Idilli (Teocrito - Romagnoli)/XV - Le siracusane

XV - Le siracusane

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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1925)
XV - Le siracusane
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XV

LE SIRACUSANE

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PERSONAGGI

Eutíchide, fantesca di Górgone
Górgone
Prassínoe
Zopirino, figlio di Prassínoe
Frigia
fantesche di Prassínoe
Eunoe
Una vecchia
Un forestiere
Un altro forestiere
La figlia d’Argeia, poetessa

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SCENA PRIMA


L’atrio della casa di Prassínoe.


górgone
C’è Prassínöe?
prassínoe
                         Górgone mia, dopo tanto! Ci sono.
Miracolo che sei venuta, alla fine! — Una sedia,
Eunòe, svelta! — E il cuscino, lo metti?
górgone
                                                                 Non serve.
prassínoe
                                                                                A sedere!
górgone
Fegato mio, se n’ho avuto! A stento, Prassínöe mia,
fra tanta calca e tante quadriglie, ho salvata la pelle.

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Non c’è che stivaloni per via, che soldati in divisa.
Non si cammina! E tu, venirti a trovare, è un viaggio.
prassínoe
In capo al mondo, apposta venuto è a cercare, quel ciuco,
questa, non casa, ma tana, perché non si fosse vicine.
L’ha fatto per dispetto, quel canchero. Sempre lo stesso.
górgone
Non dir del tuo Dinóne, Prassínöe mia, certa roba,
davanti al bimbo. Vedi, bellezza mia, come ti guarda? —
Allegri, Zopirino mio dolce, non parla del babbo.
prassínoe
Sí, per la Dea, che il bimbo capisce. — Papà bello bello! —
Beh, ieri questo papà — dico ieri, ma è sempre una storia —
uscí per comperare salnitro e belletto in mercato,
e mi portò del sale, quel tomo di tredici braccia.
górgone
O Dïòclide mio? Tal quale, è uno scannaquattrini.
Ieri, per sette dramme comprò cinque pelli di cane,
un sudiciume, un tritume raschiato da vecchie bisacce:
roba da buttar via! Ma prendi la veste e lo scialle;
rechiamoci al palazzo di re Tolomeo. C’è la festa
d’Adone. La regina prepara qualcosa di bello,
dicono.

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prassínoe
          Tutto è ricco dai ricchi.
górgone
                                                  Bisogna vedere
per raccontare a chi non ha visto. — Si va? Si fa tardi.
prassínoe
alla fantesca che sta in ozio.

È sempre festa in casa Poltroni. Mi porti il bacile,
Eunòe, sbucciafatiche! — Qui, mettilo in mezzo. — Le gatte
voglion dormire anche loro sul morbido, adesso. — Su, svelta
smuòviti, portami l’acqua. Bisogno ho dell’acqua, per prima,
e lei porta il sapone. — Beh, dammelo! — Basta, su, basta.
Versa pur l’acqua... Che fai, sciagurata, m’annaffi la veste!
Smetti! — Alla meglio, alla peggio, lavata mi sono. La chiave
del cassettone grande, dov’è? Me la porti?
górgone
                                                                      Codesta
veste a piegoni ti sta proprio bene, Prassínöe mia!
E dimmi un po’: lo stacco dal telaio quanto ti costa?
prassínoe
Non mi ci far pensare! Due mine d’argento colato,
e passa, Gorgo: e l’anima sopra ci ho messa, a cucirlo.
górgone
Però t’è rïuscito di tuo gusto!

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prassínoe
                                                                           Qui dici bene.
Portami qui lo scialle. Adattami a modo il cappello.
Te non ti porto, no, bimbo mio! Babàu, morde il cavallo.
Piangi sinché ti pare. Non voglio vedermiti zoppo.
Andiamo, andiamo. — Frigia, tu piglia e trastulla il bambino;
chiama la cagna dentro. La porta di casa, la serri?
Escono di casa.

