercole, e naturalmente, ammazzò lui. Ma d’allora in poi, i mietitori di Frigia, memori di quel gran patrono, cantarono sempre un inno in suo onore. Quello, probabilmente, con cui lo stesso Litierse accompagnava le sue geniali manifestazioni d’ospitalità: quello che intona qui Milone per richiamare lo smidollato Batto ai suoi concreti doveri di buon bifolco.


XI

IL CICLOPE

Questo idillio è diretto a Nicia, medico di grido, parrebbe, e certo grande amico di Teocrito. A lui è rivolto anche l’idillio decimoterzo, e sostanzialmente, anche il ventottesimo. Pare dunque che Nicia prendesse una cotta amorosa; e Teocrito gli dice che è inutile che cerchi rimedii nella sua farmacopèa: amore è una malattia che non si vince con le medicine; e l’unico rimedio è. se mai, il canto. Esempio classico, il Ciclope Polifemo, che trovò appunto qualche sollievo nelle canzoni.

La canzone del Ciclope è tra le cose piú riuscite di Teocrito; e le sue bellezze sono di tale ordine che non richiedono il peso di verun commento.

Il bassorilievo alessandrino di cui ho già fatto menzione è la perfetta versione plastica di questo idillio. [p. 246 modifica]

XII

IL RUBACUORI

È scritto per un egregio bertone. Era stato tre giorni lontano dal suo paese: adesso è tornato, e il poeta che l’ama — forse lo stesso Teocrito — gli racconta, in versi molto musicali, le pene d’amore sofferte per la sua lontananza.

E non mancano in questo idillio immagini fresche e gentili. Ma, a parte il soggetto, che è per noi fra ridicolo e repugnante, ci sono un paio di alessandrinaggini da disgradarne quelle di Callimaco.

Prima, il ricordo della «Festa del bacio». Si celebrava in onore di un certo Dioclèo, morto in battaglia, per salvare il suo ganzo. Vi concorrevano i piú bei ragazzi; e, giudici i piú distinti specialisti, vinceva chi sapesse piú voluttuosamente sbaciucchiarli. Roba che adesso, ripeto, fa piú ridere che schifo; ma Teocrito, serio serio, invidia la sorte di quei giudici sporcaccioni.

Seconda, e piú marchiana, una gemma d’erudizione linguistica, anzi, piú precisamente, dialettologica. Dunque, gli abitanti d’Amicla chiamavano «íspnilos» (che io traduco, alla meglio, sospirante) l’amante, e i Tessali «aítes» (che io rendo con rubacuori) l’oggetto della loro fiamma. Teocrito conosceva questi ghiotti particolari; e non si lasciò sfuggir l’occasione d’ingemmarne la sua poesia.

Inutile ricordare le dottissime aberrazioni di chi ha voluto, ai nostri giorni, sostenere una interpretazione umoristica, ironica. Purtroppo, o parli per sé o parli per altri, Teocrito dice proprio sul serio. [p. 247 modifica]

XIII

ILA

Anche questo è tra gli idilli piú vaghi. Le sue immagini, fini e gentili, hanno un rilievo straordinario, per cui si vede proprio la poesia rivaleggiare in evidenza con la pittura. E sono, pel nostro sentimento, d’una straordinaria modernità. Non già perché ricordino opere dell’arte moderna ad esse piú o meno evidentemente ispirate; ma perché, ad onta della loro determinatezza, presentano tutte un che di vago e di sfumato, un carattere di magia e di mistero assai piú comune nella poesia moderna che nell’antica.

E sarebbe, dal lato artistico, immacolato, se Teocrito non avesse anche qui bruciato il suo granellino d’incenso alla idiozia alessandrina. E, precisamente, nella immagine della chioccia e dei pulcini che tornano la sera al pollaio. In sé è graziosa; ma in questo contesto risulta appropriata come un asinello in una sinfonia di luce di Turner.

Il mito degli Argonauti, a cui appartiene questo episodio, è di cognizione comune. Il particolare delle Simplègadi, le due rocce poste all’entrata del Mar Nero, che, quando una nave tentava di passare per il mezzo, si avvicinavano l’una all’altra, e la schiacciavano, aveva già tentata la fantasia di Pindaro, che aveva cosí cantato il prodigio:

E al grave periglio anelando,
pregarono il Dio delle navi,
che delle rupi cozzanti
fuggire potessero
l’urto terribile. Due
quelle erano; e vive; e sui flutti

[p. 248 modifica]

rapide piú rotolavano
che il volo e il frastuono dei venti.


Non indegno riscontro a questa pittura grandiosa fa l’immagine teocritea, anch’essa di pretto sapor pindarico, della nave che si lancia fra l’una e l’altra rupe, come aquila che varca un abisso.

Anche questo idillio è dedicato al medico Nicia. Il piú illustre dei filologi contemporanei, fra la commossa ammirazione dei meno illustri, ha creduto di poterne intuire il seguente dramma psicologico. Nicia aveva preso moglie, tradendo cosí la sacra bandiera di questi poeti sporcaccioni; e Teocrito, rievocando al suo sentimento il glorioso amore di Ercole per il fanciullo Ila, tenterebbe di richiamarlo ai vecchi amori, ai sacri principii.

Non dico che non possa essere. Dico che ai nostri giorni spettava il merito insigne di riabilitare l’alessandrinismo, mostrando come non riesca impossibile superarlo in piacevolezza.


XIV

L’INNAMORATO DI CINISCA

È il medesimo tèma dei «Mietitori»: un duetto fra un sentimentalone innamorato fradicio, e uno scorbellato che, piú o meno benevolmente, lo piglia in giro. Ma cambia il luogo: non siamo piú in mezzo all’aria fiammea d’un meriggio in campagna; bensí in città: non abbiamo un idillio campestre, bensí un mimo.

