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NOTE V 237


L’idillio è chiarissimo. La vanga che Egone porta con sé (verso 10) bisogna intendere che gli servisse per allenarsi; e le pecore, per nutrirsi durante la sua permanenza lontatno dalla patria.

V

LA SFIDA

I due caprari di quest’idillio sono di pasta un po’ differente dagli altri. La loro gara è piuttosto una rissa. Cominciano col darsi, l’uno all’altro, del ladro; e poi, stabilita la gara, la tirano avanti, in uno stile strano, misto di volatine pittoresche e liriche e di contumelie. Veramente, Comata muove a Lacone il rimprovero di non saper che dire ingiurie; ma non si può dire che egli sia troppo piú castigato. E il piú vergognoso e il piú lurido degl’insulti, è scagliato, e a due riprese, proprio da lui.

Nelle linee generali, l’idillio non potrebbe esser piú chiaro: in qualche particolare, presenta, invece, difficoltà quasi insormontabili. Perché i due campioni, spesso e volentieri, si esprimono in un linguaggio figurato che è un vero gergo: gergo, d’altronde, necessario, perché i concetti espressi sono tutt’altro che puri ed onesti. Qui il linguaggio di Teocrito ricorda quello di Archiloco e quello d’Ipponatte, poeti che Teocrito prediligeva, se pure appartengono a lui, come mi sembrerebbe piú che probabile, i due epigrammi per le loro immagini.

Ma anche piú il bello stile di Comata e Lacone fa pensare a quello di Filocleone nelle Vespe di Aristofane. Le due piú sconce apostrofi di Comata, fanno proprio il terzetto con quella del bisbetico vecchio aristofanesco al servo irrispettoso: