I due gemelli veneziani/Atto III

Atto III

../Atto II ../Nota storica IncludiIntestazione 10 aprile 2020 100% Da definire

Atto II Nota storica

[p. 147 modifica]

ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Strada.

Pancrazio e Tiburzio orefice.

Pancrazio. Appunto di voi andava in traccia, signor Tiburzio dabbene, e se qui non vi trovavo, venivo alla vostra bottega.

Tiburzio. Oh, signor Pancrazio, ella è mio padrone; mi comandi; in che posso servirla?

Pancrazio. Vi dirò: ho certe gioje da vendere, ch’erano di una buona vedova, la quale me le lasciò per maritar alcune fanciulle; vorrei che colla vostra sincerità mi diceste il loro valore.

Tiburzio. Volentieri, son pronto a servirvi. Le avete con voi?

Pancrazio. Eccole. Osservatele bene. (tira fuori il bauletto e l’apre) [p. 148 modifica]

SCENA II.

I Bargello coi birri, osservando le gioje da lontano.

Tiburzio. Signor Pancrazio, queste gioje sono di valore, non si possono stimar così su due piedi. Venite a bottega e vi servirò.

Pancrazio. Dite bene, verrò: ma sono alquanto sporche, avreste intanto qualche segreto per ripulirle?

Tiburzio. Io veramente ne ho uno singolarissimo: ma non soglio affidarlo a chicchessia, perchè è un potentissimo veleno.

Pancrazio. A me però potreste usar qualche distinzione: non potete dubitar ch’io ne abusi. Sapete chi sono...

Tiburzio. So che siete un uomo onesto e da bene, e perciò vi voglio servire, giacchè per buona fortuna me ne trovo avere indosso un picciolo scatolino. Eccolo, prendete, servitevene, e le vedrete riuscir terse e risplendentissime. In caso poi voleste privarvene, avrò forse l’incontro di farvele esitar con vantaggio.

Pancrazio. Non lascerò di valermi di voi. Intanto vi sono molto obbligato. Attendetemi domani.

Tiburzio. Siete sempre padrone. (parte)

SCENA III.

Pancrazio, Bargello e birri in disparte.

Pancrazio. (Veramente son belle queste gioje: ma la legatura è antica e i diamanti sono tanto sporchi che non compariscono. Con questa polvere risalteranno assai più). (da sè)

Bargello. (Quel bauletto di gioje è appunto quello che ha indicato Arlecchino). (osservando in disparte)

Pancrazio. (Spererei con questo bel regalo di guadagnarmi la grazia della mia cara Rosaura). (da sè)

Bargello. Alto, signore, con sua licenza.

Pancrazio. Che c’è? Cosa volete?

Bargello. Favorisca quelle gioje.

Pancrazio. Per qual ragione? [p. 149 modifica]

Bargello. Perchè sono rubate.

Pancrazio. Come? Io sono un galantuomo.

Bargello. Da chi le ha avute Vossignoria?

Pancrazio. Dal signor Zanetto Bisognosi.

Bargello. Il signor Zanetto Bisognosi dice che gli sono state rubate; onde ella che le tiene, è in sospetto di tale furto.

Pancrazio. Un uomo della mia sorte? Della mia esemplarità?

Bargello. Basta, si contenti che la lascio in libertà. Porto le gioje a Palazzo, e se Vossignoria è innocente, vada a giustificarsi.

Pancrazio. Io per la Curia? Io per i Tribunali? Son conosciuto, sono un uomo d’onore.

SCENA IV.

Zanetto e detti.

Pancrazio. Oh, ecco appunto il signor Zanetto. Dica egli come ho avute codeste gioje.

Zanetto. Zogie? Le mie zogie?

Bargello. Signor Zanetto, conosce queste gioje?

Zanetto. Sior sì, queste xe le zogie che m’ha lassa mio sior barba. Le cognosso, le xe mie.

Pancrazio. Sentite? Le conosce. Erano del suo signor zio, erano sue. (al bargello)

Bargello. Ed ella le ha date al signor Pancrazio? (a Zanetto)

Pancrazio. Signor sì, signor sì, egli me le ha date. Non è vero?

Zanetto. Mi no so gnente, mi no v’ho dà gnente.

Pancrazio. Come non mi avete dato nulla? Mi maraviglio di voi.

Zanetto. E mi me maraveggio de vu. Questa xe roba mia.

Pancrazio. Oh cielo! Volete farmi perdere la riputazione?

Zanetto. Perde quel che volè, no ghe penso gnente. Quel zovene, deme la mia roba. (al bargello)

Pancrazio. Poter del mondo! In casa del signor Dottore, in camera della signora Rosaura voi me l’avete date e ne sapete il perchè. [p. 150 modifica]

Zanetto. Sè un busiaro, che no contè altro che fandonie. M’ave anca dito che le donne gh’ha i occhi de fogo, e no xe vero gnente.

Pancrazio. Signor bargello, costui è un pazzo. Datemi quelle gioje.

Bargello. O pazzo, o savio, le gioje le porteremo dal giudice, e toccherà a Vossignoria a far conoscere chi glie l’abbia date. Andate, scarcerate Arlecchino e conducetelo dal giudice ben custodito. (ai birri, e parte)

Pancrazio. Troverò testimoni. Ora, subito, il signor Dottore, Brighella, la signora Rosaura, Colombina: tutta, tutta la casa del Dottore... ora... subito... vado... aspettatemi... vengo... la mia riputazione, la mia riputazione, la mia riputazione, (parte)

SCENA V.

Zanetto e il Bargello.

Zanetto. Mo via, deme le mie zogie. No me fe desperar.

Bargello. Andiamo dal giudice, e se egli dirà che gliele dia, gliele darò.

Zanetto. Cossa ghe intra el giudice in te la mia roba?

Bargello. Senza di lui non gliele posso dare.

Zanetto. E se lu no volesse che me le dessi?

Bargello. Non gliele darei.

Zanetto. Mo cossa ghe ne faressi?

Bargello. Quello che il giudice comandasse.

Zanetto. Donca le posso perder?

Bargello. Sicuramente, senza dubbio.

Zanetto. Gera meggio lassarle a quel vecchio, che almanco a robarle l’ha fatto qualche fadiga.

Bargello. Ha timore che il giudice gliele rubi?

Zanetto. Le xe mie e per causa soa le posso perder. Dal robarle a no darle a chi le toccaa, ghe fazzo poca defferenza.

Bargello. Faccia così, si provveda d’un avvocato. [p. 151 modifica]

Zanetto. Da che far de un avvocato?

Bargello. Acciò faccia constare al giudice che queste gioje sono sue.

Zanetto. E ghe xe bisogno d’un avvocato? Chi lo sa meggio de mi, che quelle zogie xe mie?

Bargello. Sì, ma a lei non sarà creduto.

Zanetto. A mi no e all’avvocato sì? Donca se crede più alla busia che alla verità?

Bargello. Non è così: ma gli avvocati hanno la maniera per dir le ragioni dei1 clienti.

Zanetto. Ma se paghelo l’avvocato?

Bargello. Sicuramente, gli si dà la sua paga.

Zanetto. E al giudice?

Bargello. Anche a lui tocca la sua sportula.

Zanetto. E a vu ve vien gnente?

Bargello. E come! Ho da esser pagato io e tutti i miei uomini.

Zanetto. Sicchè donca tra el giudice, l’avvocato, el baresello e i zaffib, schiavo siore zogie.

Bargello. Ma non si può far a meno. Ognuno deve avere il suo.

Zanetto. Vualtri ave d’aver el vostro e mi no ho d’aver gnente? Bona! bella! me piase. Torno alle mie montagne. Là no ghe xe ne giudici, nè avvocati, nè sbiri. Quel che xe mio, xe mio, e no se usa a scortegar, col pretesto de voler far servizio. Compare caro, no so cossa dir. Spartì quelle zogie tra de vualtri, e se avanza qualcossa per mi, sappiemelo dir, che ve ringrazierò della caritae. Vegnì, ladri, vegnì, robeme anca la camisa, che no parlo mai più. Alla piegorac tanto ghe fa che la magna el lovod, quanto che la scana el bechere. A mi tanto me fa esser despoggià dai ladri, quanto da vualtri siori. Sioria vostra. (parte)

Bargello. Costui mi pare un pazzo. Egli mi ha un po’ toccato [p. 152 modifica] sul vivo; ma non importa. Noi altri birri abbiamo buono stomaco e sappiamo digerire i rimproveri, come lo struzzo digerisce il ferro. (parte)

SCENA VI.