Per la precisione e la vivacità della pittura, che tutti potranno ammirare senza bisogno di cartellini indicatori, questo idillio, che è una vera commedia in iscorcio, è forse superiore agli stessi «Mietitori». Peccato che proprio nella fine sia deturpato da una macchia, non alessandrina, ma anche piú brutta: la cortigianeria. La troviamo qui in Teocrito per la prima, e purtroppo, non per l’ultima volta. [p. 249 modifica]

XV

LE SIRACUSANE

Le Siracusane sono il capolavoro di Teocrito, e una delle grandi meraviglie dell’arte. Ventidue secoli sono trascorsi; e, simile all’Alfeo, che manteneva chiare e dolci le sue acque fra l’infinita salsedine del mare, questo idillio conserva intatta la sua freschezza e la sua vivacità: da questo lato, non so proprio quale altra opera d’arte possa rivaleggiare con esso.

Il quadro è qui assai piú ampio che in qualsiasi altro idillio: qui abbiamo il tentativo di far muovere, in una mutevole successione di scene, che ci trasportano da luogo a luogo, non solo i propri personaggi dell’idillio, bensí anche tipi secondari e macchiette, e, nello sfondo, masse e folle alle quali sarebbe angusta perfino la cornice scenica. E abbiamo come tre atti in miniatura, col rispettivo cangiamento di scena: il primo, nell’atrio della casa di Prassínoe; il secondo per la via, tra la folla; il terzo dentro la reggia di Tolomeo.

Crederei di far torto al lettore, indugiando ad analizzare la psicologia di Gorgo e di Prassínoe; e neppure occorre troppa penetrazione critica per concludere che le donnicciòle di Alessandria d’Egitto di tre secoli prima di Cristo somigliavano, come gocce d’acqua a gocce d’acqua, alle donnicciòle d’adesso.

Nella terza parte, c’è mitologia finché se ne vuole; ma qui è a posto, perchè va segnata a carico della poetessa che canta l’inno per Adone. Alla quale, però, nessuno vorrà menar buona quell’ultima filastrocca d’eroi che essa allinea per dimostrare come nessuno di loro fu privilegiato quanto Adone. Per fortuna, con effetto analogo a quello che abbiamo già visto ne «L’amor di Cinisca», dopo la sfuriata mitologica, abbiamo una conclusiva [p. 250 modifica]battuta comica, che rasserena l’aria, e lascia una definitiva impressione di gaiezza e di freschezza.

Del mito d’Adone esistevano parecchie varianti. Secondo la piú comune, il bell’amante di Afrodite, sbranato dal cinghiale feroce, aveva ottenuta da Giove la concessione di restare sei mesi nell’Averno, e sei sulla terra, vicino alla Dea che l’amava. Ma secondo la nostra poetessa, doveva rimanerci molto meno; perché dice che è tornato dopo dodici mesi. Qui son descritte le feste celebrate in suo onore il primo giorno; e leggendone la descrizione in Teocrito, vien fatto di pensare ai «Sepolcri» della nostra Settimana santa. Nel secondo si piangeva la sua nuova partenza.

A proposito di questo idillio, come degli idilli in genere e dei mimi, si solleva dai filologi la quistione se essi fossero o non fossero destinati alla recitazione. Ed è, come tante altre solenni quistioni filologiche, di pura lana caprina. Si capisce che, finché il greco fu lingua viva e non morta, quanti avevano attitudine a recitare, non avranno resistito alla lusinga di dare realizzazione fonica alle composizioni poetiche che la meritavano. Che poi queste recitazioni avvenissero fra amici, o in pubblici ritrovi, o in teatri, è quistione puramente materiale. Il problema artistico ed essenziale, è altro. È se questo idillio o quel mimo siano tali da guadagnare o da perdere efficacia in una lettura a voce alta, in una recitazione: se abbiano o no virtual vita scenica.

Problema, s’intende, che non può avere, in genere, soluzione se non soggettiva; ma che per queste «Siracusane» ne consente una obiettiva; e, chi potrebbe opporsi?, affermativa.

È possibile figurarsi precisamente, o, come direbbero i teòsofi, visualizzare la ipotetica recitazione di un antico mimo?

Non lo credo impossibile; ma non bisogna cercare nel campo della recitazione classica ed ufficiale, dove non si troverebbero gli equivalenti. Bisogna cercare fra i mimi; e nessuno si vorrà scandalizzare, perché parliamo appunto di mimi. Raffaele Vi[p. 251 modifica]viani, il geniale «scugnizzo» napolitano, fra i suoi tanti «numeri» ha anche una «Piedigrotta», nella quale, egli da solo, con le infinite risorse della sua arte, offre una vivacissima immagine del gran baccanale partenopeo, dal generico tumulto della folla, all’abbaiare dei cani, al frastuono dei veicoli, alle mille dispute e risse, al soliloquio dell’ubriaco, alle armonie e alle stonature dei variopinti strumenti, sino alla gran canzone d’amore, che si libera da quel basso confuso volgare schiamazzo, per salire con ali d’angelo sino alle stelle del cielo.

Sulla medesima linea sono queste divine «Siracusane». E il degno artista che le includesse nel suo repertorio, le farebbe certo trionfare dinanzi a qualsiasi pubblico, dimostrando la vera e non sofisticata immortalità dell’arte di Teocrito.