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SCENA SECONDA


Nella via.


prassínoe
Quanta folla! Dio, dio! Come e quando potremo passare?
Che pigia pigia! Formiche! Chi può noverarle o contarle?
O Tolomeo, da quando tuo padre salí fra i Celesti,
hai molte belle cose compiute! Nessun malandrino
assalta i passeggeri, li ammazza all’usanza d’Egitto,
brutti scherzi che prima facea quella gente da conio,
banditi, tutti d’una medesima risma, furfanti. —
Che mai sarà di noi, Gorgo bella? I cavalli da guerra
del re! — Non mi pestare, brav’uomo. — Quel sauro s’impenna!
Vedi quanto è feroce! — Eunòe, non ti sbrighi a scappare,
muso di cagna? Adesso mette sotto il palafreniere.
Grande fortuna la mia, che ho lasciato a casa il bambino!
górgone
Prassínöe, fa’ cuore, ché siamo rimaste alla coda.
Sono tornati in fila!

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prassínoe
                                   Adesso ancor io mi ripiglio.
Serpi e cavalli, sino da bimba m’han fatto paura
piú d’ogni cosa. S’allunga il passo? Che folla c’incalza!
Passa una vecchietta.
górgone
Che vieni dalla reggia, mammina?
vecchia
                                                            Sí, figlie.
górgone
                                                                           E c’è modo,
d’entrare?
vecchia
               Col tentare, gli Achei penetrarono in Troia,
belle ragazze! A capo di tutto si viene, provando.
górgone
La vecchiettina ha dato l’oracolo, e via!
prassínoe
                                                                           Tutto sanno,
le donne: sin come Giove condusse in isposa Giunone.
górgone
Guarda che calca, che ressa, Prassínoe, dinanzi alle porte!

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prassínoe
Da strabiliare! Dammi la mano, tu Gorgo. Tu, piglia
quella d’Eutíchide, Eunòe. Stacci accanto, non perderti, bada!
Entriamo tutte insieme. Eunòe, tienti stretta a noialtre.
Ah. poveretta me! Ecco già uno strappo alla veste,
Gorgo mia bella. — Brav’uomo, ti supplico in nome di Giove,
dammi un’occhiata alla veste, cosí possa avere fortuna.
forestiere
Poco posso fare, io. Tuttavia, proverò.
prassínoe
                                                                      Quanta calca!
Spingono come maiali.
forestiere
                                        Fa’ cuor, bella mia, siamo in porto.
prassínoe
Ora, brav’uomo, e sempre t’arrida la buona ventura,
che ci hai cosí protette. — S’è mosso a pietà. Che brav’uomo! —
Ma qui schiacciano Eunòe! — Fa’ forza, balorda! Benone. —
Son tutte dentro — quello sclamò, chiusa ch’ebbe la moglie.

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SCENA TERZA


Interno della reggia.


górgone
Volgiti qui, Prassínöe: prima contempla gli arazzi.
Quanta finezza, che grazia! Non sembrano vesti di Numi?
prassínoe
Atena, quali mai tessitrici han compiuto il lavoro?
quali pittori quelle perfette figure han tracciato?
Stanno davvero, davvero si spiccano in giro alla danza:
vive, non già tessute. Che affare è l’ingegno dell’uomo!
Come fulgente Adone sul talamo argentëo giace,
cui da le guance già già fiorisce la prima pelurie,
Adone, tanto amato, che amato è pur ne l’Acheronte!
altro forestiere
Gazze, smettete o no, quelle chiacchiere senza costrutto?
Con quell’accento di Doria volete seccar l’universo.
prassínoe
Coso, di dove sei? Che ti fa se noi siamo ciarliere?
Cómprati schiavi e comanda. Tu devi sapere che siamo

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siracusane: siamo corinzie d’origine, come
Bellerofonte: si parla la lingua del Peloponneso:
sarà concesso, spero, ai Dori, l’accento di Doria!
Dea tutto miele, nessuno ci possa far mai da padrone,
tranne quell’uno. Te, chi ti sente? Tu chiacchieri al vento.
górgone
Zitta, Prassínoe! La figlia d’Argeia s’appresta a intonare
l’Adone: un’arca ella è di scienza poetica. Prima
anche l’altr’anno fu, nel funebre canto di Sperchi.
Vedi, va in estasi già! Canterà qualche cosa di bello.
la cantatrice
Signora, a cui diletti son Golgo, e l’idalia, e l’eccelsa
Èrice, o tu che godi scherzare fra l’oro, Afrodite,
deh, come Adone a te, trascorsi sei mesi e sei mesi,
l’Ore dai morbidi piedi recâr dal perenne Acheronte!
Tarde fra i Numi tutti son l’Ore soavi; ma pure,
giungono accette sempre, ché recano doni ai mortali.

