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NOTE VII | 241 |
Ma, nel complesso, la cornice è pesante, e deturpata qua e là da macchie alessandrine: tali la storia della fonte Birina, la frecciata contro i poeti denigratori d’Omero, la inopportuna rievocazione di Folo e di Polifemo.
E i due canti amebei di Lícida e di Simicída, oltre, anche essi, a qualche alessandrinismo, hanno il difetto della poca perspicuità.
Non tanto quello di Lícida. È un canto per la partenza del ragazzo Ageàne, che si reca a Mitilene: un propemptikòn, simile a quello che Orazio scrisse per Virgilio. Quando saprà che il caro bardassa sia felicemente arrivato, il poeta si piglierà una sbornia in suo onore.
Simicída, invece, dopo averci fatto sapere che egli è fortunato in amore, ricorda la felicità di Arato, il poeta prediletto di Teocrito. E soggiunge che quanto soffra Arato per il bel Filino, lo potrebbe dire Aristi. E chi sia questo Aristi, non lo potremmo dire con precisione; ma probabilmente, come opina il Meineke, un poeta che aveva cantati gli amori di Arato. E scongiura Priapo e gli Amorini, perché inteneriscano il cuore del soave bertone: al quale ricorda poi che i begli anni passano presto, e che bisogna coglier la rosa mentre è ancora fiorente. Questi poeti attribuivano una grande importanza ai loro amorazzi, e ai loro zànzeri; e, come se tutti dovessero conoscerli e interessarsene, ne parlano per allusioni ed accenni, che confondono ed intrecciano come ghirlande di fiori puzzolenti. Che cosa ne pensassero i lettori d’allora, non saprei: quelli d’oggi, probabilmente, troveranno che è inutile scervellarsi a intendere per filo e per segno le delusioni e le speranze erotiche del signor Lícida e del signor Arato.
La pittura che Lícida fa della vagheggiata sbornia in onore del ragazzo Ageane, prova, anche una volta, l’affetto di Teocrito per Aristofane. È facile sentire quanto fedelmente essa