Tonino solo.

Vardè quando che i dise dell’amicizia del dì d’ancuo2. Florindo xe sta a Venezia; l’ho trattà come un proprio fradello. Me fido de lu, ghe mando una donna che tanto me preme, e lu me tradisse! Mi no so con che stomego un amigo possa ingannar l’altro amigo. Me par a mi, che se fusse capace de tanta iniquità, gh’averia paura che la terra s’averzisse per ingiottirme. L’amicizia xe la più sagra leze3 del mondo. Leze che provien dalla natura medesima, leze che regola tutto el mondo, leze che distrutta e annichilada, butta sottosora ogni cossa. L’amor delle donne el xe fonda sulla passion del senso inferior. L’amor della roba el xe fonda sul vizio della natura corrotta. L’amor dell’amicizia xe fonda sulla vera virtù; e pur el mondo ghe ne fa cussì poco conto. Pilade4 e Oreste no serve più d’esempio ai amici moderni. El fido Acate xe un nome ridicolo al dì d’ancuo. Se adora l’idolo dell’interesse; in liogo de amici se trova una manizadaf de adulatori, che ve segonda fina che i gh’ha speranza de recavarne profitto; ma se la sorte ve rebaltag, i ve lassa, i ve abbandona, i ve deride e i paga d’ingratitudine i benefizi che gh’ave fatto; come dise benissimo missier Ovidio:

Tempore felici, multi numerantur amici:
Si fortuna perit, nullus amicus erit.

[p. 153 modifica]

SCENA VII.

Lelio e detti.

Lelio. (Ecco qui il mio fortunato rivale. Voglio vedere se colla dolcezza del mio pregare posso vincer l’amarezza del suo negare). (da sè)

Tonino. (Basta, colù me la pagherà). (da sè)

Lelio. M’inchino all’elevato, anzi altissimo invidiabil merito del più celebre eroe dell’Adriatico cielo.

Tonino. Servitor strepitosissimo della sua altitonante grandezza.

Lelio. Perdoni, se colla noiosa articolazione de’ miei accenti ardisco offendere il timpano de’ suoi orecchi.

Tonino. Regurgiti pure la tromba de’ suoi eloqui, che io lasserò toccarmi non solo el timpano, ma ancora el tamburo.

Lelio. Sappia ch’io sono delirante.

Tonino. Me ne son accorto alla prima.

Lelio. Amore cogli avvelenati suoi strali ferì l’impenetrabil mio core.

Tonino. Sarave poco ch’el v’avesse ferio el cuor: l’è che el v’ha ferio anca el cervello.

Lelio. Ah, signor Zanetto, voi che siete della famiglia de’ Bisognosi, soccorrete chi ha bisogno di voi.

Tonino. La gh’ha bisogno de mi? Mo per cossa?

Lelio. Perchè ardo d’amore.

Tonino. E mi l’ho da consolar?

Lelio. Voi solo avete da risanar la mia piaga.

Tonino. Aseo! de che paese xela, patron?

Lelio. Sono del paese degli sventurati, nato sotto il cielo de’ miseri ed allevato nel centro de’ disperati.

Tonino. E el morirà all’ospeal dei matti.

Lelio. Troncherò il filo del laberintico mio discorso colle forbici della brevità. Amo Beatrice, la desidero, la sospiro; so che da voi dipende, la chiedo in dono alla vostra più che massima, più che esemplarissima generosa pietà.

Tonino. Anca mi col cortelo della schiettezza taggierò el groppo della resposta. Beatrice xe mia, e cederò a tutti i tesori del [p. 154 modifica] Gange, prima de ceder le belle5 bellezze della mia bella. (Siestu maledio, che el me fa deventar matto anca mi). (da sè)

Lelio. Voi mi uccidete.

Tonino. Vi sarà un pazzo di meno.

Lelio. Ah ingrato!

Tonino. Ah scortese!

Lelio. Ah tiranno!

Tonino. Ah matto maledetto!

Lelio. Ma se il mio amore in furia si converte, tremerete al mio furore.

Tonino. Sarò qual impenetrabile scoglio agl’infocati dardi della vostra furibonda bestialità.

Lelio. Vado...

Tonino. Andè.

Lelio. Vado...

Tonino. Mo andè.

Lelio. Vado, crudele...

Tonino. Mo andè, che ve mando.

Lelio. Vado, sì, vado a meditar vendette, pria che il sole nasconda in mare i rai. (parte)

SCENA VIII.

Tonino, poi Pancrazio e Brighella.

Tonino. Chi nasse matto, no varisseh mai. Oh che bestia! oh che bestia! Se pol sentir de pezo? Se el stava troppo, el me fava deventar matto anca mi. Veramente a sto mondo tutti gh’avemo el nostro rametto, e chi crede d’esser savio, xe più matto dei altri. Ma costù l’è matto coi fiocchi.

Pancrazio. Andiamo, andiamo dal giudice. Voi sarete testimonio della mia innocenza. (a Brighella) [p. 155 modifica]

Brighella. Ecco qua el signor Zanetto.

Pancrazio. Come! potete voi negare d’avermi date quelle gioje colle vostre mani? (a Tonino)

Tonino. Sior sì, xe vero: ve le ho dae mi.

Pancrazio. Sentite? Lo confessa. Ditelo al signor giudice.

Tonino. Cossa gh’entra el signor giudice?

Pancrazio. Bella cosa che avete fatto! Mettere a repentaglio la mia riputazione.

Tonino. (Stè a veder, che s’ha trovà el patron delle zogie). (da sè) Credeveli fursi che le avessi sgranfignae6)? (a Pancrazio)

Pancrazio. Pur troppo lo credevano. E voi ne foste la cagione.

Tonino. Caro sior, mi ho fatto a fin de ben.

Pancrazio. O a fin di bene, o a fin di male, voi mi avete precipitato.

SCENA IX.

Arlecchino e detti.

Arlecchino. Manco mal che son vegnù fora de caponera7.

Tonino. Ecco qua quello che m’ha dà le zogie.

Arlecchino. Chi ve l’ha dae le zogie?

Tonino. Vu me l’ave dae.

Arlecchino. E anca i bezzi?

Tonino. E anca i bezzi.

Arlecchino. E pò disevi che no giera vero? Gh’ave un mustazzo, che negheressi un pasto a un osto.

Tonino. Me maraveggio. No son capace de negar gnente a nissun. Per forza m’ave dà quelle zogie e sti bezzi. Per forza i ho tolti8. Son galantomo, no gh’ho bisogno de nissun, e se gh’avesse bisogno, moriria più tosto dalla necessità, che far un’azion [p. 156 modifica] cattiva. Le zogie no le gh’ho più. Intendo che le xe dal sior giudice: recuperèle e feghene quel che volè. Sti bezzi no i xe mii, no li voggio. Qua me li ave dai, qua ve li restituisso. Un omo civil stima più la reputazion de tutti i bezzi del mondo. I bezzi i va e i vien. L’onor, perso una volta, nol se acquista mai più. Tiolè la vostra borsa: ve la butto in terra, per mostrarve con quanto disprezzo tratto l’oro e l’arzento che no xe mio; anzi vorave che in quella borsa ghe fusse tutto l’oro del mondo, per farve veder che no lo stimo, che no lo curo, e che più de tutti i tesori stimo l’onor de casa Bisognosi, la fama dei cortesani, la reputazion della patria, per la qual saverave morir, come Curzio e Caton xe morti per la so Roma. (parte)

SCENA X.

Pancrazio, Brighella ed Arlecchino.

Arlecchino. L’è matto. (cantando)

Brighella. Per dir che l’è matto solenne, basta dir che el butta via la so roba. Voi seguitarlo per curiosità. (parte)

Pancrazio. Questa borsa la raccoglierò io e la custodirò fino a tanto che Zanetto con qualche lucido intervallo ne disponga a dovere. Amico, venite meco dal giudice, e procuriamo di ricuperare le gioje.