O Cipri Dïonèa, la fama degli uomini narra
che Berenice tu da mortale rendesti immortale,
poi che stillasti ambrosia sul seno a la donna terrena.
Ora, o dai molti nomi, Signora, dai molti delúbri,
di Berenice la figlia, Arsínöe, ch’Elena uguaglia,
doni offre d’ogni sorte, per esserti cara, ad Adone.

Frutta mature presso gli stan, quante agli alberi in vetta
crescono; e l’erbe molli degli orti, in canestri d’argento,
bene coperte; e aromi di Siria entro ampolle dorate;
e quante leccorníe su la madia impastan le donne,

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corolle d’ogni specie mescendo alla bianca farina,
quanto s’intride col miele, col fluido licor de l’uliva,
quanti animali in aria si librano o rèpono al suolo.

Pergole verdi sopra, cui gravano gli anici molli,
sono intrecciate; e in esse svolazzano Amori fanciulli,
come rosignoletti che volano all’albero in vetta,
di ramo in ramo, prova facendo dell’ala che cresce.

L’ebano vedi e l’oro! Foggiate nel candido avorio,
l’aquile vedi, che recano a Giove il coppiere fanciullo.
Vedi piú molli del sonno tappeti purpurei. Direbbe
Mileto, un uom direbbe che pascoli in Samo le greggi:
«Opera nostra è questo giaciglio ove Adone riposa».
Cipri da un lato, Adone dall’altro sta, braccia di rose.
Dieci anni ed otto o dieci e nove ha lo sposo: non anche
punge il suo bacio: non ha che rose dintorno a le labbra.

E dunque, ora che l’ha, si goda il suo sposo Afrodite.
E noi, dimani all’alba, cadendo la brina, usciremo
e recheremo ai flutti che spuman sul lido, lo sposo,
sciolte le chiome, le vesti lasciando al malleolo cadere,
e con i seni ignudi, quest’inno sonoro diremo:
«Solo tu, dolce Adone, solissimo tu degli eroi,
fra l’Acheronte e la terra, raccontano, alterni la vita.
Non Agamènnone tanto ottenne, né Aiace furente,
non Ettore, il piú degno dei venti figliuoli d’Ecúba,
né Pàtroclo, né Pirro, poiché fu tornato da Troia,
non i Piti, né i Deucalïoni, vissuti ancor prima,
non i Pelòpidi, o, d’Argo supremi signori, i Pelasgi.
Siici propizio, Adone, propizio il nuovo anno ritorna.
Caro giungesti, e caro sarai, quando, Adone, ritorni.

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górgone
Che pozzo di dottrina, Prassínoe mia, quella donna!
Beata che sa tanto, beata che canta sí bene! —
Ma ritorniamo a casa. Dïoclide non ha pranzato:
è tutto aceto, allora: non devi affrontarlo digiuno. —
Salute, Adone caro! Ritorna a chi lieto t’attende.




Nota

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XV

LE SIRACUSANE

Le Siracusane sono il capolavoro di Teocrito, e una delle grandi meraviglie dell’arte. Ventidue secoli sono trascorsi; e, simile all’Alfeo, che manteneva chiare e dolci le sue acque fra l’infinita salsedine del mare, questo idillio conserva intatta la sua freschezza e la sua vivacità: da questo lato, non so proprio quale altra opera d’arte possa rivaleggiare con esso.

Il quadro è qui assai piú ampio che in qualsiasi altro idillio: qui abbiamo il tentativo di far muovere, in una mutevole successione di scene, che ci trasportano da luogo a luogo, non solo i propri personaggi dell’idillio, bensí anche tipi secondari e macchiette, e, nello sfondo, masse e folle alle quali sarebbe angusta perfino la cornice scenica. E abbiamo come tre atti in miniatura, col rispettivo cangiamento di scena: il primo, nell’atrio della casa di Prassínoe; il secondo per la via, tra la folla; il terzo dentro la reggia di Tolomeo.