XVI

LE GRAZIE O IERONE

È una specie di supplica o questua. Teocrito, pare, aveva già battuto, fuori dalla patria, alla porta di un possente e ricco straniero; e, ricevuta una repulsa, tenta se avrà miglior fortuna con Gerone IIº, figlio di Gèrocle, ultimo re di Siracusa.

I tèmi di una simile poesia sono, si capisce, obbligati. Le ricchezze di per sé non contano un bel nulla: conta l’immortalità; ma l’immortalità si ottiene solamente mediante il canto dei poeti. Morale, date un’abbondante mancia ai poeti. Ed è inutile che Teocrito ci dica che non chiede per sé, ma per le Càriti, e ci dipinga queste Càriti con immagini che non potrebbero essere piú argute. In sostanza, chiede l’elemosina. E i poeti in veste di pitocchi insistenti e moralizzanti non sono mai simpatici. Era [p. 252 modifica]pitocco anche Omero? Ci crederò quando sarà dimostrata l’autenticità dei brutti epigrammi che vanno sotto il suo nome.

Tuttavia, queste Càriti sono piene di tratti caratteristici e interessanti: tali la pittura della grettezza e dell’egoismo dei contemporanei, tali la prima esortazione e poi l’apostrofe contro gli avari. Specialmente questi due brani, ci portano assai lontano dal tòno abituale di Teocrito, e ci fanno pensare ad un altro poeta, non meno grande di lui: ad Orazio. Di sapore prettamente oraziano è tutta la prima parte; e non tanto per la somiglianza di questo o quel verso, quanto per il general carattere discorsivo ed etico, e per certi atteggiamenti che ritroviamo tali e quali nelle satire oraziane, e che, senza dubbio, il poeta di Venosa derivò dal poeta di Siracusa. Ne ricordo un paio che a momenti sembrano traduzioni.

Satire I, 1, 42 = Teocrito, v. 22.

          Quid iuvat, immensum te argenti pondus et auri
          furtim defossa timidum deponere terra?

Satire I, 1, 73 = Teocrito, v. 24.

          Nescis quo valeat nummus, quem praebeat usum?
          Panis ematur, olus, vini sextarius, adde
          quis humana sibi doleat natura negatis.

Satire, I, 3, 173 = Teocrito, vv. 62 sg.

                              Dum tu quadrante lavatum
          Rex ibis, neque te quisquam stipator ineptum
          Praeter Crispinum sectabitur, et mihi dulces.
          Ignoscent, siquid peccaro stultus, amici.

Da tali rassomiglianze si può raccogliere quale nome convenga a questa composizione che non rassomiglia a nessun’altra [p. 253 modifica]delle teocritee. È sostanzialmente una satira, o, se si vuole, una epistola, nel senso oraziano.

Ma nella seconda parte, il poeta s’innalza (o s’illude); dà di piglio alla tromba epica, indossa una veste che fu sempre molto cara ai frigidi alessandrini, quella del profeta; e predice. La Sicilia era stata a quei tempi devastata in largo e in lungo dai Cartaginesi e dai Mamertini, e le speranze di tutti gl’isolani erano riposte nel valore di Gerone, che si apparecchiava ad assaltar Messina, tenuta dai Cartaginesi. Teocrito assicura che tutto andrà per la meglio, e che, grazie al valore di Gerone, fra poco tutti potranno godere la serenità della pace.

I «ricchi Efirèi» sono i Siracusani; giacché Siracusa era colonia di Corinto, e Corinto si chiamava anticamente Efira. La «fanciulla e la madre» che devono proteggerla, sono Demetra e Persefone: Lisimelèa era una palude a sud di Siracusa. Le Grazie son dette «prima dilette ad Etèocle», perché, secondo la tradizione, Etèocle, figlio del fiume Cefiso, e re d’Orcomeno, fu il primo che offrí ad esse sacrifizi. Orcomeno è chiamata «odio di Tebe» perché il suo re Ergino vinse i Tebani e li costrinse a pagargli un tributo, sinché non giunse Ercole a liberarli. L’Antioco di cui si parla nella prima parte, fu un re di Tessaglia, contemporaneo di Simonide di Ceo, che l’onorò nei suoi carmi. Aleva era discendente d’Ercole, e capostipite dei famosi Alèvadi, magnati di Tessaglia, anch’essi esaltati da Simonide. Anche presso Scòpade, altro signore tessalo, Simonide trovò larga ospitalità, ed eternò una sua vittoria olimpica in un canto di cui ci resta ancora un frammento nel «Protàgora» di Platone. I Creondi sono una cosa sola con gli Scopadei, perché Creonda era padre di Scòpade. Crànnone, per concludere la filastrocca, era la sede degli Scopadei.

E picchiando e ripicchiando su questi nomi, Teocrito, senza dubbio, voleva indurre Gerone a comportarsi con lui cosí gene[p. 254 modifica]generosamente come tutta quella brava gente s’era comportata con Simonide, suo predecessore veramente insigne, se non mente la fama, nell’arte di convertire i versi in quattrini.

XVII

ENCOMIO DI TOLOMEO

Questo «Encomio di Tolomeo» è scevro di qualsiasi contaminazione satirica o moralizzante, è un puro sacrificio sull’ara della Dea Adulazione.

Il Tolomeo qui elogiato, è il IIº, il Filadelfo, figlio di Tolomeo Iº e di Berenice. Era nato nell’isola di Coo, dove sua madre aveva accompagnato lo sposo durante la campagna navale del 309. E a 24 anni era salito sul trono, cedutogli dal padre.