Arlecchino. Savi cossa che v’ho da dir? Che voggio tornar alle vallade de Bergamo.

Pancrazio. Perchè?

Arlecchino. Perchè l’aria della città fa deventar matti. (parte)

Pancrazio. Per tutto il mondo spira un’aria consimile. La pazzia si è resa universale: chi è pazzo per vanità, chi per ignoranza, chi per orgoglio, chi per avarizia. Io lo sono per amore, e dubito che la mia sia una pazzia molto maggiore d’ogn altra. (parte) [p. 157 modifica]

SCENA XI.

Zanetto, poi Rosaura alla finestra della sua casa.

Zanetto. Sto amor, sto amor el xe una gran cossa. Subito che ho visto siora Rosaura, m’ho sentio a rostir co fa una brisiolai. No posso star se no la vedo, se no ghe parlo. Voggio andarla a trovar, e veder se podemo concluder sto matrimonio. (batte all’uscio di casa)

Rosaura. Signor Zanetto, la riverisco. (venendo alla finestra)

Zanetto. Oh, patrona bella. Vorla che vegna su9?

Rosaura. No, signore, mio padre non vuole.

Zanetto. Mo perchè?

Rosaura. Acciò lei non dica ch’egli mi fa il mezzano.

Zanetto. Come vorla che diga sto sproposito? No avemio da esser mario e mugier?

Rosaura. Almeno mio padre mi ha fatta veder la scrittura.

Zanetto. Giusto, la scrittura che ho fatto mi.

Rosaura. L’avete fatta voi e poi mi avete detto che non vi era trattato di matrimonio?

Zanetto. Mi no diseva de matrimonio. Diseva che fessimo subito quel che gh’avevimo da far.

Rosaura. Io non vi so intender. Ora mi sembrate troppo sciocco, ora troppo accorto.

Zanetto. E via, la lassa che vegna su. Cossa vorla? che me storza el collo?

Rosaura. Eh, di sopra poi non si viene.

Zanetto. Donca la vegna zo ella.

Rosaura. Peggio. Farei una cosa bella a venir sopra la strada!

Zanetto. La vuol donca che muora?

Rosaura. Poverino! Certamente che la passione vi farebbe morire.

Zanetto. No la crede? Lontan da ella, son10 come el pesce fuora [p. 158 modifica] dell’acqua. Smanio, deliro per vegnirme11 a buttar in san: se no la me agiuta, se no la me dà una man, darò un crepoj davanti ai so occhi: cascherò sbasìok su sta porta, per lassarme cusinar12 in tel fogo della so crudeltae.

Rosaura. Che spiritosi concetti! Fatemi sentir qualch’altra bella cosa.

Zanetto. Cossa vorla sentir, a star ella là suso e mi qua? Se la vol sentir qualcossa de bello, o la vegna zoso, o la lassa che vegna suso, che me impegno de farme onor.

Rosaura. Ma non potete farvi onore anche in qualche distanza?

Zanetto. Oh, la me perdona. Mi lontan no so far gnente.

Rosaura. Ma che fareste se foste vicino?

Zanetto. Farave... farave... a dirlo me vergogno. Se la se contenta, gh’el canterò in t’una canzonetta.

Rosaura. L’ascolterò molto volentieri.

Zanetto. Se mi ve fusse arente, (canta)

     Mio caro bel visin,
     Voria da quel bochin
     Robar qualcossa13.
Se fusse dove sè,
     Voria... se m’intendè,
     Ma el diavolo no vol
     Che far lo possa.
Se fusse in vicinanza
     De vu, caro mio ben,
     Voria da quel bel sen
     Qualche ristoro.
Za so che me capì.
     Voria... disè de sì.
     Lasse che vegna su,
     Se no mi moro.

[p. 159 modifica]
Mo via, no siè tirana,

     No me fè star più qua.
     Voria butarme là
     Do orete sole.
Spiegar tutto el mio cuor
     Voria... ma gh’ho rossor.
     A bon intendidor
     Poche parole.

Rosaura. Bravo. Evviva.

Zanetto. Hala sentio? Se la vol, son qua.

Rosaura. Ma vorrei che mi spiegaste una cosa che non intendo. Voi mi fate due figure affatto contrarie. Ora mi sembrate uno scimunito, ora un giovine spiritoso: ora sfacciato, ora prudente. Che vuol dire in voi questa mutazione?

Zanetto. No so gnanca mi, segondo che me bisegal in tel cuor quel certo no so che... per esempio, se quei occhietti... perchè se podesse... Siora sì, giusto cussì.

Rosaura. Ecco qui, ora mi avete fatto un discorso da sciocco.

Zanetto. E pur drento de mi m’intendo, ma no me so spiegar. La vegna zoso, che me spiegherò meggio.

Rosaura. Sapete cosa io comprendo da questo vostro modo di parlare? Che fingete meco, e che punto non mi amate.

SCENA XIl.

Beatrice col servitore, e detti

Beatrice. (Tonino che parla con una giovine? Ascoltiamo). (da sè, in disparte)

Zanetto. Ve voggio tanto ben, che senza de vu me par d’esser oselom senza frasca, pàveron senza oca, monton senza piegora, porzeletto senza porzeletta. Sì, cara, ve voggio ben e no vedo l’ora de buttarme a nuaro in tel mar della vostra bellezza; [p. 160 modifica] no vedo l’ora de sguatararmep co fa una grua in tel bevaorq della vostra grazia, e de spolverarmer in te le vostre finezze, come... sì, come l’aseno se spolvera in tel sabbion.

Rosaura. (Mi sembra ch’egli divenga sguaiato più che mai), (da sè)

Beatrice. Ah perfido! ah ingrato! ah infedele! Questa è la fede che mi giurasti? Testè mi desti la mano di sposo ed ora così mi tradisci? Per la terza volta mi deludi e m’inganni? Guardami, scellerato, guardami in volto, se hai cuore di farlo: ma no, che il rossore t’avvilisce, ti confonde il rimorso, ti spaventa il mio sdegno. Anima indegna! cuor mendace! labbro spergiuro! A che sedurmi nella casa patema? A che farmi abbandonare la patria? A che darmi la mano di sposo, se ad altra donasti il cuore? Mi fu detta la tua perfidia, ma non l’avrei mai creduta. Ora che gli occhi miei son testimoni del vero, ora scorgo i miei torti, i miei danni, i miei disonori. Va, che più non ti credo; va, che più non ti voglio. T’assolvo, barbaro, sì, t’assolvo dal giuramento, se pur te ne assolvono i numi. Più non voglio la tua destra, non bramo più la tua fede. Attendi, che per maggiormente porre in libertà il tuo perfido cuore, ti vo’ render quel foglio con cui mi tradisti, con cui m’ingannasti. Sì, barbaro, sì, crudele; ama la mia rivale, adora il suo sembiante del mio più vago, ma non sperare in altra donna ritrovar la mia fede, la mia tolleranza, il mio amore. (Parte col servo. Zanetto, frattanto che parla Beatrice, l’ascolta attentamente senza dir nulla, poi si volta verso Rosaura.)

SCENA XIII.

Rosaura, poi Zanetto.

Zanetto. E cussì, tornando al nostro proposito... (a Rosaura)

Rosaura. A qual proposito tornar pretendi, mancatore, spergiuro? Desti la fede ad altra donna, ed ora me ingannare pretendi? [p. 161 modifica] No, perfido, no, scellerato, non ti verrà fatta. Ama chi amar devi per debito. Adempi l’impegno del tuo cuore mendace. Attendi, attendi, che per farti conoscere che non ti curo, anzi ti aborrisco e ti sprezzo, ora vo a prender quella scrittura con cui t’impegnasti tu meco, e vedrai, ingratissimo amante, che Rosaura non sa soffrire un inganno. (si ritira dalla finestra)

SCENA XIV.

Zanetto solo.

