Le odi e i frammenti (Pindaro)/Odi per Orcomeno, Argo, Tenedo/Ode Nemea X
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ODE NEMEA X
Pindaro invoca le Càriti perché celebrino Argo, la città di Danao, e le cinquanta Danaidi. Lungo sarebbe enumerare gli eroi d’Argo: Pèrseo; Epafo (figlio di Io, figlia d’Inaco, primo re d’Argo), il quale, generato dalla madre tramutata in giovenca in Egitto, fondò lí molte città; Ipermnestra che, sola fra le Danaidi, non volle uccidere lo sposo; Diomede reso immortale da Giove; Anfiarao, profeta e guerriero, a cui Giove, per non farlo coprire d’onta in battaglia, ché stava per fuggire, spalancò sotto i piedi la terra; Alcmena e Danae amate da Giove; Linceo, padre d’Adrasto, insigne per senno; Anfitrione, a cui il re dei Numi concesse l’insigne onore di fecondargli la sposa, mentre egli era lungi, alla guerra. Lungo sarebbe: e ha paura di tediare gli uditori (1-26).
Quest’ultimo pensiero, comunissimo in Pindaro, mentre chiude il proemio, serve d’opposizione, mediante un nesso avversativo, ai pensieri seguenti. È sottinteso il pensiero che Teeo e i suoi hanno riportate tante vittorie, che a commentarle tutte si risica di seccar la gente. Tuttavia, Pindaro le numererà: vinse due volte nelle gare d’Era, in Argo, dove insieme con le gare si celebravano sacrifizi: vinse a Pito: tre volte all’Istmo (le porte del ponto) e tre a Nemea (i ludi d’Adrasto): ora non sembrerà sfrontato, se aspira alla corona olimpica, che è la piú alta gloria (la regola somma d’Alcide): ché poi vinse già in Atene, nelle panatenaiche, e mandò a casa le anfore piene d’olio che colà si davano ai vincitori (26-46).
Dei resto, guadagnare ghirlande negli agoni è ereditario nella famiglia di Teèo. Tràsiclo e Antia, suoi zii materni, riportarono vittorie nei giuochi d’Argo (sotto la rocca di Preto), di Corinto, a Nemea (presso i Cleoni che agiudicarono i premî in queste gare) in Sicione, in Pellene, a Clítore, a Tegèa, sotto il Linceo, e in altre città d’Argo (46-62).
Ne è da meravigliare: ché ospiti del loro avolo Panfao furono i due figli di Giove, Castore e Polluce, patroni di tutti i ludi ginnici e guerreschi (63-69).
Mito di Castore e Polluce, che vivono alternamente, un giorno in cielo, uno nelle sotterranee grotte di Terapne. Quando essi rubarono i bovi dei figli di Afarete, Ida e Linceo, questi uccisero Càstore: Polluce, accorso alla riscossa, uccise loro, e Giove inoltre li incenerì con un folgore. Castore respirava ancora; e Polluce lo salvò, impetrando da Giove la nota grazia.
La data di questa ode è incerta. Notevoli sono i particolari intorno ai premi degli agoni: e di grandissimo effetto la chiusa, con le prime parole che escono dal labbro di Castore, tornato a vita dall’amore fraterno.
PER TEEO D’ARGO
VINCITORE NEI LUDI GINNICI
I
Strofe
La città celebrate di Dànao, o Càriti, e delle cinquanta
sue figlie dai fulgidi troni,
d’Era degnissima sede, che splende per mille corone,
mille e mille opere audaci.
Lungo è narrare le gesta di Pèrseo contro Medusa:
molte in Egitto città si fondaron per opera d’Èpafo;
né dissennata Ipermnestra
apparve, serbando, sola essa, nel fodero il brando omicida:
Antistrofe
Dïomede fu reso immortale da Pallade flava occhicesia:
il suol, dagli strali di Giove
folgoreggiato, si fende, e inghiotte il figliuolo d’Iclèo,
profeta, turbin di guerra.
Anche da tempo è famosa per donne di bella cesarie:
Giove tal vanto conferma, d’Alcmena invaghendo e di Dànae:
e fior di senno concesse
con senso di retta giustizia, al padre d’Adrasto, a Lincèo.
Epodo
Anche il valor d’Anfitríone nutrí. Giunse questi nel solco
già fecondato dal Nume: ché mentre l’eroe sterminava,
chiuso nell’arme, i Telèbi, il sire dei Superi, assunta
la sua sembianza, alla reggia
venne, recando l’impavido germe d’Alcíde; a cui sposa
Ebe, vaghissima Diva, ora è, nelle case d’Olimpo,
vicina alla pronuba madre.
II
Strofe
Troppo breve è il mio fiato; né tutti può correr di gloria i sentieri
che son d’Argo sacra retaggio;
ed affrontare il fastidio degli uomini è grave. Ma pure,
desta la lira sonora,
volgi alle ginniche gare la mente; ché il bronzeo certame
spinge le genti ove ad Era si sgozzano tauri, e d’agoni
si fa giudizio: ché il figlio
d’Ulía, qui due volte riscosse l’oblio della nobil fatica.