Le sue benemerenze sono assai conosciute, e del resto, ampiamente ricordate qui da Teocrito. Il quale, per compiere senza omissioni il proprio ufficio d’incensatore, incomincia addirittura dal padre; e, affermato che, quando era in vita, non c’era cosa che si mettesse in capo, e poi non la facesse, assicura che adesso si trova in Olimpo, a scialare con gli altri Immortali. E qui, per gustare il quadretto che abbozza Teocrito, e che ha il suo sapore, sebbene forse assai differente da quello che il poeta immaginava, bisogna ricordare certe circostanze.

Secondo il contratto nuziale, Tolomeo era figlio di Arsinoe e di Lago, un soldato come tanti altri. Ma, secondo la fama piú diffusa, il suo vero padre sarebbe stato il re Filippo; il quale, amata Arsinoe, e deposto nel suo grembo una prova inequivocabile della sua simpatia, l’avrebbe poi concessa in giuste nozze al suo fido Lago. Ecco in che modo Tolomeo Lagide (Sotér) poteva dirsi fratello di Alessandro; e, poiché Alessandro, [p. 255 modifica]a sua volta, era presunto discendente di Ercole, anche Tolomeo era un Eraclide, sia pure di seconda mano.

Ora, Teocrito immagina questa bella scenetta in Olimpo. Ercole, siede, glorioso e trionfante, su un trono degno della sua durezza, tutto d’acciaro; e davanti a lui, su due altri troni (e quello di Tolomeo tutto d’oro), i due degni pronipoti, come scolaretti avanti alla cattedra del maestro. Ad Ercole, si sa, non dispiaceva il bicchiere; e quando ha un po’ alzato il gomito, consegna ad uno l’arco, all’altro la faretra, che dunque, da bravo Ercole decorativo, non abbandona neppure in Olimpo, neppure a pranzo, e si avvia alla stanza da letto, dove Ebe lo attende. E dal momento che quello dei due che riceve la faretra, sente il bisogno di mettersela sotto il braccio, s’intende che doveva adoperare antibraccio e mano per puntellare l’eroe non bene in gamba. Cosí dunque, con le due braccia girate stracche stracche intorno al collo dei due grandi discendenti, lo vediamo avviarsi al «talamo ambrosio». Alessandro e Tolomeo ci fanno una bella figura!

S’intende che in una commedia, in un dialogo di Luciano, questa immagine sarebbe al suo posto. Ma, purtroppo, anche qui Teocrito faceva sul serio.

Sbrigato Tolomeo, vien la volta di Berenice. Come Tètide generò Achille, come la «fanciulla argiva» Deípile, figlia di Adrasto re d’Argo, generò Diomede, cosí Berenice generò Tolomeo, nell’isola di Coo. E l’isola si commosse, e diede le medesime prove di clamoroso lealismo per cui s’era distinta Delo, quando vi nacque il pargoletto Apòlline. Fa un po’ ridere, e un po’ stizza. Ma i tempi sono anche i tempi: non bisogna dimenticare quello che, a proposito della nascita del Filadelfo aveva inventato Callimaco. Aveva inventato che Latona, quando andava cercando per terra e per mare un luogo dove potersi sgravare d’Apollo, s’era avvicinata anche all’isola di Coo. Ma al[p. 256 modifica]lora, il pondo ascoso nel suo grembo divino, e cioè il profetico Dio nascituro, aveva egli stesso presa la parola.

Ma la trattenne la voce del pargolo, e disse: «No, madre,

non partorirmi qui! Non già perché biasimi, od abbia prevenzïone contro quest’isola; è pingue, è di buona pastura; ma per lei le Parche riservano un altro

Dio, della somma stirpe dei Re Salvatori».

Al confronto, Teocrito diventa un Alfieri. Per quanto egli seguiti con l’assicurare che anche Berenice non dové subire il comun fato dei mortali, di scendere nell’Acheronte, ma se ne sta nel tempio d’Afrodite, vicina alla Dea, e partecipe degli onori divini. Il che era poi vero, perché, dopo morta, Berenice fu divinizzata.

E viene, infine, l’elogio di Tolomeo Filadelfo. Ed è meritato elogio. Le benemerenze ricordate da Teocrito sono reali; e può essere che il poeta abbia piú tenute in ombra che non esagerate quelle verso i letterati. Il Filadelfo, sacro alle Muse già dalla fanciullezza, affidato alle cure del poeta Fileta e del grammatico Zenodoto, fu la vera provvidenza di tutti i piú o meno soporiferi cartofilaci alessandrini, da Callimaco a Teocrito. Iddio, Signore di misericordia gli avrà perdonato: in fondo egli non poteva proteggere se non quello che c’era.

E tutte le testimonianze storiche concordano con questo panegirico di Teocrito nell’esaltare la floridità e la potenza del regno del Filadelfo; ma nessuno vorrà accettare per buono il numero delle città ricordate dal poeta; che sarebbero state, nientemeno, 33333. L’unico merito di questa rispettabile cifra, consiste, probabilmente, nell’essere un multiplo di tre. Occhio, anche in questi casi, alla filosofia.

Ed ecco, grazioso corollario, l’apologia di Arsinoe. Era anch’essa figlia di Tolomeo Iº e di Berenice; e dunque, sorella [p. 257 modifica]carnale del Filadelfo. Era andata in prime nozze a Lisimaco re di Tracia; poi al suo fratello uterino Tolomeo Cerauno; e, infine, oramai quarantenne, al Filadelfo, suo fratello, come abbiamo visto, da lato materno e da lato paterno. Per gli Egiziani, e massime per i re egiziani, non c’era nulla di male né di strano. Ad ogni modo, Teocrito, che, come greco, doveva pensarla, o, almeno, sentire in un modo un po’ differente, sente il bisogno di coonestare in qualche modo l’esaltato connubio, ricordando che Giove fece proprio lo stesso, e sposò la sorella Giunone.