Adesso che son maridà, stago ben. Questa me dise perfido, quella crudel. Una barbaro, l’altra tiran. Ghe ne xe più? Povero Zanetto! Son desperà. Tutti me cria. Nissun me vol. No me posso più maridar. Dove xe un lazzo, che me picca? Dove un cortello, che me scanna? Dove xe un canal, che me nega? Per zelosia le donne me strapazza, e mi togo de mezzo, e stago a bocca sutta. Donne, gh’è nissuna che me voggia? No son pò gnanca tanto brutto. Ma l’è cussì, nissun me vol, tutti me strapazza, tutti me cria. Maledetta la mia desgrazia, maledette le mie bellezze. (parte)

SCENA XV.

Rosaura, poi Tonino.

Rosaura. (Alla finestra) Eccomi, eccomi con quella scrittura... Ma se n’è andato l’indegno. Mal mi lusingai, che qui mi attendesse. Il rossore, la confusione l’hanno fatto partire. Ma lo farò ritrovare, vedrà s’io so vendicarmi, (arriva Tonino) Ma eccolo che ritorna. Sfacciato, hai tanto ardire di comparirmi sugli occhi? Va, che di te più non curo. Ecco la tua scrittura, eccola ridotta in pezzi. Eccola sparsa al vento; così potessi veder lacerato quel cuore indegno. (straccia una scrittura, la getta in istrada, e si ritira dalla finestra) [p. 162 modifica]

SCENA XVI.

Tonino, poi Beatrice col servo.

Tonino. (Senza parlare guarda la finestra, poi raccoglie i pezzi della sua scrittura, che sono in terra.)

Beatrice. (Con un foglio in mano) L’ho alfin ritrovata questa scellerata scrittura. Eccola, indegno, eccola, traditore: mirala, e vedi quanto conto ne faccio. (la fa in pezzi e la getta in terra) Così potessi squarciar quel petto, nido d’infedeltà. (parte col servo)

SCENA XVII.

Tonino solo.

(Leva di terra i pezzi dell'altra scrittura, ed unendo questi e quelli, confronta le parole ed i caratteri, poi dice come segue) Coss è sto negozio? Coss’è sto imbrogio? sta novità? Do donne me strassa la scrittura in fazza? Mi a Rosaura no so d’aver fatto scrittura, a Beatrice no so d’aver mancà de fede. O le xe tutte matte, o qualche equivoco ghe xe certo. Vedemo un poco cossa dise ste do scritture, (guarda quella di Beatrice, uniti i pezzi raccolti da terra) Prometto... alla signora Beatrice ecc. Io Antonio Bisognosi. Questa va ben. Cossa dise st’altra? Colla presente scrittura... ecc. resta concluso... matrimonio tra l’onesta... fanciulla... la signora Rosaura Balanzoni... ed il signor Zanetto Bisognosi... Come! Questa xe una scrittura falsa, mi no so Zanetto. Andemo avanti. Vedemo quando la xe stada fatta. Valle Brambana14 in Bergamasca. Addi 14 gennaro 1746. In Bergamasca? Coss’è sto negozio? Chi l’ha sottoscritta? Zanetto Bisognosi, mano propria. Xe vero che qua i me crede Zanetto, ma nissun s’averà tolto la libertà de sottoscriver per mi. No l’è mio carattere. Donca cossa sarà? Sto Zanetto Bisognosi saravelo mai mio fradello, che sta in t’una delle Valae de Bergamo? Se poderia dar; e chi sa che nol sia a Verona, [p. 163 modifica] senza che mi lo sappia? Quel Brighella servitor, che me andava disendo de mio fradello a Venezia, me dà sospetto che veramente el me creda Zanetto. Tante stravaganze che ancuo me xe nate, le me fa crescer el dubbio. Chi sa? Se pol dar. Oh la sarave bella! Me voggio chiarir. Se ghe xe quel servitor in casa, vôi saver la verità. Scoverzirò terren, senza palesarme. Cancaro! Ghe vol politica. Sta volta bisogna farla da vero cortesan. Oe de casa. (batte dal Dottore)

SCENA XVIII.

Brighella di casa, e detto.

Brighella. Servitor umilissimo; èla ella che batte?

Tonino. Sì ben, son mi.

Brighella. La perdona, perchè adesso in casa no se pol vegnir.

Tonino. No? Perchè?

Brighella. La patrona sbruffa e smania; el patron è sulle furie. Anzi la conseggio andar via; perchè, se i la vede qua, i è capaci de far qualche sproposito.

Tonino. Ma cossa gh’oggio fatto?

Brighella. No so. Sento che i se lamenta, e no so el perchè.

Tonino. Diseme, amigo, ave cognossù mio fradello a Venezia?

Brighella. Certo che l’ho cognossù.

Tonino. Me someggielo?

Brighella. I par un pomo spartio. No se pol dir che no i sia do zemelli.

Tonino. E xe do anni che no l’ave visto?

Brighella. Do anni in circa.

Tonino. Mio fradello...

Brighella. Sior sì, el sior Tonin.

Tonino. E mi mo chi songio?

Brighella. O bella! el sior Zanetto.

Tonino. Che vien da...

Brighella. Da Bergamo, a sposar la siora Rosaura. [p. 164 modifica]

Tonino. Bravo! Vu savè tutto, se un omo de garbo. (Adesso capisso el negozio). (da sè)

Brighella. La me diga, cara ella, e la perdona della curiosità. Hala mai savesto gnente de so sorella?

Tonino. Mai. Ah, savè anca vu che la s’ha perso?

Brighella. Siguro. Quante volte me l’ha dito la bona memoria de so sior pare.

Tonino. Ma! No gh’è altro; mentre che mio pare la mandava a Bergamo, la s’ha smario, e no se sa come.

Brighella. Cossa vorla far? Una dota de manco. Se no la me comanda gnente, vago in casa, perchè se i me vede a parlar con ella, i me dirà roba. A bon reverirla. (entra in casa)

SCENA XIX.

Tonino, poi Colombina di casa.

Tonino. Schiavo, amigo. Vardè quando che i dise dei accidenti del mondo! Se pol dar? Mio fradello xe in Verona, e no se semo visti15. Uno xe tolto per l’altro, e nasce mille imbrogi in t’un zorno. Adesso intendo el negozio delle zogie e dei bezzi; quell’Arlecchin sarà servitor de mio fradello, e quella roba doveva esser soa. Se saveva che i giera de mio fradello, no ghe li dava indrio. Quanto che pagherave de veder sto mio fradello! Ma basta, anderò tanto zirando, fina che el troverò.

Colombina. Sentite quella pettegola di Rosaura, come parla male del signor Zanetto; mi viene una rabbia, che non la posso soffrire.

Tonino. Coss’è, fia, che ve vedo cussì scalmanada? Coss’è sta?

Colombina. Se sapeste, signore, mi riscaldo per causa vostra.

Tonino. Per causa mia? Ve son ben obbliga: mo perchè motivo?

Colombina. Perchè quella presuntuosa di Rosaura, credendo di essere una gran signora, tratta tutti male. [p. 165 modifica]

Tonino. De mi la deve dir cossazzes.

Colombina. Ed in che modo! E perchè io ho prese le vostre parti, ed ho parlato in vostra difesa, ha principiato a strapazzarmi, come se fossi una bestia. Pettegola, sfacciata: se non si sapesse chi è, la compatirei.

Tonino. Mo no xela fia del sior Dottor?

Colombina. Eh! il malanno che la colga. È una venuta di casa del diavolo; trovata per le strade da un pellegrino.

Tonino. Ma come? Se sior Dottor dise che la xe so fìa?

Colombina. Perchè ancor egli è un vecchio birbone; lo dice per rubare un’eredità.

Tonino. (Eh, l’ho ditto che quel Dottor xe un poco de bon). (da sè) Donca siora Rosaura no se sa de chi la sia fia?

Colombina. Non si sa e non si saprà mai.

Tonino. Quanto xe che la passa per fìa del Dottor?

Colombina. L’ebbe in fasce da bambina, quella bella gioja.

Tonino. Quanti anni gh’averala?

Colombina. Lei dice che n’ha vent’uno; ma credo non conti quelli della balia.

Tonino. No la pol gnanca aver de più. Diseme, fia; sto pelegrin da dove vegnivelo?

Colombina. Da Venezia.

