Idilli (Teocrito - Romagnoli)/XIII - Ila

XIII - Ila

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Teocrito - Idilli (III secolo a.C.)
Traduzione dal greco di Ettore Romagnoli (1925)
XIII - Ila
XII - Il rubacuori XIV - L’innamorato di Cinisca
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XII

ILA

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Quel Dio, qualunque sia, che diede la luce ad Amore,
non generò sol per noi, come noi reputiam, tanto figlio.
Le cose belle, belle non sembrano solo a noialtri,
che nati a morte siamo, che nulla sappiam del dimani.

D’Anfitrïone il figlio dal cuore di bronzo, che l’urto
sostenne del lione selvaggio, invaghí d’un fanciullo,
d’Ila, di grazia pieno, dai riccioli crini ondeggianti.
E in tutte l’arti, ond’egli fu celebre e degno di canto,
l’ammaestrava, come fa padre col figlio diletto.
Né lungi mai gli stava, né quando era il sole al meriggio,
né quando Aurora al cielo spingeva i suoi bianchi puledri,
né quando guardano a sera loquaci i pulcini al pollaio,
e l’ali sbatte la chioccia sul fuligginoso piòlo,
perché crescer dovesse quale ei lo bramava il fanciullo,
perché crescesse un uomo davvero, seguendo i suoi passi.

Or, quando navigò Giasone figliuolo d’Esóne,
pel vello d’oro, e insieme con lui mosser tutti gli eroi,
da tutte le città prescelti, piú adatti all’impresa,

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anche quell’uomo, ad ogni travaglio temprato, anche il figlio
dell’eroina Alcmena, che nacque in Midèa, mosse a Colco,
ed Ila seco d’Argo salí sopra i solidi banchi;
d’Argo, che non provò delle azzurre Simplègadi l’urto,
ma verso il Fasi profondo, come aquila varca un abisso,
tra l’una e l’altra volò: da quel dí, stanno immote le rupi.

Nella stagione che sorgon le Plèiadi in cielo, e i pianori
nutrono i nuovi agnelli, ché già Primavera declina,
alla marina gesta s’accinse quel fiore d’eroi
divino, e tutti d’Argo salirò entro i concavi fianchi.
Dopo tre giorni, ché Noto spirava, toccâr l’Ellesponto,
gittâr l’ancora nella Propòntide, dove ai Cïàni
aprono i bovi, all’aratro costretti, i gran solchi diritti.
E su la spiaggia scesi, la cena apprestarono a coppie,
ch’era la sera; e per molti distesero a terra un sol letto.
E si stendeva il prato acconcio a fornire giacigli,
d’onde l’acuta sala tagliarono e i cíperi lunghi.

Ed Ila chioma bionda, pigliata una brocca di rame,
l’acqua a cercare andò per la cena, per sé, per Alcíde,
per Telamóne gagliardo: ch’entrambi al medesimo desco
sempre solevan pranzare. Ed ecco, in un balzo declive
presto una fonte scoprí. Capelveneri pallidi attorno
cresceano, fitti giunchi cresceano, con apio fiorito,
con celidonie azzurre; serpevano al suolo gramigne.
E in mezzo all’acque, danze le Ninfe intrecciavan, le Ninfe
dal ciglio sempre insonne, terribili Dive ai pastori:
Màlide, Euníca e Nicèa, che avea primavera negli occhi.
Dunque, il fanciullo sporse nell’acqua la brocca capace,
per affondarla; e quelle ghermirono tutta la mano,
ché a tutte aveva Amore la tenera mente sconvolta
pel giovinetto d’Argo. Piombò giú nei vortici negri,

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rapido come un astro di fuoco che piomba dal cielo
velocemente nel mare, e dice un nocchiere ai compagni:
«Ragazzi, su le vele, ché spira la brezza propizia».
Ora, le Ninfe, vedendo sui loro ginocchi il fanciullo,
il pianto del suo ciglio molcían con parole soavi.
E d’Anfitríone il figlio, sconvolto pel caro fanciullo,
mosse, stringendo l’arco di foggia Meonia, sicuro,
e l’arma che la destra rempievagli sempre, la clava.
Ila chiamò, per quanto poteva il suo rugghio, tre volte;
tre rispose il fanciullo; ma fievole emerse la voce
dall’ime acque; e pur tanto vicina, sembrava remota.

