Idilli (Teocrito - Romagnoli)/VII - Le talisie

VII - Le talisie

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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1925)
VII - Le talisie
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VII

LE TALISIE

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PERSONAGGI

Licida
Simicida


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Fu quella volta ch’io con Èucrito, e Aminta era il terzo
della brigata, andavamo dal borgo alla volta d’Alènte:
ché celebravano allora le feste talisie a Demètra
di Lícone i due figli, Frassídamo e Antígene, schiatta,
se ancor ce n’è, di Clizia vetusto e di Càlcone stesso,
che fece, col suo pie’, scaturire la fonte Birína,
forte il ginocchio a la roccia puntando; ed all’acqua vicini
l’ombria fitta d’un bosco tesserono gli olmi ed i pioppi,
tutti chiomati, tutti velati di pallide frondi.
Né s’era ancor percorsa metà de la strada, né ancora
era la tomba apparsa di Bràsila, e un uomo ci apparve.
Lícida il nome; ed era capraro; né chi lo scorgesse
poteva errare: in tutto l’aspetto vedevi il capraro:
ché su le spalle aveva d’irsuto villoso caprone
fulva una pelle, ancora di caglio recente odorosa,
ed una cinghia larga stringeva dintorno ai suoi fianchi
un vecchio manto, e un curvo randello d’ulivo selvaggio
stringeva in pugno; e il labbro s’apriva al sorriso; e con gli occhi
soavemente ridenti, mi disse, e con ilare labbro:

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«A mezzogiorno dove trascini il tuo pie’, Simicída,
quando perfino il ramarro sopito riposa tra i rovi,
quando le, lodolette pur esse sospendono i voli?
Forse a un banchetto vai senza scotto? O alla pigia dell’uva
d’un qualche paesano t’affretti? Ché sotto i calzari,
mentre tu vai, per la strada ti canta la ghiaia che schiacci».
     Ed io risposi: «Tutti lo dicono, o Lícida caro,
che nel sonar la sampogna tu superi tutti i pastori,
i mietitori tutti. Ne gode, e non poco, il mio cuore.
Ma nel cervello mio m’illudo ch’io possa emularti.
Alle Talísie noi siamo diretti: ché nostri compagni
offrono un pranzo alla Diva Demètra dal fulgido peplo,
offrono le primizie: ché adesso, con pingue misura,
la Dea colmava l’aia di grano prescelto. Su via,
poi ch’è per noi comune la strada, comune l’aurora,
leviamo il canto agreste. Profitto trarrà l’un dell’altro.
Ché dalle Muse anch’io m’ebbi fervido labbro; e cantore
tutti mi dicono insigne; né facile a illudermi io sono.
Per Giove, ed io non credo che vincer nel canto potrei
Sicèlida di Samo, l’egregio cantor, né Filèta:
sarei come la rana che la guerra impegnasse coi grilli».
     A bella posta dissi cosí. Dolcemente ridendo,
disse il capraro: «Ed io ti fo dono di questo vincastro:
ché tu sei proprio un ramo di Giove tagliato dal vero.
Fastidio grande ho anch’io di quel murator che s’affanna
a fabbricare una casa che uguagli la vetta d’un monte,
di quegli uccelli poeti che contro il cantore di Chio
levano il loro cuccú, perdendoci tempo e fatica.
Dunque, su’ via, diamo presto principio a l’agreste canzone,
o Simicída; ed io, vedi un po’ questa mia canzonetta
se ti piacesse, o caro, che ieri ho composta sul monte».

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LICIDA

Per Mitilene avrà felice Ageàne la rotta,
sia pur che Noto sotto le occidue stelle del Capro
gli umidi flutti innalzi, sia pur che Orïone sul mare
fermi il suo piè, se vorrà dall’amor che lo cuoce far salvo
Lícida: poi che amore mi brucia rovente per lui.

E placheran le alcïoni il pelago, e l’Austro, e il Levante
che l’alighe sconvolge dal fondo del mar: le alcïoni
che di marina preda si nutrono, e sono dilette
alle azzurrine figlie di Nèreo su tutti gli alati.
Ad Ageàne, che brama toccar Mitilene, ventura
arrida in tutto; e al porto pervenga con prospero corso.

Ed io, quel giorno, un serto di rose, di bianche viole,
d’anèto, ai crini miei recinto, vicino a la fiamma
sdraiato, mescerò dalla bómbola vin di Ptelèa,
mentre qualcuno farà su la brace abbrustire la fava.

Ed alto il mio giaciglio sarà d’un buon cubito, colmo
di pulicaria sarà, d’asfodelo, di sedano crespo.
E dolcemente berrò: d’Ageàne verrà fra le coppe
il sovvenire; e la tazza berrò sino a l’ultima feccia.