Tonino. E dove halo trova quella putelat?

Colombina. Dicono alle basse di Caldier16, tra Vicenza e Verona.

Tonino. Gierela in fasse?

Colombina. Sicuro, in fasce.

Tonino. L’aveu viste vu quelle fasse?

Colombina. Il signor Dottore mi pare che le conservi; ma io non le ho vedute.

Tonino. Ma sto pellegrin come l’avevelo abua? Gierela so fia? Cossa gh’avevela nome?

Colombina. Non era sua figlia; ma la trovò sulla strada, dove gli [p. 166 modifica] assassini avevano svaligiati alcuni passeggieri, e quella bambina rimase colà viva per accidente. Il nome poi ne pur egli lo sapeva, ed il signor Dottore le impose quello di Rosaura.

Tonino. (Oh questa è bella! Stè a veder che la xe Flaminia mia sorella, giusto persa tra Vicenza e Verona, quando xe sta sassinà la mia povera mare, che la menava a Bergamo). (da sè)

Colombina. (Che diavolo dice tra se?) (da sè)

Tonino. Saveu che ghe fusse in te le fasse una medaggia col retratto de do teste?

Colombina. Mi pare averlo sentito dire. Ma perchè mi fate tante interrogazioni?

Tonino. Basta... la saverè... (Questa xe mia sorella senz’altro. Cielo, te ringrazio. Vardè che caso! Vardè che accidente! Do fradei! Una sorella! Tutti qua! Tutti insieme! El par un accidente da commedia). (da sè)

Colombina. (Sta a vedere che costei si scopre figlia di qualche signor davvero). (da sè) Signore, se mai la signora Rosaura fosse qualche cosa di buono, avvertite a non dirle che ho sparlato di lei, per amor del cielo.

Tonino. No no, fia, no ve dubitè. Za so che el mestier de vu altre cameriere xe dir mal delle patrone, e che ve contenteressi de zunar17 pan e acqua, più tosto che lassar un zorno de mormorar. (parte)

SCENA XX.

Colombina, poi Pancrazio18 ed il Dottore.

Colombina. Non vorrei, per aver parlato troppo, aver fatto del male a me e del bene a Rosaura. Quel signor Zanetto m’ha fatte troppe interrogazioni. Dubito che vi voglia essere qualche novità strepitosa.

Dottore. Colombina, cossa fai sopra la strada? [p. 167 modifica]

Colombina. Sono venuta a vedere, se passava quel dell’insalata.

Dottore. Animo, animo, in casa.

Colombina. Avete veduto il signor Zanetto?

Dottore. Va in casa, pettegola.

Colombina. Uh, che vecchio arrabbiato! (entra in casa)

SCENA XXI.

Il Dottore e Pancrazio.

Dottore. Signor Pancrazio, a voi che siete il più caro amico ch’io m’abbia, confido la mia risoluta deliberazione di voler che immediatamente seguano gli sponsali di mia figlia Rosaura col signor Zanetto Bisognosi, ad onta di tutte le cose passate.

Pancrazio. Ma come! Se ella gli ha stracciata la scrittura in faccia, e non lo vuole.

Dottore. Ella ha ciò fatto per pura gelosia. Le cose sono avanzate a un segno, che senza scapito del mio decoro non si può sospendere un tal matrimonio. Tutta Verona ne parla; e poi, per dirvela, il signor Zanetto è assai ricco, e con poca dote assicuro la fortuna della mia figliuola.

Pancrazio. Ecco qui; l’avarizia, l’avarizia vi tenta a far il sacrificio di quella povera innocente colomba.

Dottore. Tant’è, ho risolto. I vostri consigli, che ho sempre stimati e venerati, questa volta non mi rimoveranno da una risoluzione che trovo esser giusta, onesta e decorosa per la mia casa.

Pancrazio. Pensateci meglio. Prendete tempo.

Dottore. Mi avete voi insegnato più volte a dire: chi ha tempo, non aspetti tempo. Vado subito a ritrovar il signor Zanetto, e avanti sera voglio che si concludano queste nozze. Caro amico, compatitemi, a rivederci. (parte) [p. 168 modifica]

SCENA XXII.

Pancrazio, poi Zanetto.

Pancrazio. Ecco precipitata ogni mia speranza. Il Dottore la vuol dar per forza a quel Veneziano. E io, misero, che farò? Non ardisco palesare la mia passione, perchè perderei il credito di uomo da bene, e perderei la miglior entrata ch’io m’abbia. S’ella si sposa a costui, la condurrà seco a Bergamo, e mai più la vedrò. Ah, questo non sarà mai vero. All'ultimo farò qualche bestialità. Mi leverò la maschera e mi farò anche conoscere per quel che sono, prima di perder Rosaura, che amo sopra tutte le cose di questa terra.

Zanetto. Sior Pancrazio, son desperà.

Pancrazio. La morte è la consolazione de’ disperati.

Zanetto. Crepo de voggia de maridarme, e nissuna me vol. Tutte le donne le me strapazza: tutte le me maltratta e le me manda via, come se fusse un can, una bestia, un aseno. Sior Pancrazio, son desperà, non posso più.

Pancrazio. Ma! se aveste fatto a mio modo, non vi trovereste in questo miserabile stato.

Zanetto. Pazenzia! Gh’ave rason. Vorave scampar dalle donne, e no posso. Me sento tirar per forza, giusto come un sionu, che tira l’acqua per aria.

Pancrazio. Ma voi non siete per il matrimonio.

Zanetto. Mo perchè?

Pancrazio. Conosco, e so di certo, che se voi vi ammogliate, sarete l’uomo più infelice e più misero della terra.

Zanetto. Donca cossa gh’oggio da far?

Pancrazio. Lasciar le donne.

Zanetto. Mo se no posso.

Pancrazio. Fate a mio modo, partite subito da questa città, ritornate al vostro paese e liberatevi da questa pena. [p. 169 modifica]

Zanetto. Sarà sempre per mi l’istesso. Anca le donne de Bergamo e de Val Brambana le me burla e le me strapazza.

Pancrazio. Dunque, che volete fare?

Zanetto. No so gnanca mi, son desperà.

Pancrazio. S’io fossi come voi, sapete che cosa farei?

Zanetto. Cossa faressi?

Pancrazio. Mi darei la morte da me medesimo.

Zanetto. La morte? Disème, caro sior, no ghe saria mo un altro remedio senza la morte?

Pancrazio. E che rimedio vi può essere per guarire il vostro male?

Zanetto. Vu, che sè un uomo tanto virtuoso, no gh’averessi un secreto da farme andar via sta maledetta voggia de matrimonio?

Pancrazio. V’ho inteso. (Eccolo da sè nella rete). (da sè) Voi mi fate tanta compassione, che quasi vorrei per amor vostro privarmi d’una porzione d’un rarissimo e prezioso tesoro ch’io solo possiedo, e che custodisco con la maggior segretezza. Io l’ho lo specifico da voi desiderato, e sempre lo porto meco per tutto quello che accadere mi può. Anch’io nella mia gioventù mi sentivo tormentato da questa peste d’importuno solletico, e guai a me se non avessi avuta questa polvere in questo scatolino rinchiusa. Con questa mi son liberato parecchie volte dai forti stimoli della concupiscenza, e replicando la dose ogni cinque anni, mi sono condotto libero da ogni pena amorosa, sino all’età in cui mi vedete. Una presa di questa polve può darvi la vita, può liberarvi da ogni tormento. Se la beveste nel vino, vi trovereste privo d’ogni passione, e mirando con indifferenza le donne, potreste, deridendole, vendicarvi de’ loro disprezzi. Anzi vi correranno dietro: ma voi non curandole colla virtù della mirabile polvere, le sprezzerete, e loro farete pagar a caro prezzo le ingiurie, colle quali vi hanno trattato sinora.

Zanetto. Oh magari! Oh che gusto che gh’averave! Per amor del cielo, sior Pancrazio, per carità, deme un poco de quella polvere.

Pancrazio. Ma... privarmi di questa polvere... costa troppo.