Infine, Teocrito si rivolge a Giove, e lo prega, perché questo panegirico non sia spregiato dai posteri. E Giove gli ha procurata l’ammirazione di qualche innocente filologo. Ma il giudizio comune è invece che questa sia la cosa piú melensa uscita dalla penna di Teocrito.

Perché, morale a parte, l’arte si vendica.

XVIII

EPITALAMIO D’ELENA

Per la freschezza e il singolar tòno delle immagini, tutte imbevute d’ineffabile lume ceruleo, questo epitalamio ricorda l’idillio d’Ila. Lo scoliaste dice che deriva parecchio da Stesicoro. Ma, veramente, a giudicare da quel poco che conosciamo del gran poeta d’Imera, il tono stesicorèo non c’è: c’è invece, e ben distinto, il tòno di Saffo. C’è in quelle immagini floreali, qui come non mai gentili ed accarezzate; c’è in quella ricchezza di spunti popolari; c’è in quel tòno di scherzosa beffa, adorabilmente femminile, virgineo, che rende incomparabili i frammenti dell’epitalamio di Saffo.

Ricordi mitologici ce ne son pochi, e tutti chiarissimi. Forse, [p. 258 modifica]ai non iniziati, gioverà sapere che Menelao non arrivò senza difficoltà alla somma fortuna delle nozze con Elena. A chiedere la bellissima principessa, s’erano presentati a Sparta i primi campioni di Grecia. E il padre Tindaro era rimasto a lungo dubbioso su la scelta; ma poi aveva avuta la felice ispirazione di chieder consiglio ad Ulisse. E questi, che era anch’egli fra i pretendenti, ma già sin d’allora la sapeva lunga, gl’indicò Menelao, come quello che piú faceva al suo caso.

Le due pitture finali, delle fanciulle che su l’alba colgono fiori sul prato, e che vanno ad incidere parole sopra un tronco, sono di sapore squisitamente moderno. Non sembrano, a momenti, d’un antico, bensí d’un moderno, che riviva in un luminoso riflesso immateriale, la vita antica. Potrebbe averli scritti Andrea Chénier; o, forse, e meglio, Gerard de Nerval (Sylvie).

XIX

IL LADRO DI FAVI

Pretta composizione alessandrina: non siamo piú nel clima della poesia, ma dello scherzo, della galanteria, dello spirito. Chi ci si trova bene, potrà sostenere senza protervia che a questo «Ladro di favi» non mancano né eleganza né arguzia.

XX

IL BIFOLCHETTO

È reputato spurio, in base a considerazioni diplomatiche (nel gergo filologico diplomazia vuol dire «stato dei codici»), linguistiche, e metriche, le quali hanno certamente il loro peso. [p. 259 modifica]Ma quelle d’altro ordine addotte dai benemeriti filologi, non mi sembrano definitive.

Il contrasto fra la gente di città e la gente di campagna — essi dicono — non è tèma teocriteo. — Ma applicando con un po’ di sottigliezza e un po’ di buona volontà simile criterio, si arriverebbe facilmente a dimostrare che nessuno degli idilli appartiene a Teocrito. — Le comiche considerazioni del pastore deluso in amore ricordano quelle del Ciclope. Ma in ogni poeta è facile trovare simili doppioni; e Teocrito non fa eccezione. — Non v’è accenno a precisa «localizzazione». Ma quanti altri idilli di Teocrito non ne sono privi?

Sta di fatto che questo è d’una vivacità e d’una grazia incantevoli, anche se non regge il confronto coi capolavori di Teocrito. È anch’esso macchiato dalla sua brava mitologia; ma non è questa, purtroppo, una buona ragione per contenderne la paternità al dolce poeta di Siracusa.

XXI

I PESCATORI

Anche questo idillio è dichiarato spurio dalla maggioranza dei filologi, con una quantità d’argomentazioni, che, al solito, sono abbastanza buone finché si rimane nel campo della diplomatica, della linguistica e della metrica, intese nel loro significato piú triviale; e quando vogliono elevarsi, per una via o per l’altra, sino all’arte, divengono fiacche, puerili, grottesche.

Il Cholmeley, che, oltre ad essere il primo specialista di Teocrito, è anche il piú sicuro conoscitore dei poeti alessandrini e della loro lingua, propende a crederlo di Leonida tarentino, (i cui epigrammi, per dire la verità, non m’hanno entusiasmato mai). Certo è anch’esso pieno di colore e d’arguzia, e non [p. 260 modifica]indegno di figurare nella raccolta teocritea. E i due tocchi con cui si descrive lo sciacquío del mare ai piedi della capanna, sono veramente di mano maestra.

XXII

I DIOSCURI

Ricordo benissimo che, una ventina d’anni fa, nel mondo letterario italiano si diffuse una certa commozione perché un romanziere aveva introdotti nei suoi racconti dei dialoghi ex-abrupto, senza preparazione narrativa. In realtà, Teocrito, l’aveva già fatto parecchi secoli prima, in questo idillio sui Dioscuri.

Il poeta vi rappresenta due episodii mitici famosi: la lotta di Polluce col gigante Amico, e il ratto delle Leucippidi. Il primo di essi, offre un singolare interesse, ai nostri giorni di delirio sportivo, e, specialmente, pugilatorio. E non c’è bisogno di essere specialisti, per riconoscere, nella descrizione teocritea, tutti, piú o meno, i colpi della boxe moderna.