Come allorché tra gioghi di monti un chiomato leone
vede un cerbiatto che leva bramíti: la fiera vorace
dal suo giaciglio verso la mensa imbandita s’affretta:
tale fra quegli inaccessi dumeti girava l’Alcíde,
gran tratto percorreva del suolo, cercando il fanciullo.

Oh, sventurati gli amanti! Errando per monti e per selve,
quanto ei patí! Ché oramai, di Giason gl’importava assai poco.

Pronta la nave era intanto, con tutti gli attrezzi, a salpare;
e a mezzanotte, infine, calaron le vele gli eroi,
per aspettare Alcíde. Ma quegli, ove andavano i piedi,
pazzo correva: ché fiero mordeva il suo fegato un Nume.
Aspre rampogne ad Alcíde, che avesse lasciata la nave,
Argo dai trenta banchi scordata, lanciavan gli eroi;
ed egli, a piedi a Colco poi giunse, e all’inospite Fasi.



Nota

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XIII

ILA

Anche questo è tra gli idilli piú vaghi. Le sue immagini, fini e gentili, hanno un rilievo straordinario, per cui si vede proprio la poesia rivaleggiare in evidenza con la pittura. E sono, pel nostro sentimento, d’una straordinaria modernità. Non già perché ricordino opere dell’arte moderna ad esse piú o meno evidentemente ispirate; ma perché, ad onta della loro determinatezza, presentano tutte un che di vago e di sfumato, un carattere di magia e di mistero assai piú comune nella poesia moderna che nell’antica.

E sarebbe, dal lato artistico, immacolato, se Teocrito non avesse anche qui bruciato il suo granellino d’incenso alla idiozia alessandrina. E, precisamente, nella immagine della chioccia e dei pulcini che tornano la sera al pollaio. In sé è graziosa; ma in questo contesto risulta appropriata come un asinello in una sinfonia di luce di Turner.

Il mito degli Argonauti, a cui appartiene questo episodio, è di cognizione comune. Il particolare delle Simplègadi, le due rocce poste all’entrata del Mar Nero, che, quando una nave tentava di passare per il mezzo, si avvicinavano l’una all’altra, e la schiacciavano, aveva già tentata la fantasia di Pindaro, che aveva cosí cantato il prodigio:

E al grave periglio anelando,
pregarono il Dio delle navi,
che delle rupi cozzanti
fuggire potessero
l’urto terribile. Due
quelle erano; e vive; e sui flutti

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rapide piú rotolavano
che il volo e il frastuono dei venti.


Non indegno riscontro a questa pittura grandiosa fa l’immagine teocritea, anch’essa di pretto sapor pindarico, della nave che si lancia fra l’una e l’altra rupe, come aquila che varca un abisso.

Anche questo idillio è dedicato al medico Nicia. Il piú illustre dei filologi contemporanei, fra la commossa ammirazione dei meno illustri, ha creduto di poterne intuire il seguente dramma psicologico. Nicia aveva preso moglie, tradendo cosí la sacra bandiera di questi poeti sporcaccioni; e Teocrito, rievocando al suo sentimento il glorioso amore di Ercole per il fanciullo Ila, tenterebbe di richiamarlo ai vecchi amori, ai sacri principii.

Non dico che non possa essere. Dico che ai nostri giorni spettava il merito insigne di riabilitare l’alessandrinismo, mostrando come non riesca impossibile superarlo in piacevolezza.