Zanetto. Ve darò quanti bezzi che volè. [p. 170 modifica]

Pancrazio. Orsù, per farvi vedere ch’io non sono interessato, e che quando posso, giovo volentieri al mio prossimo, vi darò una presa di questa polvere. Voi la berrete nel vino, e sarete tosto sanato. Subito presa, vi sentirete della confusione nello stomaco e vi parerà di morire, ma acquietato il tumulto, vi troverete un altro uomo, sarete contento e benedirete Pancrazio.

Zanetto. Sior sì, sieu benedio. Dèmela, no me fè più penar.

Pancrazio. (Il veleno datomi da Tiburzio fa appunto al caso per liberarmi da questo sciocco rivale), (da sè) Questa è la polvere, ma ci vorrebbe il vino. (gli mostra lo scatolino)

Zanetto. Anderò a casa e la beverò.

Pancrazio. (Si potrebbe pentire). (da sè) No no, aspettate, ch’io vi porterò il bisognevole. (Mi fa pietà, ma per levarmi dinanzi l’ostacolo de’ miei amori, conviene privarlo di vita). (da sè, ed entra in casa del Dottore)

Zanetto. In sta maniera no se pol viver. Cov vedo una donna, me sento arder da cao a piè, e tutte le me minchiona, le me strapazza. Desgraziae! me vegnirè sotto, me correre drio; e mi gnente, saldo. Faremo patta e pagaiw. No vedo l’ora de far le mie vendette co quella cagna de Rosaura. Velo qua ch’el vien. Aveu porta el negozio?

Pancrazio. (Torna con un bicchiere con vino) Ecco il vino. Mettetevi dentro la polvere.

Zanetto. Cussì? (mette la polvere nel bicchiere di vino)

Pancrazio. Bravo. Bevete. Ma avvertite di non dire ad alcuno ch’io vi abbia dato il segreto.

Zanetto. No dubitè.

Pancrazio. Animo.

Zanetto. Son qua. Forte come una torre.

Pancrazio. E se vi sentite male, soffrite.

Zanetto. Soffrirò tutto.

Pancrazio. Parto per non dar ombra di me; mentre, se si risapesse, ognuno mi tormenterebbe, perch’io gliene dessi. [p. 171 modifica]

Zanetto. Gh’ave rason.

Pancrazio. Oh, quanto vogliam ridere con queste donne.

Zanetto. Tutte drio de mi. E mi gnente.

Pancrazio. Niente! Crudo come un leone.

Zanetto. Pianzerale?

Pancrazio. E come!

Zanetto. E mi gnente!

Pancrazio. Niente.

Zanetto. Bevo.

Pancrazio. Animo.

Zanetto. Alla vostra salute. (beve mezzo bicchiere di vino)

Pancrazio. (il colpo è fatto). (da sè, e parte)

SCENA XXIII.

Zanetto bevendo a sorso a sorso, poi Colombina.

Zanetto. Uh che roba! Uh che tossego! Uh che velen! Oh che fogo che me sento in tel stomego! Coss è sto negozio? No vôi bever altro. (mette il bicchiere in terra) Oh poveretto mi! Moro, moro, ma gnente. La polvere fa operazion. Se ho da veder le donne a spasemar, bisogna che sopporta. Me l’ha dito sior Pancrazio... ma... oimè... gh’ho troppo mal... me manca el fià... no posso più... Se no avesse bevù, no beverave altro... Oh poveretto mi... un poco de acqua... acqua... acqua... Debotox no ghe vedo più... me trema la terra sotto i pie... le gambe no me rezey... oimè, el mio cuor... oimè, el mio cuor... Forti, Zanetto, forti, che le donne te correrà drio... e ti... ti le burlerà... oh che gusto!... no posso più star in pie... casco... moro... (cade in terra)

Colombina. (Esce di casa e vede Zanetto in terra) Cosa vedo! Il signor Zanetto in terra? Cos’è? Cos’è stato? Che cosa avete?

Zanetto. (Vardè... se xe vero... le donne me corre drio). (da sè) [p. 172 modifica]

Colombina. Oh diamine! Ha la schiuma alla bocca. Certo gli è venuto male. Poverino! Voglio chiamare aiuto, perchè io sola non posso aiutarlo. (entra in casa)

SCENA XXIV.

Zanetto, poi Florindo.

Zanetto. Sentila... se la xe innamorada... la se despiera... e mi duro... ma... oimè, me manca el cuor... crepo, crepo... agiuto... agiuto...

Florindo. Come! Tonino in terra? Ecco il tempo di vendicarmi.

Zanetto. Un’altra donna me corre drio... (si va torcendo)

Florindo. (Ma che vedo? Que’ moti paiono di moribondo). (da sé)

Zanetto. So19 morto... So morto...

Florindo. (Muore davvero costui), (da sè) Ma che avete?

Zanetto. So morto...

Florindo. In che maniera?... che è stato?... (benchè rivale, mi fa pietà). (da sé)

Zanetto. Ho bevù... sì... le donne... Sior Pancrazio... oimè... oimè... so velenà... so morto... ma no... Via, donne... forti... duro, vedè... oimè. (muore)

Florindo. Ah che spirò il meschino! Chi mai l’ha assassinato? Come mai è egli morto? Che vedo? Ha un bicchiere vicino! Oh come è torbido questo vino! L’infelice fu avvelenato. (osserva il bicchiere, poi lo ripone in terra)

SCENA XXV.

Il Dottore, Brighella e Colombina di casa, e detti, poi Rosaura e Beatrice col Servitore, poi Arlecchino.

Colombina. Venite, signor padrone, soccorrete questo povero giovine. (al Dottore, uscendo di casa) [p. 173 modifica]

Dottore. Presto, Brighella, va a chiamare un medico.

Florindo. E inutile che cercate il medico, mentre il signor Zanetto è morto.

Dottore. È morto?

Brighella. Oh poveretto, l’è morto?

Colombina. Morto il povero signor Zanetto?

Rosaura. (di casa) Perdonate, signor padre, s’io vengo sopra la strada. Parmi di aver inteso che il signor Zanetto sia morto; è forse vero?

Dottore. Pur troppo è vero. Eccolo là, poverino.

Beatrice. Oimè! Che vedo? Morto il mio bene? Morta l’anima mia? (passando per la strada)

Arlecchino. Coss’è? Dormelo el sior Zanetto?

Brighella. Altro che dormir! L’è morto el povero sfortunado.

Arlecchino. Co l’è cussì, torno alle Valade de Bergamo.

Dottore. Facciamolo condurre nell’osteria: in mezzo alla strada non istà bene.

Rosaura. Ahi, che il dolore mi opprime il cuore.

Colombina. Poverina! siete vedova prima di essere maritata. (Ho quasi piacere che resti mortificata). (da sè)

Dottore. Brighella, fallo condurre nell’osteria, (accennando Zanetto)

Brighella. Animo, Arlecchin, dà una man a menarlo in casa. Quel zovene, fè anca vu el servizio de aiutarlo a portar. (al servitore di Beatrice)

Beatrice. Misera Beatrice! cosa sarà di me?

Florindo. Se è morto il vostro Tonino, potrò sperare nulla da voi? (a Beatrice, piano)

Beatrice. Vi odierò eternamente.

Arlecchino. Camerada, portelo pulito, acciò dopo che l’è morto, no ti ghe rompi la testa. (Arlecchino e il servitore portano Zanetto morto nell'osteria)

Rosaura. Mi sento strappar l’anima dal seno.

Beatrice. Chi mai sarà stato il perfido traditore?

Dottore. Come mai è accaduta la sua morte?

Florindo. Io dubito sia stato avvelenato. [p. 174 modifica]

Dottore. E da chi?

Florindo. Non lo so; ma ho de’ forti motivi per crederlo.

Rosaura. Deh scoprite ogni indizio, acciò si possa vendicar la morte dell’infelice.

SCENA XXVI.

Tonino e detti, poi Arlecchino ed il Servo di Beatrice.

Tonino. Coss’è, siora Beatrice...

Dottore. Come! (si spaventa)

Brighella. L’anima de sior Zanetto? (come sopra)

Rosaura. Non è morto!

Beatrice. È vivo! (Tutti fanno atti di ammirazione, guardandosi l’un l’altro con qualche spavento.)