Come avviene, quasi sempre negli scontri reali, e sempre in quelli inventati, uno dei due campioni supera molto l’altro per mole, per forza brutale, e per ferocia; ma l’altro è piú agile e piú scaltrito nell’arte. E, al solito, da principio sembra che Amico debba, col semplice suo peso, schiacciare l’elegante Polluce. Ma non c’è da temere: si sa bene che, anzi, in questi casi, vince sempre il piú elegante e cavalleresco.

Prima di tutto, dunque, si provvede al bendaggio. E non è davvero bendaggio molle, bensí fatto con guigge di durissimo cuoio. Lo scontro comincia poi con un’azione per guadagnare il vantaggio del terreno, facendo rimanere l’avversario col sole in faccia: giuoco non troppo frequente nelle gare contemporanee, che si svolgono in luoghi chiusi, o verso il tramonto, ma che aveva [p. 261 modifica]una parte importante in altri cimenti, per esempio nei classici duelli alla spada dei tempi di Carlo IX, o di Enrico III.

Nei primi colpi, dunque, che Amico avventa lanciandosi contro Polluce, è facile riconoscere altrettanti swings, i famosi colpi orizzontali, tanto al viso, quanto al corpo, repudiati dagli Americani, ma tenuti sempre in grande onore dagli Inglesi. E nel colpo con cui Polluce frena quell’impeto brutale, anche gli orbi riconosceranno il celeberrimo «uppercut», il colpo dal basso in alto, che paralizza quasi sempre l’avversario, e non di rado ha virtú di spedirlo all’altro mondo. Amico rimane stordito per un istante, e poi si precipita di nuovo su Polluce, a testa bassa, certo per dargli una capata nello stomaco: colpo non proprio elegantissimo, ma di efficacia non discutibile. Ma Polluce para, e contrattacca con una fittissima serie di destri-sinistri, che arrestano il gigante; e poi, storditolo con una serie di finte, gli vibra tra gli occhi, al disotto del naso, un terribile «diretto» che lo fa stramazzare al suolo.

Un round è compiuto; ma lo scontro non è ancora terminato. Amico si rialza; e comincia fra i due un lavoro di «demolizione» (il testo dice proprio cosí: ὄλεκον). Ma, mentre i colpi del colosso riescono irregolari o inefficaci, quelli di Polluce arrivano tutti al viso, e riducono il bruto a mal partito.

Ed eccoci all’ultimo round. Come sempre accade, il campione soccombente tenta un colpo disperato. Con una duplice irregolarità, afferra la mano di Polluce, e gli vibra un «colpo basso», sotto le costole, nella parte indifesa del torace. Ma Polluce si libera con un nuovo scarto, e, raccogliendo anch’esso tutte le sue forze, gli vibra una serie di terribili colpi sul volto. E qui Teocrito aggiunge un particolare tecnico, dicendoci che insisté sul colpo con la spalla. Si oda che cosa dice un manuale di boxe recentissimo1: «La forza deve essere fornita esclusivamente dallo slancio della spalla, aiutata da quello della gamba destra, poiché [p. 262 modifica]l’efficacia del colpo dipende dallo scatto simultaneo della gamba e del braccio».

E questa volta, Amico è proprio messo knock-out, e non gli rimane che chieder grazia.

In onore di Castore è poi cantata la sua lotta con Ida. Il mito è troppo noto perché occorra ripeterlo. È qui narrato secondo una versione differente dalla pindarica; e il racconto è pieno di vivacità e di colore, sebbene non possa reggere il confronto con quello del poeta di Tebe. In sede lirico-epica, due tocchi di questo Titano valgono tutte le squisitezze dei poeti alessandrini. Ecco, in Pindaro, la morte di Ida e Linceo:

Giove dall’Ida scagliò la fiamma ed il fumo del folgore;
e derelitti i due corpi quivi arser. Ben ardua cosa,
per l’uomo, lottar coi piú forti.

L’invocazione ai Dioscuri, che apre l’idillio con la pittura della tempesta, è bella ed efficace. Non mi pare improbabile che Teocrito ne abbia tolta l’ispirazione dall’ode d’Alceo, di cui i papiri ci hanno, tempo fa, restituito qualche frammento. Ed anche qui conviene osservare che una strofe d’Alceo compera tutta la pittura di Teocrito.

Ché su la cima delle salde navi,
fulgidi intorno agli alberi balzate,
e luce, ne la notte orrida, al negro
legno recate.

Impareggiabile rimane invece Teocrito in altre due pitture. In quella del paesaggio, non inferiore a nessuna di quante abbiamo finora ammirate negli idilli; e in quella di Amico; che è poi di carattere schiettamente alessandrino; perché non scolpita evidentemente da un dilettante, che abbia visto e ammirato corpi d’atleta; [p. 263 modifica]bensí da un tecnico, oppure da un appassionato frequentatore di studi di scultura, Arte un po’ di seconda mano, e sia pur nobilissima: e tendenza a varcare i confini della propria arie, per assimilare i modi d’un’altra: segni entrambi di deciso alessandrinismo.

Ad ogni modo, i pregi di questo idillio sono tali e tanti, che credo proprio ingiustificato qualsiasi dubbio su la paternità teocritea.

XXIII

L’INNAMORATO

È una delle tante storielle d’amore alessandrine, come potremmo trovarla in Ermesianatte, in Alessandro Etolo, in Callimaco. Salvo che qui l’amato bene è un bardassotto; e se quelle sono insipide, questa, al solito, ci fa un po’ ridere, e un po’ schifo. L’unico merito del poeta, è quello di aver trattato in esametri un argomento pel quale sembra fosse di prammatica il distico elegiaco. Merito davvero non trascendentale; e perciò questa volta si accettano con gioia le varie ragioni enumerate dai filologi per contendere a Teocrito la paternità di questo mostricino.

