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168 | ATTO TERZO |
SCENA XXII.
Pancrazio, poi Zanetto.
Pancrazio. Ecco precipitata ogni mia speranza. Il Dottore la vuol dar per forza a quel Veneziano. E io, misero, che farò? Non ardisco palesare la mia passione, perchè perderei il credito di uomo da bene, e perderei la miglior entrata ch’io m’abbia. S’ella si sposa a costui, la condurrà seco a Bergamo, e mai più la vedrò. Ah, questo non sarà mai vero. All'ultimo farò qualche bestialità. Mi leverò la maschera e mi farò anche conoscere per quel che sono, prima di perder Rosaura, che amo sopra tutte le cose di questa terra.
Zanetto. Sior Pancrazio, son desperà.
Pancrazio. La morte è la consolazione de’ disperati.
Zanetto. Crepo de voggia de maridarme, e nissuna me vol. Tutte le donne le me strapazza: tutte le me maltratta e le me manda via, come se fusse un can, una bestia, un aseno. Sior Pancrazio, son desperà, non posso più.
Pancrazio. Ma! se aveste fatto a mio modo, non vi trovereste in questo miserabile stato.
Zanetto. Pazenzia! Gh’ave rason. Vorave scampar dalle donne, e no posso. Me sento tirar per forza, giusto come un siona, che tira l’acqua per aria.
Pancrazio. Ma voi non siete per il matrimonio.
Zanetto. Mo perchè?
Pancrazio. Conosco, e so di certo, che se voi vi ammogliate, sarete l’uomo più infelice e più misero della terra.
Zanetto. Donca cossa gh’oggio da far?
Pancrazio. Lasciar le donne.
Zanetto. Mo se no posso.
Pancrazio. Fate a mio modo, partite subito da questa città, ritornate al vostro paese e liberatevi da questa pena.
- ↑ Sion, sione, voce lombarda, vale a dire, turbo vorticoso di più venti contrari.