E suoneranno il flauto per me due pastori: un d’Acarne,
uno di Lícopi; e Títiro, presso, dirà nel suo canto
come una volta Dafni pastore s’accese di Sènia,
e la montagna con lui soffriva, e piangevan le querce,
quante del fiume Imera verdeggiano presso le sponde,
quando egli si struggeva d’amor, come neve su l’Emo,
su Ròdope, su l’Ato, sui picchi del Caucaso estremo.

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E canterà come un dí, per le trame del tristo padrone,
fu dentro un’arca grande rinchiuso ancor vivo il pastore;
e come l’api sime veniano dal prato a nutrirlo
entro il soave cedro, col succo dei teneri fiori,
perché nettare dolce spargea dal suo labbro la Musa.
Or tu godevi queste dolcezze, felice Comàta:
chiuso cosí ne l’arca tu fosti; e coi favi de l’api
fosti nutrito; e un anno trascorse nel dolce travaglio.
Oh se potessi ai miei dí tuttora contarti fra i vivi!
Io per i monti avrei pasciute le capre leggiadre,
le tue canzoni udendo: tu sotto le quercie ed i pini
soavemente avresti cantato, o divino Comàta.

Ed ei tacque, com’ebbe ciò detto; ed anche io, dopo lui,
presi a dire cosí: «Caro Lícida, molti altri canti
m’hanno insegnato le Ninfe, mentre io pascolavo sui monti,
e belli, cui la fama recò sino al trono di Giove;
ma questo è assai piú bello d’ogni altro, col quale, a onorarti,
comincerò, perché sei diletto a le Muse; e tu m’odi».

SIMICIDA

A Simicída gli Amori starnuti largiron; ché quanto
aman la primavera le capre, tanto egli ama Mirta.
La brama ha d’un fanciullo nel cuore: lo sa bene Aristi,
l’uomo eccellente, egregio cosí, che d’udirlo cantare
non si ricuserebbe vicino ai suoi tripodi Febo,
come ad Arato Tossa consumi l’ardor d’un fanciullo.

O Pan, tu che proteggi l’amabile pian di Malèa,
fra le bramose braccia spontanëo tu lo sospingi,

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sia pur Filíno, sia chi altri si voglia il fanciullo.
Ché, se fai questo, o Pane mio caro, giammai non avvenga
che con le squille a sferzare ti vengan d’Arcadia i ragazzi
omeri e fianchi, allorché di carne ne piglin pochina.
Ma se dicessi di no, punzecchiato per tutte le membra
debba grattarti con l’unghie, dormir debba sopra le ortiche,
a mezzo il verno possa trovarti sui monti d’Edóne,
accanto all’Ebro, il fiume che all’Orsa vicino fluisce,
e ne l’estrema Etiopia l’estate trascorrere, sotto
l’alpe dei Blemi, donde non è piú visibile il Nilo.

E voi, lasciati i rivi d’Ièti soavi e di Bibli,
e la dimora eccelsa dell’aurea Dïona, l’Ecúnte,
a rubiconde mele voi simili, o Amori, colpite
con le saette vostre, colpite il vezzoso Filíno,
perché non ha pietà, scellerato, de l’ospite mio:
ch’egli maturo è piú d’una pera; e le femmine tutte:
«Ahimè — dicono — il tuo bel fiore, Filíno, appassisce!»

Su la sua soglia, Arato, piú mai non staremo a vegliare,
piú non consumeremo le scarpe; ed il gallo, al mattino
col suo chicchirichí chiami un altro al molesto sopore.
Molone solo, o caro, si metta al cimento, e ci crepi;
e noi goder si possa la pace; e una vecchia ci assista
che da noi lunge sperda, sputando, ogni mala fattura.

     Cosí dissi. E il bastone da lepri ei m’offerse, ridendo,
come già pria, dolcemente, presente ospital de le Muse.
E quindi, egli a sinistra torcendo, batteva la strada
che mena a Pissa; ed io, di Frassídamo verso la villa,
con Èucrito mi mossi, e Amíntico il bello. E, qui giunti,
sovra profondi letti giacemmo di morbidi giunchi,
godemmo sopra tralci di vite di fresco recisi.

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E tanti e tanti a noi sul capo agitavan le foglie
pioppi ed ontani, a noi vicino, la sacra fontana
dall’antro delle Ninfe cadeva con garrule stille.
E le cicale bruciate dal sole, fra l’ombre dei rami,
senza riposo mai, friníano: strideva lontano
la raganella, fra intrichi spinosi di rovi: cardelli
e lodolette cantavan, gemeva la tortora, fulve
presso a le fonti sorgive volavano in giro le pecchie.
Tutto d’Estate opulento fragrava, fragrava d’Autunno.
Pere dinanzi ai piedi, da un lato e da l’altro, in gran copia
ci ruzzolavano mele, piegavano giú sino a terra,
tutte gravate di frutti, le rame del prugno selvaggio.
Poi da la bocca d’un tin di quattro anni fu tolta la cera.
Ninfe Castalie, che avete dimora sul sommo Parnaso,
forse che un vino tale ne l’antro roccioso di Folo
entro il cratere stillò per Ercole il vecchio Chirone?
E quel pastore che visse su l’Ànapo un dí, Polifemo,
quel forte che le navi colpía con le creste dei monti,
a sgambettar ne le stalle fu indotto da un nèttare tale
quale era quello che, Ninfe, ci deste da bere quel giorno
presso a l’altar di Demètra, dell’aia signora? Oh!, nel mucchio
piantare anche una volta possa io la gran pala; e sorrida,
colma le mani entrambe, la Dea, di papaveri e spiche.