Arlecchino. (Esce col servitore dall'osteria, vede Tonino, lo crede anch’egli Zanetto e si spaventa) Oh poveretto mi!

Tonino. Com’ella? Coss’è sta? Coss’è sti stupori, ste maraveggie?

Dottore. Signor Zanetto, è vivo?

Tonino. Per grazia del cielo.

Dottore. Ma poco fa non era qui in terra disteso in figura di morto?

Tonino. No xe vero gnente. Son vegnù in sto ponto.

Brighella. Com’elo sto negozio?

Arlecchino. Adesso, adesso. (entra nell'osteria, poi ritorna subito) Oh bella! L’è mezzo morto e mezzo vivo. Salva, salva. (parte)

Brighella. Vegno, vegno. (fa lo stesso che ha fatto Arlecchino) Oh che maraveggia! Drento morto, e fora vivo.

Dottore. Voglio veder anch’io, ((fa lo stesso degli altri due) Signor Zanetto, colà dentro vi è un altro signor Zanetto.

Tonino. Zitto, patroni, zitto, che scoverziremo tutto. Lasse che vaga là drento anca mi, e torno subito. (entra nell’osteria)

Rosaura. Voglia il cielo che Zanetto sia vivo.

Beatrice. Benchè mi sia infedele, desidero ch’egli viva. [p. 175 modifica]

Tonino. (Torna dall’osteria sospeso e mesto) Ah pazenzia! L’ho visto tardi. L’ho cognossù troppo tardi. Quello che xe là drento, e che xe morto, l’è Zanetto, mio fradello.

Dottore. E lei dunque chi è?

Tonino. Mi son Tonin Bisognosi, fradello del povero Zanetto.

Rosaura. Che sento!

Dottore. Quale stravaganza è mai questa?

Beatrice. Dunque siete il mio sposo. (a Tonino)

Tonino. Sì ben, son quello. Ma vu, perchè strazzar la scrittura? Perchè strapazzarme? Perchè trattarme cussì?

Beatrice. E voi perchè rinunziarmi ad altri? Perchè sugli occhi miei parlar d’amore colla signora Rosaura?

Tonino. Gnente, fia mia, gnente. Le somegianze tra mi e mio fradello ha causa tante stravaganze. Son vostro, sè mia, e tanto basta.

Rosaura. Ma, signor Zanetto, e la fede che a me avete data?

Tonino. Do no le posso sposar. E pò mi non son Zanetto.

Dottore. O Zanetto, o Tonino, se non isdegnate di meco imparentarvi, potete sposar mia figlia. (Egli sarà ancora più ricco del fratello, per cagion dell’eredità). (da sè)

Tonino. Son qua, son pronto a sposar vostra fia.

Dottore. Datele dunque la mano.

Tonino. Ma dov’ela vostra fia?

Dottore. Eccola qui.

Tonino. Eh via, me maraveggio de vu. Questa no xe vostra fia.

Dottore. Come! Che cosa dite?

Tonino. Orsù, so tutto. So del pellegrin. So ogni cossa.

Dottore. Ah pettegola, disgraziata! (a Colombina)

Colombina. Oh, io non so nulla, vedete...

Tonino. Diseme, sior Dottor, quella medaggia che gh’ave trova in te le fasse, la gh’averessi?

Dottore. (E di più sa ancora della medaglia?) (da sè) Una medaglia con due teste?

Tonino. Giusto: con do teste.

Dottore. Eccola, osservatela, è questa? [p. 176 modifica]

Tonino. Sì ben, l’è questa. (Fatta far da mio pare, quando che l’ha abù i do zemelli). (da sè)

Dottore. Già che il tutto è scoperto, confesso Rosaura non esser mia figlia, ma essere una bambina incognita, trovata da un pellegrino alle basse di Caldier, fra Vicenza e Verona. Mi disse il pellegrino essere rimasta in terra, sola e abbandonata colà ancora in fasce, dopo che i masnadieri avevano svaligiati ed uccisi quelli che in cocchio la custodivano. Io lo pregai di lasciarmela, ei mi compiacque, e come mia propria figlia me l’ho sinora allevata.

Tonino. Questa xe Flaminia mia sorella; andando da Venezia a Val Brambana20 in Bergamasca la mia povera mare, per desiderio de veder Zanetto so fio, e con anemo de lassar sta putela a Stefanello mio barba, i xe stai assaltai alle basse de Caldier, dove l’istessa mia mare e tutti della so compagnia xe stai sassinai, e ella, in grazia dell’età tenera, bisogna che i l’abbia lassada in vita.

Rosaura. Ora intendo l’amore che aveva per voi. Era effetto del sangue. (a Tonino)

Tonino. E per l’istessa rason anca mi ve voleva ben.

Beatrice. Manco male che Tonino non può sposare la signora Rosaura.

Florindo. (Ora ho perduta ogni speranza sopra la signora Beatrice). (da sè)

Tonino. Adesso intendo l’equivoco della scrittura e delle finezze che m’ave fatto. (a Rosaura) E mi aveva tolto in sinistro concetto el povero sior Dottor. (al Dottore)

Dottore. Ah, voi m’avete rovinato!

Tonino. Mo perchè?

Dottore. Sappiate che da un mio fratello mi fu lasciata una pingue eredità di trenta mila ducati, in qualità di commissario e tutore di una bambina, chiamata Rosaura, unico frutto del mio matrimonio. La bambina è morta, ed io perdeva l’eredità, poichè [p. 177 modifica] nel caso della di lei morte, il testamento sostituiva nell’eredità stessa un mio nipote. Mancata la figlia, per non perdere un patrimonio sì ricco, pensai di supporre alla morta Rosaura un’altra fanciulla: opportunamente mi venne questa alle mani, e coll’aiuto della balia, madre di Colombina, mi riuscì agevole il cambio. Ora, scoperto il disegno, non tarderà mio nipote a spogliarmi dell’eredità ed a voler ragione de’ frutti sino ad ora malamente percetti.

Tonino. Ma chi xelo sto vostro nevodo?

Dottore. Un certo Lelio, figlio d’una sorella del testatore e mia.

Tonino. Elo quel sior cargadura, che dise d’esser conte e marchese?

Dottore. Appunto quegli.

Tonino. Velo qua che el vien. Lasse far a mi e no ve dubitè gnente.

SCENA XXVII.

Lelio e detti.

Lelio. Alto, alto quanti siete! guardatevi da un disperato.

Tonino. Forti, sior Lelio, che al mal fatto no gh’è remedio. Beatrice xe mia muggier.

Lelio. Sconvolgerò gli abissi. Porrò sossopra il mondo.

Tonino. Mo perchè vorla far tanto mal?

Lelio. Perchè son disperato.

Tonino. Ghe sarave un remedio.

Lelio. E quale?

Tonino. Sposar la siora Rosaura co quindese mille ducati de dota e altrettanti dopo la morte del sior Dottor.

Lelio. Trenta mila ducati di dote? La proposizione non mi dispiace.

Tonino. E la putta ghe piasela?

Lelio. A chi non piacerebbe? Trenta mila ducati formano una rara bellezza.

Tonino. No occorre altro e se farà tutto: qua in strada no stemo [p. 178 modifica] ben. Andemo in casa, e se darà sesto a ogni cossa. Beatrice xe mia, Rosaura sarà del sior Lelio. Ela contenta? (a Rosaura)

Rosaura. Io farò sempre il volere di mio padre.

Dottore. Brava, ragazza. Voi mi date la vita. Caro signor Tonino, vi sono obbligato. Ma andiamo a far le scritture, prima che la cosa si raffreddi.

Tonino. Cussì tutti sarà contenti.

Florindo. Non sarò già io contento, mentre mi trafìgge il cuore il dolore d’aver tradita la nostra amicizia.

Tonino. Vergogneve d’averme tradio, d’aver procura de far l’azion più indegna che far se possa. Ve compatisse, perchè se sta innamorà, e se sè pentio della vostra mancanza, ve torno a accettar come amigo.

Florindo. Accetto la vostra generosa bontà; e vi giuro in avvenire la più fedele amicicia.

SCENA ULTIMA.

Pancrazio e detti.