XXIV

ERCOLE IN CULLA

Anche qui Teocrito non isfugge al terribile confronto con Pindaro; e anche qui n’esce sconfitto. Vero è, che l’ode per Cromio di Siracusa, in cui il poeta di Tebe descrive anch’egli la prima impresa di Ercole, contiene tratti che sono meravigliosi anche fra la perpetua meraviglia di Pindaro. Per esempio: [p. 264 modifica]

Alcide, levando su erta la testa,
compié quella prima sua zuffa,
le strozze ghermendo ai due draghi
con ambe le mani; né quelli
sfuggiron la stretta; e brev’ora
spazzò le loro anime dall’orride membra.

Oppure, quando Anfitrione corre al soccorso del figlio:

Ed Anfitrióne, scotendo
ignuda nel pugno la spada,
moveva, ferito d’acuto travaglio:
ché il duolo domestico
ci schiaccia: pei danni degli altri,
ben presto serenasi il cuore.
E stette, sospeso fra gaudio
e immenso stupore;
ché vide l’ardire incredibile
del figlio, e la possa.

Ma addirittura schiacciante riesce il confronto fra le profezie che concludono rispettivamente i due carmi. Fra i «metodi» poetici dei dottissimi Alessandrini, ce n’era anche uno non discaro neanche a qualche poeta moderno: prendevano il testo, e spesso spesso anche le glose, di qualche bel manuale di mitologia, di storia, d’etnografia, e lo mettevano bravamente in versi, preferibilmente in distici elegiaci, e in paludamento di profezia. Teocrito fa qui come gli altri, e ci presenta un quadro dell’educazione di Ercole, che ha l’impostatura, anch’esso, di una profezia, ma la sostanza d’un programma di corsi ufficiali d’una scuola di cultura fisica.

Ben diversa è l’arte di Pindaro. Affissandosi alla gran moltitudine delle gesta compiute da Ercole, ne coglie, con profondo [p. 265 modifica]spirito sintetico, i tratti essenziali, e li fa passare, con accenni balenanti, dinanzi ai nostri occhi, sino ai due momenti supremi, la lotta coi Giganti, sostenuta a fianco dei Numi, e l’apoteosi e il matrimonio con Ebe. La materia mitica non è freddamente travasata, bensí dominata e gittata in alate vibranti forme lirico-musicali.

Tiresia, solenne verace profeta,
disse alle turbe fra quante venture
il pargolo avvolto sarebbe,

e a quante darebbe la morte
crudissime belve
per terra, ed a quante nel pelago;
e disse che alcuno degli uomini avvezzi
a obliqua violenza, da lui
verrebbe anche spento; e soggiunse
che quando i Giganti, nel piano
flegrèo, pugneranno coi Numi,
sottessa la furia dei dardi d’Alcíde,
le fulgide chiome
dovranno insozzar nella polvere.

E ch’ei, nelle case beate, godendo una pace perenne,
un placido eterno riposo, compenso ai suoi gravi travagli,
unitosi ad Ebe fiorente, con lei celebrate le nozze,
vicino al Croníde, l’elogio
dirà delle sante sue leggi.

È chiaro che io non ho istituito questi raffronti per stabilire priorità, e per deprimere Teocrito; bensí, al solito, per distinguere: per rendere chiaro, quasi tangibile, mediante un parallelo appropriato, quanto differisce la concezione della poesia [p. 266 modifica]epico-lirica del gran periodo classico da quella degli Alessandrini, che pure la predilessero. D’altronde, tutti sanno che la grandezza di Teocrito non è qui; la colpa che, al massimo, gli si potrebbe apporre, sarebbe quella di non aver bene valutate le proprie attitudini, e di non aver saputo resistere alla moda del tempo.

XXV

ERCOLE CHE UCCIDE IL LEONE

Sodi al loro lealismo scientifico, i filologi hanno versato i classici fiumi d’inchiostro, per sostenere (o per confutare, reciprocamente) diverse tesi.

A) L’idillio è un frammento, nato e rimasto frammento.
B) È un frammento d’un poema perduto.
C) Costituisce un tutto omogeneo.
D) È composto di tre parti ben distinte una dall’altra, da tre brani del medesimo poema.
E) Le parti sono tre, distinte, e pure unite, come le tre tavolette d’un trittico: tre punti salienti d’una leggenda, messi liberamente uno accanto all’altro, senza bisogno di tessuto connettivo: vedi ballata moderna.
F) Lo scopo del frammento o del poema a cui il frammento apparteneva, è l’esaltazione d’Ercole.
G) Lo scopo è semplicemente quello di narrarne le gesta.

La lista potrebbe diventare lunga come quella di Leporello. Ma nessuno ha mai posto un quesito pregiudiziale: se cioè si possano escogitare questioni di lana piú caprina. Se anche si riuscisse a determinare uno qualsiasi o tutti tali quesiti, l’importanza della determinazione sarebbe minima; ma, viceversa, ogni determinazione un po’ sicura riesce impossibile. E allora, tanto vale rassegnarsi. [p. 267 modifica]

Assai piú importante sarebbe decidere se l’idillio sia o non sia di Teocrito. E se non è di Teocrito, di chi è. E non tanto per arricchire d’una nuova gemma lo scrigno ben fornito del poeta di Siracusa, quanto per accrescere la schiera non molto fitta dei buoni poeti alessandrini. Perché questo idillio è una vera gemma.