Nota

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VII

LE TALISIE

Questo idillio è a chiave. Simicída è Teocrito. Licida potrebbe essere Leonida di Taranto. La scena si svolge nell’isola di Coo; e l’erudizione ha identificati uno per uno tutti i luoghi ricordati da Teocrito: chi apra la bella edizione di Cholmeley, troverà, a pagina 237, una piccola carta che potrà orientarlo perfettamente.

E l’idillio sarebbe il ricordo, poeticamente trasformato, d’una scampagnata di Teocrito e dei suoi amici, nel podere del ricco Frassidamo, per partecipare alle «Talisie», feste che si celebravano in onore di Dèmetra, dopo la trebbiatura del grano.

Le «Talisie» sono comunemente chiamate «la regina degli Idilli». E se la regalità si dovesse misurar dalla lunghezza, non potrebbe sussistere dubbio. Le «Talisie» contano 157 versi, e soltanto 58 i «Mietitori», che sono un puro capolavoro.

Intendiamoci. È certo che il paesaggio dell’ultima parte (131-146) trova ben pochi riscontri in tutta la poesia teocritea: l’ammirazione del Sainte-Beuve è qui tutt’altro che iperbolica, e il nome di Rubens, che egli ricorda, e che ricorre spontaneo al pensiero di tutti, non sembra davvero pronunciato invano. Il mito di Dafni chiuso nell’arca dal tristo padrone, e nutricato dalle api, è di squisitezza ineffabile, e disegnato con tratti oltremodo felici. Ed anche nella prima parte sono graziosissimi i tocchi agresti (la selva di pioppi e di olmi che tesse la sua ombra sopra l’acque della fonte Birina, il ramarro sopito, la lodoletta anch’essa ammutolita nel cielo, il bel sorriso di Licida). E l’immagine della Dea Dèmetra, alta, con le mani colme di papaveri e spiche, conclude stupendamente l’idillio, e torna a far circolare in esso l’aura di poesia, smarrita nelle ultime divagazioni mitologiche. [p. 241 modifica]Ma, nel complesso, la cornice è pesante, e deturpata qua e là da macchie alessandrine: tali la storia della fonte Birina, la frecciata contro i poeti denigratori d’Omero, la inopportuna rievocazione di Folo e di Polifemo.

E i due canti amebei di Lícida e di Simicída, oltre, anche essi, a qualche alessandrinismo, hanno il difetto della poca perspicuità.

Non tanto quello di Lícida. È un canto per la partenza del ragazzo Ageàne, che si reca a Mitilene: un propemptikòn, simile a quello che Orazio scrisse per Virgilio. Quando saprà che il caro bardassa sia felicemente arrivato, il poeta si piglierà una sbornia in suo onore.

Simicída, invece, dopo averci fatto sapere che egli è fortunato in amore, ricorda la felicità di Arato, il poeta prediletto di Teocrito. E soggiunge che quanto soffra Arato per il bel Filino, lo potrebbe dire Aristi. E chi sia questo Aristi, non lo potremmo dire con precisione; ma probabilmente, come opina il Meineke, un poeta che aveva cantati gli amori di Arato. E scongiura Priapo e gli Amorini, perché inteneriscano il cuore del soave bertone: al quale ricorda poi che i begli anni passano presto, e che bisogna coglier la rosa mentre è ancora fiorente. Questi poeti attribuivano una grande importanza ai loro amorazzi, e ai loro zànzeri; e, come se tutti dovessero conoscerli e interessarsene, ne parlano per allusioni ed accenni, che confondono ed intrecciano come ghirlande di fiori puzzolenti. Che cosa ne pensassero i lettori d’allora, non saprei: quelli d’oggi, probabilmente, troveranno che è inutile scervellarsi a intendere per filo e per segno le delusioni e le speranze erotiche del signor Lícida e del signor Arato.

La pittura che Lícida fa della vagheggiata sbornia in onore del ragazzo Ageane, prova, anche una volta, l’affetto di Teocrito per Aristofane. È facile sentire quanto fedelmente essa [p. 242 modifica]riecheggi le parole dei contadini nella seconda paràbasi de La pace.

Dal verso 4 a pag. 59 rileviamo che chi sacrificava a Pane lasciava una parte della carne ai ragazzi. E quando era pochina, questi se la rifacevano con l’effigie del Nume. Il Molone di cui si parla a pag. 59, v. 21, era un rivale amoroso di Arato.