Pancrazio. (Che vedo! Zanetto non è morto? Non ha preso il veleno? Quanto fui sciocco a credere che volesse farlo.) (da sè)

Dottore. Signor Pancrazio, allegramente. Abbiamo delle gran novità.

Pancrazio. Con buona grazia di lor signori. (chiama Tonino in disparte) (Ditemi, avete bevuto?) (piano al medesimo)

Tonino. Se ho bevù? Songio forsi imbriago?

Pancrazio. No. Dico se avete bevuto quel che io vi ho dato.

Tonino. (Zitto, che qua ghe xe qualcossa da scoverzerz). Mi no, no ho gnancora bevù.

Pancrazio. Ma, e le donne che vi tormentano, come farete a soffrirle?

Tonino. Come gh’oggio da far a liberarme? [p. 179 modifica]

Pancrazio. Subito che avete bevuto, sarete liberato.

Tonino. E cossa gh’oggio da bever?

Pancrazio. Oh bella! quella polvere che vi ho dato. Che avete fatto del bicchiere col vino e colla polvere?

Tonino. (Bicchier de vin colla polvere? Adesso ho capio). (da sè) Ah sier cagadonaoaa, ah sior bronza covertaab, ipocrita maledetto! Vu se sta, che ha mazza mio fradello. Pur troppo l’ha bevù, pur troppo el xe andà all’altro mondo per causa vostra. Mi no son21 Zanetto, so Tonin. Gerimo do zemelli22, e le nostre someggie v’ha fatto equivocar. Diseme, sior can, sassin, traditor, per cossa l’aveu sassinà? Per cossa l’aveu mazzà? (forte, che tutti sentono)

Pancrazio. Mi maraviglio di voi. Non so nulla, non intendo che dite. Sono chi sono, e sono incapace di tali iniquità.

Tonino. Ma cossa me disevi23, se ho bevù? Se me voggio liberar dalle donne?

Pancrazio. Diceva così per dire... se voi bevendo... diceva per le nozze, per le nozze.

Tonino. Vedeu che ve confonde? Sier infame, sier indegno, mazzarme un fradello?

Pancrazio. Oh cielo! oh cielo! Tanto ascolto e non moro?

Dottore. Il signor Pancrazio è un uomo onorato, l’attesto ancor io.

Florindo. Io ho trovato vicino al moribondo Zanetto un bicchiere con dentro del vino molto torbido.

Colombina. Ed il signor Pancrazio poco fa è venuto in casa, e di nascosto ha preso un bicchiere di vino.

Florindo. Ora confronteremo. (prende il bicchiere che è in terra)

Tonino. Senti, se ti l’ha mazzà, poveretto ti! E delle mie zogie cossa ghe n’hastu fatto? (a Pancrazio)

Pancrazio. Sono nelle mani del giudice.

Tonino. Ben ben, ghe penserò mi a recuperarle. [p. 180 modifica]

Florindo. Ecco il vino in cui si avvelenò Zanetto. (mostra il bicchiere)

Colombina. E quello è il bicchiere col vino, che prese in casa il signor Pancrazio.

Tonino. Xe vero?

Pancrazio. È vero.

Tonino. Donca ti ti l’ha velenà.

Pancrazio. Non è vero. Son galantuomo, e per farvi vedere la mia innocenza, datemi quel bicchiere.

Florindo. Prendete pure.

Pancrazio. Ecco ch’io bevo.

Dottore. Se l’ho detto. Il signor Pancrazio non è capace di commettere iniquità.

Tonino. (Col beve, nol sarà velen). (da sè)

Colombina. Almeno si fosse avvelenato costui.

Tonino. Oimè! oimè! El straluna i occhi; ghe xe del mal.

Pancrazio. (Avendo bevuto, sente l’effetto del veleno) Amici, son morto, non v’è più rimedio. Ora discopro il tutto, ora che son vicino a morire. Amai la signora Rosaura, e non potendo soffrire ch’ella divenisse altrui sposa, avvelenai quell’infelice per liberarmi da un tal rivale. Oimè, non posso più. Moro, e moro da scellerato qual vissi. La mia bontà fu simulata, fu finta. Serva a voi il mio esempio, per poco credere a chi affetta soverchia esemplarità; mentre non vi è il peggior scellerato di quel che finge esser buono, e non è. Addio, amici: vado a morire da disperato. (traballando parte)

Colombina. L’ho sempre detto ch’era un briccone.

Tonino. L’ha levà sto vadagno al bogiaac. Povero mio fradello! Quanto che me dispiase! Sorella cara, so consola averve trova vu, ma me despiase la morte del povero Zanetto.

Rosaura. Rincresce ancora a me, ma ci vuole pazienza.

Dottore. Orsù, andiamo in casa.

Tonino. Se la se contenta, menerò la mia sposa. [p. 181 modifica]

Lelio. E verrò anch’io colla mia diva.

Dottore. Vengano tutti, che saranno testimoni nelle scritture che s’hanno a fare. (Questo è quello che mi preme). (da sè)

Tonino. Co l’eredità de mio fradello giusterò el Criminal24 de Venezia, e me tornerò a metter in piè. Se el podesse resussitar, lo faria volentiera, ma za che l’è morto, anderò in Val Brambana a sunar25 quelle quattro fregole26. Ringrazierò la fortuna che m’ha fatto trovar la sorella e la sposa, e colla morte de quel povero desgrazià sarà messi in chiaro tutti i equivochi, nati in t’un zorno, tra i do Veneziani Zemelli.



Fine della Commedia.


Note dell'autore
  1. A chi le tocca, a chi spettano.
  2. Zaffi, birri.
  3. Piegora, pecora.
  4. Lovo, lupo.
  5. Becher, macellaro.
  6. Manizada, ammasso
  7. Ve rebalta, vi rovescia.
  8. Varisse, guarisce.
  9. Brisiola, bragiuola, pezzo di carne d’arrostirsi sulla graticola.
  10. Un crepo, uno scoppio.
  11. Sbasio, morto.
  12. Bisegare, frugare.
  13. Oselo, uccello.
  14. Pavero, papero.
  15. nuar, nuotare.
  16. Sguatarare, dimenarsi nell’acqua.
  17. Bevaor, vaso in cui bevono i volatili.
  18. Spolverarse, dimenarsi o rivoltarsi per la polvere.
  19. Cossazze, gran cose.
  20. Putela, bambina.
  21. Sion, sione, voce lombarda, vale a dire, turbo vorticoso di più venti contrari.
  22. Co, quando.
  23. Patta e pagai, del pari.
  24. Deboto, or ora.
  25. No me reze, non mi reggono.
  26. Scoverzer, scoprire.
  27. Cagadonao, parola ingiuriosa.
  28. Bronza coverta, brace coperta, uomo finto, per metafora.
  29. Bogia, boja, carnefice.
Note dell'editore
  1. Le più vecchie edd. hanno delli.
  2. Del dì d’ancuo, del giorno d’oggi.
  3. Così Savioli e Zatta; Paperini: lege.
  4. Così corregge Fantino-Olzati: Paper. stampò Palade; Savioli e Zatta: Pallade.
  5. Zatta: rare.
  6. Sgranfignae, rubate.
  7. Caponera, gabbione in cui si nutriscono i capponi. Per metafora, prigione.
  8. Savioli e Zatta: tiolti.
  9. Savioli e Zatta: de su.
  10. Sav. e Zatta: so.
  11. Così Sav. e Zatta; Paper.: vegnirmeghe.
  12. Cusinar, cuocere.
  13. Ciò che segue della canzonetta, manca in qualche edizione.
  14. Così le edizioni goldoniane del Settecento, invece di Brembana.
  15. Sav. e Zatta: mai visti.
  16. Sav. e Zatta, qui e più sotto: Caldiera; invece di Caldiero.
  17. O dezunar, digiunare: v. Boerio.
  18. In questa scena non parla.
  19. Così Sav. e Zatta; Paperini ecc.: son.
  20. Vedi nota, a pag. 162.
  21. Sav. e Zatta: so.
  22. Savioli, Zatta: zemei.
  23. Sav., Zatta: diseu.
  24. Il tribunale (Quarantia) criminale.
  25. A sunar, a raccogliere,
  26. Fregole, bricciole.