Le ragioni che indurrebbero a farlo attribuire a Teocrito, sono parecchie; ma, al solito, non hanno, e non potrebbero avere carattere obiettivo. Io, a dir la verità, il tòno teocriteo non ce lo sento; ma cosí, ci perdiamo sempre piú nel campo del soggettivismo.

Fra i tratti che designano l’idillio come alessandrino, sicurissimamente, è da rilevare specialmente un particolare nella lotta d’Ercole col toro. L’eroe afferra la bestia pel corno sinistro, le fa curvare il collo sino a terra, e poi lo torce all’indietro,

gravandolo col peso dell’òmero; e il muscolo saldo
si vide alto levarsi fra i tendini, al sommo del braccio.

Quest’ultimo particolare, non solo è superfluo, ma turba la bella linea della narrazione. In sede di poesia non è a posto. Perfettamente a posto sarebbe in una scultura; e alla tecnica della scultura s’ispirò qui, evidentemente il poeta, non mostrando intuizione estetica uguale alla perizia letteraria.

XXVI

LE BACCANTI

Inutile spendere parole intorno a questo povero componimento, che, per l’onor di Teocrito, si vorrebbe credere non teocriteo. Nella forma, e massime nella chiusa, è il perfetto compagno degl’inni — specie dei brevi inni — omerici: nel contenuto è una [p. 268 modifica]scipita narrazioncella, appena animata da qualche favilla rapita alle «Baccanti» euripidee. Ad Euripide è anche ispirata, evidentemente, la zelante ortodossia dionisiaca. Assai plausibile sembra la ipotesi del Wilamowitz, che questo idillio sia una speciosa ed empia apologia cortigiana, composta per giustificare con l’esempio mitico, lo scempio d’un giovinetto (v. 26 sg.) perpetrato in qualche corte ellenistica, per ragioni dinastiche, e da femmine. In quale corte? Quale giovinetto? Quali femmine? Non sapremmo rispondere. Ma è certo che non tutti gli enigmi meritano il travaglio mentale della soluzione.

XXVII

IL COLLOQUIO D’AMORE

È forse l’idillio che ha meno bisogno di chiarimenti. Nella materia che svolge, tutti sono maestri.

E tuttavia, anche questo cristallino, e, come ora si dice, aderente al vero (magari troppo aderente) colloquio d’amore, varca i secoli carico d’un bagaglio sempre piú grave di «problemi», di «quaestiones», di «adversaria».

— È completo o è un frammento? — Secondo i piú, manca il principio. È probabile, per quanto nessuno potrebbe giurarlo; ma ogni persona di buon senso vorrà ammettere che è tempo buttato mettersi a far l’indovino, per determinare precisamente che cosa ci sarà stato nella parte perduta.

È o non è di Teocrito? Indegno senz’altro, non lo direi; ma certo la lingua e la metrica sembrano accennare ad un’età piú recente.

A quale età? Alcuni dati farebbero pensare ad un seguace di Bione: altri ci porterebbero addirittura a Longo Sofista; ma [p. 269 modifica]le ragioni artistiche e le ragioni cronologiche s’intrecciano in tal guisa, che, anche qui, sarà sempre difficilissimo giungere a determinazioni sicure.

Ad ogni modo, fra le composizioni che, in qualche modo, vanno sotto il nome di Teocrito, è fra le piú leggiadre; e sebbene fra le meno sicure, non ho creduto che convenisse ometterla.

XXVIII

LA ROCCA

Per essere sincero, non partecipo l’entusiasmo di molti filologi per questa «Rocca». È una poesia d’occasione; e, col beneplacito dell’olimpio Goethe, le piccole occasioni suscitano le piccole poesie. E le meno decorose ispirano poesie indecorose (vedi l’«Elogio di Tolomeo»), le turpi, poesie turpi (vedi l’«Aítes»). Questa è ispirata ad una occasione onesta e simpatica; ed è simpatica, sebbene non abbia molto a vedere con le ispirate figlie di Mnemosine.

XXIX

PER DUE FANCIULLI

I

Per questa poesia, dobbiamo ripetere le considerazioni fatte a proposito della precedente; ma con una conclusione diametralmente opposta. Infatti è dedicata ad un illustrissimo zanzerone; e non riescono a commuoverci gli sdilinquimenti amorosi di Teocrito per lui. [p. 270 modifica]

Il suddetto garzone pare che fosse un po’ incostante: era, avrebbe detto un arcade, come un’ape che svolazza di fiore in fiore. Questo contegno, garantisce Teocrito, non può essere che non gli rechi gran disdoro. Ma se invece metterà testa a partito, e sarà tutto di Teocrito suo, tutte le persone serie gli accorderanno la loro stima. Il piú strano è che non potremmo trovare documenti per dimostrare che Teocrito non dicesse la verità.

2

Forse le poesie erotiche attribuite dai codici a Teocrito, non sembrarono al Dio Crono sufficienti per assicurare la riputazione amatoria del poeta; e allora, galantuomo, come sempre, fece sí che nell’anno 1864, lo Ziegler ne trovasse un’altra, che fu pubblicata dal Bergk nel 1865, e poi da molti altri. È indirizzata ad una delle solite bardasse; e per essa valgono le considerazioni già fatte per le sue sorelle. La sua autenticità è molto discutibile.

EPIGRAMMI

Molti degli epigrammi, conservati, vuoi nei manoscritti di Teocrito, vuoi nell’Antologia, sotto il nome del poeta, non sono autentici. Fra i piú sicuri sono il VII, il X, XII, XIII, XVIII, XIX, XX, XXII. Ma è tutta materia molto controversa. Ad ogni modo, ho creduto bene tradurli.


Note

  1. A. Cougnet: Il libro della boxe - Milano, Hoepli.