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246 | TEOCRITO |
XII
IL RUBACUORI
È scritto per un egregio bertone. Era stato tre giorni lontano dal suo paese: adesso è tornato, e il poeta che l’ama — forse lo stesso Teocrito — gli racconta, in versi molto musicali, le pene d’amore sofferte per la sua lontananza.
E non mancano in questo idillio immagini fresche e gentili. Ma, a parte il soggetto, che è per noi fra ridicolo e repugnante, ci sono un paio di alessandrinaggini da disgradarne quelle di Callimaco.
Prima, il ricordo della «Festa del bacio». Si celebrava in onore di un certo Dioclèo, morto in battaglia, per salvare il suo ganzo. Vi concorrevano i piú bei ragazzi; e, giudici i piú distinti specialisti, vinceva chi sapesse piú voluttuosamente sbaciucchiarli. Roba che adesso, ripeto, fa piú ridere che schifo; ma Teocrito, serio serio, invidia la sorte di quei giudici sporcaccioni.
Seconda, e piú marchiana, una gemma d’erudizione linguistica, anzi, piú precisamente, dialettologica. Dunque, gli abitanti d’Amicla chiamavano «íspnilos» (che io traduco, alla meglio, sospirante) l’amante, e i Tessali «aítes» (che io rendo con rubacuori) l’oggetto della loro fiamma. Teocrito conosceva questi ghiotti particolari; e non si lasciò sfuggir l’occasione d’ingemmarne la sua poesia.
Inutile ricordare le dottissime aberrazioni di chi ha voluto, ai nostri giorni, sostenere una interpretazione umoristica, ironica. Purtroppo, o parli per sé o parli per altri, Teocrito dice proprio sul serio.