Antistrofe
Degli ellèni campioni la schiera in Pito ei già vinse. E Fortuna
nell’Istmo e in Nemea gli fu socia.
Quivi alle Muse egli offerse, che cura ne avessero, il serto:
tre su le porte del ponto,
tre ne la sacra pianura, pei giochi di Adrasto ne ottenne.
Giove, quanto egli ora brama non dice: ogni evento è in te posto:
certo, chiedendo tal grazia,
non ei nell’audacia confida; ma in cuor che fatica non teme.
Epodo
Cose ben note a lui canto, e a chi si cimenta pei vertici
sommi di gloria: ebbe Pisa la regola somma d’Alcíde,
Ma dei preludi le voci dolcissime lui nelle feste
sacre d’Atene, tre volte
celebre resero. E dentro la creta riarsa dal fuoco,
d’Era alla nobile gente giungea dell’olivo la bacca
nel grembo a dedàlei vasi.
III
Strofe
Dei german’ di tua madre alla chiara progenie è retaggio, o Teèo,
la gloria dei pubblici agoni,
grazie alle Càriti, grazie a Tíndaro, ai figli. — Se fossi
sangue di Tràsiclo e Antía,
certo vorrei che il mio sguardo in Argo fulgor non perdesse.
Deh! Quanti fior di vittorie li ornava sottessa l’equestre
rocca di Preto, e nei fondi
corinzi recessi! e ben quattro ne colsero presso i Cleóni.
Antistrofe
Li recinse fulgore d’argento quando essi, le fiale del vino
recando, tornâr da Sicione:
morbida lana il lor dorso copriva al redir da Pellène:
computo fare dei bronzi
mal si potria: numerarli vorrebbe piú lunga fatica,
quanti Clitòre e Tegèa e l’alte città degli Achei
ed il Lincèo, presso al circo
di Giove ne posero, a vincerli con forza di piedi o di mano.
Epodo
Qual meraviglia che siano fortissimi atleti, se Càstore
ed il germano Pollúce l’ospizio cercâr del loro avolo
Pànfao: se sono i gemelli ministri agli agoni nell’ampia
Sparta; e lor florida sorte
cercano insiem con Ermète, col figlio possente di Giove?
Essi gran cura si dànno di quanti hanno in cuore giustizia.
E fida è la stirpe dei Numi.
IV
Strofe
Essi alternan lor vita, a vicenda passando l’un giorno vicino
al padre diletto, in Olimpo,
l’altro in terrestri latèbre, nell’adito sacro, a Terapne,
stretti a una sorte: ché questo
scelse Pollúce, piuttosto che sempre esser Nume, ed in cielo
vivere, quando in battaglia fu a Càstore spenta la vita.
Ida, tutto ira pei bovi
furati, l’avea con la cuspide dell’asta di bronzo trafitto.
Antìstrofe
Dal Tegèto spiando, Lincèo scoperto l’avea, che sovresso
il tronco sedea d'una quercia:
ch’ei piú di tutti i mortali aveva acutissimo l'occhio.
Presto lo giunser coi piedi
rapidi; e in breve compieron lo scempio famoso. Ma grave
pena le mani di Giove inflisser d'Afàrete ai figli:
l'altro rampollo di Leda
accorse: essi attesero fermi vicini alla tomba del padre.
Epodo
Quivi, divelta l'immagine dell'Ade, scolpito macigno,
l'avventâr di Polluce al petto; ma né lo contusero,
né rintuzzarono; e quegli piombò, dentro il fianco a Lincèo,
spinse la pronta zagaglia:
Giove contro Ida scagliò la fiamma ed il fumo del folgore:
e derelitti i due corpi quivi arsero. Cosa è ben ardua
per l’uomo, lottar coi piú forti.
V
Strofe
Corse súbito il figlio di Tindaro vicino al fratello, se ancora
traesse il respiro. Né spento
era; ma tutto era corso di brividi; e grave l'anelito.
Lagrime amare e singhiozzi
quegli mescendo a gran voce, gridava: «Croníde, mio padre,
quale rimedio trovare potrò di mie doglie? La morte
anche a me infliggi, o Signore:
ché scevro è d’onore chi perde gli amici; e ben pochi degli uomini
Antistrofe
nelle ambasce rimangon fedeli, né parte vi pigliano». Disse
cosí. Giove, corsogli accanto,
tali parole gli porse: «Mio figlio sei tu. Dopo me
giunse l’eroe, che mortale
germe in tua madre stillava. Ora io questa scelta ti porgo:
vuoi tu sfuggire la morte, e gli anni del tedio senile,
ed abitare la casa
d’Olimpo, con me, con Atena, con Marte dal cuspide negro?
Epodo
Questo sia pure il tuo fato. Se poi pel fratello contendere
brami, ed uguale dividere in tutto la sorte con lui,
mezzo il tuo tempo vivrai del suol nelle viscere fonde,
mezzo su in ciel, nelle case
d’oro». Cosí favellò. Né in duplice avviso la mente
pose Polluce. Onde Càstore dall’elmo di bronzo dischiuse
lo sguardo, ed il labbro, e parlò.