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148 | ATTO TERZO |
SCENA II.
I Bargello coi birri, osservando le gioje da lontano.
Tiburzio. Signor Pancrazio, queste gioje sono di valore, non si possono stimar così su due piedi. Venite a bottega e vi servirò.
Pancrazio. Dite bene, verrò: ma sono alquanto sporche, avreste intanto qualche segreto per ripulirle?
Tiburzio. Io veramente ne ho uno singolarissimo: ma non soglio affidarlo a chicchessia, perchè è un potentissimo veleno.
Pancrazio. A me però potreste usar qualche distinzione: non potete dubitar ch’io ne abusi. Sapete chi sono...
Tiburzio. So che siete un uomo onesto e da bene, e perciò vi voglio servire, giacchè per buona fortuna me ne trovo avere indosso un picciolo scatolino. Eccolo, prendete, servitevene, e le vedrete riuscir terse e risplendentissime. In caso poi voleste privarvene, avrò forse l’incontro di farvele esitar con vantaggio.
Pancrazio. Non lascerò di valermi di voi. Intanto vi sono molto obbligato. Attendetemi domani.
Tiburzio. Siete sempre padrone. (parte)
SCENA III.
Pancrazio, Bargello e birri in disparte.
Pancrazio. (Veramente son belle queste gioje: ma la legatura è antica e i diamanti sono tanto sporchi che non compariscono. Con questa polvere risalteranno assai più). (da sè)
Bargello. (Quel bauletto di gioje è appunto quello che ha indicato Arlecchino). (osservando in disparte)
Pancrazio. (Spererei con questo bel regalo di guadagnarmi la grazia della mia cara Rosaura). (da sè)
Bargello. Alto, signore, con sua licenza.
Pancrazio. Che c’è? Cosa volete?
Bargello. Favorisca quelle gioje.
Pancrazio. Per qual ragione?