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180 ATTO TERZO

Florindo. Ecco il vino in cui si avvelenò Zanetto. (mostra il bicchiere)

Colombina. E quello è il bicchiere col vino, che prese in casa il signor Pancrazio.

Tonino. Xe vero?

Pancrazio. È vero.

Tonino. Donca ti ti l’ha velenà.

Pancrazio. Non è vero. Son galantuomo, e per farvi vedere la mia innocenza, datemi quel bicchiere.

Florindo. Prendete pure.

Pancrazio. Ecco ch’io bevo.

Dottore. Se l’ho detto. Il signor Pancrazio non è capace di commettere iniquità.

Tonino. (Col beve, nol sarà velen). (da sè)

Colombina. Almeno si fosse avvelenato costui.

Tonino. Oimè! oimè! El straluna i occhi; ghe xe del mal.

Pancrazio. (Avendo bevuto, sente l’effetto del veleno) Amici, son morto, non v’è più rimedio. Ora discopro il tutto, ora che son vicino a morire. Amai la signora Rosaura, e non potendo soffrire ch’ella divenisse altrui sposa, avvelenai quell’infelice per liberarmi da un tal rivale. Oimè, non posso più. Moro, e moro da scellerato qual vissi. La mia bontà fu simulata, fu finta. Serva a voi il mio esempio, per poco credere a chi affetta soverchia esemplarità; mentre non vi è il peggior scellerato di quel che finge esser buono, e non è. Addio, amici: vado a morire da disperato. (traballando parte)

Colombina. L’ho sempre detto ch’era un briccone.

Tonino. L’ha levà sto vadagno al bogiaa. Povero mio fradello! Quanto che me dispiase! Sorella cara, so consola averve trova vu, ma me despiase la morte del povero Zanetto.

Rosaura. Rincresce ancora a me, ma ci vuole pazienza.

Dottore. Orsù, andiamo in casa.

Tonino. Se la se contenta, menerò la mia sposa.

  1. Bogia, boja, carnefice.