Crederei di far torto al lettore, indugiando ad analizzare la psicologia di Gorgo e di Prassínoe; e neppure occorre troppa penetrazione critica per concludere che le donnicciòle di Alessandria d’Egitto di tre secoli prima di Cristo somigliavano, come gocce d’acqua a gocce d’acqua, alle donnicciòle d’adesso.

Nella terza parte, c’è mitologia finché se ne vuole; ma qui è a posto, perchè va segnata a carico della poetessa che canta l’inno per Adone. Alla quale, però, nessuno vorrà menar buona quell’ultima filastrocca d’eroi che essa allinea per dimostrare come nessuno di loro fu privilegiato quanto Adone. Per fortuna, con effetto analogo a quello che abbiamo già visto ne «L’amor di Cinisca», dopo la sfuriata mitologica, abbiamo una conclusiva [p. 250 modifica]battuta comica, che rasserena l’aria, e lascia una definitiva impressione di gaiezza e di freschezza.

Del mito d’Adone esistevano parecchie varianti. Secondo la piú comune, il bell’amante di Afrodite, sbranato dal cinghiale feroce, aveva ottenuta da Giove la concessione di restare sei mesi nell’Averno, e sei sulla terra, vicino alla Dea che l’amava. Ma secondo la nostra poetessa, doveva rimanerci molto meno; perché dice che è tornato dopo dodici mesi. Qui son descritte le feste celebrate in suo onore il primo giorno; e leggendone la descrizione in Teocrito, vien fatto di pensare ai «Sepolcri» della nostra Settimana santa. Nel secondo si piangeva la sua nuova partenza.

A proposito di questo idillio, come degli idilli in genere e dei mimi, si solleva dai filologi la quistione se essi fossero o non fossero destinati alla recitazione. Ed è, come tante altre solenni quistioni filologiche, di pura lana caprina. Si capisce che, finché il greco fu lingua viva e non morta, quanti avevano attitudine a recitare, non avranno resistito alla lusinga di dare realizzazione fonica alle composizioni poetiche che la meritavano. Che poi queste recitazioni avvenissero fra amici, o in pubblici ritrovi, o in teatri, è quistione puramente materiale. Il problema artistico ed essenziale, è altro. È se questo idillio o quel mimo siano tali da guadagnare o da perdere efficacia in una lettura a voce alta, in una recitazione: se abbiano o no virtual vita scenica.

Problema, s’intende, che non può avere, in genere, soluzione se non soggettiva; ma che per queste «Siracusane» ne consente una obiettiva; e, chi potrebbe opporsi?, affermativa.

È possibile figurarsi precisamente, o, come direbbero i teòsofi, visualizzare la ipotetica recitazione di un antico mimo?

Non lo credo impossibile; ma non bisogna cercare nel campo della recitazione classica ed ufficiale, dove non si troverebbero gli equivalenti. Bisogna cercare fra i mimi; e nessuno si vorrà scandalizzare, perché parliamo appunto di mimi. Raffaele Vi[p. 251 modifica]viani, il geniale «scugnizzo» napolitano, fra i suoi tanti «numeri» ha anche una «Piedigrotta», nella quale, egli da solo, con le infinite risorse della sua arte, offre una vivacissima immagine del gran baccanale partenopeo, dal generico tumulto della folla, all’abbaiare dei cani, al frastuono dei veicoli, alle mille dispute e risse, al soliloquio dell’ubriaco, alle armonie e alle stonature dei variopinti strumenti, sino alla gran canzone d’amore, che si libera da quel basso confuso volgare schiamazzo, per salire con ali d’angelo sino alle stelle del cielo.

Sulla medesima linea sono queste divine «Siracusane». E il degno artista che le includesse nel suo repertorio, le farebbe certo trionfare dinanzi a qualsiasi pubblico, dimostrando la vera e non sofisticata immortalità dell’arte di Teocrito.